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Poesia ed evangelismo tra Italia e Francia: Luigi Alamanni, Antonio Caracciolo e Antonio Brucioli
Negli ultimi decenni gli studi sulla vita religiosa italiana del Cinquecento hanno molto insistito sul concetto di una riforma italiana», originale e autonoma rispetto alla Riforma tedesca, svizzera e ginevrina. È stata messa in luce la creatività di tali slanci riformatori, frutto di molteplici influenze, erasmiane, luterane, calviniste ma anche e soprattutto valdesiane; è statodunque possibile ricostituire la genesi del dissenso religioso nella penisola sottolineando l’apporto decisivo del pensiero di Juan de Valdés, e attraverso di lui, della cultura spirituale proveniente dalla penisola iberica, fortemente segnata da matrici alumbrade. Per molti versi convincente e fondata sull’apporto di documentazione inedita, tale interpretazione – come è ovvio – non esaurisce il discorso sulla genesi del dissenso religioso nella penisola e mal si presta a fornire un’interpretazione univoca e omnicomprensiva del fenomeno.1 Troppi percorsi di uomini e di testi, anch’essi portatori di istanze riformatrici interne o esterne alla Chiesa romana, restano infatti ai margini della tesi valdesiana e non trovano in quel mondo né le loro matrici né i loro approdi. Occorre in tal senso tener presente che l’Italia del primo Cinquecento prima di diventare l’«Italia dell’imperatore» – secondo l’efficace definizione di Elena Bonora 2– era stata una preda contesa, sulla quale si era avventato con eguale ardore anche l’altro grande protagonista della politica europea dell’epoca, Francesco I di Valois. La presenza militare, diplomatica e di conseguenza anche culturale della monarchia francese era stata per decenni tutt’altro che trascurabile; non stupisce perciò che anche in tale direzione occorra guardare per comprendere in maniera più equilibrata la storia della vita religiosa italiana di quella stagione. Le esperienze politiche e religiose del patrizio genovese Federico Fregoso, per alcuni anni in esilio alla corte del re, e del veronese Ludovico di Canossa, prima nunzio dei Medici e poi ambasciatore di Francesco I a Venezia, entrambi tornati in Italia arricchiti dal significativo incontro con l’evangelismo di Jacques Lefèvre d’Étaples e Margherita di Navarra, hanno consentito di osservare una realtà più complessa di influenze incrociate tra la Francia e l’Italia sul piano spirituale e pastorale.3 Nella stessa direzione sembrano portare anche i più recenti studi dedicati a Vittoria Colonna, la cui esclusiva partecipazione alla cerchia valdesiana pare essere stata correttamente rimessa in discussione in favore di un’interpretazione capace di tenere conto di influenze molteplici.4 In questa sede ci si propone di tornare sull’intricata questione dei rapporti tra Italia e Francia attraverso l’analisi di tre figure rilevanti della vita culturale e religiosa dell’epoca, due letterati fiorentini, Luigi Alamanni e Antonio Brucioli, e un napoletano, Antonio Caracciolo, di cui si intende sottolineare l’impronta francese nel loro percorso di accostamento e poi di piena partecipazione alla crisi religiosa europea. Si tratta di casi diversi rispetto a quelli di letterati e umanisti in odor di eresia al centro degli studi cantimoriani, nella misura in cui la loro traiettoria porta dall’Italia delle corti del Rinascimento alla corte del re di Francia, tra alti dignitari, vescovi e cardinali, piuttosto che tra esuli disperati e perseguitati, e il loro esilio oltralpe dipende da motivazioni di ordine politico prima ancora che religioso. Benché secondo prospettive differenti, Alamanni, Brucioli e Caracciolo ebbero ciascuno a suo modo un ruolo di mediazione tutt’altro che trascurabile nella circolazione europea di modelli letterari e di istanze spirituali, in un senso come nell’altro, a cavallo delle Alpi, e meritano perciò che si torni a guardare un po’ più da vicino alle loro vicende umane, letterarie e religiose. Quel che affiora è il quadro di una spiritualità evangelica irriducibile alla tradizionale opposizione tra cattolici e protestanti, che trovò per alcuni decenni nelle più alte cerchie del potere monarchico francese protezione e accoglienza.
Luigi Alamanni alla corte di Margherita
L’esperienza francese di Luigi Alamanni cominciò con una fuga rocambolesca a seguito della scoperta di una congiura antimedicea nella primavera del 1522. A tradire Alamanni e i suoi complici erano state le rivelazioni di Francesco da Asti, un corriere che faceva la spola tra la Firenze dei congiurati antimedicei e la corte del re di Francia, intercettato il 22 maggio 1522. Molte delle lettere sequestrategli appartenevano a Battista della Palla, figura di spicco del partito antimediceo, fin dall’anno precedente recatosi alla corte di Francesco I per ottenere l’appoggio francese alla causa, facendo da tramite tra i cospiratori e i fiorentini in esilio, capeggiati da Giuliano Soderini, vescovo di Saintes. Da Venezia, dove si rifugiarono in un primo tempo, Alamanni e i suoi due compagni di sventura, Zanobi Buondelmonti e Antonio Brucioli, si rivolsero proprio al della Palla, ricevendo in cambio l’invito a raggiungerlo a Lione,5 dove i tre fiorentini giunsero il 20 agosto senza trovarvi il loro interlocutore. Dopo aver sollecitato più volte il della Palla a venire loro incontro, il Buondelmonti e l’Alamanni ottennero dal sovrano istruzioni per una missione in Italia, ma sulla strada nei pressi di Ginevra vennero arrestati e rilasciati soltanto dopo alcuni mesi grazie all’interessamento della duchessa Margherita d’Angoulême (più tardi regina di Navarra) e al pagamento di un forte riscatto da parte di un ricco mercante fiorentino insediatosi in Francia, Roberto degli Albizzi.6 Il 21 dicembre i due fecero ritorno a Lione, donde si rivolsero ancora al della Palla per ringraziarlo del suo impegno in loro favore e perché
ci rachomandiate alla Maestà del re, et a madama la duchessa, la quale intendiamo quanto chaldamente sia stata sollecita della nostra liberatione.7
