Revue Italique

Conférence Barbier-Mueller 2018

OJ-italique-676

Il potere dell’amore e l’amore come potere. Note per una rilettura dell’Aminta

Enrico Fenzi

L’Aminta è sempre stata giudicata come un capolavoro, un «portento» secondo la citatissima denizione di Carducci, e sempre se ne è ammirata la musicalità, la dolcezza, l’armonia... quasi un perfetto concentrato dei caratteri estetici correntemente attribuiti alla poesia del maturo Rinascimento. Ci sono state, tuttavia, anche interpretazioni che hanno rivelatocome sotto apparenze così cattivanti si nasconda una sostanza drammatica, marcata in profondità dalle lacerazioni, dalle ambiguità, dalle frustrazioni e inne da quella stessa vena di autentica soerenza che avrebbe segnato la percezione che Tasso aveva dell’amore e della vita. A questo proposito vorrei almeno ricordare, tra altri, il saggio di Giorgio Barberi Squarotti, La tragicità dell’Aminta, che nel 1968 ha rotto con le precedenti letture in chiave idillica; gli sviluppi di Gian Mario Anselmi nel capitolo consacrato all’Aminta nel secondo volume delle Opere nella Storia della letteratura dell’editore Einaudi, e un più recente bel saggio di Caudio Gigante.1 Oggi, direi che le letture «forti» del testo siano riassumibili, seppur con un eccesso di semplicazione, da una parte in quanto ha proposto in modo innovativo Elisabetta Graziosi, la quale ha legato le ragioni e il senso della composizione ai problemi dinastici di casa d’Este, gravissimi in quegli anni e precipitanti, per mancanza di discendenti legittimi, verso la perdita del granducato, riassorbito nel 1598, un anno dopo la morte di Alfonso II, nello Stato Ponticio; dall’altra, nella lettura di Antonio Corsaro che vede nell’Aminta il dominio di

un’idea panteistica di Amore causa e principio dell’Universo, vicenda eterna di contrasti inscritta in un ordine cosmico provvisto di leggi e meccanismi propri, indierente a un ordine divino in quanto esso stesso divinità.2

In quanto segue, non entrerò nel merito di queste interpretazioni in ogni caso utili e degne di specica attenzione, e cercherò invece di ripercorrere una linea di lettura che vorrei aderente ai nodi più signicativi del testo, e che per questo prende le mosse da una concentrata riconsiderazione della trama. Che dovrà trascurare proprio le parti più belle, quale, per esempio, il lungo racconto che Aminta fa del suo innamoramento, con l’episodio della nta puntura dell’ape e del «bacio rubato», o il coro che chiude l’atto primo, O bella età dell’oro: me ne scuso, ma mi salvi almeno un poco il fatto che si tratta di parti famosissime, sulle quali molto è stato detto.3

Premettiamo ancora poche cose. La prima, che la nzione pastorale è appunto, in maniera dichiarata, una «nzione», cioè un travestimento della corte medesima alla quale lo spettacolo è destinato. L’azione la si immagina là dove la si rappresenta, e una rete di allusioni ci mostra che la città è Ferrara, la corte è quella degli Estensi, il principe è Alfonso II, Tirsi è Tasso medesimo, Elpino è Giambattista Pigna, Batto è Battista Guarini. Dubbio il caso di Mopso: tradizionalmente, a partire dal Serassi, si è identicato Mopso con Sperone Speroni, e Solerti seppur con qualche perplessità vi si è adeguato, ma non mancano ipotesi diverse.4 Tutto ciò denisce un gioco teatrale allusivo ed elegante che ha ben potuto coinvolgere gli spettatori facendoli partecipi di un rito collettivo di auto-identicazione: ma ne risulta anche che non è concesso alcuno spazio alla concreta realtà del mondo pastorale o, peggio, contadino, che solo molto indirettamente può forse sorare il personaggio del Satiro, del quale si dovrà trattare a parte. L’intrigo, poi, è relativamente semplice, basato com’è sull’implicato meccanismo della «morte presunta» di entrambi i protagonisti, che approda, nel caso, al lieto ne, a dierenza di quanto avviene in quella sorta di archetipo che è l’episodio di Piramo e Tisbe nel quarto delle Metamorfosi e che ha avuto sviluppi novellistici in Sermini, in Masuccio Salernitano, nel Romeo e Giulietta del Da Porto e di Bandello per nire con Shakespeare, e ancora ripreso in àmbito pastorale nell’Astrée di Honoré d’Urfé (1610-1625).5 I personaggi principali sono cinque: la coppia dei protagonisti Aminta e Silvia, giovani innocenti e inesperti che affrontano per la prima volta le soerenze e i dilemmi di amore; la coppia formata da Dafne e Tirsi, già amanti e ora maturi ed esperti cortigiani che vorrebbero inculcare nei due giovani le regole di un «saper vivere» ispirato a uno spregiudicato edonismo, e inne il Satiro, che ha un ruolo limitato ma centrale.

Prologo. Si comincia con il Prologo (vv. 1-91) messo in bocca a Amore medesimo che esalta la propria capacità di «agguagliare» tutti gli uomini, dalla condizione sociale più bassa alla più alta (quella entro la quale la madre Venere lo vorrebbe rinchiudere), esercitando un potere educativo e nobilitante anche nei «rozzi petti» dei pastori. Con ciò va anche detto che, abbandonando ogni sovrastruttura idealistica, ogni proiezione destinata a trascendere il «fatto», l’amore nell’Aminta è sempre e solo fondato sul desiderio erotico, e che dinanzi all’amore tutti gli uomini sono uguali perché tutti ne subiscono ugualmente il potere e, in tendenza, ne sono ugualmente trasformati. Si tratta di una importante doppia premessa che allontana la tradizionale concezione secondo la quale l’amore evocato dalla poesia è un fatto essenzialmente culturale e variamente spiritualizzato che investe l’insieme dei valori e dei comportamenti propri di una classe superiore che combina ricchezza e potere. E si tratta di una premessa, soprattutto, che pone l’amore al centro delle relazioni che legano tra loro i personaggi della «favola» e ne costituisce la lingua comune, e la comune universale base d’esperienza.6 Questa eguaglianza, insomma, autorizza il «genere» pastorale che a sua volta la richiede, così come richiede che l’amore sia inteso come la forza vitale medesima che non solo investe gli individui, ma permea di sé la natura intera. Ed è proprio la celebrazione di questa centralità d’amore che guida tutto il «ragionare» che se ne fa, in chiave addirittura programmatica nel Prologo («Queste selve hoggi ragionar d’Amore / udranno...»), e poi nella intera favola, e in particolare nei dialoghi dei primi due atti che «tengono molto delle modalità della trattatistica cinquecentesca».7

Atto primo. Nel corso della prima scena dell’atto primo (vv. 92-337), dialogando con Silvia, una giovanissima incarnazione di Diana cacciatrice, Dafne a tutta prima la richiama alla forza dell’istinto materno e di qui sviluppa un ampio discorso che cerca invano di convincere la ninfa a ricambiare l’amore che Aminta le porta. A parte alcune abili insinuazioni intese a fomentarne la gelosia, esalta a tale scopo l’ineluttabile e pervasiva forza d’amore che costituisce l’anima stessa e la vita del mondo, e in particolare di quella natura animale e vegetale che Silvia pur tanto ama e con la quale vive in intima comunione. Da questo punto di vista, Dafne rinfaccia a Silvia l’assurdità di un atteggiamento che la pone in contraddizione con se stessa: in nome di una vita radicalmente naturale rifiuta l’amore, cioè precisamente, diremmo, la natura della natura... Ma l’obiettivo di Dafne è anche un altro, indiretto ma essenziale: far sì che, attraverso l’amore di Aminta, Silvia finalmente comprenda di avere un’arma, la sua fresca, giovane bellezza, e impari a usarla a suo vantaggio. Ma Silvia, che cosa oppone? Di là dalla difesa della propria verginità, la ninfa è arroccata nel rifiuto non tanto dell’amore, ma dell’intollerabile ricatto al quale le si chiede di cedere: perché mai l’amore dal quale è investita dovrebbe obbligarla a rinunciare alla propria libertà e a riamare a sua volta? Una siffatta pretesa alla quale si vorrebbe incatenarla non è qualcosa, questo sì, di affatto innaturale rispetto alla schietta e semplice naturalezza dell’amicizia?

