Varia
OJ-italique-657
«Antica purezza e dantesca gravità»: forme dell’appropriazione della poesia di Michelangelo nella Firenze di Cosimo I
In anni recenti, un’importante serie di studi ha scandagliato le tracce della diffusione, della fortuna e ricezione critica delle Rime di Michelangelo nel periodo che precede la loro editio princeps del 1623.1 Determinanti, in questo senso, i contributi di Matteo Residori e Antonio Corsaro, che hanno fatto luce sulla storia della prima circolazione manoscritta di quei testi.
Le loro indagini hanno così rivelato come, almeno a partire dai primi anni Trenta del Cinquecento, quegli scritti cominciassero a circolare in maniera episodica fra gli amici del Buonarroti, conoscendo poi una diffusione più capillare e sistematica attorno alla metà del decennio successivo, quando l’iniziativa di raccolta di una silloge di testi michelangioleschi promossa a Roma da Donato Giannotti e Luigi Del Riccio intercettò una sempre più ampia domanda di lettura.2 Una crescente attenzione è stata poi dedicata a quel momento capitale della fortuna della poesia michelangiolesca che fu la lezione di Benedetto Varchi all’Accademia Fiorentina sul sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto (6 marzo 1547). Andato a stampa nel 1550 assieme alla lettura accademica dell’autore sul tema del paragone fra pittura e scultura,3 il primo organico discorso critico sulla lirica di Buonarroti è stato di recente oggetto di studi che ne hanno chiarito molte delle implicazioni filosofiche e delle coordinate culturali.
Raymond Carlson, ad esempio, ha in questo senso esaminato la Lezzione per la sua messa a fuoco di una teoria dell’eros di stampo socratico e neoplatonico, funzionale a rivendicare la dignità spirituale del sentimento amoroso cui Michelangelo avrebbe inteso dare voce nei versi a Tommaso de’ Cavalieri.4 Frédérique Dubard de Gaillarbois ha precisato invece come quell’intervento all’Accademia Fiorentina, che ai fini dell’illustrazione della poesia oggetto del commento citava numerose altre liriche michelangiolesche, si riallacciasse al progetto di divulgazione di parte della produzione poetica dell’artista avviato da Giannotti e Del Riccio.5 Salvatore Lo Re ha d’altro canto offerto una preziosa contestualizzazione storica all’omaggio varchiano a Michelangelo poeta, situandolo all’incrocio delle divergenti traiettorie biografiche di due personalità a diverso titolo legate all’universo del fuoruscitismo fiorentino. In modo particolare, lo studioso ha riletto il commento michelangiolesco dell’ex fuoruscito Varchi, entrato al servizio di Cosimo nel 1543, alla luce dei coevi conflitti che contrapposero l’intellettuale valdarnese ad altre personalità di spicco dell’Accademia Fiorentina. Respingendo le interpretazioni che avevano suggerito l’esistenza di intendimenti filomedicei nella Lezzione, Lo Re ha sostenuto inoltre che quella condotta da Varchi fu un’operazione finalizzata «a ricomporre il rapporto spezzato dell’artista con Firenze più che con i Medici».6 Teso a ripercorrere i momenti salienti della fortuna del Buonarroti rimatore nella Firenze di metà Cinquecento è infine uno studio di Tommaso Mozzati, che ha evidenziato come la lettura accademica varchiana e le considerazioni sull’arte michelangiolesca, che troviamo in opere quali il volume In difesa della lingua fiorentina, et di Dante di Carlo Lenzoni (1556), e i Ragionamenti accademici di Cosimo Bartoli (1567), convergessero a individuare un’analogia di fondo tra Michelangelo e l’autore della Commedia. Da questi testi – argomenta Mozzati – Buonarroti sarebbe emerso come un profondo conoscitore dell’opera dell’Alighieri, e come una personalità che nella sua produzione letteraria e figurativa aveva trasfuso alcune caratteristiche distintive della poesia dantesca, in modo particolare quella supposta «naturalezza» del linguaggio fiorentino che era stata oggetto della censura bembiana nelle Prose della volgar lingua.7
In dialogo con i contributi pregressi, il presente articolo intende allora riconsiderare la questione di quali fossero gli intendimenti ideologici cui rispondeva la Lezzione del Varchi, e quali le valenze della sua enfasi rilevata sul dantismo di Michelangelo rimatore. Allo stesso tempo, il saggio mira a ricondurre tale studio entro un discorso critico più ampio intorno alla fortuna del Buonarroti poeta nella Firenze di Cosimo I. Verranno dunque considerate diverse modalità con cui la produzione in versi dell’artista venne in quel contesto fatta oggetto di tributi che rappresentavano degli indebiti tentativi di appropriazione ideologica, ma anche di più o meno esplicite forme di imitazione letteraria.
I diversi dantismi di Michelangelo, fra Roma e Firenze
Nel quadro della scena culturale della Firenze di età cosimiana (1537-1574), il rilievo dell’impegno poetico michelangiolesco trova un riconoscimento tanto importante quanto precoce: il 31 marzo del 1541, sotto il consolato di Lorenzo Benivieni, l’artista viene designato membro dell’Accademia Fiorentina.8 Ai fini del presente discorso, la precisazione cronologica non costituisce un elemento puramente accessorio. L’investitura accademica di Michelangelo coincide infatti con una fase decisiva della storia dell’istituzione, appena sorta a nuova vita – con la riforma statutaria del febbraio dello stesso anno – dalle ceneri dell’Accademia degli Humidi. Essa interviene insomma nel momento in cui l’istituto ha subìto la decisiva trasformazione da libero ritrovo di cittadini fiorentini interessati alla poesia toscana a organismo statuale, deputato a incanalare i dibattiti letterari in un senso coerente con gli orientamenti del potere cosimiano: una metamorfosi efficacemente suggellata da quel ritratto del duca che, proprio a partire dal marzo 1541, domina lo spazio dove si svolgono le sedute pubbliche dell’Accademia, la Sala del Papa della basilica di Santa Maria Novella.9
Scaturita in frangenti così ideologicamente connotati della vita dell’istituzione, la nomina obbedisce almeno in parte a ragioni che poco hanno a che vedere con un disinteressato riconoscimento della statura letteraria del Buonarroti.10 A suggerirlo, accanto alla cronologia, la considerazione che Michelangelo rappresenta uno dei due soli accademici, fra i trentacinque nuovi eletti nella seduta del 31 marzo, designati mentre si trovano fisicamente lontani dalla città.11 L’artista, che aveva lasciato in via definitiva Firenze alla volta di Roma nel settembre del 1534 e che fino alla fine della vita avrebbe declinato ogni invito di Cosimo a rientrare in patria, non risulta peraltro avere in alcun modo sollecitato la propria ascrizione nei ranghi dell’Accademia. Funzionale ad accrescere il prestigio dell’istituto-cardine della vita letteraria del ducato e dunque a promuovere la stessa immagine del signore di Firenze, la nomina configura allora l’inizio del tentativo di appropriazione, da parte della politica culturale cosimiana, dei molteplici talenti michelangioleschi. Essa è in questo senso la prima tappa di un percorso che culminerà nel luglio del 1564, quando le fastose esequie ufficiali organizzate per Buonarroti nella basilica medicea di San Lorenzo consacreranno in lui un artista e un rimatore organico agli indirizzi cortigiani della cultura fiorentina del tempo.12 Ripercorrere i contenuti di alcuni dei testi che Michelangelo compone alla metà degli anni Quaranta aiuta nondimeno a evidenziare quanto l’ascrizione accademica del 1541, e ciò che da essa conseguirà in termini di tentata assimilazione medicea della figura del rimatore, siano delle operazioni aliene alla sensibilità intellettuale e politica dell’artista.13 Le liriche in questione, che nella silloge allestita dai fuorusciti Giannotti e Del Riccio vanno a formare una costellazione poetica dai marcati accenti civili,14 rappresentano infatti la più risentita testimonianza di un autore tutt’altro che addomesticabile agli orientamenti della Kulturpolitik cosimiana.
La genesi del primo, celebre, epigramma della serie è legata a quella di un altrettanto famoso elogio dell’opera dell’artista, verosimilmente composto proprio da un accademico fiorentino. Giovanni di Carlo Strozzi, che di quell’istituzione era stato consolo tra il settembre 1541 e il marzo 1542, viene difatti oggi perlopiù identificato come l’autore della quartina che rende omaggio alla scultura michelangiolesca della Notte, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo.15 Un epigramma che, dopo aver esortato un generico spettatore della statua ad ammirare quella figura femminile, scolpita nel marmo da una mano angelica eppur viva perché soltanto le creature viventi possono dormire, si chiude con l’invito a svegliare la figura ritratta, verificando così che questa, viva donna e non inerte «sasso», sarà in grado di parlare in prima persona:
Sopra la Notte del Buonarroto di Giovanni Strozzi
La Notte, che tu vedi in sì dolci atti
dormir[e], fu da un Angelo scolpita
in questo sasso, et perché dorme, ha vita:
destala, se nol credi, et parleratti.16
Secondo la testimonianza fornita dall’amico Giannotti, Michelangelo risponde alla quartina in un torno di tempo non lontano dalla stesura dei Dialogi de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, e dunque in un periodo compreso all’incirca fra il 1545 e i primi mesi dell’anno successivo.17 In risposta all’invito su cui si chiudeva il tetrastico propositivo, l’autore adotta la finzione della statua parlante, e fa pronunciare all’effigie della Notte le seguenti parole:
Risposta del Buonarroto
Caro m’è ’l sonno, et più l’esser di sasso,
mentre che ’l danno et la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura:
però non mi destar, deh, parla basso.18
Coerentemente con le indicazioni provenienti dai Dialogi giannottiani, editori ed esegeti moderni della poesia di Michelangelo hanno riconosciuto in questi versi una valenza politica antimedicea e, nello specifico, anticosimiana.19 Nella quartina, la statua della Notte esprime il desiderio di rimanere addormentata e inanimata come puro «sasso», sottratto alla necessità di vedere il «danno» e la «vergogna» in quel momento imperanti: una dittologia in cui si è scòrta un’allusione alla coeva realtà fiorentina, assoggettata al potere assoluto di Cosimo, secondo un significato politico che, comprensibilmente, viene invece del tutto sottaciuto da Giorgio Vasari, che già nell’edizione Torrentino della Vita del Buonarroti (1550) riporta lo scambio poetico sulla Notte.20
La valenza civile dei versi dell’artista trova ulteriore conferma e precisazione nel sonetto Dal ciel discese, e col mortal suo, poi, risalente allo stesso torno di anni in cui viene composto l’epigramma precedente. Nella lirica, Michelangelo iscrive la propria volontaria lontananza da Firenze nel segno di Dante, il più grande fiorentino che abbia mai dovuto sperimentare l’ingiustizia di una città tradizionalmente poco generosa con i suoi figli migliori. Dopo la prima quartina, che rievoca il viaggio ultraterreno dell’autore della Commedia e attesta il valore profetico di quell’opera, Michelangelo si profonde in un’appassionata celebrazione del magistero dantesco:
lucente stella, che co’ raggi suoi
fe’ chiaro a torto el nido ove nacqui io,
né sarel’ premio tutto ’l mondo rio:
Tu sol che la creasti esser quel puoi.
Di Dante dico, che mal conosciute
fur l’opre suo da quel popolo ingrato
che solo a’ giusti manca di salute.