Nel gennaio 1523 il Buondelmonti e l’Alamanni decisero di raggiungere il della Palla a corte, nei pressi di Parigi, dove li aveva preceduti di qualche mese il Brucioli e dove ritrovarono anche i due esuli genovesi Federico Fregoso e Benedetto Tagliacarne detto Teocreno. Il 1° agosto essi si unirono al connestabile di Francia Anne de Montmorency che, dopo essere passato da Lione, si dirigeva a Venezia per stipulare accordi in funzione antiimperiale8; tuttavia anche questo secondo tentativo di assumere un ruolo politico di qualche peso nella riconquista del nord Italia a fianco delle truppe francesi non fu coronato dal successo, e a dicembre i due chiesero al sovrano di potersi congedare dagli impegni politici.9 Trascorsi alcuni mesi tra Avignone, Marsiglia, Orson e Lambesc, essi si stabilirono ad Aix-en-Provence in casa di Giuliano Buonaccorsi, tesoriere di Provenza molto legato al della Palla. La lontananza dalle armi non fu lunga, dal momento che già nell’agosto, tornati a Lione dove si era trasferita la corte regia, essi chiesero di potersi unire alla flotta che il Fregoso e Andrea Doria stavano allestendo a Nizza, con l’ambizione di salpare alla riconquista di Genova,10 ma Francesco I preferì invece adoperarli in Piemonte, dove rimasero fino al gennaio del 1525.11 Quando il re fu catturato a Pavia, il Buondelmonti rimase ad Aix, mentre l’Alamanni accompagnò con ogni probabilità Margherita in Spagna;12 la sua vicinanza alla famiglia reale pare confermata dalla traduzione che il re in persona durante la prigionia volle dare di un’egloga dell’Alamanni.13 In seguito riprese a partecipare alle operazioni militari a fianco del Doria. Proprio durante una di queste missioni il poeta fiorentino cadde gravemente malato al punto da rischiare la morte, come avrebbe più tardi ricordato nelle sue opere.14
Nella corrispondenza di questi primi anni di esilio non mancano gli accenni alla situazione creatasi in Germania dopo la sfida lanciata da Lutero: il 22 maggio 1523, ad esempio, l’Alamanni riferiva al della Palla alcune notizie avute sull’eventuale convocazione di un concilio universale, «dove così fra Martino come il papa possa dire le sue ragione»,15 oppure il 20 gennaio dell’anno successivo non sapeva dire quel che «questi tempi nuovi doverranno portare o di guerre o di pace o diluvii, Turchi et Luterii et altre diavolerie»,16 o ancora quando si mostrava critico nei confronti di Clemente VII, minacciato da «Lutherio» e dal «Turcho», «le quali due cose, et non pichole, soprastanno alla Chiesa di Roma, per cadergli adosso di giorno in giorno».17 A quella data l’interesse per le vicende religiose rimaneva però confinato a una dimensione politica ed era legato a una lettura degli eventi in chiave antimedicea. La frequentazione di ferventi savonaroliani come il domenicano Sante Pagnini e il della Palla tuttavia dovette progressivamente avvicinare l’Alamanni e il Buondelmonti a una sensibilità apocalittica e profetica.18 L’8 ottobre 1524 da Lione i due raccontavano per iscritto al della Palla di un evento accaduto a Roma che aveva suscitato aspettative tra gli esuli fiorentini:
Dicesi che in Roma, a dì ventisei di questo, fu visto in Roma cadere uno fuoco grande di cielo sopra la torre di San Niccola, et hessene molto parlato; et in somma gli astrologi si risolvono, che in questo anno debba morire uno de’ tre principi. Ma noi pensiamo che più tosto significhi morte in questo anno di tre papi. Questo fu scritto da uno franzese a Tommaso Guadagni. [...] Il fuoco che io dico che cadde sopra la torre di San Niccola, quando fu vicino a terra si divise in tre parti; et per questo dicono morte di uno de’ tre.19
Ad Avignone d’altra parte nel gennaio precedente i due avevano assistito alla predica di un frate domenicano legato al Pagnini, che in occasione dell’elezione di Clemente VII aveva annunciato che «Tolomeo, calculando questi tempi, dice precisamente in questo anno doversi mutare tutto il culto degli dii», «il che – aggiungeva sarcastico l’Alamanni – se fussi in meglio, non sarebbe da dispiacere punto». Giàdurante le pause tra una campagna militare e l’altra essi avevano avuto occasione di frequentare l’entourage fabrista della duchessa d’Angoulême, alla quale non facevano mai mancare i loro saluti, e l’ambiente savonaroliano dei fiorentini e lucchesi presenti a Lione. Fu tuttavia necessario un evento traumatico per orientare più nettamente gli interessi del poeta toscano verso le questioni religiose. Il primo giorno del 1526, dedicando a Bernardo Altoviti i suoi sette salmi penitenziali, lo stesso Alamanni individuava nitidamente il momento di svolta nella malattia che lo aveva assalito durante una navigazione:
Il più delle volte, Bernardo mio honorando, suole advenire che si come le battiture rendono più ubbidiente il cane al suo signore, cotale le infirmità del corpo più fanno gli huomini obsequenti verso il comune creatore di tutte le cose, e de’ lor commessi falli più dolenti. Io che nel passato ottobre mi trovai sopra il mare non lunge a’ toscani liti, intra l’Elba e ’l Giglio, oppresso da così perigliosa et acuta malattia che vidi la morte in volto, et fino all’uscio corsi del suo albergo il quale advenga che chiuso trovassi, sono non per tanto restato da poi per tal maniera admonito di quanta sia la fragilità delle cose umane et di quanto poco sia quello che ne possa fare et perdere et recuperare la beatitudine del cielo, che meco medesimo nello advenire deliberai che non pur la morte, come in quel tempo, ma nullo altro quantunque minimo accidente mi potesse trovare non optimamente apparecchiato a lasciar questa sempre per miglior vita. Perché non ben fermo anchor nella santità prima, mi misi con quella più divotion che Dio mi diede a scrivere i presenti Salmi penitenziali.20
Le meditazioni sui salmi penitenziali, edite al fondo delle sue Opere toscane a Lione nel 1532, insistevano sul tema dei peccati commessi dal poeta, che per anni aveva confidato in valori tutti terreni, quali l’amore, la ricchezza, la gloria, ma che ora mostrava pentimento, invocando il perdono della grazia divina.21 Ne emerge una spiritualità incentrata su un dialogo personale con il creatore e sulla convinzione dell’impotenza radicale dell’uomo ad elevarsi dal fango senza il soccorso dello Spirito Santo.22 Come fu per l’arcivescovo di Salerno Federico Fregoso, sotto la cui guida trascorse una parte di quegli anni in terra straniera, la condizione di esiliato, bandito dalla propria patria e privato di tutti i suoi beni, mise l’Alamanni in una situazione di solitudine e fragilità,23 dalla quale scaturì il disperato appello a Dio a non
torcer dal mio pregar la fronte pia,
ond’io spero di gir di gratia adorno,
senza la qual fatta è la vita mia
quasi herba in prato dalla falce ancisa.24