Diversa la linea che guida la seconda scena (vv. 338-665), che dopo le due protagoniste femminili vede il dialogo di Aminta e Tirsi. Si divide grosso modo in due parti che a tutta prima non sembrano avere relazione tra loro. Nella prima Aminta racconta della felice infanzia trascorsa insieme a Silvia, e come il suo progressivo innamoramento e il sempre più rigido rifiuto di lei di ricambiarlo abbiano talmente squilibrato il loro rapporto da renderlo di fatto impossibile, sì ch’egli crede ormai che solo la morte potrà porre fine alla sua disperazione. Un accenno che Aminta fa a Mopso, il quale gli avrebbe profetizzato un tale destino di infelicità, introduce la seconda parte della scena, tutta occupata da una lunga tirata di Tirsi che accusa Mopso d’essere un notorio mentitore che sulle labbra ha il sorriso (il ghigno, in verità), ma la frode nel cuore e il pugnale nascosto sotto il mantello (vv. 554-556). A riprova, Tirsi racconta come Mopso gli avesse descritto la corte e la città intera come il regno dell’apparenza e dell’inganno, pieno di intrighi e falsità e stregoneschi malefici. Ma proprio lui, Tirsi, avrebbe sperimentato una realtà perfettamente opposta: entrato in città attratto dai seducenti canti di belle sirene ha potuto godere della protezione e della considerazione del suo magnanimo signore (Alfonso II), e ha potuto finalmente verificare come la corte sia una sorta di concentrato di ogni bellezza e di ogni dolcezza del vivere, e insomma un vertice di estetica perfezione.

Resta però che l’efficace quadro negativo attribuito a Mopso ha un sapore di verità troppo forte (e una vicina tradizione di letteratura anti-cortigiana alle spalle)8 per essere davvero riassorbito dalla successiva contrapposta esaltazione di Tirsi, tanto più che immediatamente la contraddizione si ripropone a parti invertite nel coro finale dell’atto, il famoso O bella età de l’oro, nel quale si rimpiange la perduta libertà sessuale che l’avrebbe caratterizzata (solo questa, e non la rozzezza dei costumi primitivi, che Dafne ha già additato al disprezzo, vv. 108-116).

Nel coro, idolo polemico è l’onore, cioè il valore-cardine della società cortigiana, che con la sua ipocrisia e i suoi falsi obblighi avrebbe irrimediabilmente corrotto l’antico modo di vivere l’amore basato su una «legge del piacere» («s’ei piace, ei lice») sufficiente a se stessa e, per essere radicalmente «naturale», fonte di una sua propria moralità. Ma non basta. Con ulteriore rovesciamento, subito dopo il coro, l’atto secondo si apre con il lungo monologo del Satiro, che a molti è sembrato mettere in crisi proprio la validità di quella morale naturale, dal momento che il Satiro con singolare lucidità si appella precisamente alla natura per infrangere le leggi che fanno di lui, povera creatura dei boschi, un escluso da una società nella quale il denaro domina ormai incontrastato, e per disporsi a stuprare Silvia che disprezza la sua povertà e lo rifiuta.

Fermiamoci un poco, perché questa serie di alternanze costituisce un nodo decisivo, e ripercorriamo brevemente le cose dette. Dafne, è importante ricordarlo, cerca di convincere Silvia a riamare Aminta, ma soprattutto, da esperta donna di mondo qual è, cerca di renderla cosciente che è la sua bellezza ad aver sedotto Aminta, sì che dovrebbe finalmente decidersi a usarne con calcolata civetteria come uno strumento di potere e successo che in Aminta avrebbe solo una prima affermazione, alla quale molte altre dovrebbero seguire. A sua volta, dopo il racconto di Aminta, il compagno di Dafne, Tirsi, dà spazio all’immagine peggiore della vita di corte, ma per parte sua rivendica che proprio questa è la vita, bellissima, che ha scelto. Questa linea, per dir così mondana o cortigiana, rappresentata dai «consiglieri» Dafne e Tirsi, a ben vedere ha il proprio fondamento nel fatto che non ha vere alternative: non configura una scelta alternativa la cocciutaggine di Silvia, che ha un carattere immaturo e adolescenziale, per quanto possa essere eticamente esemplare della fedeltà a una passata e personale età dell’oro alla quale è troppo duro strapparsi; altrettanto provvisoria, sospesa, è, evidentemente, la situazione di Aminta disperato per amore...

A questo punto il coro O bella età dell’oro interviene per dare corpo al seducente mito di una ormai impossibile soluzione del dilemma amoroso, consegnata a un passato di edenico e trionfante erotismo del quale la nudità è il clamoroso contrassegno, ormai distrutto da un onore che dal mondo degli illustri e potenti ha allargato all’intera società il suo nefasto potere, e ha fatto sì (vv. 707-709):

che furto sia quel che fu don d’Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.

Nel presente, tramontata quell’età felice, l’amore è dunque pena e pianto, e il dono d’Amore allora spontaneamente goduto è diventato frutto di sotterfugio e di violenza. Il che annuncia quanto seguirà.

Atto secondo. Secondo il coro che chiude il primo atto, l’innocente naturalezza dell’età dell’oro non esiste più, e se per avventura la si volesse riproporre ne riuscirebbe trasformata e degradata: che è precisamente ciò che il Satiro teorizza e cerca di fare. Non direi dunque che egli metta in crisi le affermazioni appena precedenti, ma paradossalmente sia il solo a prenderle alla lettera e a cercare di praticarle (per chi se non per lui vale appieno il «s’ei piace, ei lice»?) contro il mondo che ha finito per rinnegarle, costretto dalla sua logica di sopravvissuto a una scelta di rapina (il furto) ch’è l’unica che ormai gli sia rimasta. Da questo punto di vista, il Satiro non solo non contraddice il quadro tracciato dal coro, ma di tale quadro, seppur fuori tempo, fa parte, visto che per i prati e i boschi di quell’età i Satiri andavano per l’appunto in a caccia di ninfe da violentare, né di ciò avevano da giustificarsi in alcun modo. Da loro non ci si aspettava altro: quella era la loro «natura»! Ma l’età dell’oro non esiste più, né nella versione «dolce» del coro, né nella versione dura della quale subito dopo il Satiro si ostina a farsi testimonio, obbligandosi dunque a rendere ragione dei suoi comportamenti divenuti, ora sì, inaccettabili entro le dimensioni reali del vivere sociale. Ciò non comporta, come si vede, che la sua figura abbia un carattere diciamo pure rivoluzionario. No: piuttosto, racchiude l’immagine minacciosa di una natura primordiale che precede la stessa età dell’oro e il successivo percorso di una civiltà che ha finito per approdare al mondo vecchio e triste del presente (Dafne, vv. 891-892: «Il mondo invecchia, / e invecchiando intristisce»): eccolo dunque diventare il ribelle che lontano dalla corte, nel folto del bosco, si sottrae al potere totalizzante del signore di turno; il deposito degli incubi, dei rimorsi, delle paure di una società dedita al cinismo elegante del suo galateo politico ed erotico.