Fuss’io pur lui! ch’a tal fortuna nato,
per l’aspro esilio suo, con la virtute,
darei del mondo il più felice stato.21
Secondo un immaginario cui forse non è estranea la memoria figurativa del quadro di Domenico di Michelino in Santa Maria del Fiore, in cui dalle pagine della Commedia si dipartono raggi che illuminano la città toscana, Dante è in questi versi una presenza luminosa capace di irradiare di gloria anche l’ingrata Firenze. A dire di Buonarroti, le opere dell’Alighieri non potevano che essere misconosciute da parte dei fiorentini, sempre pronti concedere il proprio favore a tutti, tranne che ai giusti. E se gli accenti di tale atto d’accusa ricordano quelli di certi passaggi del boccacciano Trattatello in laude di Dante, il modo in cui Michelangelo designa gli abitanti di Firenze richiama in primo luogo la definizione datane dallo stesso autore della Commedia, «quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico» (Inferno XV 61-62).22 Il paradigma dantesco è del resto talmente forte che nell’ultima terzina l’autore arriva a vagheggiare l’assunzione dell’identità dell’Alighieri: impossibile auspicio che configura un adynaton, visto che per conseguire l’inarrivabile virtù del modello, pur inscindibile dall’amaro calice dell’esilio, il poeta si dichiarerebbe pronto a sacrificare la condizione più felice al mondo.23
Nel sonetto, risulta particolarmente evidente come Dante venga da Michelangelo adottato non solo e non tanto come semplice modello linguistico, retorico e stilistico, bensì come paradigma etico e civile. Utilizzando le parole di Enzo Noè Girardi, l’autore della Commedia «più che maestro di stile e di forme poetiche» è per Buonarroti innanzitutto il «padre della lingua e della civiltà cittadina», oggetto di una forma di «imitatio virtutis» piuttosto che di una mera «imitatio artis».24 L’elogio dell’Alighieri come supremo modello di virtù, necessariamente esule da una patria corrotta, si lega in questo senso a doppio filo alla denuncia del coevo traviamento politico cittadino. Tale nesso si conferma peraltro nelle altre due liriche michelangiolesche che completano la costellazione di testi civili della silloge allestita da Giannotti e Del Riccio, vale a dire il madrigale Per molti, donna, anzi per mille amanti, allegorica requisitoria contro il potere monocratico di Cosimo su Firenze, e il secondo sonetto in lode di Dante, Quante dirne si de’ non si può dire, dove l’autore ribadisce le colpe del popolo fiorentino, responsabile di aver costretto il maggiore uomo mai apparso sulla faccia della terra a un ingiusto esilio.25
Alla luce di queste poesie, è istruttivo riconsiderare la fondativa consacrazione del Buonarroti rimatore nella Firenze cosimiana. La Lezzione varchiana del 1547, che riconosce in Michelangelo il degno oggetto di un commento accademico al pari di Dante e Petrarca o, fra i contemporanei, il Bembo e Vittoria Colonna, si tiene a meno di due anni dall’elaborazione delle liriche civili dell’artista, ma la presa di distanza ideologica da quei testi non potrebbe essere più marcata. Findai primi passaggi del suo intervento, Varchi si premura di sottolineare come Michelangelo sia un «nobilissimo Cittadino, et Accademico nostro», e come il suo nome «manterrà viva, et onorata Fiorenza, poi che ella sarà stata polvere migliaia di lustri».26 Il letterato pone l’accento sull’unanime desiderio dei fiorentini di vedere la propria città illustrata da una statua che ritragga le fattezze dell’artista: un’effigie che, per poter essere degna di lui, non potrà che essere realizzata dalle sue stesse mani. L’auspicio coincide peraltro con la volontà del «felicissimo, et ottimo Duca», desideroso di vedere onorato quel concittadino «al quale tanto cedono tutti gli altri huomini, quanto esso tutti gli altri Principi sopravanza».27
Varchi delinea il ritratto di un autore che assomma in sé le perfezioni delle arti del disegno, della poesia e della filosofia, asceso alle più sublimi vette del pensiero umano ma nella sostanza estraneo ai torbidi e alle laceranti contrapposizioni che avevano caratterizzato la storia fiorentina contemporanea.28 Se, come argomenterà lo stesso umanista nella lettura accademica Della poetica in generale (1553), «tanto s’inganna chiunque si fa a credere di poter essere poeta senza la filosofia morale e civile, quanto uno che si credesse di poter dipignere senza colori e senza pennello», nella Lezzione l’accento sulla sapienza filosofica michelangiolesca è per evidenti ragioni privo di ogni colorazione civile.29 Indicativo, in questo senso, il riconoscimento di quel dantismo di Buonarroti che l’esegeta iscrive nel segno della categoria critica della gravitas, da lui più volte utilizzata per rivendicare il valore letterario di una poesia alimentata da profondi contenuti dottrinarî e sapienziali.30 Varchi sottolinea come il sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto sia un testo contraddistinto da «altezza e profondità» concettuale, «pieno di [...] antica purezza, et dantesca gravità». Egli evidenzia poi come Michelangelo, «studiosissimo» di Dante, abbia sistematicamente imitato quel modello nei suoi versi, ma l’imitazione delineata occulta la volontà dell’artista di identificarsi con l’exul immeritus in contrasto irriducibile con la propria patria fiorentina.31 La linea esegetica adottata dall’intellettuale valdarnese risulta allora, in questo occultamento, coerente con gli orientamenti della politica culturale medicea.32
Una lettura debitamente emendata del dantismo michelangiolesco diventa in effetti cifra distintiva dell’ambiente accademico cittadino, accomunando personalità altrimenti divise da profondi contrasti. A distanza di quasi un decennio dalla Lezzione del Varchi, essa si ritrova ad esempio nel volume postumo di Carlo Lenzoni In difesa della lingua fiorentina, et di Dante, edito nel 1556 per le cure prima di Pierfrancesco Giambullari e poi, dopo la morte di questi, di Cosimo Bartoli.33 L’opera riporta la dedica del Giambullari al Buonarroti, in cui si afferma che già il Lenzoni aveva individuato nell’artista il destinatario ideale del volume, in considerazione della contiguità esistente fra il linguaggio dell’arte figurativa da lui portato a somma perfezione e la grandezza della poesia dantesca, ma anche di «quello amore singulare, e fuor di misura» per l’autore della Commedia che Michelangelo aveva dato prova di possedere.34 Come è stato rilevato, il dantismo michelangiolesco diventa qui funzionale a una difesa in chiave municipalistica della lingua fiorentina contro le teorie di stampo bembiano.35 Conferma importante, questa, di quanto l’ambiente accademico cittadino tenda a promuovere l’accostamento e l’identificazione tra le figure dell’Alighieri e del Buonarroti, privilegiando nondimeno, per parafrasare Berni, le «parole» alle «cose», o quantomeno espungendo dalla sfera di queste ultime i contenuti di ordine politico.36
«Il Buonarroti ti veggo imitare»: Michelangelo e la poesia degli artisti della corte fiorentina
Nella sua esegesi del sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto, Varchi evidenzia la profondità filosofica dei versi di Michelangelo adducendo il riscontro di numerose citazioni da altri componimenti dell’autore, presumibilmente tratti da un collettore manoscritto in suo possesso. In questo modo, la Lezzione contribuisce in misura determinante alla conoscenza, sia pure per excerpta, di un numero rilevante di liriche dell’artista in ambito cosimiano.37 Il letterato valdarnese dà peraltro prova di aver potuto collazionare diverse copie dei testi da lui passati in rassegna e, nel caso del sonetto in esame, dichiara di avere avuto a disposizione persino una stesura autografa.38 In filigrana, dunque, la sua lettura rappresenta una prova tangibile della circolazione manoscritta delle poesie buonarrotiane in ambiente fiorentino. A questo punto, però, è rilevante cercare di verificare se, ed eventualmente in quale misura, la speciale fortuna di Michelangelo poeta sulla scena medicea abbia fatto di lui un modello operativo di poesia per i numerosi rimatori che gravitano in quel contesto. Nello specifico, si prenderà in esame una categoria privilegiata di autori, quella dei numerosi artisti-poeti attivi in quell’ambiente (avvertendo peraltro che l’escussione si limita a una serie di note preliminari, frutto di un lavoro in fieri). L’indagine sembra essere autorizzata non solo dall’evidenza di una circolazione dei versi del Buonarroti in ambito cosimiano e dalla comune matrice professionale dei personaggi coinvolti, ma anche da considerazioni di ordine diverso. In primo luogo, gli elementi che convergono a dimostrare come Michelangelo incarni, agli occhi di questi rimatori, il paradigma di riferimento dell’artista in grado di affermarsi nella coeva repubblica delle lettere.
A tale riguardo, è significativo che proprio alcuni «artefici» operanti a Firenze nella seconda metà del sedicesimo secolo rivestano un ruolo nella conservazione e nella trasmissione del corpus della poesia del Buonarroti. Un esempio, sia pur di minima entità, proviene dall’orefice, battiloro e armaiolo Francesco di Sandro Altoni, una cui nota di possesso si rinviene in esergo a un fascicolo di rime cinquecentesche, testimone di una lirica di Michelangelo, all’interno di un codice miscellaneo della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.39 Di entità decisamente più cospicua è però l’esempio offerto dallo scultore e orefice di origine sansovinese Accursio Baldi. Forse assumendo ad antigrafo un quaderno di mano dello stesso Buonarroti, in un momento imprecisato del secondo Cinquecento l’artista trascrive una cinquantina di liriche michelangiolesche, perlopiù riferibili alla silloge approntata da Giannotti e Del Riccio.40 La trascrizione dimostra come Baldi, che oltre ad essere un protagonista minore della scena artistica fiorentina è autore di un certo numero di poesie, anche in questa seconda veste guardi al Buonarroti come a colui che era stato in grado di raggiungere risultati eccelsi tanto nell’esercizio della penna quanto in quello delle discipline del disegno.41 L’impegno teso alla conservazione della poesia di Michelangelo è dunque indicativo del ruolo esemplare che a quell’attività letteraria viene riconosciuto da alcuni artefici attivi alla corte di Firenze. L’idea di una diretta discendenza dell’esercizio poetico di molti fra questi artisti da quello del Buonarroti è d’altronde presente nelle testimonianze di diversi letterati di spicco dell’ambiente cosimiano. La più singolare ed esplicita fra tali testimonianze è costituita da un sonetto, a quanto mi risulta inedito, che Alfonso de’ Pazzi indirizza ad Agnolo Bronzino.42 Nel testo, l’autore si rivolge al pittore per chiedergli copia di uno dei duecapitoli che questi, sulla scorta del modello pseudo-virgiliano del Culex e degli elogi paradossali in versi di marca bernesca, aveva composto in lode ed esortazione delle zanzare:43
Per il Bronzino
Per che da ciaschedun sempre si impara,
o sia vulgare o greco o ver latino,
io ti prego e suprico, Bronzino,
che in pittura ài manier sì rara,
che del capitol tuo della zanzara
copia mi mandiate con stil divino.
Lo tratti tal che ’l Berna e l’Aretino
perderian se facessin teco a gara.