La fede assoluta nel «divin nocchiero» e la contrizione del cuore appaiono sufficienti al poeta per raggiungere il regno dei cieli, convinzioni alle quali si congiunge un sostanziale disprezzo nei confronti delle opere umane e una totale fiducia nella pietà e nella misericordia del Signore.25 Accenni alla svolta religiosa del poeta traspaiono anche da altri componimenti delle Opere toscane: se le cinque elegie dedicate alla Vergine, alla «Annuntiatione», alla «Natività», alla «Passione», alla «Resurressione» appaiono tradizionali e poco significative per il nostro discorso,26 l’egloga pastorale sul giorno di Natale lascia trasparire un maggior coinvolgimento spirituale del poeta, che sottolinea a più riprese la nullità dell’uomo e l’assoluta centralità di Cristo nel processo di salvezza.27 Allo stesso modo i versi conclusivi del sonetto alla «ligure planta», l’amata Batina Larcara Spinola, si colorano di inquietudini spirituali, che per molti aspetti paiono richiamare gli scritti di Margherita di Navarra: confessatosi «picciol verme et largo peccatore», benché sentendosi indegno, il poeta supplica Cristo di concedergli
il pane e ’l vin, ch’à tuoi più fidi eletti,
di tua man desti nella estrema cena,
per haver meco il pretioso pegnio
d’esser l’un di color, che ’n cielo aspetti,
et del cui vaneggiar portasti pena.28
Al di là del loro contenuto spirituale, tali componimenti consentono anche di ricostituire la rete di amicizie e frequentazioni del poeta nei primi anni di esilio. Il destinatario, Bernardo Altoviti, era un ricco mercante fiorentino, il cui padre Giovanni si era stabilito a Lione, ben inserito nella colonia degli esuli italiani,29 all’interno della quale trovarono ospitalità anche i congiurati antimedicei. L’Alamanni fu, infatti, ospite sia ad Avignone sia a Lione di Tommaso Guadagni che in quegli anni finanziò la stampa delle opere dell’ebraista Pagnini, e mostrò un vivo interesse per i segni apocalittici provenienti da Roma, a conferma della sua partecipazione a quel clima culturale. Attraverso l’analisi dei destinatari delle satire del poeta toscano, composte anch’esse in quegli anni, è possibile ripercorrere la trama di relazioni che egli instaurò nella città francese: vi compaiono oltre a Francesco I e ai suoi due punti di riferimento a corte, il Soderini e il Buonaccorsi, i principali esponenti del mondo fiorentino lionese, dal Brucioli ad Albizzo del Bene, da Tommaso Guadagni a Tommaso Sertini.30 Particolarmente interessante è la dodicesima satira dedicata a «tutte le potenze politiche», nella quale l’Alamanni, dopo aver ricordato la Genova dei Fregoso,31 si scagliava contro la curia romana lasciando trasparire una certa simpatia per Lutero:
Et tu Roma ver me di sdegnio piena
cui tanto spesso ne miei versi appello,
[...] guardate pur che tra celesti throni,
sì rari i santi habbiam, sì pochi i buoni.
[...] Oh chi vedesse il ver, vedrebbe come
Più disnor tu, che ’l tuo Luther Martino
Porti a te stessa, e più gravose some.
Non la Germania no, ma l’ocio, il vino,
avaritia, ambition, lussuria, e gola
ti mena al fin, che già veggiam vicino.
Non pur questo dico io, non Francia sola,
non pur la Spagnia, tutta Italia anchora
che ti tien d’heresia, di vizi scuola.32
Gli studiosi hanno messo in evidenza il carattere aristocratico delle tredici satire, proprio di un intellettuale deraciné, diversamente dal modello di integrazione sociale del poeta proposto dall’Ariosto, e il loro riferimento classicista, nelle quali però insieme con un’eredità savonaroliana si ravvisa l’influenza di un filone fiorentino di riflessione religiosa che andava da Dante a Machiavelli.33 Indirizzata al Sertini, compagno di studi ebraici del Pagnini, la decima satira insisteva sul tema della fragilità dell’uomo, già presente nella dedica dei salmi penitenziali, e rivelava un pessimismo religioso pervaso di ostilità anticuriale: «Non sono in Roma, ove chi ’n Cristo creda /e non sappia falsar né far venen / convien ch’a casa sospirando rieda».34 Peraltro i suoi interessi religiosi trovavano conferma nella frequentazione della cerchia del Gryphe, sia durante il primo esilio, sia dopo il 1530 quando, fallito il tentativo di restaurare la repubblica in patria, l’Alamanni fece ritorno a Lione. Proprio presso lo stampatore tedesco pubblicò nel 1532 le sue Opere toscane, dedicate a Francesco I, che comprendevano gli scritti venuti alla luce nel corso del decennio precedente, e che vennero fatte bruciare da Clemente VII appena giunte a Roma.35 Fin dal suo primo soggiorno oltralpe, stando alla testimonianza letteraria dell’amico Brucioli, l’Alamanni ebbe l’occasione di incontrare personalmente il padre dell’evangelismo francese. Nel quinto libro dei suoi Dialogi pubblicati nel 1529 presso i fratelli da Sabbio, l’autore toscano faceva dire all’amico poeta:
Grande è per certo la potentia divina, et con mirabile sapientia queste cose mondane, et divine fuori del nostro sapere governa, et questa nuova meraviglia, che da hoggi si è vista, mi fa più verisimile quello che già in Francia vidi, et intesi, questo fu che trovandomi in Parigi, et desideroso di vedere Iacopo Fabro, honore della Philosophica disciplina, et delle sacre lettere Christiane, et di tutta la Francia unico ornamento, intendendo che quelli era a Miens città, dieci leghe franzesi lunge da Parigi, per andare là con un solo mio fante mi misi in via: et pel cammino mi accompagnai con uno gentil’homo franzese, che là anchora egli per questo medesimo affare andava.36
Nel prosieguo dello stesso passo viene poi raccontato l’incontro e lo scambio di battute tra il poeta fiorentino e un abate benedettino, nel quale si mescolano istanze di riforma della Chiesa, attese escatologiche di un imminente rinnovamento anche politico di Firenze, e riflessioni di sapore luterano sulla paternità di Dio.37 I Dialogi si configurano come un prezioso termometro dell’evoluzione spirituale dell’amico Alamanni, che proprio negli anni di esilio – ricordava il Brucioli in un altro passo – si volse alla poesia religiosa componendo «psalmi nella materna nostra lingua [...] molto nel vero dotti e leggiadri e con mirabile arte detti».38 D’altronde il milieu lionese forniva suggestioni continue provenienti dalle terre passate alla Riforma, nelle quali l’irrequieto Brucioli si era recato per incontrarvi tra gli altri Erasmo a Basilea già a metà degli anni Venti.39 I racconti entusiasti del Brucioli su quella realtà in piena espansione esercitarono un’indubbia fascinazione nell’Alamanni, come attesta la sua produzione letteraria e politica di quel periodo. Tornato in patria per la breve esperienza della Repubblica fiorentina, nel 1529 tenne un’orazione intrisa di riformismo cristiano e di suggestioni savonaroliane, nella quale, prendendo esplicitamente a modello l’organizzazione politica e sociale delle libere città svizzere,40 invitava i concittadini a non lasciarsi «vincere dalla soverchia voglia del possedere» e a