Dopo il monologo del Satiro nella prima scena del secondo atto (quasi un centinaio di versi), segue un lungo confronto tra i due maturi, esperti consiglieri, Dafne e Tirsi. Di nuovo Tasso, con straordinaria abilità, torna a ribaltare il punto di vista. L’estremismo del coro, e quello del Satiro sembravano insieme dar corpo a un’ipotesi di soluzione dello stallo doloroso nel quale sia Silvia che Aminta si trovavano: un’ipotesi mitica che nel Satiro finiva per assumere i suoi possibili connotati reali. Nel dialogo tra Dafne e Tisi emerge per contro l’altra possibilità, quella ispirata alla razionale ed educata repressione degli istinti che la società medesima impone. In essenza, dopo la stagione delle sofferenze d’amore, i due sono ben determinati a non soffrire più e dunque a frenare l’istinto con la capacità di auto-controllo acquisita con l’esperienza. Si tratta, né più né meno, di non amare più, nel senso preciso che l’amore, per entrambi, non sarà più dono disinteressato di sé, ma piuttosto strumento di piacere e di potere. Ciò è particolarmente evidente in Tirsi, che in nome del vecchio detto: «ama chi t’ama» finisce per ignorare le pur caute avances di Dafne la quale, come donna, conserva un margine maggiore di disponibilità affettiva alla quale deve una profonda nostalgia per le illusioni e i trasporti della perduta giovinezza, che la porta a riconoscere in Silvia ciò che lei stessa è stata.

Nella scena terza dell’atto Tirsi è di nuovo a colloquio con Aminta, e il risultato è uno sviluppo in parte imprevisto. Sin qui, ripeto, le possibili soluzioni erano adombrate da un lato nella primitiva e «naturale» violenza del Satiro, e, dall’altro, dall’adulta capacità di compromesso e autocontrollo di Dafne e Tirsi. Ora, con ulteriore salto, Tirsi induce Aminta a esercitare il suo potere maschile sulla donna: in breve, a recarsi là ove Silvia si bagna nuda nella fonte e a prenderla con la violenza. Insomma, seppure per un momento, il pur riluttante Aminta e il Satiro s’avviano animati dalla medesima intenzione di stuprare Silvia. Molte cose si possono dire su questa convergenza di intenti. Per esempio, si può sottolineare (l’ha fatto Fabio Finotti) come la genealogia di Aminta, «figlio di Silvano, a cui / Pane fu padre, il gran Dio de’ pastori» (I 1, vv. 179-180), sia strettamente implicata con quella del Satiro, sì che «nel satiro il pastore incontrava [...] e sconfiggeva il proprio doppio».9 Ma, inseguendo il gioco delle continue alternanze tassiane, vorrei qui limitarmi a un altro tipo di considerazioni: la violenza che Aminta avrebbe dovuto esercitare lo apparenta, sì, al Satiro, ma non è quella del Satiro. Non lo è non solo perché Aminta, come mi sembra si tenda a pensare, è intimamente lacerato e insicuro: la sua (poi non attuata) violenza ha infatti una connotazione diversa, che Tasso argomenta assai sottilmente. Il Satiro ne ha una nozione primitiva e diretta che discende in tutto e per tutto dalle qualità della sua persona e dall’urgenza del desiderio, e ne concepisce l’esercizio come una sorta di dichiarazione di guerra alla società che gli impedisce di soddisfarlo. È una violenza che precede l’avvento del mondo dell’onore e delle sue leggi e costrizioni. Aminta, nelle parole di Tirsi, sarebbe invece obbligato a una violenza che non è nel suo carattere e che ripugna al suo modo di vivere l’amore, ma è diventata per dire così normale e necessaria perché ormai l’onore impone a Silvia e alle donne tutte di non confessare neppure a se stesse il proprio desiderio, e impone dunque di poterlo soddisfare solo attraverso una guerra non meno dura per essere rituale e sommamente ipocrita, nella quale riuscirà immancabilmente e felicemente sconfitta. Ora capiamo meglio che cosa intendesse il coro dell’atto primo, là ove diceva che il dono d’amore aveva cessato d’esistere ed era stato sostituito dal furto, e da pene e pianti: ciò ch’era dono ugualmente partecipato il teatro sociale l’ha trasformato in una guerra-di-ruolo che deve prevedere in ogni caso vincitori (gli uomini) e vinti (le donne). E le parole con le quali Tirsi convince Aminta suonano dunque come un severo essenziale richiamo al suo dovere maschile di vincitore, che la donna medesima esigerebbe da lui.

A questo punto, le coordinate etiche e ideologiche che permeano il testo si fanno intricate, determinando intrecci diversi e affascinanti nella loro ambiguità e giustificando le parole recenti di Guido Baldassarri secondo le quali tra tutte le opere del Tasso l’Aminta appare «anche oggi una delle più indecifrabili».10 Qual è, nell’Aminta, il giudizio sul mito e sulla funzione della rammemorata età dell’oro? Come conciliare quell’invocata totale libertà sessuale con la finale sanzione matrimoniale associata all’happy end che renderà felice il padre di Silvia, Montano (vv. 1882-1886)? E in quel paradiso di innocenza erotica persino le scorribande di Satiri violentatori hanno la loro parte naturale? E la corte realizza forse nel presente quell’età e insieme la tradisce sublimando e addomesticando le pulsioni del desiderio in un ipocrita rituale bellico che ne smussa le punte estreme e le riconduce a un maturo e coltivato gioco sociale? E la repressione del desiderio la si paga, forse, con la perdita della parte più ingenua e disarmata di sé, e con la trasformazione del dono in conquista? E quella pur contraddittoria e a-morale forza desiderante ha forse finito per soccombere all’astratto potere di un onore che, nelle parole del Satiro, non è altro che la dimensione alienata e alienante dell’universale dominio del denaro? La rigidità di Silvia trattiene un valore etico, o è semplicemente una irriflessa reazione di tipo adolescenziale dinanzi alla fine della fanciullezza? Il lucido egoismo di Dafne e Tirsi è una soluzione o è solo un pis aller? un compromesso al ribasso che vede in ogni rapporto umano il rischio della frustrazione e della sofferenza? Le domande si moltiplicano e s’avvolgono su se stesse: ma il testo che sin qui le ha poste in maniera continua e provocatoria d’ora in poi muta.11 Continua a porle, infatti, ma ora il primo piano è occupato dal racconto di quello che avviene fuori dalla scena, cioè dalla vicenda vera e propria.