Il Buonarroti ti veggo imitare,
che poesia agiun[g’]alla pittura,
con la qual vivo al ciel si innalza a volo:
or cimental ancor nella scultura,
et fama avrai fin l’un et l’altro polo,
et di qu[es]to ti prego non mancare.44
L’elogio alla maniera pittorica dell’interlocutore si accompagna a un encomio sostenuto della sua capacità di poeta comico, riconosciuta addirittura superiore a quella del Berni e di Pietro Aretino. A interessare qui è però soprattutto il fatto che l’autore individui nella volontà bronziniana di cumulare l’impegno in pittura e in poesia un preciso progetto imitativo ispirato da Buonarroti. Il richiamo al modello del «divino» Michelangelo giustifica peraltro il conferimento dello stesso epiteto allo strumento scrittorio (lo «stil») che avrebbe vergato copia del capitolo del Bronzino. Particolarmente significativa, nel suo tono in apparenza paradossale, risulta poi l’ultima terzina del sonetto, dove l’autore rivolge al destinatario l’invito a competere con il Buonarroti anche nell’ambito della scultura: l’esortazione illumina infatti l’equivalenza istituita fra poesia e arti del disegno come ambiti nei quali un artista era chiamato a confrontarsi con l’esempio del maestro della Scuola Fiorentina.
Altre testimonianze confermano come alcuni pittori, scultori e orefici attivi sulla scena medicea vedano riconosciuto il proprio impegno di rimatori nel solco del magistero di Michelangelo. Così Varchi, che nella Lezzione del 1547 richiama la definizione bernesca di Buonarroti quale «nuovo Apollo, et nuovo Apelle»,45 riutilizza quel sintagma (invertendo l’ordine dei costituenti) quale sorta di suggello della dignità dei versi dello stesso Bronzino. Si consideri la prima terzina del sonetto Bronzino, ove sì dolce ombreggia, e suona:
Hor voi, che, nuovo Apelle e nuovo Apollo,
Con doppio honore hornate e doppio stile
Hor di rime il bell’Arno hor di colori.46
Nel tessere l’elogio della vocazione poetica dell’amico pittore, i versi del Varchi riadattano peraltro al nuovo destinatario alcune espressioni già presenti nel sonetto a Buonarroti Ben vi potea bastar, chiaro scultore, posto a chiusura della Lezzione del 1547.47 Così, l’apostrofe a Michelangelo, accompagnata dalla menzione della gloria che la sua attività artistica e letteraria fa risplendere sulla terra (vv. 9-11: «O saggio e caro a Dio ben nato veglio, / che ’n tanti e sì bei modi ornate il mondo»), nel sonetto al Bronzino viene declinata in senso municipale («[...] hornate [...] / Hor di rime il bell’Arno hor di colori»). Tale riferimento ai colori rappresenta poi un’altra ripresa dall’elogio in versi a Buonarroti, artista in grado di assommare in sé la perfezione delle opere realizzate «d’incude, e martello» e di quelle compiute «co’i colori, e col pennello». Attraverso il riuso mirato di espressioni dapprima adoperate per celebrare Michelangelo, Varchi delinea insomma nuovamente una filiazione diretta dell’impegno letterario del Bronzino da quello del maestro di Caprese.
Ma la volontà di attestare simile filiazione appartiene anzitutto allo stesso pittore fiorentino. A tal riguardo, risulta illuminante il sonetto O stupor di natura, Angelo eletto, che Bronzino allega a una missiva al Buonarroti del maggio 1561. Nella seconda quartina, il mittente dichiara:
Con puro core, e con sincero affetto
Fin da’ primi anni miei vi feci voto,
Terrestre Dio, di me tutto, e devoto
Vi consacrai la mano, e l’intelletto.48
I versi iscrivono qui tutta l’attività dell’autore nel quadro di una religiosa osservanza del magistero di Michelangelo e lo fanno con una memoria sapientemente dissimulata dalla sua poesia più famosa in ambiente fiorentino, vale a dire il sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto. Proprio nella lirica al centro della Lezzione del Varchi, Buonarroti aveva infatti designato «l’ottimo artista» come colui il quale possieda «la man che ubbidisce all’intelletto».49
Se Bronzino non pare aver ricevuto risposta al sonetto O stupor di natura, Angelo eletto, un altro candidato ideale nella ricerca di tracce di un dialogo con il poetare di Michelangelo è in apparenza Giorgio Vasari, l’unico «artefice» della corte cosimiana che scambi versi con Buonarroti. In effetti, però, il momento saliente della corrispondenza epistolare e poetica fra i due è indicativo di quanto distanti siano i loro linguaggi di rimatori. Lo scambio in questione risale all’estate 1554, quando il pittore aretino, appena entrato al servizio di Cosimo, è già coinvolto nelle tante e fallimentari manovre orchestrate dal duca per convincere Michelangelo a lasciare Roma e a rientrare in patria.50 Il 20 agosto, Vasari scrive a Buonarroti una missiva in cui esprime l’auspicio che l’ormai anziano destinatario si decida a fare ritorno a Firenze, retta da un illuminato signore che non desidera altro che godere dei ragionamenti michelangioleschi. Nella lettera, il mittente fa leva sugli ostacoli incontrati dal Buonarroti nell’ambito dei lavori alla fabbrica romana di San Pietro a causa degli attriti con un gruppo di artisti e maestranze coinvolto nel progetto, e fa parallelamente appello alla sua sensibilità di letterato per esortarlo a lasciare Roma. Egli propone infatti come paradigma dell’auspicato ritorno la scelta petrarchesca di abbandonare la corruzione babilonese della Curia di Avignone a favore della quiete di Padova.51 Il 19 settembre, Michelangelo risponde alla lettera vasariana e all’invito del duca Cosimo con un’epistola in cui confessa sì il desiderio di tornare a Firenze, ma soltanto dopo la propria morte. Al contempo, egli dichiara che a trattenerlo a Roma è l’impegno legato al cantiere della fabbrica di San Pietro, un progetto impossibile da abbandonare, pena l’incorrere in un peccato mortale:
Messer Giorgio amico caro, voi direte ben che io sie vechio e pazzo a vole’ far sonecti; ma perché molti dicono ch’i’ son rinbanbito, ò voluto far l’uficio mio. Per la vostra veggio l’amor che mi portate; e sappiate per cosa certa che io arei caro di riporre queste mia debile ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate. Ma partend’ora di qua sarei causa d’una gran ruina della fabrica di Santo Pietro, d’una gran vergognia e d’un grandissimo pechato. Ma come fie stabilita tucta la compositione, che non possa esser mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è pechato a tenere a disagio parechi g[h]iocti c[h]’aspecton ch’io mi parta presto.52
La missiva si apre sui toni ironici della diminutio sui, con un conciso autoritratto comico che costituisce un pendant in prosa a quelli in versi del sonetto I’ ho già fatto un gozzo in questo stento e del capitolo I’ sto rinchiuso come la midolla.53 L’attività poetica michelangiolesca viene allora addotta a confermare le voci circolanti intorno a un presunto affievolimento delle capacità mentali dell’artista, con un rovesciamento parodico del topos platonico dell’ispirazione quale furor di origine divina.54 Ma come la creazione degli affreschi della volta della Sistina era dall’autore chiosata attraverso l’autodenigratorio I’ ho già fatto un gozzo in questo stento, in cui Michelangelo dichiarava la propria pittura «morta» e se stesso non un pittore,55 la qualifica di attività degna di un «rinbanbito» viene qui connessa a una delle prove più alte della sua poesia. Allegato alla lettera al Vasari troviamo infatti il sonetto che, forse meglio di ogni altro componimento michelangiolesco, illustra la messa in discussione delle scelte di un’intera biografia, comprese quelle legate all’esercizio dell’arte. Un testo che, come ha scritto Paola Barocchi, rappresenta «l’espressione di un profondo mutamento di ideali artistici» in nome di un lacerante ripensamento sul significato dell’attività creatrice alla luce dell’estremo senso religioso dell’autore.56 Una lirica della mutatio vitae, ad altissima densità di memorie petrarchesche, in cui il poeta si pone di fronte al pensiero della morte secondo una prospettiva che lo costringe a riconoscere i propri errori e a prepararsi a renderne conto a Dio:
Giunt’è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
Onde l’affettuosa fantasia,
che l’arte mi fec’idol e monarca,
conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.
Gli amorosi pensier’, già vani e lieti,
che fìeno or s’a duo morte m’avicino?
D’una so ’l certo e l’altra mi minaccia.
Né pinger né scolpir fie più che quieti
l’anima, volta a quell’Amor divino
ch’aperse a prender noi ’n croce le braccia.57
Vasari replica a questo sonetto con un componimento che ne riprende le rime, con inversione dell’ordine dei rimanti nelle quartine. A dispetto di tale ripresa, sarebbe tuttavia difficile immaginare una poesia più distante dall’orizzonte spirituale dei versi buonarrotiani. A una poesia che esprime il naufragio di ogni ideale profano, Vasari risponde con un testo che ribadisce le mondane lusinghe di cui sono intessute tutte le missive da lui composte per tentare di convincere il padre della Scuola Fiorentina a rientrare in patria:58
Gl’anni che visse quel che fece l’arca,
Passerai, Bonarroto, in alta via,
Poggiando a par al gran profeta Elia
Sovra le nubi in la celeste barca.
Ragion non ha più in te la crudel parca,
Che la fama mortal e i corpi oblia:
Resti immortal fra noi e compagnia
Farai al divin tuo Dante e Petrarca.
Fuggi de i lordi, avari, ingrati preti
L’orme che ’l tuo disegno alto e divino
Rompon, l’idee, l’animo e le braccia.
Torna e fa’ Cosmo e Flora allegri e lieti
E me, che ho già smarrito il tuo cammino,
E gl’altri che di te seguon la traccia.59
Se, a dire dell’autore, a Michelangelo si prospettano, dopo un’esistenza terrena lunga come quella di Noè, un’assunzione in vita al cielo analoga a quella del profeta Elia e una fama immortale equiparabile a quella di Dante e Petrarca, l’anziano artista dovrebbe ormai decidersi ad accogliere gli inviti a tornare a Firenze. In modo simile a quanto si registra nell’epistola al maestro di Caprese dell’agosto 1554, Vasari sviluppa nel sonetto una dicotomia di comodo.60 Da un lato viene raffigurata a tinte fosche la realtà della curia romana, caratterizzata dalle invidie e dalla miserevole miopia di «lordi, avari, ingrati preti», incapaci di comprendere la grandezza michelangiolesca. Dall’altro lato vengono invece magnificati la tranquillità e gli onori che attendono l’artista nella sua città d’origine, dove Michelangelo troverebbe un duca e una comunità di artisti («gl’altri che di lui seguon la traccia») uniti nel desiderio di manifestargli la loro devozione.
Nel commentare la ricostruzione che viene offerta, nella Vita giuntina del Buonarroti, degli scambi epistolari e poetici in cui si concretizzano i tentativi di convincere Michelangelo a tornare in patria, Paola Barocchi metteva in evidenza l’ostinata «sordità» del Vasari alle ragioni del ripetuto diniego opposto dall’interlocutore alle profferte cosimiane.61 In questo senso, la distanza che intercorre fra i versi di Giunto è già ’l corso della vita mia e quelli del sonetto responsivo del pittore aretino certifica la fondamentale refrattarietà di quest’ultimo di fronte alla poesia michelangiolesca. Sebbene, infatti, nella rimeria vasariana non manchino affioramenti di memorie dalla lirica del Buonarroti,62 tali affioramenti paiono il segno di un omaggio di maniera piuttosto che il risultato di una meditata rielaborazione, capace di vivificare la lingua poetica dell’epigono.