prender le pubbliche armi in mano per difesa della santa religione cristiana qualunque volta occorre, appresso della giustizia, della patria, della libertà, dello onore, dei parenti, de’ figliuoli e di sè medesimi.41
Fondate sulla convinzione che l’istituzione di una milizia cittadina potesse far superare l’egoismo e la brama di ricchezza, e condurre a una renovatio rerum dei costumi pubblici e privati,42 le parole dell’Alamanni sono da collocarsi all’interno di un clima generale instauratosi a Firenze, dove si sovrapponevano il riemergere di istanze piagnone, come la richiesta di revisione del processo al frate ferrarese, l’affermarsi di una prospettiva politico teologica, nella quale il popolo assumeva una missione divina e Cristo veniva proclamato re di Firenze, e il diffondersi di suggestioni di sapore riformato invocanti il ritorno all’austera vita cristiana delle origini.43 All’anno successivo risaliva un altro componimento dell’Alamanni, Il diluvio romano, sull’inondazione della valle Tiberina, interpretata come punizione nei confronti del papato mediceo,44 che presentava Francesco I come il vero salvatore dell’Italia, tradendo ancora una volta un’ispirazione fortemente critica nei confronti di un’istituzione ecclesiastica corrotta, venuta meno al suo compito.45 Il re di Francia assurge dunque anche al ruolo di restitutor fidei, secondo il concetto gallicano per il quale spettava al sovrano attuare una radicale riforma della Chiesa, e di campione cristiano in lotta contro il Turco.46 All’interno di questo quadro l’Alamanni introduce una breve descrizione della «pia sorella» di Francesco I
che la mente al cielo
tanto addrizza talhor ch’el mondo spregia,
quanta dolcezza havrà mirando l’arme
ch’andranno a vendicar chi salvò noi.47
Nel 1530 la caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno in città dei Medici, appoggiati dalle truppe imperiali, costrinsero l’Alamanni a ripercorrere lo stesso tragitto di otto anni prima, ritornando alla corte del sovrano francese, dopo essersi aperto la via attraverso la dedica di quattro suoi poemetti. Il secondo soggiorno oltralpe si rivelò più ricco di soddisfazioni e di ricompense, anche in virtù del rafforzarsi del legame con la sorella del sovrano, più volte ricordata nei componimenti poetici di quegli anni: a lei è dedicato il terzo inno del secondo volume delle Opere toscane, nel quale viene presentata, sulla scorta dell’immagine già abbozzata nel Diluvio di Roma, come creatura eterea, votata esclusivamente a questioni spirituali e al progetto di riforma della Chiesa. L’Alamanni ne esalta l’indifferenza nei confronti delle ricchezze e più in generale delle vicende umane, e ne valorizza in particolare l’umiltà, la fede, e la capacità di illuminare sui misteri della religione anche i suoi dotti interlocutori.48 Egli fu certamente tra i primi a presentare l’immagine eterea di una Margherita tutta rivolta a Dio, con espressioni di chiara ispirazione neo-platonica, e a ricordarla come autrice di versi sacri.49 Sulla presenza a corte dell’Alamanni e sulle sue frequentazioni fornisce notizie interessanti la prima Selva, composta tra il 1532 e il 1533, dopo la morte di Luisa di Savoia, nella quale egli passava in rassegna tutti i personaggi più in vista dell’entourage regio.50 Insieme con i grandi di Francia non mancava la menzione di «quell’alma Margherita / ov’ogni altra virtù congiunta insieme / s’ha fatto del suo cor perpetuo albergo», ma il poeta si soffermava in particolare sugli italiani, tra i quali spiccavano due compagni di esilio, anch’essi partecipi della cerchia evangelica della regina di Navarra, il ligure Giovan Gioachino da Passano («e ’l buon Gian Giovacchin ch’al pio signiore / e’ l parlar e l’oprar si charo face / che ’l nativo terren di lui s’addorna») e il Teocreno; a quest’ultimo l’Alamanni era particolarmente legato fin dai primi anni di esilio per via dei comuni interessi umanisti, come attesta peraltro l’ampio spazio concesso al suo ritratto incastonato in una rassegna dei massimi spiriti del Regno di Francia che comprendeva le due altre grandi figure dell’umanesimo d’oltralpe, Guillaume Budé e Giano Lascaris.51 Analogamente all’umanista di Sarzana l’Alamanni conobbe un indubbio successo in Francia, non soltanto in virtù delle importanti amicizie, ma anche per la capacità di giocare un ruolo di mediatore sul piano culturale e poetico tra il petrarchismo rinascimentale fiorentino e i milieux intellettuali di corte, e per la partecipazione in prima persona al progetto sostenuto da Francesco I di una riformulazione di «una cultura alta, linguisticamente centralizzata e formalmente autorevole».52
La vicinanza del poeta alla famiglia reale traspare anche da sonetti più intimi, dedicati alla morte di Luisa di Savoia, la madre del re,53 e alla malattia di Margherita, per la quale egli si rivolgeva direttamente a Dio, chiedendogli di volgere lo sguardo verso la Francia:
Ivi vedrai quell’alma Margherita
La regina d’ogni altra et di virtute,
che inferma et stanca sospirando giace.
Scenda in lei ratta la tua dolce aita,
dàlle con sanità et pace et salute
o, sommo creator, Signor verace.54
Nel corso degli anni Trenta il rapporto con la cerchia evangelica della regina di Navarra andò in effetti intensificandosi, e così il coinvolgimento dell’Alamanni nella diplomazia dei Valois, anche alla luce della sua vicinanza al cardinal Ippolito d’Este oltreché della sua collaborazione in quanto agente del re nella penisola con gli ambasciatori francesi a Venezia.55 Non è sorprendente perciò che proprio l’Alamanni, poeta e compagno di fede di Margherita, venisse individuato nel 1540 quale intermediario privilegiato con gli ambienti evangelici della penisola, in particolare con Vittoria Colonna, alla quale consegnò le lettere di Margherita in una delle sue missioni italiane.56 Sempre nell’ottica dei contatti religiosi tra Italia e Francia è significativa l’amicizia tra il poeta toscano e Pier Paolo Vergerio, che l’Alamanni introdusse al cospetto della regina di Navarra, come questi segnalò una volta giunto a corte nel mese di giugno 1540:
Né la signora marchesa di Pescara, né la Signoria Vostra che sapete tanto bene tutti due in vive voci e tanto bene nei scritti vostri dir ciò che volete, né il cardinal nostro illustrissimo, né tutta Roma, predicandomi l’altezza e la bellezza dell’animo e dell’ingegno, e il fervor dello spirito acceso in Cristo, e la carità ardente della serenissima regina di Navarra, me ne avete saputo dir tanto quanto io nel vero ho trovato ieri, che Sua Maestà degnò di fare che io udissi un pezzo quelle sue rare voci.57