Atto terzo. I primi due atti suonavano come una intensa, affascinante introduzione al racconto delle peripezie dei due protagonisti, che ora prendono il via e guideranno sino alla fine il gioco teatrale.12 Come s’è accennato, i «fatti» avvengono fuori dalla scena, e sarà dapprima Tirsi e poi via via Dafne, Nerina, Ergasto ed Elpino a riferirli agli spettatori. Nella scena prima dell’atto Tirsi, in dialogo con il coro e creando abilmente un clima di forte suspence, comincia con l’inveire contro la disumana crudeltà di Silvia e chiede poi notizie di Aminta, del quale ha ragione di temere il suicidio. Sollecitato dal coro, finalmente racconta cosa sia avvenuto. Avvicinandosi alla sorgente insieme al sempre più riluttante Aminta, si sente gridare che Silvia sta per essere stuprata: al che Aminta balza «come un pardo», mette in fuga il Satiro e si trova dinanzi a Silvia nuda, legata a un albero. A fil di logica, secondo le premesse, toccherebbe ora ad Aminta finire l’opera al posto del Satiro, per quanto la cosa potesse suonare sin dall’inizio affatto improbabile. Ma il comportamento di Aminta capovolge l’implicita autorizzazione fornita dal coro: «s’ei piace, ei lice», che il Satiro ha fatto propria. Aminta, infatti, istantaneamente si rende conto che ciò che gli piace non gli è lecito, proprio nel momento-culmine in cui ha in suo potere Silvia nuda e legata. Come ha perfettamente spiegato Benedetto Croce, quello di Aminta è

l’amore che come passione vuole il consenso d’anima della persona amata, e come passione umana, non soprumana né animale, rispettando l’essere che ama e ammira, protegge la propria purezza e nobiltà.13

La libera, dunque, con tutta la delicatezza e discrezione possibili, ma la ninfa, appena può muoversi, finisce di liberarsi da sé e senza dire una parola fugge, lasciando Aminta solo e disperato. Nella seconda scena, Aminta, ancora abbagliato dalla vista della nudità di Silvia, rimprovera Dafne per avergli impedito di uccidersi dopo essere stato ancora una volta tanto clamorosamente rifiutato. Giunge a questo punto una ninfa, Nerina, che riferisce come, dopo aver accolto e rivestito Silvia, fosse andata a caccia con lei, e come Silvia, inseguendo un terribile lupo da lei ferito, si fosse inoltrata nel bosco. Andata in cerca dell’amica, Nerina racconta poi come avesse visto un branco di lupi attorno a certi resti sanguinolenti, e come avesse fatto in tempo, prima di fuggire, a raccogliere il velo insanguinato che Silvia indossava... Non ci vuole altro per Aminta, che chiede e ottiene il velo e fugge determinato al suicidio.

Atto quarto. Silvia è subito in scena: non è morta, infatti, ma come lei stessa racconta, dopo aver fallito il colpo decisivo contro il lupo è riuscita a fuggire lasciando il velo impigliato nei rami. La gioia per il suo inaspettato ritorno passa però in secondo piano, perché, come Dafne le spiega, se lei è sana e salva, Aminta per contro è certamente morto, e per colpa sua. Silvia dapprima è incredula ma non tarda a capire e non trova come poter ribattere alle accuse di Dafne (v. 1590: «tu sei che l’uccidi»), e si commuove per la sorte di lui e infine piange... (se ne accorge Dafne, vv. 1599-1600: «Oh, che vegg’io? / tu piangi, tu, superba?»). Questo passaggio dall’indifferenza alla pietà e infine alla consapevolezza affatto nuova di essere stata oggetto di un amore che solo ora le si rivela nella sua verità non è raccontato, ma è agito direttamente sulla scena, e precipita infine nell’esplicita ammissione di Silvia finalmente innamorata che dichiara d’esser pronta a dare la vita pur di salvare quella di Aminta. Ed è Dafne a sottolineare come sia precisamente la morte di Aminta, quella morte, a generare l’amore, come neppure il suo coraggioso intervento contro il Satiro e la liberazione di Silvia erano riusciti a fare (vv. 1622-1627):

Amante in vita, amato in morte: e s’era
tuo destin che tu fossi in morte amato,
e se questa crudel volea l’amore
venderti sol con prezzo così caro,
desti quel prezzo tu ch’ella richiese,
e l’amor suo col tuo morir comprasti.

Di nuovo, il rapporto con il Coro è di tipo fortemente dialettico e introduce nuove alternative. Chiudendo l’atto terzo, il Coro sentenziava infatti che per ottenere una piena corrispondenza amorosa non c’è bisogno della morte, ma solo dell’amore che per sua natura è capace di generare altro amore, non avendo altro equivalente che se stesso e potendosi scambiare solo con se stesso. Con variante rispetto al dantesco «Amor ch’a nullo amato amar perdona», si può dunque dire «ch’amore è merce, e con amar si merca» (v. 1476).14 Ma appunto, nella favola non è così, perché è proprio e solo la morte di Aminta che apre il cuore di Silvia, anche se il Coro, coerente con quanto già ha enunciato, condanna la cosa, tornando ad appoggiarsi alla metafora della compravendita e del prezzo: «Caro prezzo a chi ’l diede; a chi ’l riceve / prezzo inutile e infame» (vv. 1628-1629), come subito dopo farà Silvia medesima: «Oh potess’io / con l’amor mio comprar la vita sua» (vv. 1629-1630). Nella seconda scena ritroviamo uno schema ch’era già nell’atto terzo: là Aminta, già disposto al suicidio, apprende da Nerina l’assai verisimile notizia della morte di Silvia, e ne è definitivamente confermato nella sua decisione; qui, Silvia, già disposta a morire, ascolta Ergasto che in qualità di diretto testimone diffusamente descrive il suicidio di Aminta che si è gettato da un dirupo con il nome della ninfa amata sulle labbra, e si dispone a uccidersi anch’essa, dopo essere andata in cerca del corpo di lui per dargli sepoltura. In altri termini, in entrambi gli atti la seconda scena porta un annuncio di morte che fa precipitare un’intenzione che nella prima conservava ancora un margine di incertezza, ed è precisamente tale passaggio dalla «situazione» alla decisione irrevoca bile che dà sostanza drammatica a ciò che da una scena all’altra si rappresenta.

Atto quinto. Il quinto e ultimo atto è assai breve (139 versi, più i 19 del coro finale) ed è costituito da una sola scena nella quale il «saggio» Elpino dialoga con il Coro, raccontando come Aminta non sia morto, ma trattenuto dagli arbusti, sia rimasto ferito, sì, ma non gravemente, e come al momento stia rinvenendo tra le braccia di Silvia che senza più vergogna alcuna lo rianima con i suoi baci. Il coro infine torna per l’ultima volta a «staccare» rispetto alla vicenda riproponendo una morale che diremmo «alla Tirsi». I casi narrati eccedono la normale esperienza dell’amore che non ha bisogno di tante tragedie e tormenti che forse l’esito felice non riuscirà a compensare: meglio è rinunciare a una siffatta «beatitudine maggiore» per una più facile e dolce e serena «guerra» amorosa che preveda «brevi preghiere e servir breve», in cui «soavi disdegni e soavi ripulse» siano semplicemente lo stuzzicante contorno delle godute dolcezze.

Ho parlato di «alternanze»: alternanze di giudizi, di atteggiamenti..., che attraversano il testo e rendono impossibile una definizione riassumibile in una cifra unica. Lo rendono, insomma, «indecifrabile». Ma non è forse del tutto così se si osserva che esiste una doppia Aminta, cioè un’Aminta che incorpora in sé, a contropelo o in controcanto come dir si voglia, il proprio rovescio. Al filo principale costituito dalla situazione sentimentale e poi dalle azioni dei due protagonisti s’intreccia dunque l’alternato controcanto affidato alle due «spalle», Tirsi e Dafne che con i loro consigli e la loro diversa morale introducono un costante e sottile principio di straniamento: non solo, ché tale controcanto è affidato anche al Coro, la cui funzione straniante culmina nell’intervento finale, che assume addirittura un tono di palinodia risospingendo, come fa, la storia dei due giovani in un altrove ch’è stato emozionante considerare ma nel quale non sarebbe affatto saggio seguirli.15 In termini generalissimi, potremmo dunque dire che il gioco delle alternanze e degli slittamenti si svolge attraverso la ricorrente frizione tra due mondi opposti: quello duro e puro della favola di Aminta e Silvia, nel quale i tragici paradossi d’amore saranno sciolti solo dalla morte (non importa se vera o presunta), e quello ribassato e compromissorio e però affatto normale che lo circonda e lo giudica e infine lo respinge come altro da sé. In altri termini, l’Aminta non porta in scena solo le vicende del pastore e della ninfa, ma accoglie e dà voce al mondo che assiste alla rappresentazione di quelle vicende: e anche vi partecipa e le racconta, visto che Tirsi, ch’è Tasso medesimo in quanto parte della corte estense, e poi soprattutto Elpino (Giovan Battista Pigna) e certamente Ergasto (anche se non sappiamo chi si celi dietro questo nome) sono ben personaggi della corte che in scena hanno la funzione di narratori di ciò che avviene.