Tracce più profonde dell’influenza di Michelangelo rimatore possono forse essere rinvenute nell’ambito dei componimenti di un altro artista operante sulla scena cosimiana. Un artista che, come Vasari, cerca più volte di persuadere il maestro della Scuola Fiorentina a rientrare nella città ducale, ma che, a differenza dell’aretino, solerte e apprezzatissimo servitore di Cosimo, si adopera in simili maneggi per riconquistare il favore del duca, da lungo tempo perduto. Scorrendo il corpus delle rime di Benvenuto Cellini, si avvertono echi rilevanti dalle poesie del Buonarroti.63 Sebbene talvolta (come ad esempio nel caso di una parte della produzione a carattere spirituale) la contiguità possa essere spiegata in virtù di una condivisione delle stesse matrici liriche e non implichi necessariamente un tentativo di imitazione da parte del più giovane scultore, in altre circostanze ci troviamo di fronte a quello che potrebbe configurare un riuso consapevole di memorie michelangiolesche. Si consideri ad esempio un frammento di sonetto composto sullo scorcio del 1560, anno che vede appunto impegnato il creatore del Perseo nel vano sforzo di convincere Michelangelo a lasciare Roma alla volta di Firenze.64 A pochi mesi di distanza da questo fallimentare tentativo sfuma per Cellini la possibilità di ottenere la commissione ducale della Fontana del Nettuno. Dopo la morte di Baccio Bandinelli e lo svolgimento di un concorso fra i principali scultori operanti nell’agone fiorentino, Cosimo ha infatti conferito a Bartolomeo Ammannati il gigantesco blocco marmoreo destinato alla realizzazione della fonte di piazza della Signoria.65 È in questi frangenti che Cellini, poco incline ad accettare con fair play l’esito a lui sfavorevole della contesa, concepisce un fulmi nante componimento in cui dà sfogo alla rabbia e all’amarezza per la mancata commissione. Nel testo, di cui ci sono pervenute soltanto le terzine, l’autore inveisce contro l’incomprensibile decisione del duca, che aveva osato preferire al modello celliniano quello, immancabilmente giudicato inferiore, dell’Ammannati. Ciò che qui interessa è la dichiarazione di poetica racchiusa in questi versi:
io fo modegli, altrui à l’opre e ’l vanto:
o mi fusse pur fatto ’l mio dovere!
Perché diavol m’à ei messo sì daccanto?
Voi mi terrete fuor d’ogni sapere,
che come un rinbanbito così canto:
se tant’io vivo ’l fin potrei vedere.66
Nella seconda terzina, l’allocuzione a un pronome di seconda persona plurale, l’uso dell’indicativo futuro e quello di un termine connotato in senso comico quale «rinbanbito» convergono a richiamare la diminutio sui incastonata da Michelangelo in apertura dell’epistola al Vasari del settembre 1554.67 Se, d’altra parte, quella missiva conoscerà ampia divulgazione a partire dalla sua inclusione nelle Vite giuntine dell’aretino, non è inverosimile che già all’altezza del 1560 essa possa essere nota a Cellini. Quella di Michelangelo era in effetti una lettera dal carattere semiufficiale, che al Vasari si rivolgeva in quanto emissario diretto delle profferte di Cosimo: probabile, dunque, che quella comunicazione circolasse fra le personalità coinvolte dal duca nel tentativo di convincere Buonarroti a lasciare Roma.
Ma, nel quadro della produzione poetica celliniana, la presenza del modello michelangiolesco non pertiene soltanto a simili dichiarazioni programmatiche. Quale esempio conclusivo di questa breve rassegna si può addurre il più antico sonetto conservato fra le Rime dello scultore del Perseo, databile (in virtù del riferimento al servizio ormai settennale presso il duca Cosimo) all’estate del 1552. Nel testo, che denuncia un precoce malcontento dell’artista riguardo alla committenza cosimiana, l’autore lamenta di essere stato lasciato nell’indigenza dal signore di Firenze. Immemore dell’eccezionale bellezza di quelle statue celliniane che avevano onorato la sua città, e in primo luogo del capolavoro della Loggia dei Lanzi ormai alla fase finale della rinettatura, Cosimo è destinatario di un lamento accorato:
Signiore eccellentissimo et divino,
i’ v’ò servito, or mai passan sette anni,
con tutto il mio potere, in tanti affanni,
qual carcerato o infermo peregrino.
Son giunto a quanto io dissi in sul confino:
tal che veder si può sui belli scanni
vaghe statüe nude, altre co’ panni;
et io sbattuto son, senza un quatrino.
Quelle in senbiante liete, altiere et dolcie;
io mesto, spennachiato, humile e.rrotto.68
Dando per assodato che l’autoritratto deformante e grottesco del soggetto poetante, che si presenta abbrutito dalla miseria o dalla malattia, gode di larga fortuna nella rimeria burlesca del tempo, e che abbondano nella tradizione poetica toscana tre-quattrocentesca paradigmi testuali forti da questo punto di vista,69 esiste nondimeno una peculiare contiguità fra il componimento celliniano e il capitolo michelangiolesco I’ sto rinchiuso come la midolla. Un modello che, nei versi dello scultore del Perseo, pare sommarsi e interagire con quello offerto dal sonetto di Pietro Aretino Sett’anni traditori ho via gettati, in cui il flagello dei principi denunciava le speranze tradite e i mancati guadagni in cui si era tradotto il lungo periodo trascorso al servizio dei papi medicei Leone X e Clemente VII.70 Certo, l’ipotesi di una consapevole emula zione michelangiolesca da parte del Cellini, per la prima volta brevemente prospettata da Gerarda Stimato,71 non è priva di un margine di azzardo. Il capitolo del Buonarroti, perlopiù ascritto agli anni compresi fra il 1546 e il 1549, non pare al tempo godere di significativa circola zione manoscritta.72 Eppure conviene rammentare che, in questo stesso torno di anni, il più giovane scultore intrattiene una prima corrispon denza epistolare con il maestro della Scuola Fiorentina e che, fra il marzo e l’aprile del 1550, i due hanno modo di incontrarsi a Roma.73 Nel periodo che precede la stesura di Signiore eccellentissimo et divino non mancano dunque al creatore del Perseo occasioni per entrare in contatto diretto con il laboratorio poetico michelangiolesco. Rispetto ad altre prove di rimatori giocosi cari alla tradizione munici pale fiorentina, il testo michelangiolesco offre d’altronde un archetipo tematico davvero cogente per l’autorappresentazione celliniana. Entrambe le poesie registrano infatti il fallimento dell’autore in quanto artista, e più specificamente in quanto scultore. La figurazione «comica, a contraggenio, delle proprie miserie e dei propri tormenti, in cui il riso è alternativa al pianto, l’autocaricatura all’autocommiserazione», la risata che sgorga da «una radice allucinata e dolorosa, un’acre ed atra scaturigine» sono in questi versi inestricabilmente connesse al riscontro di una drammatica crisi professionale.74 Michelangelo, come poi Cellini, mette in relazione il proprio esercizio artistico, pur tanto apprezzato dai contemporanei, con un’inemendabile rovina economica, con la propria attuale condizione di uomo «pover e solo».75 L’osannata e altèra grandezza dell’arte fa insomma da contraltare all’indigenza e alla degradazione del suo creatore, ridotto a essere un «servo» in balìa del volubile favore del committente:
Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin come colui
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ove alcun tempo fui
di tant’opinïon, mi rec’a questo:
povero, vecchio e servo in forz’altrui,
ch’i’ son disfatto s’i’ non muoio presto.76
La stringente affinità tematica fra i componimenti trova poi riscontro in significative contiguità formali. Se Cellini si descrive «mesto, spennachiato, humile errotto», il Buonarroti aveva evidenziato la propria condizione di uomo «dilombato, crepato, infranto e rotto» dalle fatiche, con coincidenza nell’accumulo di quattro aggettivi di marca comicorealistica, nella struttura sintattica e nella clausola di congiunzione e aggettivo participiale rotto.77 E sebbene il celliniano «spennachiato» sia probabile tessera petrarchesca dal Triumphus Pudicitie, può magari avere operato anche l’eco di un altro verso del capitolo michelangiolesco, «di penne l’alma ho ben tarpata e rasa».78 Le contiguità in termini di contenuto, di elementi lessicali e sintattici convergono insomma a suggerire la possibilità di un’imitazione da parte di Cellini nei confronti del testo di Michelangelo.
In conclusione, il cursorio profilo tracciato del mito del Buonarroti rimatore nella Firenze di Cosimo I ha permesso di illuminare alcune delle modalità della tentata appropriazione di questo aspetto dell’arte michelangiolesca ad opera di intellettuali e letterati attivi in quel contesto. Un tentativo che, come si è visto, comporta di necessità la neutralizzazione di alcuni degli aspetti più ideologicamente connotati di quella rimeria, il cui rilevato accento antitirannico, declinato secondo le suggestioni di un forte dantismo, viene ad esempio occultato a tutto vantaggio di un risalto a contenuti meno compromessi con la storia contemporanea. D’altro canto, l’indagine ha consentito di iniziare a far luce sul dialogo che alcuni rimatori di quell’ambiente (e, nello specifico di questa rassegna, autori che condividono con il Buonarroti l’esercizio dell’arte e una vocazione «non professa» alla scrittura poetica)79 avviano con i versi michelangioleschi, rivelando aspetti inediti della loro ricezione tra amici e ammiratori dell’anziano maestro della Scuola Fiorentina.
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1 Rime di Michelagnolo Buonarroti. Raccolte da Michelagnolo suo nipote, Firenze, Giunti, 1623. Sull’editio princeps a cura del pronipote dell’artista, frutto di una rassettatura che incide tanto sulla forma quanto sui contenuti delle liriche, si veda Enzo N. Girardi, Studi su Michelangiolo scrittore, Firenze, Olschki, 1974, pp. 79-95.
2 Matteo Residori, Sulla corrispondenza poetica tra Berni e Michelangelo (senza dimenticare Sebastiano del Piombo), in Danielle Boillet et Michel Plaisance (a cura di), Les années Trente du XVIe Siècle Italien. Actes du Colloque International (Paris, 3-5 juin 2004), Paris, Centre Interuniversitaire de Recherche sur la Renaissance Italienne, 2007, pp. 207-224: 215; Antonio Corsaro, Intorno alle rime di Michelangelo Buonarroti: la silloge del 1546, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», DCXII, 2008, pp. 536-569, che ripercorre l’ampio dibattito critico-ecdotico intorno alla questione della raccolta di versi michelangioleschi a cura di Giannotti e Del Riccio, e Id., La prima circolazione manoscritta delle rime di Michelangelo, «Medioevo e Rinascimento», XXV / n.s. XXII, 2011, pp. 279-297. Utile anche la Nota al testo di Michelangelo Buonarroti, Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Milano, Bompiani, 2016, pp. cxvi-cxxii.
3 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, nella prima delle quali si dichiara un sonetto di M. Michelagnolo Buonarroti. Nella seconda si disputa quale sia più nobile arte la Scultura, o la Pittura, conuna lettera d’esso Michelagnolo,& più altri Eccellentiss. Pittori, et Scultori, sopra la Quistione sopradetta. In Fiorenza appresso Lorenzo Torrentino Impressor Ducale, 1550 (1549 in stile fiorentino). Lo studio più esaustivo della teoria artistica espressa nelle Due Lezzioni rimane quello di Leatrice Mendelsohn, Benedetto Varchi’s «Due Lezzioni» and Cinquecento art theory, Ann Arbor, UMi Research Press, 1982.