Nel prosieguo della lettera il vescovo esaltava le virtù della regina, paragonata a un lume «suscitato in questa età nostra piena di errori e di tenebre» da Dio, capace di rischiarare il «buon sentiero» ai fedeli in cerca di verità. Il fatto che essa fosse indirizzata al poeta toscano pare fornire una precisa indicazione sugli interessi religiosi che ormai da anni lo animavano a contatto con l’ambiente fabrista. Nell’ultimo decennio di regno Francesco I adoperò frequentemente l’Alamanni in delicate missioni diplomatiche nella penisola: a Venezia il poeta cortigiano collaborò con il Da Passano e con una «creatura» di Margherita, Georges d’Armagnac, ambasciatore del re in laguna e poi a Roma, per l’organizzazione dell’opposizione antimedicea. I repubblicani fiorentini legati a Filippo Strozzi lo consideravano allora uno dei più preziosi intermediari con la corte di Francia, a riprova del fatto che anche negli anni del maggior prestigio letterario egli non perse il gusto e la passione per le vicende politiche.58 Nei primi mesi del 1541 sempre il poeta toscano partecipò con Guillaume Pellicier, nuovo rappresentante dei Valois a Venezia, all’avvio di trattative segrete tra il Turco e la Serenissima.59
Il dato tuttavia più interessante è la partecipazione dell’Alamanni alla cerchia romana del gruppo di cardinali raccoltosi attorno al veneziano Contarini, soliti discutere con ammirazione di Margherita.60 La consonanza spirituale tra quegli uomini e la rete evangelica della sorella di Francesco I si arricchisce così di un ulteriore elemento di mediazione, oltre a quello epistolare tra la Colonna e la regina di Navarra e quello personale del Vergerio;61 significativa in questa chiave appare la presenza dell’Alamanni, insieme con il cardinal Ippolito d’Este, uomo molto vicino al sovrano e a sua sorella Margherita e a più riprese sfiorato da accuse di eterodossia,62 durante la quaresima del 1540 a Napoli, quando si diedero appuntamento alle pendici del Vesuvio uomini provenienti da tutta Italia per assistere alla predicazione di Bernardino Ochino.63 Accanto ai numerosi valdesiani compariva dunque anche un esponente dell’evangelismo fabrista, che l’anno successivo trascorse la Pasqua invece a Ferrara, presso Renata di Francia.64 Fu probabilmente in quei mesi che si intensificò il rapporto di amicizia con una figura di primissimo piano della galassia valdesiana, Pietro Carnesecchi, che molti anni più tardi dinanzi agli inquisitori ricordò di esser stato suo «amicissimo»,65 e di averlo conosciuto «primieramente qui in Roma ne l’anno 1539, essendo egli venuto di Francia in compagnia del cardinale di Ferrara»,66 e poi di averlo nuovamente frequentato alla corte di Francia.67 Anche se a un’esplicita domanda degli inquisitori sulle convinzioni spirituali dell’Alamanni il Carnesecchi rispose in maniera reticente,68 resta il fatto che fu proprio il figlio dell’Alamanni, Giovanni Battista, divenuto vescovo di Maçon, elemosiniere e uomo di fiducia di Caterina de’ Medici, a intervenire per conto della nuova regina presso Pio IV in favore del protonotario fiorentino, accusato di eresia sotto il pontificato di Paolo IV.69
A Caterina, nonostante la giovanile ostilità nei confronti della famiglia Medici, si legò lo stesso Luigi Alamanni, che nel 1544 ne divenne «maître d’hôtel», che ne sposò una dama di corte, Maddalena Bonaiuti, e che nel 1546 scelse di indirizzarle la sua Coltivazione;70 la lettera di dedica consente di istituire quasi un passaggio di consegne – o almeno così lo interpretò il fiorentino – tra la regina di Navarra e la nuova regina di Francia come protettrice di artisti, poeti, esuli, e probabilmente anche credenti sul crinale dell’eresia. Non a caso proprio alle qualità spirituali della sorella di Francesco I alludeva ancora una volta l’Alamanni:
Ho tanta fede nel celeste valor, dottrina e benignità della vostra cogniata realissima Madama Margherita, che come da aguta conoscitrice e pia difenditrice di tutti i poeti e di chiunque altro che cerchi d’illustrar il presente suo secolo con gli scritti mi sarà per sua opera da voi due e da tutto il mondo pienamente impetrato.71
Del legame stretto con la famiglia Alamanni si hanno numerose testimonianze nella corrispondenza di Caterina, che oltre a Luigi – definito in una lettera al duca di Firenze del 1550 «bon et loyal serviteur»72 di cui non potrebbe privarsi – ricorrono i figli Niccolò, gentiluomo al servizio dei Valois,73 e appunto Giovanni Battista. Proprio in favore della carriera ecclesiastica di quest’ultimo la regina si spese a più riprese. Ancora nel 1572 ella si rivolse all’ambasciatore di Francia a Roma per caldeggiarne presso il pontefice la promozione cardinalizia, ricordando «les longs et agreables services que luy et les siens ont faict des long temps à ceste couronne et à moy en particulier».74
Da poeta repubblicano a poeta cortigiano, l’Alamanni seppe nell’arco di un ventennio rimanere fedele non soltanto alla causa dei Valois, ma soprattutto a quelle istanze di rinnovamento della vita religiosa a cui si era avvicinato all’inizio degli anni Venti durante il suo primo esilio a Lione e nel Sud della Francia.75 Come lui molti altri italiani in Francia, tra i quali merita menzionare in questa sede almeno Bartolomeo Panciatichi, figlio di un ricco mercante fiorentino, cresciuto nella cerchia di Margherita e approdato in seguito a posizioni spirituali al di là dell’ortodossia, come attestano le accuse a cui fu sottoposto al suo rientro in Italia negli anni Cinquanta. Tracce del suo percorso di fede verso il dissenso religioso e delle sue convinzioni spirituali si possono scorgere, oltreché tra le carte processuali, in alcuni suoi componimenti poetici più tardi nei quali riaffiorano un linguaggio e posizioni dottrinali sfumate, pienamente conformi allo stile dei principali testi dell’evangelismo italiano e francese. Basti segnalare l’insistenza sulla «dolcezza» e «clemenza» divina, sulla «fede viva», sul «largo perdono» e «celeste dono» offerti dal cielo, oltreché sulla dottrina della giustificazione per sola fede a cui allude chiaramente nella sesta canzone:76
Non so dove voltarmi
a dimandar soccorso
se non a te, Signor clemente e pio,
ché tu puoi, solo, aitarmi,
e dal mare, ov’è scorso,
tirar pria si sommerga il legno mio:
vedi, Signor, om’io
pur nel mio petto dentro
formo pianti e parole,
e che mi pesa e duole
d’esser trascorso in sì profondo centro,
e però homai ti caglia
che la tua grazia agli error miei prevaglia.