Detto questo, il punto vero è forse ancora un altro. Una volta ammessa sulla scena una pluralità di voci, e dunque di punti di vista diversi che accompagnano gli sviluppi della vicenda, non ci si deve fermare all’idea che ciò comporti un rigido e prevedibile gioco delle parti, ma semmai, al contrario, una sovrapposizione e compenetrazione di piani dialetticamente contrapposti. Partiamo dai giudizi sul comune habitat costituito dalla corte. Abbiamo visto in rapida successione almeno quattro momenti del discorso: l’impietoso e dissacrante quadro che Mopso dà della corte come regno d’ogni falsità e inganno; la contrapposta paradisiaca esaltazione che ne fa Tirsi; l’attacco all’innaturale ipocrisia che sotto il nome dell’onore vi domina, nel primo coro; la violenta condanna messa in bocca al Satiro del mondo del potere dominato dalla logica del denaro e dalle ambigue figure dei suoi abitanti, inetti e tenerelli anche fisicamente immemori delle antiche virtù...16 La condanna prevale, non c’è dubbio, tra l’altro anche perché l’esaltazione di Tirsi ha toni ambigui, quasi egli sia vittima di una magica fascinazione che potrebbe addirittura rimandarci (come in passato già è stato osservato) alle «false sirene» del giardino di Alcina nella Liberata (XV 17, 6). In ogni caso, credo sia da tenere per fermo che solo nel monologo del Satiro la critica alla vita di corte viene dall’esterno, e precisamente da chi ne è escluso.17 Negli altri casi, essa è espressione diretta e consustanziale di quella medesima corte, e non c’è nulla di più facile che immaginare quei cortigiani che approfittano della catartica finzione teatrale per sfogare i loro umori repressi e denigrare ciò che essi stessi sono e, in definitiva, vogliono continuare a essere: ed è dunque con alcuni dei loro tratti idiosincratici che Tasso li ammette in scena. Anche l’ideologia erotica del coro è perfettamente integrabile in quel contesto, quale ormai antico e topico distillato di cultura cortigiana aggrappata al sogno di un privilegiato e innocuo epicureismo di classe. Ma (qui sta, credo, uno dei colpi di genio del Tasso) il Satiro sopraggiunge a liberare quelle critiche dall’essere niente altro che un modo d’essere della corte medesima, e restituisce loro, à rebours, la scandalosa misura di verità che indubbiamente e fors’anche preterintenzionalmente hanno sempre avuto. Questa è dunque la forza della figura del Satiro, che vanamente s’è talvolta cercato di accomodare a più confortevoli dimensioni letterarie.18 Egli non solo denuncia come ormai il denaro sia diventato l’elemento che domina la società e condiziona tutti i rapporti umani, a cominciare dall’amore (vv. 791-794):

[...] Amor venale,
amor servo de l’oro è il maggior mostro
ed il più abominabile e il più sozzo,
che produca la terra o ’l mar fra l’onde,

ma da ciò che divide le sue qualità native dall’universo «innaturale» che lo circonda e lo respinge egli trae le ragioni profonde della sua ribellione, avendo imparato che solo con la violenza può ottenere ciò che desidera. In tal modo, attraverso il Satiro, il Tasso mette il pubblico cortigiano dinanzi alla responsabilità delle sue più o meno ipocrite recriminazioni e al loro inevitabile limite, di qua da ogni rischio, e solo dopo averne denunciato il fondamento di verità può concludere con le parole del coro che chiude l’atto quinto. Ove in effetti si fa intendere che non è il caso di lamentarsi troppo, e che l’invito a godere che era là, alla fine del primo atto, in O bella età dell’oro, ove fosse stato potato dei suoi rischiosi e del tutto mentali eccessi e saggiamente ricondotto alle misure di una possibile quotidianità, restava in bella sostanza la migliore delle soluzioni possibili. Non fantasticasse dunque, il pubblico, su una impossibile «beatitudine maggiore» che l’avrebbe esposto al forte rischio di «gravi tormenti», e godesse del godibile...19 Che è il modo con il quale Tasso finisce di mettere in scena non solo i contenuti della favola ma insieme, quasi stretto in un sol nodo, anche ciò che la favola non è: e questa sorta di ossimorica sovrapposizione è certamente una delle chiavi della «indecifrabile» ricchezza che la rende unica.

Con ciò, non voglio affatto dire che esista un solco invalicabile tra la favola di Aminta e Silvia da una parte e il principio di realtà dall’altra, affidato al pubblico e alle sue voci sulla scena. La finezza e la complessità dialettica del Tasso esclude schemi troppo semplici: semmai, per inverarli, li complica e li contraddice. Ma soprattutto, la «favola» dei due protagonisti custodisce il nucleo ultimo di verità e moralità sul quale tutto il resto si fonda, avendo in essa la propria pietra di paragone, la propria possibilità di «misura». Ciò è evidente sin dal primo atto, nel contrasto tra le istanze assolute rappresentate da Silvia e Aminta e le soluzioni compromissorie rappresentate da Dafne e Tirsi. E continua a essere evidente nel corso della vicenda, là dove l’amore s’esalta nella morte.

Vediamo meglio. Silvia non ama Aminta, e Aminta per contro l’ama con totale e assoluta dedizione. Il meccanismo delle morti presunte non permette dunque che essi realizzino un loro preesistente amore, ma diventa il passaggio obbligato attraverso il quale l’amore, con le parole dell’autore, può finalmente essere «scambiato». Silvia e Aminta si amano solo dopo che la morte li ha riuniti: a dire che l’esperienza, l’attraversamento della morte è essenziale all’esperienza d’amore, ne è condizione e garanzia. Ecco perché il lieto fine non può esaurire perfettamente la vicenda. Non l’esaurisce perché non annulla la possibilità continua di una morte generatrice di amore: una morte che non è, in Tasso, il colpo ultimo e fatale di un destino avverso, ma si è per dir così tratta indietro, per vivere dentro la storia e darle forma e direzione. Una storia d’amore è anche una storia di morte. Lasciamo qui che tutto ciò suoni molto tassiano: basta pensare, nella Liberata, a Olindo e Sofronia, a Tancredi e Clorinda ... Ma è già l’Aminta a chiarire bene quel nodo. Silvia si innamora di Aminta nel momento stesso in cui le si dice che costui si è ucciso per il dolore di saperla morta, ch’è appunto cosa alquanto diversa che uccidersi per un amore non corrisposto. Il suicidio di Aminta si presenta dunque alla ninfa come rivelazione suprema dell’amore puro e disinteressato di lui, e per questa via come rivelazione di sé. Silvia finalmente si riconosce nella assoluta dedizione di Aminta: l’amante non è più l’estraneo, il nemico, ma una parte viva di sé che spazza via di colpo ogni narcisismo (vv. 1809-1810: «Sin qui vissi a me stessa, / a la mia feritate»): i piaceri della caccia, la contemplazione della propria immagine riflessa nella fonte ... Ed è appunto attraverso la morte che passa la rivelazione.