4 Raymond Carlson, «Eccellentissimo poeta et amatore divinissimo»: Benedetto Varchi and Michelangelo’s Poetry at the Accademia Fiorentina, «Italian Studies», LXIX. 2, luglio 2014, pp. 169-88.
5 Frédérique Dubard de Gaillarbois, Le «Due Lezzioni» varchiane: una soluzione al dilemma michelangiolesco: pubblicare o non pubblicare?, in Lorenzo Battistini et alii (a cura di), La letteratura italiana e le arti: Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), Roma, Adi editore, 2018 [http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=1039].
6 Vedi Salvatore Lo Re, Varchi e Michelangelo, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie 5, IV/2, 2012, pp. 485-516: 515, secondo cui la Lezzione del Varchi «non prefigura in alcun modo gli appelli vasariani in favore delle ambiziose aspirazioni ducali» di riavere Michelangelo a Firenze, «non suona come un richiamo pratico e utilitaristico [...]. Borghini e non Varchi sarebbe stato il perno del grandioso programma celebrativo elaborato negli anni a venire per Palazzo Vecchio». Lo Re in questo dissente dalle conclusioni di Paola Barocchi (Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei e la storiografia artistica contemporanea, in Nouvelles de la republique des lettres, I, 1981, pp. 13-39: 17), secondo cui nelle Due Lezzioni «si impone [...] l’abile regia filomedicea, che cerca di recuperare alla Firenze di Cosimo I un Michelangelo lontano da oltre 13 anni. Tessendo lodi superlative dell’artista plurimo, l’oratore [...] svela le ambiziose aspirazioni del ducato».
7 Tommaso Mozzati, «È dunque Artista vocabolo non Latino, ma Toscano»: Michelangelo poeta nelle lettere fiorentine da Francesco Berni a Benedetto Varchi, in Il Cinquecento a Firenze. “Maniera moderna” e Controriforma, catalogo della mostra di Firenze, Palazzo Strozzi, 21 settembre 2017-21 gennaio 2018, a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali, Firenze, Mandragora, 2017, pp. 41-51.
8 Il dato è registrato nel primo dei codici degli annali dell’Accademia: Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Principale, ms. B III 52, c. 3v.
9 Sulla trasformazione istituzionale dell’Accademia degli Humidi (fondata nel novembre 1540) in Accademia Fiorentina, si rimanda al classico studio di Michel Plaisance, Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier: la transformation de l’Académie des «Humidi» en Académie Florentine (1540-1542), oggi consultabile in Id., L’Accademia e il suo principe: cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 29-122 (la notazione sul ritratto di Cosimo si legge a p. 98).
10 Lo suggeriva già un prezioso contributo di Danilo Romei («Bernismo» di Michelangelo, in Idem, Da Leone X a Clemente VII: Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei [1513-1534], Manziana, Vecchiarelli, 2007 [ma il saggio in esame era stato già edito nel 1984], pp. 307-338: 337), muovendo dalla contestazione alle conclusioni cui era giunto in merito Mario Martelli. Se questi (vedi Mario Martelli, Esegesi del madrigale 118 di Michelangelo, «Atti e memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», n.s. XLI, 1973-1975, pp. 347-366: 364) coglieva nell’ascrizione accademica il segno di un Michelangelo «legato per ideali politici all’oligarchia nobiliare e, nella misura in cui di questa oligarchia si erano fatti portavoce, ai Medici», Romei di contro osservava: «il punto più debole del ragionamento di Martelli mi pare la pretesa di scoprire un assenso alla politica culturale dell’Accademia Fiorentina nella cooptazione che questa nel 1541 elargì, non richiesta, a Michelangiolo. Ma l’Accademia Fiorentina significava Cosimo e la restaurazione medicea, che Michelangiolo sempre aborrì [...], tanto da rifiutarsi di rimettere piede a Firenze dopo il 1534, a dispetto delle lusinghe e anzi delle poderose e temibili pressioni del Duca, che lo reclamava a inanellare prestigio alla corona. Ad esse Michelangiolo oppose sempre buone parole e prudentissimi ossequi e fermissimi rifiuti».
11 Plaisance, Une première affirmation, cit., p. 97. L’altro accademico designato mentre si trovava lontano da Firenze è Vincenzo Martelli, in quel momento al servizio del principe di Salerno, Ferrante Sanseverino.
12 Riguardo alle esequie, si vedano almeno Andrea Gareffi, Le «Esequie del divino Michelangelo» o del manierismo consacrato: la misura dell’eternità, «Biblioteca Teatrale», XXIII/XXIV, 1979, pp. 39-69; Maria Fubini Leuzzi, L’oratoria funeraria nel Cinquecento. Le composizioni di Benedetto Varchi nei loro aspetti culturali e politici, «Rivista storica italiana», CXVIII. 2, 2006, pp. 351-393; Antonio Corsaro, Michelangelo e i letterati, in Harald Hendrix e Paolo Procaccioli (a cura di), Officine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana fra Riforma e Controriforma, Atti del Simposio Internazionale, Utrecht 8-10 novembre 2007, Manziana, Vecchiarelli, 2008, pp. 383-425: 383-385; Gorgio Costa, Michelangelo alle corti di Niccolò Ridolfi e Cosimo I, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 154-161, Dubard de Gaillarbois, Le «Due Lezzioni», cit.
13 Per un utile inquadramento del pensiero politico dell’artista, si veda Gorgio Spini, Michelangelo politico e altri studi sul Rinascimento fiorentino, Milano, Unicopli, 1999, pp. 7-55.
14 Cfr. le introduzioni alle liriche in questione in Michelangelo, Rime e lettere, cit., pp. 33-34, 62, 74 e 76.
15 In considerazione delle discordanti indicazioni delle fonti cinquecentesche, la paternità della quartina non è incontestata. L’attribuzione invalsa è ad esempio ritenuta «debolmente fondata» da Romei (Da Leone X, cit., p. 142). L’ascrizione a Giovanni di Carlo Strozzi si basa nondimeno sulla rubrica di un testimone autorevole, il manoscritto Vaticano Latino 3211: su questo, cfr. Corsaro, Michelangelo e i letterati, cit., pp. 405-406. Sull’attività dello Strozzi quale consolo dell’Accademia, si vedano il già citato ms. B III 52 della Biblioteca Marucelliana di Firenze, a c. 4r, e Romei, Da Leone X, cit., p. 136.
16 Si riporta qui il testo edito ed emendato (a correggere l’ipometria del secondo verso come viene tràdito dai codici) da Giorgio Masi, Le statue parlanti del cavaliere e altri prodigi pasquineschi fiorentini (Bandinelli, Cellini, Michelangelo), in Chrysa Damianaki, Paolo Procaccioli, Angelo Romano (a cura di), Ex marmore. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna. Atti del Colloquio internazionale di LecceOtranto, 17-19 novembre 2005, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 221-270: 268-269. Masi (p. 247) ha inoltre dimostrato che l’epigramma dello Strozzi, «strettamente vincolato alla statua» e «pienamente comprensibile solo recandosi a vederla di persona», deve essere stato scritto non prima del 1545, quando i capolavori scultorei delle tombe medicee «vennero esposti per volontà di Cosimo». Allo studio in questione si rimanda per un’eccellente contestualizzazione e una penetrante analisi dello scambio poetico fra Michelangelo e lo Strozzi. Sull’impatto che l’esposizione delle statue della Sagrestia ebbe su artisti e intellettuali fiorentini del tempo, vd. Claudio Lazzaro, Michelangelo’s Medici Chapel and Its Aftermath: Scattered Bodies and Florentine Identities under the Duchy, «California Italian Studies», VI. 1, 2016, pp. 1-35.
17 Cfr. Dialogi di Donato Giannotti, de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, edizione critica a cura di Deoclecio Redig De Campos, Firenze, Sansoni, 1939, p. 44: «Quello epigramma che voi ultimamente faceste sopra la vostra Notte, per risposta di quell’altro che fu fatto a Firenze da non so chi degli Accademici fiorentini».
18 Michelangelo, Rime e lettere, cit., Silloge, n. 17.
19 Simile valore è adombrato nelle parole di Antonio Petrei, uno degli interlocutori dei Dialogi, secondo cui il testo michelangiolesco risulta «molto a proposito de’ tempi nostri, ne’ quali, non si potendo né vedere né sentire cosa la quale arrechi alcuna ragionevole dilettatione, ha gran ventura colui che è dell’uno e dell’altro sentimento privato»: vedi Dialogi di Donato Giannotti, cit., p. 55.
20 Si vedano il commento a Giorgio Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di Paola Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, pp. 1031-1044; Costa, Michelangelo alle corti, cit., pp. 85-86; l’apparato di Michelangelo, Rime e lettere, cit., p. 898, e soprattutto Masi, Le statue parlanti, cit., pp. 255-256, che registra l’occorrenza della stessa dittologia, secondo la medesima accezione politica che presenta nella quartina michelangiolesca, in una serie di scritti coevi a carattere storiografico.
21 Michelangelo, Rime e lettere, cit., Silloge, n. 37, vv. 5-14.
22 Si confronti Giovanni Boccaccio, Opere minori in volgare, a cura di Mario Marti, Milano, Rizzoli, 1972, vol. IV, p. 342: «Oh ingrata patria, quale demenzia, quale trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltà disusata mettesti in fuga, e poscia tenuta t’ha?». L’eco da Inferno XV è peraltro già avvertibile in filigrana in una lettera che Michelangelo invia da Roma al padre Lodovico nell’autunno 1512, in cui il mittente denunciava di non aver mai frequentato «giente più ingrate né più superbe che e’ Fiorentini». Si veda Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, Firenze, Sansoni-SPES, 1965-1983, I, pp. 140-141 (che si assume a testo di riferimento in quanto testimone anche delle missive dei corrispondenti dell’artista), nonché l’apparato di Michelangelo, Rime e lettere, cit., p. 1121.
23 Per una puntuale disamina delle numerose memorie dantesche che tramano il sonetto dell’artista, si rimanda al commento a Michelangelo, Rime e lettere, cit., pp. 913-914.
24 Girardi, Studi su Michelangiolo, cit., p. 29. Cfr. anche Spini, Michelangelo politico, cit., p. 21: «Come l’appartenenza al ceto sociale dei cittadini implica adesione ad un determinato ethos ed un determinato costume, così essa implica adesione ad un grande retaggio culturale, il cui vertice è rappresentato da quel domestico nume che è l’Alighieri per i fiorentini. Dante non è solo poeta divino, ma altresì maestro di vita morale e di dottrina filosofico-religiosa: nel culto del Poema Sacro, momento etico-religioso e momento estetico-culturale si saldano per i cittadini di Firenze».
25 Michelangelo, Rime e lettere, cit., Silloge, nn. 48 e 49. Su questi testi, si veda anche Masi, Le statue parlanti, cit., pp. 256-257.
26 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., pp. 11-12. Sull’accentuazione della fioren tinità di Michelangelo nella lezione del Varchi ha scritto Frances E. Thomas, «Cittadin nostro Fiorentino»: Michelangelo and Fiorentinismo in mid-sixteenth-century Florence, in Mary Rogers (a cura di), Fashioning Identities in Renaissance Art, Aldershot, Ashgate, 2000, pp. 177-187: 182-183.