Principe, vescovo, eretico e poeta: Antonio Caracciolo
Meno noti come poeti ma degni di attenzione per la loro importanza nella storia dei rapporti religiosi tra l’Italia e la Francia nel primo Cinquecento furono due altri esuli alla corte di Francesco I, Antonio Brucioli e Antonio Caracciolo, autori entrambi di alcune rime spirituali. Il Caracciolo apparteneva a un’antica famiglia napoletana, imparentata con la casata filo-francese dei Sanseverino, ed era il figlio di Giovanni Caracciolo, principe di Melfi catturato dal Lautrec nel 1528 e da allora passato al servizio di Francesco I. Con i suoi cari il principe prese la via dell’esilio in Francia, dove trovò accoglienza alla corte dei Valois. Si legò dunque agli altri esuli italiani, uomini influenti e apprezzati quali Benedetto Tagliacarne, precettore dei figli del re, o Giulio Camillo Delminio, e come questi ultimi frequentò la cerchia di Margherita di Navarra, alle cui cure affidò la formazione culturale e spirituale del giovane figlio Antonio.77 La sensibilità religiosa del principe di Melfi si può cogliere negli anni successivi quando, in qualità di governatore del Piemonte per conto del re di Francia, si distinse per la grande tolleranza nei confronti della diffusione dell’eresia.78 All’età di circa vent’anni, nel 1535, sotto lo pseudonimo di «Amomo» e con la collaborazione dell’esule fiorentino Gabriele Simeoni, il figlio Antonio diede alle stampe a Parigi presso Simon de Colines – editore di fiducia dei fabristi – una raccolta di versi di ispirazione petrarchesca nella quale veniva rievocato l’ambiente di corte, erano valorizzati gli esuli italiani, tra cui il poeta napoletano Iacopo Sannazaro da poco defunto, ed era esaltato il trionfo della poesia italiana oltralpe.79 Tra numerosi componimenti di argomentazione amorosa e cortigiana, a conferma della precoce adesione del Caracciolo a posizioni dottrinalmente ambigue, appare di particolare interesse l’invocazione al Padre eterno inserita nella raccolta:80
Padre del ciel che al tuo figliuol verace
Prender facesti in terra humane tempre
Entro el Virginal chiostro di Maria,
L’infinita virtù che usasti sempre
Per dare a noi mortali etterna pace
Quella mente sincera santa e pia
Volgi padre a mirar la vita mia
Et questi anni passati Fra miserie e peccati
Tutti drizzati a la sinistra via
Dove l’empio signor de Averno et Stige
Apparecchia tormenti
A noi dolenti e quanto può n’afflige.
Padre pietoso che salvando l’huomo
Il tuo santo figluolo humile et pio
Pender facesti al dispietato legno
Dove col sangue suo pagò quel fio
Che lasciò il padre de l’antico pomo
O dolce caro et pretioso pegno
De l’amor di là su perpetuo segno
Ah mondo ingrato e cieco
Non scorgi il ben che hai teco?
Volse il tuo creator per farti degno
De le siedi celesti et torti tante
Insopportabil salme
Chiodarsi ambe le palme ambe le piante.
[...]
E la tua gratia sola
Padre cortese ogni fedele aspetta
Adempi hoggi signore il mio disegno
Che questa alma meschina
Sia cittadina del celeste regno.
L’insistenza sulla passione di Cristo e sulla «gratia sola» come uniche vie per la salvezza eterna dell’uomo nonché sulla bontà e misericordia del Padre celeste, generoso distributore di grazie e benefici preziosi, è caratteristica della poetica di Margherita di Navarra e dei suoi discepoli, e si ritroverà, con analoghi accenni, nei testi in poesia e in prosa dei principali membri dell’evangelismo italiano. Nel corso del decennio successivo il Caracciolo divenne esponente di spicco della cerchia della regina di Navarra, che favorì la sua nomina ad abate di Saint-Victor. Per l’occasione, nel 1544, il Caracciolo scrisse il Mirouer de vraye religion, uscito sempre dai torchi di Simon de Colines: intrisa di spiritualità evangelica, l’opera si fondava su una proposta di conciliazione tra istanze riformatrici e critiche agli abusi del clero per molti versi accostabili a posizioni luterane e l’esigenza di promuovere un rinnovamento dall’interno dell’istituzione ecclesiastica, senza rotture e stravolgimenti, che partisse dalla riforma della vita monastica.81 L’invito rivolto ai suoi monaci era appunto quello di dedicarsi a opere di carità nei confronti di vedove, diseredati, orfani, afflitti, pellegrini e poveri piuttosto che a cerimonie esteriori.82 Ciò nonostante Caracciolo riaffermava l’inutilità delle opere umane ai fini della salvezza poiché soltanto il sangue di Cristo era in grado di spalancare le porte del cielo agli uomini.83 Le opere mantenevano tuttavia un ruolo fondamentale nella misura in cui erano l’espressione di una fede viva e la testimonianza della salvaguardia del libero arbitrio umano.84 Accanto alla carità, l’abate esaltava la pratica della meditazione sulla passione di Cristo e dell’orazione mentale, in grado di spegnere il peccato e di assicurare armi e scudo al fedele contro le tentazioni:85 riprendeva all’occasione metafore e immagini consuete del vocabolario evangelico come il vestirsi di Cristo e delle armi della luce,86 l’albero della croce,87 l’eredità del cielo ottenuta grazie al figlio di Dio,88 Cristo come sposo dell’anima,89 oltre a evocare la diffusione coeva delle sacre scritture – uno dei capisaldi del progetto evangelico – ormai disponibili a bassi prezzi e in volgare anche per i più poveri.90 Pochi anni più tardi l’intervento della sorella del re gli consentì di ottenere il vescovato di Saint-Jean-de-Maurienne prima e di Troyes poi. Come numerosi discepoli di Margherita e di Lefèvre, nella stagione di crescente contrapposizione tra opposte ortodossie in costruzione, il Caracciolo tentò l’impervia via di una riforma diocesana a metà strada tra Roma e Ginevra, elaborando una pastorale mista che rendesse possibile una pacifica convivenza tra fedi diverse.91 Molto presto non tardarono a piovere nei suoi confronti accuse di eresia, fatte circolare dal clero ostile della sua diocesi di Troyes, e prontamente raccolte dagli inquisitori a Roma. Nel 1550-1551 l’apertura di un’inchiesta del Sant’Uffizio nei suoi confronti mise a repentaglio la sua permanenza a Troyes, spinse Enrico II a intervenire direttamente in suo favore e costrinse lo stesso Caracciolo a presentare al nunzio una sua «giustificatione». Nonostante l’opposizione di alcuni influentissimi cardinali inquisitori – Juan Alvarez de Toledo e lo stesso Gian Pietro Carafa, a dispetto dei legami di sangue tra le due famiglie napoletane – che giudicarono la abiuratione del Caracciolo falsa», il procedimento si concluse con un nulla di fatto, e nonostante i mai sopiti sospetti sulla sua religiosità, il principe vescovo poté insediarsi nella propria diocesi.92 Nella speranza, poi delusa, di ottenere la porpora cardinalizia trascorse in seguito alcuni anni a Roma durante i quali ebbe modo di frequentare la dimora del cardinal e protettore Jean du Bellay, di rinsaldare l’amicizia con il poeta Joachim Du Bellay, con la produzione poetica del quale non mancano le affinità spirituali.93 Alla vigilia dello scoppio delle guerre di religione Caracciolo fu impegnato accanto al cardinale Odet de Coligny e al suo entourage, su richiesta di Caterina de’ Medici, nella ricerca di una soluzione non scismatica e di compromesso tra protestanti e cattolici. Non esitò in tal senso a presentarsi a Ginevra dinanzi a Giovanni Calvino con indosso l’abito talare e sul capo la mitra vescovile, prima di arrendersi all’inevitabile frattura, a seguito della fallimentare assemblea di Poissy nel 1561. Le accuse di eresia da parte cattolica e l’ostilità dei calvinisti più intransigenti portarono il Caracciolo a una progressiva emarginazione nel clero gallicano, fino alla sua destituzione da vescovo nel dicembre 1562. La sua attività riformatrice rimane tuttavia una significativa testimonianza di un progetto, condiviso da una parte non trascurabile dei prelati del Regno di Francia, di rinnovamento della Chiesa alternativo alle due confessioni in costruzione, frutto di una spiritualità evangelica irriducibile alle istanze della Riforma protestante così come ai dettami della Controriforma cattolica.