Perché? Qual è l’intima verità di questo passaggio? Molto ci possono dire i precedenti letterari, tra i quali metterei ai primi posti la storia tragica di Girolamo e Salvestra nel Decameron, IV 8, così com’è ovvio vedere qui un’ulteriore dimostrazione di quell’amore «ch’a nullo amato amar perdona». Ma è indubbio che nell’Aminta si percepisce in maniera nuova e forte che la morte fa sbocciare quell’amore che la vita reprime e sfigura. Non è né strano né paradossale che Silvia si innamori non già di Aminta vivo, ma di Aminta morto: s’innamora infatti non appena l’amore, nella morte, perde ogni carattere di violenza, ogni contenuto di potere. Quel carattere e quel contenuto che ha visto nel Satiro e che ha continuato a vedere nello slancio virile di Aminta sopraggiunto a liberarla, sì da essere indotta all’istantanea fuga senza neppure un cenno di gratitudine, quasi sapesse perfettamente che chi la scioglieva era stato mosso da intenzioni non troppo diverse da chi l’aveva denudata e legata. Ma ora Aminta, sacrificando se stesso, non le ha forse dato l’unica garanzia decisiva –decisiva perché irreversibile – della natura pura e assoluta della sua dedizione amorosa, e cioè la garanzia della rinuncia ai cinici meccanismi del furto e dell’inganno che nella dimensione sociale della vita di corte condizionano l’amore sino ad avvelenarlo?

Nella morte, l’amore si è spogliato di ogni aggressività, di ogni affermazione di possesso, e si è presentato come dono di sé, come offerta che nulla pretende in cambio: «so certo ch’ei m’ama / come mostrò morendo» (vv. 1804-1805: si osservi la paradossale intensità di quel presente: ama). Solo a questo punto Silvia può consentire ad esso. I consiglieri Tirsi e Dafne hanno mostrato di intenderlo come una speciale forma di potere consapevolmente esercitato attraverso le arti della seduzione, e ne hanno difeso una concezione e una finalità egoistica; Silvia e Aminta hanno reso testimonianza dell’altra possibilità: la dedizione libera e totale di sé.

Ma hanno anche dimostrato che solo la morte ne accende la possibilità. Chi più privo di potere di colui che sta per morire? Chi più umano, chi più sincero? Nel trepido mito tassiano di amore e morte c’è proprio questo: il rifiuto profondo, viscerale, di un potere che seppur mascherato con le sembianze dell’amore conserva la propria radice fatta di violenza e cinismo. Un potere che si è impadronito della più naturale e innocente verità dell’uomo, l’amore. In questo senso, la morte è veramente il prezzo dell’amore. E proprio per aver accettato di morire per amore, Silvia e Aminta si sottraggono al mondo primitivo e violento del Satiro nel quale la sola difesa è la forza fisica e l’istinto di sopravvivenza: una Silvia ancora essenzialmente cacciatrice e dunque ancora partecipe di quel mondo può infatti rimanere incredula dinanzi al possibile suicidio di Aminta, e sentenziare che «ognuno a suo poter salva la vita» (v. 1543). E insieme si sottraggono al mondo coltivato e disilluso di Dafne e Tirsi, che condiziona i rapporti umani a un ferreo controllo delle emozioni e a una contabilità sentimentale che mira solo al vantaggio personale. Al proposito, ricordiamo che Silvia non tollerava che si potesse presumere di lei, e non accettava che Aminta avesse rotto con il suo nuovo desiderio la loro intensa alleanza infantile: a lei l’amore si presentava come una forza distruttiva che sulla base d’un presunto principio di obbligazione e dunque di violenza cancellava una condizione di equilibrio paritario. Ma è appunto la morte che mette in crisi la sua fredda e ineccepibile logica: la morte di Aminta come offerta incondizionata di sé le rivela che il suo rifiuto non è così diverso dalla violenza che essa stessa non voleva subire, e che proprio la sua violenza ha il potere di uccidere Aminta ... Nella morte, infine, vede l’amore, e a questo punto non può che amare a sua volta.

Anche di Aminta molto sarebbe da dire, ma forse basta che anch’egli soffra di aver rotto l’antico patto che lo legava a Silvia e si senta colpevole d’aver introdotto nel loro mondo innocente la logica pericolosa del desiderio: donde la passività che Tirsi gli rimprovera. Ma Aminta ha ben compreso che solo il libero consenso nella passione può riscattare la violenza corruttrice del desiderio, e per questo deve volere con tutte le sue forze che Silvia lo riami in maniera assolutamente incondizionata. In tutto ciò, Silvia e Aminta sono soli, diversi da ogni altro personaggio, testimoni di una concezione di amore che s’oppone a quella del mondo che li circonda e che vorrebbe cambiarli.

Ancora due parole, per finire. Non penso affatto che tentativi d’interpretazione circa le «intenzioni» del Tasso nell’Aminta come quelle ipotizzate dalla Graziosi e proseguite dalla Morando siano sbagliate. Ma si tratta, per dire così, di proiezioni esterne ch’è utile conoscere, forse sovrapposte dal Tasso a un testo che non sembra dare loro molto spazio e che soprattutto non hanno se non una debole relazione con i motivi profondi che ne guidano l’ispirazione. E che – questo è un punto vero e delicato – corrispondono in maniera intima e coinvolgente con il suo modo di vivere e sentire, ed è precisamente il legame che stringe in maniera neppure troppo sotterranea l’Aminta alla sensibilità e ai turbamenti del suo autore che ci può rendere sempre meglio ragione del suo fascino.

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1 Giorgio Barberi Squarotti, La tragicità di Aminta [1968], in id., Fine dell’idillio. Da Dante a Marino, Genova, Il Melangolo, 1978, pp. 139-173; Gian Mario Anselmi, Aminta di Torquato Tasso, in Letteratura italiana. Le Opere. II. Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 607-625; Claudio Gigante, «Ardite sì, ma pur felici carte». Tradizione letteraria, potere e misteri nella pastorale di Tasso. Un’interpretazione dell’Aminta, in Tra res e verba. Studi oerti a Enrico Malato per i suoi settant’anni, a cura di Bruno Itri, Cittadella (Pd), Bertoncello Artigrache, 2006, pp. 169-205. Molto altro dovrei citare, e qualcosa riuscirò a recuperare nel corso del saggio, ma debbo dire che il testo mantiene il tono discorsivo della conferenza, e che la bibliograa sull’Aminta, ormai enorme, sarà ridotta al minimo indispensabile al lo del discorso. Aggiungo che ho trattato dell’Aminta in un vecchio saggio, Il potere, la morte, l’amore. Note sull’Aminta di Torquato Tasso, «L’immagine riessa», III, 1979, pp. 167-248, nel quale fondamentalmente ancorami riconosco, nonostante alcune forzature e ingenuità che parte della critica successiva mi ha giustamente rimproverato, e dal quale ho ancora tratto qualcosa, specie nell’ultima parte.