27 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., p. 12.
28 Costa (Michelangelo alle corti, cit., p. 86) ha in effetti rilevato come in ambito fiorentino, sotto l’egida della politica culturale cosimiana, la figura dell’artista e del poeta venga sempre più dissociata dalla sua reale esistenza storica, secondo una sorta di santificazione che espone Michelangelo all’ossequio del pubblico ma che disinnesca la possibilità di fare i conti con la sua concreta identità di uomo partecipe delle tensioni del tempo.
29 Opere di Benedetto Varchi ora per la prima volta raccolte [...], a cura di Antonio Racheli, Trieste, Dalla sezione letterario-artistica del Lloyd Austriaco, 1859, II, p. 685. Sull’accentuazione dello spessore filosofico della poesia dell’artista nella Lezzione si veda soprattutto Dubard de Gaillarbois, Le «Due Lezzioni», cit.
30 Sul concetto di gravitas nel Varchi teorico della poesia, e sul suo utilizzo in riferimento all’opera dantesca, illuminante Andrea Afribo, Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento, Firenze, Cesati, 2001, pp. 45-60.
31 Si fa riferimento rispettivamente a Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., pp. 11 («un suo altissimo sonetto, pieno di quella antica purezza, et dantesca gravità [...], il qual sonetto ho preso hoggi a dovere interpretare per la grandissima dottrina, et incredibile utilità, che in esso si racchiude, non secondo che ricercano l’altezza, et profondità dei grandissimi concetti di lui, ma in quel modo, che potranno la bassezza, et debolezza delle mie picciolissime forze») e 22 («Dante [...], del qual si vede, che il nostro Poeta è stato studiosissimo, et come ne’ versi l’ha seguitato, et imitato, così nello scolpire, et dipingere ha giostrato, et combattuto seco»). Nella Storia Fiorentina, Varchi non tace invece la militanza antimedicea del Buonarroti, registrandone ad esempio l’impegno a difesa della Repubblica di Firenze in occasione dell’assedio del 1529-1530: un impegno che aveva visto schierato l’artista sul fronte avverso ai Medici, suoi antichi protettori. Vedi Opere di Benedetto Varchi, cit., vol. I, pp. 213-214, dove così si racconta il rientro di Michelangelo nella città toscana dopo un soggiorno a Venezia: «parendogli pure di non dovere abbandonare la patria in tanta necessità, non ostante che fosse stato aiutato e favorito non solo, ma nutrito e onorato dalla casa de’ Medici, si partì incontanente per la via della Garfagnana, e non senza qualche difficoltà e pericolo della sua persona se ne ritornò a Firenze».
32 Da questo punto di vista, trovo pienamente sottoscrivibile l’invito di Lo Re (Varchi e Michelangelo, cit.) a non sottostimare la distanza fra l’operazione varchiana e quella che Borghini orchestrerà alla morte dell’artista, con l’organizzazione delle esequie laurenziane. A differenza dello studioso, però, ritengo che il commento del Varchi sia in parte dettato proprio dalla volontà di ricomporre formalmente il legame fra Michelangelo e il duca Cosimo, come a mio avviso dimostra la scelta della Lezzione di assumere a oggetto di esegesi testi poetici non compromessi con la storia contemporanea.
33 Per l’annosa rivalità che contrappone Varchi a questi intellettuali, si veda almeno Massimo Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997, pp. 266-284.
34 Pierfrancesco Giambullari, lettera dedicatoria Al virtuosissimo Michelagnolo Buonarroti premessa a Carlo Lenzoni, In difesa della lingua fiorentina, et di Dante. Con le regole da far bella et numerosa la prosa, Firenze, [Lorenzo Torrentino], 1556, p. 5: «Tante volte mi sono conosciuto debitore di due cose, alla dolce memoria del nostro Carlo Lenzoni [...]. Et secondariamente, de lo indrizzarle, et sacrarle a voi, come haveva deliberato egli stesso, per quanto insieme ne ragionammo infinite volte: et non certo senza ragione. Conciosia che havendovi sempre conosciuto, per sommamente giudicioso, et sapendo che la Pittura, et la Poesia, sono tanto simili infra di loro; che quella [...] è chiamata Poesia mutola, et questa, Pittura con la favella, vi teneva per non punto meno eccellente, in questa che in quella: per il che ragionando in tutta questa opera, de la Bellezza, Eccellencia, et Virtù dello unico et vero Poeta; ancora che fino al dì d’hoggi, mal conosciuto forse da molti, si persuadeva che a voi solo, unico certo in tutte le cose, et eccellentissimo nel giudicio, meritamente si convenisse lo indrizzarla. Aggiugnevasi a questo, per non ragionare al presente di quello amor singulare, et fuor di misura, che per la somma cognitione che sopra ogn’altro havete di lui, portaste sempre a questo Poeta [...]».
35 Mozzati, «È dunque Artista», cit. A proposito del carattere topico del parallelismo istituito fra Michelangelo e Dante, si veda poi il commento a Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, cit., pp. 1982-2002, che riporta (fra le altre) le testimonianze in merito desumibili dalle opere di Ascanio Condivi Donato Giannotti, Giovan Battista Gelli e Lionardo Salviati.
36 Mi riferisco al passaggio più noto del capitolo bernesco Padre, a me più che gli altri reverendo (Francesco Berni, Rime, a cura di Danilo Romei, Milano, Mursia, 1985, cap. LXV, vv. 28-31), che riconosce al Buonarroti una capacità di dire «cose» radicalmente alternativa alla prassi poetica dei petrarchisti contemporanei, stanchi ripetitori delle «parole» usurate di una lingua lirica disancorata da ogni riferimento al reale: «[...] egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle: / tacete unquanco, pallide vïole / e liquidi cristalli e fiere snelle: / e’ dice cose e voi dite parole». Al fine di evitare indebite semplificazioni, occorre nondimeno ricordare che lo stesso artista, sempre circospetto nella sua scelta di mantenere le distanze dal potere cosimiano, non lascia trapelare alcuno scontento riguardo all’operazione accademica del 1547, e anzi si dimostra, secondo quanto emerge dall’epistolario, lusingato dal commento del Varchi. Lo provano la lettera inviata dal Buonarroti a Luca Martini nel marzo 1547, in cui l’autore accusa ricevuta della lezione del Varchi e dichiara: «il sonetto vien bene da me, ma il comento viene dal cielo; et veramente è cosa mirabile, non dico al giudizio mio, ma degli uomini valenti, et massimamente di messer Donato Giannotti [...]. Circa il sonetto, io conosco quello che gl’è; ma, come si sia, io non mi posso tenere che io non ne pigli un poco di vanagloria, essendo stato cagione di sì bello et dotto comento», e una missiva di tono analogo a Giovan Francesco Fattucci (Carteggio di Michelangelo, cit., IV, pp. 257-258 e 261). Cfr., a tal proposito, Corsaro, Michelangelo e i letterati, cit., p. 391; Lo Re, Varchi e Michelangelo, cit., p. 511, e Dubard de Gaillarbois, Le «Due Lezzioni», cit.
37 Vedi Corsaro, La prima circolazione manoscritta, cit., pp. 287-288: «oltre al sonetto Non ha l’ottimo artista (non attestato da altri collettori), la Lezzione varchiana riporta (spesso per soli lacerti o per incipit) un buon numero di altre rime michelangiolesche non trasmesse da alcun altro testimone, che obbligano a congetturare una raccolta, non si sa quanto estesa, nelle mani di Varchi. Nell’insieme, di 27 poesie citate nel testo [. ], 3 sono conosciute attraverso altri testimoni (ad esempio tre sonetti del famoso gruppo della notte), e ben 8 ci giungono solo per questa via». Su questo, si vedano anche Carlson, «Eccellentissimo poeta», cit., pp. 174-177 e Dubard de Gaillarbois, Le «Due Lezzioni», cit.
38 A proposito dell’explicit del v. 8 del sonetto oggetto della Lezzione, «contraria ho l’arte al disiato effetto», Varchi dichiara: «Ho veduto scritto in alcuni sonetti, non effetto, ma affetto, la quale scrittura, avvenga che si potesse salvare, et difendere, nulla di meno sta meglio così, et così è scritto in quello, che ho io appresso me di mano propia dell’Auttore stesso» (Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., p. 40).
39 Biblioteca Nazionale Centrale, codice Panciatichiano 164, c. 433: «Di Francescho dj sandro Battiloro e dellj amicj». La lirica michelangiolesca in questione è l’epigramma funebre per Cecchino Bracci Se qui son chiusi e belli occhi e sepolti. Per la descrizione del codice e dei contenuti del fascicolo si rimanda a Corsaro, La prima circolazione manoscritta, cit., pp. 293-294, e alla nota al testo di Michelangelo, Rime e lettere, cit., 2016, pp. LXXV-LXXVI, con bibliografia precedente. Si sa poco di Francesco di Sandro Altoni, se non che si tratta di una figura che, in qualità di maestro d’armi di Cosimo, gode di una qualche influenza nella vita artistica del ducato. L’Altoni, autore di un trattato sull’arte della scherma intitolato Monomachia, viene ricordato dalle Vite giuntine del Vasari come patrocinatore presso il duca dello scultore Raffaello da Montelupo: vedi Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori scritte da m. Giorgio Vasari pittore et architetto aretino: di nuovo riviste et ampliate con i ritratti loro et con l’aggiunta delle Vite de’ vivi, et de’ morti deli’anno 1550 insino al 1567, Firenze, Giunti, 1568, II, p. 409. Considerato il profilo del personaggio, dotato di una qualche sfera di influenza nel quadro delle committenze medicee, non è azzardato ipotizzare che possa essere identificato con l’Altoni quel «Francesco di Sandro» che, nel 1544, opera come intermediario per portare a Firenze il miniatore Giulio Clovio, secondo la testimonianza di una lettera del segretario mediceo a Roma Francesco Babbi a Pierfrancesco Riccio (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato 1171, 6, c. 277bis, oggi consultabile tramite la piattaforma Bia del Medici Archive Project [doc. 7050]), e soprattutto con quel «Francesco di Sandro amico suo carissimo» cui il Gelli dedica le sue Vite d’artisti fiorentini. A proposito di questi ultimi due documenti, cfr. Maddalena Spagnolo, Ragionare e cicalare d’arte a Firenze nel Cinquecento: tracce di un dibattito fra artisti e letterati, in Officine del nuovo, cit., pp. 105-128: 110.