Di quella spiritualità evangelica e non ancora riformata tout court, cristocentrica e imperniata attorno al tema della passione di Cristo, è preziosa testimonianza un volume di rime sacre in italiano e in francese, rimasto manoscritto e conservato alla Bibliothèque Nationale de France, nei quali traspaiono somiglianze evidenti con la produzione di Margherita e dei poètes évangéliques.94 Senza dilungarsi in un’analisi dettagliata dei tre volumi,95 che si possono datare agli anni Quaranta e Cinquanta,96 sarà sufficiente rilevare le fortissime affinità tematiche e linguistiche con la produzione coeva o precedente di area evangelica, in Francia e in Italia. Colpiscono la ripresa di immagini molto sfruttate da Margherita e Lefèvre e poi divulgate nella penisola dal Beneficio di Cristo, di cui il Caracciolo propone di fatto una trasposizione in rima. Gli esempi più evidenti riguardano il tema della fede storica:97
Non è fede il pensar che vera sia
L’Historia sacra; ma il creder che Christo
Col sangue suo la vita e ’l ciel ne dia;
et che nessun può farsi degno acquisto
se Christo sua giustitia esser non crede,
et de quel l’opre non fa sue per fede.
Così come il ricorso alla metafora del fuoco e del calore per definire il rapporto tra la fede e le opere:98
Come il fuoco non è senza calore
O senza luce, così l’huom che crede
E a cui data ha Dio la vera fede
Non è senza opere buone, o senza amore.
Et come il sol traspar dal vetro fuori,
quando con raggi suoi lo scalda et prende
così di fuor per sante opere si vede
l’Amor di Dio che scalda et brucia nel cuore
Ma Dio solo l’inspira et solo il dona
La Fede et de lassù piove la gratia
Che ne fa giusti e i nostri error perdona
Però di ben oprar mai non si satia
Chi Dio conosce; ma d’ogni opra buona
La superna Bontà loda et ringratia.
Degni di menzione sono anche i versi dedicati agli «effetti della fede», una fede sempre definita come «viva», in perfetta sintonia con gli scritti dei fabristi:99
La viva fede ci fa grati a Dio
Per che per quella siam giustificati,
Per quella e’ nostri vitii, et i peccati
Restan sepolti nell’eterno oblio.
Fede, certezza et sicurtà chiam’ io
Che per figliuoli Dio c’habbia adottati,
et ab eterno eletti et preservati
per popol suo santificato, et pio.
La viva fede placa et rasserena
Le torbide tempeste et le procelle,
Onde la nostra conscientia è piena:
Per che l’humano spirto adorna et veste
Dell’innocenza dell’ucciso Agnello,
con la quale pare a Dio pregrato et bello.
I versi di Caracciolo si configurano davvero come una traduzione in volgare della spiritualità poetica della regina di Navarra, della quale riprende immagini, toni, ispirazioni ascetiche, slanci devoti, e convinzioni teologiche.100 Non è un caso peraltro che al fondo del suo volume di rime sacre il Caracciolo inserisca un affettuoso componimento dedicato alla morte di Margherita, che per certi aspetti sembra riprendere motivi già presenti nel citato sonetto dell’Alamanni sulla scomparsa di Luisa di Savoia:101
Alma real ch’un scettro assai più bello
Lassù nel ciel possiedi
Che il già lasciato qui di gemme et d’oro
Et seguendo di Dio l’amato Agnello
Calchi con santi piedi
Dell’albergo celeste il bel lavoro
Che pena et che martoro,
Oimè, lasciato c’ha la tua partita
Tu sei nel ciel salita
A goder di quel Regno eterno, et vero,
Dove prima habitavi col pensiero;
Et noi piangiamo in terra
Non la tua pace, ma la nostra guerra.
Perché rimasi in tenebre e’n lamenti,
Sicurtà non troviamo
In questa vita debile, et fallace:
El cielo empiendo di sospiri ardenti
Fermamente speriamo
Di godere ancor noi della tua pace.
Ma l’aspettar ne spiace
Senza di te, nostro specchio, et nostro essempio,
Di pudicitia tempio,
Che mostravi con opre et con parole,
Come luceva in te l’eterno sole, Come il divino Amore
Fa il spirto della carne vincitore.
Hor somigliamo proprio al pellegrino, Rimaso senza guida
Fra monti alpestri, o fra selve oscure:
Che de trovar il suo dritto cammino
A pena si confida
Assalito da mille aspre paure
Dell’humane sventure:
Ma tu che sei nel ciel già cittadina
Et non più pellegrina,
Et, riposando nel celeste Amore,
Sei dove non si piange, et non si more,
Non ne sii già sì vaga,
Che non ti doglia della nostra piaga.
Vedi la Francia tua, ch’un largo fiume
Versa per gli occhi, et nera
Invece della porpora, ha la vesta;
Perciò ch’ito all’Occaso è il suo bel lume.
Et la sua primavera
Mutata in verno, in pioggia et in tempesta:
Né doglia pari a questa
Ha sentita, cred’io, molti anni sono;
Che di bello, et di buono
Troppa gran parte gl’hai tolta, partendo:
Hai quasi spenta la Patria morendo:
Ben che le resta in pegno
Il dolce frutto del tuo sacro ingegno.
Restono a noi le tue degne fatiche,
Le ricchezze, il tesoro,
Che Tempo o Morte haver non ponno in preda;
che coronate han le tue tempie antiche
D’uno immortale alloro
Qual con ragione non lo si ad altre ceda;
O più bell’opre veda
Parnaso, o Pindo, o il monte di Sione,
Che in gran parte è cagione
Che pur si disacerbe il nostro pianto,
Rimanendo di te frutto sì santo;
Ch’al cor di chi lo mira
L’odor di Christo et la dolceza spira.
Hor canti con Davide et Esaia
Gl’hinni sacrati et santi
Con più bel plettro et più soave voci,
Del Figliuol glorioso di Maria
Narrando i dolci pianti
E ’l dolce sacrificio della Croce:
Hor più ti scalda et cuoce
Il fuoco dell’Amor; che sei vicina
All’ardente fucina
Ove l’alma, brucciando, ogn’hor s’alluma;
Né mai per ciò si strugge, et si consuma
Ma della fiamma amica
Dolcemente si pasce, et si nodrica.