2 Elisabetta Graziosi, Aminta 1573-1580. Amore e matrimonio in casa d’Este, Pisa, Pacini Fazzi, 2001; Antonio Corsaro, Per una rilettura dell’«Aminta», in Percorsi dell’incredulità. Religione, amore, natura nel primo Tasso, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 169-209: pp. 184-185. Su ciò, vd. Stefano Verdino, L’Aminta nel sistema tassiano, in Torquato Tasso, Aminta. Princeps 1580. Edizione a cura di Matteo Navone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014, pp. 183-233: pp. 187 ss. A questo ricco saggio di Verdino rimando in maniera particolare, per l’ampiezza di temi e problemi toccati e per l’accuratezza della bibliograa. Ma è d’obbligo rinviare anche a un importante saggio di Simona Morando, Un’ipotesi di lavoro per Aminta, favola dell’amor «humano» nella Ferrara dei gli illegittimi, in La tradizione della favola pastorale in Italia. Modelli e percorsi, a cura di Alberto Beniscelli, Myriam Chiarla, Simona Morando, Bologna, CLUEB (Archetipolibri), 2013, pp. 179-204: qui, nella parte nale, pp. 198 ss., la studiosa avanza una sua più «moderata» e convincente versione dell’ipotesi della Graziosi, puntando sul «principio di democratizzazione di amore enunciato nel Prologo» e sul fatto che la corte ferrarese «poteva essere confermata e persuasa dal fatto che da un amore sviluppatosi secondo istinto e natura potesse garantirsi il potere» (p. 202). È possibile, e se ne dovrà ancora discutere, ripeto, ma posso almeno accennare che questa eventuale funzione dell’Aminta, storicamente giusticabile, mi sembra qualcosa che rimane esterno al testo, il quale non ne resta condizionato nei temi suoi propri?

3 Brevemente ricordo in apertura che l’Aminta, «favola boschereccia» o «pastorale», secondo la ricostruzione di Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino-Roma, Loescher, 1895, I pp. 183-184, sarebbe stata messa in scena per la corte degli Este il 31 luglio 1573 nella delizia del Belvedere, piccola isola sul delta del Po di Ferrara rimasta interrata nel secoli seguenti, e poi altre volte ancora, a partire da una rappresentazione in Pesaro nel 1574, presso la corte di Francesco Maria della Rovere. Con buone ragioni è stata però riproposta la notizia data dal Serassi, La vita di Torquato Tasso, terza edizione curata e postillata da Cesare Guasti, Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp., 1858 [1785], I pp. 237-239, che pur senza prove anticipa la prima al 23 marzo, per l’arrivo a Ferrara del cardinale Luigi glio di Ercole II e fratello minore di Alfonso II d’Este (Graziosi cit., pp. 44 ss.). Il testo in genere è ancora letto nell’edizione critica a cura di Bortolo Tommaso Sozzi, Padova, Liviana, 1957, basato sulla prima edizione completa, l’aldina del 1590: a questo stesso testo ricorre anche l’ultima e ben annotata edizione a cura di Marco Corradini, Milano Rizzoli BUR, 2017 (Ia, 2015),e di qui citerò anch’io. Paolo Trovato è tornato sul testo in vista di una nuova edizione critica basata sull’intera tradizione manoscritta e a stampa, a partire dalla princeps cremonese del Draconi (dicembre 1580, dunque vicinissima alla prima aldina del gennaio 1581): il suo testo, promesso per la Fondazione Bembo, Guanda editore, è per il momento leggibile solo in linea e senza apparati, nel sito http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/Aminta-ed-Trovato.html#Aminta-ed-Trovato (vd. Paolo Trovato, Per una nuova edizione dell’Aminta, in Torquato Tasso e la cultura estense, a cura di Gianni Venturi, Firenze, Olschki, 1999, II, pp. 1003-1027). Quanto alla princeps cremonese, essa ha dato occasione al bel volume sopra citato, a cura di Matteo Navone: Torquato Tasso, Aminta. Princeps 1580, che oltre all’edizione del testo e al saggio pure già citato di Verdino comprende i saggi di Simona Morando, Lettura di Aminta secondo la stampa Draconi, pp. 137-181; Alberto Beniscelli, «O bella età dell’oro»: declinazioni del mito tra Cinque e Settecento, pp. 235-275]; Quinto Marini, «[...] io sono Amore, / ne’ pastori non men che ne gli eroi». Temi e percorsi della critica amintea, pp. 277-314. Anche sul saggio della Morando, che mi sembra importante per la particolare versione che dà rispetto alle tesi della Graziosi, tornerò nelle conclusioni.

4 Vd. Solerti, Vita, pp. 166-167. Una più recente proposta è di Domenico Chiodo, Il «supercilio» di Mopso non cela Speroni: alle radici di un equivoco, con qualche riessione, «Giornale storico della lett. italiana», CLXXVII, 2000, pp. 273-282, che in maniera poco convincente individua nel personaggio Antonio Montecatini, succeduto nel 1574 al Pigna nel posto di primo ministro e futuro oggetto della paranoia persecutoria di Torquato (vd. ora i cenni su di lui, e due suoi sonetti inediti, in Antonio Corsaro, Inquietudini losoche del Tasso, in Walter Moretti e Luigi Pepe (a cura di), Torquato Tasso e l’Università, Firenze, Olschki, 1997, pp. 249-277: in part. pp. 250-254). Sulla questione, vd. Claudio Gigante, «Ardite sì, ma pur felici carte», cit., pp. 195-201, che conclude con una proposta che coglie una parte di vero: «Più che essere l’antitesi di Tirsi, Mopso ne è la controfaccia (così come il Satiro non è altro, in fondo, che la proiezione degli inconfessabili desideri di Aminta): è l’altra maschera dell’autore, quella non uiciale e non “imposta” dal testo, che celebra e condanna la corte di delizie e soerenze». Una diversa ipotesi, basata sul fatto che nella princeps Mopso è nominato di passata, e che la lunga parte che lo riguarda, presente nell’aldina del 1581, alternativamente va e viene nei testi del decennio, è quella di Verdino, L’Aminta nel sistema tassiano, pp. 189-190, nota 12, secondo la quale «il primo accenno “breve” a Mopso congurava un personaggio, la “giunta” un altro o altri Mopso», e nel primo caso potrebbe trattarsi di Girolamo Muzio (morto nel 1576).

5 Ancora assai godibile al proposito il volume di Henri Hauvette, La morte vivante, Paris, Boivin, 1933, che però ignora l’Aminta e, con l’eccezione dell’Astrée, prende in considerazione solo testi novellistici.

6 Si ricordi che, rispetto al sottile strato sociale più alto, gli altri, tutti gli altri, rappresenterebbero una sorta di sotto-umanità incapace di scelte morali, per la quale l’amore non sarebbe altro che l’accoppiamento animale «sicut equus et mulus» (si veda il De amore del Cappellano, cap. XXIII, De amore rusticorum).

7 Così, giustamente, Verdino, L’Aminta nel sistema tassiano, pp. 209-210.

8 Mi basta qui ricordare un altro poeta della medesima corte estense, Niccolò da Correggio (1450-1508), che danna se stesso solo per una cosa, «de l’età persa vanamente in corte» (289, 9-10), una corte che è «Pascul de vizii, pocul di veneno, / ospizio di dolor ...» (99, 1 ss.), e che «di bestie non è se no un vivario» (368, 87), mentre «Di quella villa [Ferrara] tutti i suoi dilecti / sono in pecunie, pompe, oicii e onori, / invidie, detraczione, onte e dispecti» (402, 34-36). Si tratta di un tema pervasivo delle sue rime (tra le quali si può ricordare il ternario 363, di 241 versi, costruito sul dibattito tra Mopso – il poeta medesimo – e Dafni, al quale spetta questa sentenza, vv. 208-210: «Là non si premia alcun secondo il merto, / e chi d’onor se aciba, al fin di fame / more ...» (credo che sarebbe molto interessante una ricerca su ciò che Tasso può aver ripreso da Niccolò). Cito da Niccolò da Correggio, Opere. Cefalo – Psiche-Silva-Rime, a cura di Antonia Tissoni Benvenuti, Bari, Laterza, 1969.