40 Il testimone di questo lavoro di trascrizione è un codicetto oggi all’Archivio Buonarroti: Firenze, Museo Casa Buonarroti, Archivio Buonarroti XIV, sezione quarta. La nota al testo di Michelangelo, Rime e lettere, cit., pp. LII-LIII, e soprattutto Corsaro, Intorno alle rime, cit., pp. 539 e 549-550, offrono delle convincenti ipotesi circa i rapporti stemmatici fra il codice Baldi e gli altri testimoni della silloge. Questa la didascalia introduttiva dell’unità codicologica in esame (c. 74r), redatta da mani distinte (rispettivamente dello stesso Baldi, di Michelagnolo il Giovane e del senatore Filippo Buonarroti): «Rime di Michel, più che mortale, angel divino, scultore, pittore e architettore fiorentino / Di ms. Accursio Baldi / scultore dal monte a S. Sovino il quale le copiò da un quadernetto in mano a una donna di mano di Michel con varie lezioni e rassettatici di sua mano come scrive Michel.o di Lionardo». Come informa il contributo di Corsaro, il codice XV dell’Archivio Buonarroti, una raccolta allestita da Michelangelo il Giovane in vista della stampa delle Rime del prozio del 1623, contiene ulteriori dettagli relativi alle circostanze della copia. A c. 37v si legge infatti l’avvertenza: «Da un manuscritto di Accursio Baldi scultore dal Monte a S. Sovino, il quale tutte queste in roma copiò da un quadernetto in mano a una donna che no(n) glielo volle dare et era della stessa mano di Michela(n)g.lo [...]». Sfortunatamente, la penuria di notizie in nostro possesso sulla vita e sulla parabola artistica di Accursio Baldi non permette di datare il soggiorno romano cui fa cenno la nota di Michelangelo il Giovane. L’attività dello scultore è comunque documentata fra il 1579 e gli inizi del secolo successivo (vedi Anna Maria Massinelli, Accursio Baldi e la statua di Sisto V a Fermo, in Paolo del Poggetto (a cura di), Le arti nelle Marche al tempo di Sisto V, Milano, Silvana Editoriale, 1992, pp. 232-234). Sulla base dei pochi dati certi a nostra disposizione, è stato ipotizzato che la prima formazione dell’artista abbia luogo entro la cerchia fiorentina di Giambologna. Ci riporta infatti alla città toscana la prima testimonianza sul suo conto, ovvero il libretto di Raffaello Gualterotti, Feste delle nozze del Serenissimo D. Francesco Medici Granduca di Toscana e della Serenissima sua consorte la Signora Bianca Cappello, Firenze, Giunti, 1579, dove figurano sedici sue incisioni. Baldi si trova a Firenze ancora nel 1585; nel 1588 lo scultore è invece a Fermo, dove nel 1590 porta a compimento le statue di Sisto V e del giurista Marco Antonio Severo; quasi nulla si sa invece degli ultimi anni della sua vita: vedi D. Bruschettini, Accursio Baldi, in L’arte a Siena sotto i Medici. 1555-1609, a cura di Fiorella Sricchia Santoro, Roma, De Luca, 1980, pp. 264-265. Il contributo della Massinelli (Accursio Baldi, cit., p. 235) indica nel 1607 l’anno di morte dell’artista, che deve essere invece spostato al 1609: vedi Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba Medicea, 301, c. 12r (elenco di Diversi huomini di Architettura, Pittura et altri Magisteri provvisionati dal granduca Ferdinando de’ Medici), dove accanto al nominativo «Accurso Baldi scultore» si legge la nota «morse 26 7bre 1609». La cronologia delineata permette di avanzare l’ipotesi che la trascrizione del codice Baldi possa risalire a un periodo successivo alla morte di Cosimo de’ Medici (1574): tuttavia, come si vedrà, nella sua azione di devoto cultore dell’opera poetica michelangiolesca, l’artista di Monte San Savino si pone quale erede di una tradizione che aveva avuto avvio tra i pittori e gli scultori dell’età precedente.
41 A proposito di Baldi rimatore, vd. Giammaria Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, vol. II, parte I, Brescia, Bossini, 1758, p. 114, e Jean Balsamo, Poètes Italiens de la Renaissance dans la Bibliothèque de la Fondation Barbier-Mueller: de Dante à Chiabrera, Ginevra, Droz, 2007, p. 80.
42 Su Alfonso de’ Pazzi, si vedano da ultimo Domenico Zanrè, Cultural Non-Conformity in Early Modern Florence, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 111-139; Aldo Castellani, Nuovi canti carnascialeschi di Firenze. Le «canzone» e mascherate di Alfonso de’ Pazzi, Firenze, Olschki, 2006, e soprattutto Giorgio Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco (Alfonso de’ Pazzi), in Antonio Corsaro e Paolo Procaccioli (a cura di), Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, Atti del seminario internazionale di studi, Urbino-Sassocorvaro, 9-11 novembre 2006, Manziana, Vecchiarelli, 2007, pp. 301-358.
43 Il 1555, anno di morte dell’Etrusco, costituisce il solo terminus ad quem sicuro per quel che riguarda la datazione del testo. L’individuazione di una cronologia più puntuale è ad oggi ostacolata dalla mancanza di informazioni precise circa l’epoca della stesura dei due componimenti sulle zanzare del pittore fiorentino. Il capitolo A messer Benedetto Varchi in lode delle zanzare viene edito per la prima volta nel Secondo libro dell’opere burlesche, di M. Francesco Berni, di Molza, di M. Bino, di M. Lodovico Martelli, Di Mattio Francesi, dell’Aretino, et di diversi autori nuovamente posto in luce, et con diligenza stampato, che a cura del Lasca esce a Firenze per i tipi di Giunti nel 1555. Per l’Esortazione del Bronzino pittore alle zanzare è stata ipotizzata una stesura successiva al 1550, sulla base di un presunto riferimento nel testo alla conquista di Tripoli ad opera di Andrea Doria. Si vedano le notazioni in merito in Agnolo Bronzino, Rime in burla, a cura di Franca Petrucci Nardelli, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 405 e 497.
44 La poesia si legge a p. 341 dello zibaldone di poesie che, sul principio degli anni settanta del Cinquecento, Luigi de’ Pazzi assembla trascrivendo centinaia di componimenti del padre Alfonso: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Vincenzo Capponi 134. Sul codice si veda Giorgio Masi, voce Pazzi, Alfonso de’, detto l’Etrusco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia, 82, 2015, disponibile in formato elettronico [http://www.treccani.it/enciclopedia/pazzi-alfonso-de-said-l-etrusco-(Dizionario-Biografico)/]. Per quel che mi risulta, ma è noto come il corpus poetico del Pazzi attenda ad oggi una ricognizione critica e un’edizione completa, il sonetto al Bronzino è a tradizione monotestimoniale. Ciò determina dei rilevanti problemi ecdotici, dal momento che nel codice gli errori di trascrizione sono piuttosto comuni, favoriti dalla scarsa perspicuità della grafia di Alfonso. Questo sembra spiegare le due lezioni che non danno senso ai versi 10 e 14 del sonetto (a testo emendate congetturalmente), che nell’originale leggono rispettivamente «che poesia agiunt’alla pittura» e «et di quanto ti prego non mancare». Nel pubblicare il componimento, accenti, apostrofi, punteggiatura, alternanza di maiuscole e minuscole sono stati conformati alla norma moderna. Si è poi restituito con –m-la –n- davanti a bilabiale e soppresso –h-e –i- diacritiche superflue.
45 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., p. 52: «mostrerrà (come disse quello ingegnosissimo Poeta di ciance, et da trastullo) che egli è nuovo Apollo, et nuovo Apelle, et non dice parole, ma cose».
46 Benedetto Varchi, son. Bronzino, ove sì dolce ombreggia, e suona, vv. 9-11 in Sonetti di Angiolo Allori detto il Bronzino ed altre rime inedite di più insigni poeti, a cura di Domenico Moreni, Firenze, Magheri, 1823, p. 122. Il richiamo al topos del nuovo Apelle e nuovo Apollo ricompare anche nell’explicit del sonetto Cinga le tempie a te, saggio Bronzino del Cavalier Sellori (vv. 12-14: «E le tue dotte rime, altere e belle, / E le pitture tue, pregiate e care, / Ti fanno un nuovo Apollo, un nuovo Apelle»), come segnalato da Antonio Geremicca, Agnolo Bronzino. «La dotta penna al pennel dotto pari», Roma, Universitalia, 2013, pp. 63 e 247.
47 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, cit., sonetto riportato a p. 53, vv. 1-4: «Ben vi potea bastar chiaro Scultore, / Non sol per opra d’incude, et martello / Haver, ma co’i colori, et col pennello / Agguagliato, anzi vinto il prisco honore».
48 Vedi Carteggio di Michelangelo, cit., V, pp. 255-256 e Sonetti di Angiolo Allori, cit., p. 26, vv. 5-8.
49 Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, sonetto riportato a p. 13, vv. 1-4: «Non ha l’ottimo Artista alcun concetto / ch’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo soverchio, & solo a quello arriva / la man, che ubbidisce all’intelletto». Cfr., su questo, Deborah Parker, Bronzino. Renaissance painter as a poet, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2000, p. 95.
50 Si tratta di uno fra i numerosi tentativi che, a partire dal 1546 e fino all’inizio degli anni sessanta del secolo, il signore di Firenze mette in atto per cercare di convincere Michelangelo a tornare a Firenze. Obiettivo di Cosimo, che contatta Buonarroti in prima persona o per il tramite di funzionari di corte e artisti, è far sovrintendere al Buonarroti i lavori relativi alla facciata della chiesa di San Lorenzo e alla scala del ricetto della Biblioteca Laurenziana, ma anche fare di lui la punta di diamante della politica culturale del ducato. Si veda su questo il commento della Barocchi in Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, cit., pp. 1598-1614.
51 Carteggio di Michelangelo, cit., V, pp. 18-20: «Orsù [...] conoscete ’l cuor mio, che sempre in fronte ve l’ha mostro, et adesso più che mai desidero non la grandezza vostra, che non può più alzarsi, ma un contento solo, che la vostra anima insieme col corpo, innanzi che vadi a rivedere quelle anime famose che fanno ornamento al celo, così come l’opere sante feciono in vita, dia di sé una veduta a quest’almo paese. Perché, oltre che ’l Duca non desidera altro che godere de’ vostri ragionamenti e consigli, senza affaticarvi nell’opere, gioveresti non poco a Sua E(ccellentia) [...]. Et quello che io stimerei è che [...] la crudeltà usata alle vostre fatiche nella fabbrica mi fa esser ardito a pregarvi che vi leviate dinanzi a chi non vi conosce. Può essere che la Signoria Vostra che ha liberato San Pietro dalle mani de’ ladri e degl’assassini et ridotto quel che era imperfetto a perfettione, habbi a far questo [...]. Hora, signor mio caro, restringete voi stesso in voi medesimo et contentate chi ha voglia di farvi utile et honore. Date il resto del riposo a coteste ossa honorate a quella città che vi diede l’essere. Fuggite l’avara Babillonia, ché il Petrarca, vostro cittadino, oppresso da simile ingratitudine, elesse la pace di Padova; come io vi prometto, harete quella di Firenze, se fuggite a chi correte dreto».
52 Ibid., p. 21. Si legga, in relazione alla lettera (riportata, assieme alla lirica, dal pittore aretino nella Vita giuntina del Buonarroti), il commento della Barocchi in Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, cit., p. 1607: «Evidentemente il B. insiste sulla propria “pazzia”, cioè sulla propria libertà di giudizio e di azione, per sottrarsi alle angustie della corte fiorentina; e allo stesso fine ironizza sul proprio desiderio di rimpatrio, collocandolo in una prospettiva post mortem».
53 A proposito della tipologia dell’autoritratto comico nella poesia burlesca del Cinquecento si rimanda alla classica riflessione di Silvia Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, pp. 113-137; per un inquadramento delle matrici del genere, si veda in modo particolare Paolo Orvieto e Lucia Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, 127-146, 199-217 e passim. Antonio Corsaro (Michelangelo, il comico e la malinconia, in Id., La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Manziana, Vecchiarelli, 1999, pp. 115-133) offre una illuminante disamina della declinazione michelangiolesca del genere, per cui vd. anche Romei, «Bernismo» di Michelangelo, cit., pp. 322-327.