9 Fabio Finotti, Il satiro in scena, cap. III del vol. dello stesso studioso, Retoriche della dirazione. Bembo, Aretino, Giulio Romano e Tasso: letteratura e scena cortigiana, Firenze, Olschki, 2004, pp. 301-385: pp. 366-367. A questo capitolo rimando per la ricca tradizione relativa al Satiro, a partire dal Molza e dal Giraldi, dispiacendomi di non poterne seguire in questa sede tutti i suggerimenti. Vd. ancora, oltre alle pagine dedicate al Satiro dai vari lettori dell’Aminta, Françoise Lavocat, La syrinx au bûcher. Pan et les satyres à la Renaissance et à l’âge baroque, Genève, Droz, 2005; varie cose si ricavano anche dal volume di Raymond B. Waddington, Il Satiro di Aretino. Sessualità, satira e proiezione di sé nell’arte e nella letteratura del XVI secolo, Roma, Salerno Editrice, 2009 (ed. orig. 2004), che pure si limita alle strategie di auto-identicazione come «satiro» dell’Aretino, e non nomina neppure Tasso. Una interessante indagine, inne, sulla gura del Satiro nella pastorale del’600, ove svolge «una funzione corrosiva senza la quale lo spazio dell’Arcadia avrebbe avuto un impatto e una portata assai più limitati» è quella di Valentina Gallo, Il satiro, la natura e il linguaggio: aspetti della pastorale del Seicento, in Daria Perocco (a cura di), Tra boschi e marine. Varietà della pastorale nel Rinascimento e nell’Età barocca, Bologna, CLUEB (Archetipolibri), 2012, pp. 271-309.

10 Così proprio nelle prime righe della sua Introduzione all’edizione citata a cura di Marco Corradini. E in ne, ivi p. V, l’Aminta sarebbe «ammantata di una eleganza a suo modo ambigua, e per il lettore contemporaneo, non solo per sua insuicienza, indecifrabile». Ma, seppur espresso in altri modi, è questa una osservazione comune a gran parte della tradizione critica.

11 Può essere opportuno ricordare che gli atti primo e secondo assommano, con il Prologo e i rispettivi cori, a 1181 versi, mentre i restanti terzo, quarto e quinto fanno insieme 814 versi (297+360+157), cioè 367 in meno della prima parte.

12 Analizza il meccanismo teatrale dell’opera Franco Croce, La teatralità dell’ «Aminta», in Sviluppi della drammaturgia pastorale nell’Europa del Cinque-Seicento, a cura di Maria Chiabò e Federico Doglio, Roma, Nuova Coletti Editrice [Studi sul teatro medioevale e rinascimentale], 1992, pp. 131-157.

13 Benedetto Croce, Poesia pastorale, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1958 (1945), p. 336.

14 Sul motivo della necessaria reciprocità d’amore, vd. Simona Morando, Lettura di Aminta, cit., pp. 157 ss., con citazioni dal Trattato dell’amore humano di Flaminio Nobili, postillato dal Tasso in una copia dell’edizione di Lucca, Busdraghi, 1567, ora perduta ma riprodotta nel 1895, Roma, Loescher, da Pier Desiderio Pasolini. Una convincente analisi di una serie di rapporti tra le sottolineature del Tasso al testo del Nobili e l’Aminta è in Giovanni Da Pozzo, L’ambigua armonia. Studio sull’Aminta del Tasso, Firenze, Olschki, 1983, pp. 136-139 (in questo ampio volume è raccolta e organizzata gran parte dei risultati della tradizione critica, che ne risulta dunque ben esemplicata e discussa).

15 Vd. per esempio Da Pozzo, L’ambigua armonia, cit., p. 160: il coro «rappresenta anche il commento possibile del pubblico su quanto si svolge sulla scena»; pp. 162-163: Tasso «crea un eetto liberatorio nei confronti dei cortigiani presenti per quel progressivo sentirsi assimilati, con delicata ma crescente forza, ai pastori sulla scena, desiderosi di dimenticare ogni aanno; e dall’altro, mentre si addita la storia di Aminta e Silvia come degna di interesse per quel pubblico, si spiega poi che esso non potrà mai avvicinarsi con la propria esperienza ad essa, anzi è bene che il “modello” venga trascurato perché nella propria vita di corte ognuno si accontenti solo dei possibili calchi di essa».

16 Su questa «serie», espressione di una «forte struttura antitetica [che] caratterizza i suoi momenti ideologicamente rilevanti, così da conferire al dramma una sionomia complessa e ambigua», vd. il saggio eccellente di Sergio Zatti, Natura e potere nell’«Aminta», in Studi di lologia e letteratura oerti a Franco Croce, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 131-147: pp. 135-136.

17 Ha eicacemente insistito sul punto Zatti, Natura e potere, cit., p. 141 , parlando del Satiro come «l’Altro per eccellenza, il personaggio comico e degradato a cui, proprio in quanto tale, tocca di dire le verità più spiacevoli». Assumendo così, direi, le vesti di un nuovo Tersite e rinnovandone la speciale funzione di repellente portatore di verità. Ma sulla «violenza contestatrice» del personaggio, vd. anche Riccardo Bruscagli, L’ «Aminta» del Tasso e le pastorali ferraresi del Cinquecento, in Studi di lologia e critica oerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, Roma, Salerno Editrice,1985, I, pp. 279-318: p. 300.

18 Vedo che per Domenico Chiodo nell’Aminta l’amore «si presenta come forza conciliatrice degli opposti, impulso a stabilire una naturale armonia che trova la propria realizzazione in Arcadia e il proprio antagonista nella corte, luogo della disarmonia e dell’ipocrita acquiescenza all’ingiustizia, luogo dominato dal principio negativo, Onore [...] Sta di fatto che, incompresa (o forse sminuita per ragioni censorie?) dai critici, l’eversiva valenza anticortigiana di un passo come il coro dell’età aurea era benissimo avvertita dai contemporanei ...», ecc. (Corte e Arcadia nella tradizione dello spettacolo pastorale, in Il mito d’Arcadia. Pastori e amori nelle arti del Rinascimento. Atti [...], a cura di Danielle Boillet e Alessandro Pontremoli, Firenze, Olschki, 2007, pp. 107-123: p. 114). Ma, a parer mio, l’eversiva valenza anticortigiana è davvero eccessiva se attribuita a quel coro, mentre ha un possibile inquietante fondamento nel monologo del Satiro, che forse mi ostino a prendere «troppo sul serio», come non si dovrebbe fare secondo Arnaldo Di Benedetto, L’Aminta e la pastorale cinquecentesca, in Torquato Tasso e la cultura estense,a cura di Gianni Venturi, Firenze, Olschki, 1999, vol. III, pp. 1121-1149:pp. 1134-1135 nota 4, il quale polemizza contro i rischi di letture ideologicamente orientate.

19 Del resto già Benedetto Croce andava diritto al cuore della faccenda quando scriveva che il dramma dell’Aminta «nasce dal sentimento che ha il poeta che la vita è fatta così e bisogna accettarla quale è, e che l’accettarla a questo modo è il meglio che si possa fare» (Poesia pastorale, cit., p. 337).