54 Il tratto può essere forse messo in relazione con l’ironia con cui Berni aveva trattato il tema del furor poetico nel Dialogo contra i poeti, laddove il personaggio del Sanga argomentava che gli esponenti di quella categoria professionale «tengono per niente, anzi hanno piacere d’esser detti» pazzi: Francesco Berni, Poesie e prose, a cura di Ezio Chiòrboli, 1934, p. 269.
55 Michelangelo, Rime e lettere, cit., Rime comiche, d’occasione e di corrispondenza, n. 1, vv. 18-20: «La mia pittura morta / difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore, / non sendo in loco bon, né io pittore».
56 Cfr. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, cit., pp. 1691-1692.
57 Michelangelo, Rime e lettere, cit., Rime spirituali e religiose, n. 8.
58 Il dato risulta tutt’altro che sorprendente, se si considera che tanto la poesia responsiva quanto la lettera che originariamente la accompagnava (oggi perduta) vengono composte su istanza dello stesso duca Cosimo. Si veda Le Vite de’ più eccellenti pittori, cit., II, p. 763: «Fu risposto per ordine del Duca Cosimo a Michelagnolo dal Vasari con poche parole in una lettera confortandolo al rimpatriarsi, et col sonetto medesimo corrispondente alle rime».
59 Testo tratto da Giorgio Vasari, Poesie, a cura di Enrico Mattioda, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, p. 65.
60 Cfr. la già menzionata lettera vasariana del 20 agosto 1554 (Carteggio di Michelangelo, cit., V, p. 20), laddove lo scenario fiorentino di celeste armonia e giustizia viene esplicitamente messo in relazione all’operato di Cosimo: «credo certo che, camminando in qua, vi parrà accostarvi al paradiso. Et se l’altrui malignità vi dicesse che qua sono le tenebre et gl’orrori ne’ popoli, rispondo che sono per quelli che non amano la giustitia et la pace et che cercano l’odio e ’l tradimento fino in casa di Satanasso; ma coloro che vanno per la via della virtù, vivendo in grazia di questo principe, vivano ancora in gratia d’Iddio. Et ciò n’è cagione l’haverlo fatto Duca Lui però egli Lo guarda, ei combatte et vince per Esso». Si veda anche la lettera dell’8 maggio 1557 (ibid., pp. 98-99): «il Duca nostro [...] stasera mi ha detto che vi scrive, et che io accompagni la sua con assicurarvi che, ogni cosa che sarà da lei desiderata, per compiacervi Sua Eccellenzia sempre ve ne sarà largo [...]. Et perché so che lui vi ama, vi adora et vi desidera, farò fine, dicendovi che, se alla vostr’anima Iddio ha preparato il paradiso, la partenza di costì nel venir qua sarà il modello, perché sì alla salute del corpo, che sarà con qualche miglior governo, sì a quella della quiete, ci sarà i comodi della villa o di que’ luoghi solitari secondo il gusto suo. Se amerete il commertio, il medesimo. Et perché qua ogniuno al nome vostro si rallegra et si contenta, quanto maggiormente la Signoria Vostra risolva il venir suo!».
61 Vedi commento a Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, cit., pp. 1690-1691.
62 A tal proposito, cfr. il commento a Vasari, Poesie, cit., ad es. pp. 39-40, laddove si mette convincentemente in relazione l’utilizzo del sintagma «donna gradita» nel sonetto Questo si dona a voi, donna gradita, con il verso 10 del madrigale michelangiolesco Non pur d’argento o d’oro, «Alta donna e gradita». La coincidenza sintagmatica viene da Mattioda assunta, accanto ad altre considerazioni, quale prova a sostegno della proposta di identificare la destinataria della poesia vasariana con Vittoria Colonna, dedicataria anche del testo del Buonarroti.
63 Si vedano le notazioni in merito nei cappelli introduttivi e nelle note esegetiche del volume Benvenuto Cellini, Rime, edizione critica e commento a cura di Diletta Gamberini, Firenze, Sef, 2014.
64 Lo documenta la lettera celliniana al Buonarroti del 14 marzo 1560 (Carteggio di Michelangelo, cit., V, pp. 208-209), rimasta senza risposta: «Con molto mio maraviglioso piacere intesi alli passati giorni come per certo voi venivi a rimpatriarvi, che tutta questa città pur grandemente lo desidera, e maggiormente questo nostro gloriosissimo Duca, il quali si è tanto amatore delle mirabil virtù vostre et è il più benignio et il più cortese Signiore che mai formassi et portassi la terra. Dhè, venite hormai a finire questi vostri felici anni innella patria vostra con tanta pacie e con tanta vostra gloria! Se bene io ne ò riceuto qualche stranezza da il ditto mio Signiore, le quali mi è parso di ricevere a gran torto, per certo cognioscho questo nonn.essere stato causa né di Sua Eccellentia illustrissima, né mancho mia: e che questo sia il vero le dico per certo, che mai non fu huomo in sua patria piu cordialmente amato che sono io, et il simile in questa mirabilissima corte. E questo dispiacere che mi viene senza causa, tutto si vede lo essere potenzia di qualche malignia stella, alla qual potenzia io non cognioscho altro remedio che il rimettersi i[n t]utto innel vero et immortal Iddio».
65 Il volume di Loretta Cammarella Falsitta e Alessandro Falsitta, Cellini, Bandinelli, Ammannati: la Fontana del Nettuno in piazza della Signoria a Firenze, Milano, Skira, 2009 offre una puntuale ricostruzione della vicenda.
66 Vedi Cellini, Rime, cit., n. 62, cui si rimanda per un inquadramento e un commento più puntuale ai versi in esame.
67 Vedi supra: «voi direte ben che io sie vechio e pazzo a vole’ far sonecti; ma perché molti dicono ch’i’ son rinbanbito, ò voluto far l’uficio mio».
68 Cellini, Rime, cit., n. 25, vv. 1-10.
69 A tal proposito, si vedano gli studi citati supra, n. 52.
70 Si veda il testo in Poesia italiana. Il Cinquecento, a cura di Giulio Ferroni, Milano, Garzanti, 1978, pp. 375-376.
71 La studiosa è stata la prima, a mia conoscenza, a rilevare l’affinità fra il v. 10 del sonetto celliniano e il v. 22 del capitolo michelangiolesco, parlando a tal proposito di un «evidente contagio poetico»: vedi Gerarda Stimato, Autoritratti letterari nella Firenze di Cosimo I: Bandinelli, Vasari, Cellini e Pontormo, Bologna, Bononia University Press, 2008, p. 64.
72 Il capitolo è attestato, in forma non autografa, dal solo codice XIV, parte II dell’Archivio Buonarroti, assemblato da Donato Giannotti e contenente una selezione di testi perlopiù destinati a confluire nella Silloge. Vedi Michelangelo, Rime e lettere, cit., p. 284.
73 La corrispondenza epistolare è testimoniata unicamente dall’autobiografia celliniana. Si veda Benvenuto Cellini, La Vita, a cura di Lorenzo Bellotto, Parma, Guanda / Fondazione Bembo, 1996, pp. 678-680: «Subito partito che ’l detto Michelagnolo si fu di casa ’l detto Bindo, ei mi scrisse una piacevolissima lettera [...]. Questa lettera si era piena delle più amorevol parole e delle più favorevole inverso di me: che innanzi che io mi partissi per andare a Roma, l’avevo mostrata al Duca, il quale la lesse con molta affezione, et mi disse: “Benvenuto, se tu gli scrivi et faccendogli venir voglia di tornarsene a Firenze, io lo farei de’ Quarantotto”. Così io gli scrissi una lettera tanta amorevole, e inn-essa gli dicevo da parte del Duca più l’un cento di quello che io avevo aùto la commessione; e per non voler fare errore, la mostrai al Duca in prima che io la suggellassi, e dissi a Sua Eccellenzia illustrissima: “Signore, io ho forse promessogli troppo”. Ei rispose e disse: “E’ merita più di quello che tu gli hai promesso, e io gliele atterrò da vantaggio”. A quella mia lettera Michelagnolo non fece mai risposta, per la qual cosa il Duca mi si mostrò molto sdegnato seco». L’incontro romano fra Cellini e Buonarroti è così descritto poco oltre, pp. 681-682: «Andai a trovare Michelagnolo Buonaroti e gli replicai quella lettera che di Firenze io gli avevo scritto da parte del Duca. Egli mi rispose che era inpiegato nella fabbrica di San Piero, et che per cotal causa ei non si poteva partire. Allora io gli dissi, che da poi che e’ s’era resoluto al modello di detta fabbrica, che ei poteva lasciare il suo Urbino, il quale ubbidirebbe benissimo quando lui gli ordinassi; et aggiunsi molte altre parole di promesse; dicendogliele da.pparte del Duca. Egli subito mi guardò fiso, e sogghignando disse: “Et voi come state contento seco?” Se bene io dissi che stavo contentissimo, et che io ero molto ben tratto, ei mostrò di sapere la maggior parte dei mia dispiaceri; et così mi rispose che e’ gli sarebbe dificile il potersi partire. Allora io aggiunsi che ei farebbe ’l meglio a tornare alla sua patria, la quale era governata da un Signore giustissimo et il più amatore delle virtute che mai altro Signore che mai nascessi al mondo». La cronologia e il contesto del viaggio romano del Cellini sono stati chiariti, sulla base di solide evidenze documentarie, da Dimitrios Zikos, Il busto di Bindo Altoviti realizzato da Benvenuto Cellini e i suoi antecedenti, in Alan Chong, Donatella Pegazzano, Dimitrios Zikos (a cura di), Ritratto di un banchiere del Rinascimento. Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, Milano, Electa, 2004, pp. 133-172: 133-138.
74 Citazioni tratte da Romei, «Bernismo» di Michelangelo, cit., pp. 324 e 322. Romei individua appunto la nota più originale della produzione burlesca di Michelangelo in questa «poesia del disagio, del malessere, della crisi», lontana dunque dalle tonalità «del gioco, dello svago, della vacanza» (ibid., p. 321). Sul legame, nel capitolo del Buonarroti, fra «degradazione fisica dell’io-che-scrive» e «degradazione morale e spirituale sotto la fattispecie della crisi artistica» insiste poi Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, cit., p. 120.
75 Michelangelo 2016, Rime comiche, d’occasione e di corrispondenza, cap. 13, v. 2: «da la sua scorza, qua, pover e solo».
76 Ibid. vv. 49-55.
77 Ibid. v. 22. All’origine di entrambi i versi si situa il v. 17 del Sonetto in descrizion d’una badia del Berni (Rime, cit., XXXIV): «sdruscito, fesso, scassinato e rotto», dove però ad essere designato non è lo sfacelo fisico e spirituale di un essere umano, quanto lo stato di rovina in cui versa il campanile della badia in questione.
78 Cfr. rispettivamente Francesco Petrarca, Trionfi, a cura di Guido Bezzola, Milano, BUR, 2014, Tr. Pud., vv. 133-135: «[...] queste gli strali / avean spezzato e la faretra a lato / a quel protervo, e spennachiato l’ali» e Michelangelo 2016, Rime comiche, d’occasione e di corrispondenza, cap. 13, v. 33.
79 Cfr. ibid. cap. 11, v. 46-48: «Mentre la scrivo a verso a verso, rosso / divengo assai, pensando a cui la mando, / sendo il mio non professo, goffo e grosso».