Se sì felice sei,
Canzon che volar possi insino al Cielo,
Vedrai senza quel velo
Che copria la bellezza sua divina
Resplender com un sol, la mia Regina.
Sempre ascrivibile al genere poetico di ispirazione religiosa è una parafrasi in volgare italiano dei Salmi risalente alla seconda parte degli anni Quaranta e conservata manoscritta alla Biblioteca Nazionale di Torino: le pessime condizioni del documento, gravemente danneggiato da un incendio a inizio Novecento, non consentono un’analisi dell’opera, ma appare ad ogni modo significativa l’iniziativa del Caracciolo che per molti versi si allinea a quanto fatto in quegli anni da Clément Marot e da Giulio Cesare Pascali.102
Le rime spirituali di Antonio Brucioli
Segnato dal soggiorno francese sul piano spirituale fu anche Antonio Brucioli, che nella Lione degli anni Venti entrò in contatto con gli ambienti savonaroliani degli esuli toscani oltreché con la cerchia di Margherita di Navarra.103 Quell’esperienza determinò in maniera duratura il suo engagement spirituale e lo spinse a dedicarsi sotto la guida di Sante Pagnini allo studio della Bibbia, di cui, una volta tornato in Italia, avrebbe dato nel 1532 una nuova traduzione italiana di largo successo, soprattutto tra i protagonisti del dissenso religioso della penisola. Durante il suo lungo soggiorno veneziano, il Brucioli rimase in contatto con l’universo evangelico d’oltralpe, moltiplicando le dediche di sue opere – spesso edizioni della Bibbia o commenti ai testi sacri – a esponenti di spicco della rete navarrese: oltre alla stessa Margherita, il fiorentino indirizzò al vescovo di Nizza Girolamo Arsago alcune edizioni delle prediche di Savonarola104 e all’ambasciatore francese in laguna Georges d’Armagnac nel 1536 il suo commento all’Ecclesiastico, approfittandone per elogiare ulteriormente la regina, «de la cui bontà, drittura, et santità di costumi, come di cosa rara in questi maligni secoli, per tutta la cristianità, dalle più laudate persone, si parla».105 La vicinanza del D’Armagnac a Margherita, di cui si proclamava «amico famigliare, e servitore» spingeva il Brucioli a confidare nel fatto che anch’egli fosse
di quella pietà in Dio, e santità di costumi dotato, quali si conviene a vescovo, e che da nobilissimi progenitori tira la sua origine, e a domestico, et grato a una tanto santissima, reverenda, et pia regina.106
Il Brucioli si legò in quegli anni a un altro membro della famiglia reale, anch’essa formatasi al magistero spirituale di Margherita, Renata di Francia, duchessa di Ferrara, che lo accolse nella seconda metà del decennio successivo in occasione della sua precipitosa fuga da Venezia per il coinvolgimento in un processo per eresia,107 ma con la quale dimostrava una certa familiarità fin da allora: nel 1540 le dedicò il primo volume di un’edizione commentata del Vecchio Testamento,108 dopo aver già offerto nel 1538 alla figlia Anna d’Este Le epistole et evangeli che corrano per tutto l’anno e qualche mese dopo una nuova edizione della sua traduzione del Nuovo Testamento.109 Nella dedica di quest’ultima il Brucioli, oltre a elogiare la religiosità della giovane duchessa «ammaestrata nella via del signore da christianissima et santissima madre», si soffermava su temi tipicamente paolini come la contrapposizione tra la legge dell’Antico Testamento che è «cognitione del peccato» e il vangelo che invece è «promissione della gratia, o della misericordia di Iddio verso di noi, et una remissione del peccato».110 Dopo aver insistito sulla grazia e sulla fede, il fiorentino inseriva integralmente la parte della lettera dedicatoria del 1532 a Francesco I incentrata sulla difesa del ricorso all’uso del volgare per la divulgazione delle Scritture. Anche il cardinale Ippolito d’Este, intimo di Francesco I, oltre che cognato di Renata, compare come il destinatario di diverse opere del Brucioli, pubblicate a Venezia tra il 1540 e il 1544111 e più tardi a Lione su iniziativa di Guillaume Rouillé, a conferma della loro diffusione anche oltralpe.112
A rinforzare quel legame col mondo francese fu poi la sua vicinanza alla corte urbinate di Eleonora Gonzaga, che istruita sulla via dell’evangelismo dal cardinale Federico Fregoso, scelse di finanziare le edizioni bibliche del Brucioli, in una logica di larga diffusione della Parola di Dio per molti versi sovrapponibile al progetto elaborato nel corso degli anni Venti dai fabristi in molte diocesi del Regno.113 Fin dal soggiorno a Lione il Brucioli aveva potuto contare sull’amicizia dell’Alamanni, che tentò di introdurlo alla corte del re e che poco più tardi prese le sue difese nell’effimera stagione dell’ultima Repubblica fiorentina, quando il Brucioli fu accusato di eresia dai seguaci piagnoni del Savonarola. Degno di nota è il perdurare di quella solidarietà nei decenni successivi quando ormai l’uno aveva trovato stabile ospitalità alla corte dei Valois, mentre l’altro aveva fatto la scelta di stabilirsi a Venezia. A render ancor più complessa quell’amicizia avrebbe potuto essere l’evoluzione politica del Brucioli che, nonostante un passato repubblicano di fiero oppositore antimediceo, nei suoi anni veneziani divenne una spia al soldo di Cosimo, per conto del quale raccoglieva informazioni sulla comunità di esuli fiorentini in laguna. Di tutto ciò l’Alamanni era a conoscenza,114 eppure ancora nel 1543 lo stampatore fiorentino dedicava alla sua seconda moglie un’edizione di Boccaccio115 e nel 1541 al cardinal Ippolito d’Este, patrono dell’Alamanni, un’edizione della Bibbia. Al di là delle fratture politiche repubblicano/ mediceo, francese/imperiale, l’amicizia perdurante tra i due esuli fiorentini dovette radicarsi nella condivisione di medesime istanze spirituali, seppur con gradi di coinvolgimento differenti, certamente più marcato nel caso del Brucioli. Quella fede rinnovata conosciuta a Lione rimase infatti la bussola di un’intera esistenza per il Brucioli, che ancora negli ultimi anni di vita vi attinse per i suoi molteplici commenti alle Scritture e per trovarvi ispirazione poetica.116 La parabola religiosa per molti versi sovrapponibile dell’Alamanni e del Brucioli trova conferma nell’approdo, riuscito o soltanto tentato, da parte di entrambi alla cerchia di Caterina de’ Medici, la nuova regina di Francia, sulla cui religiosità giovanile poco si è insistito ma che pare da iscrivere negli ambienti dell’evangelismo d’oltralpe.117
Proprio a Caterina il Brucioli indirizzò oltreché riedizioni e commenti della Bibbia nel 1546 e 1547,118 anche una voluminosa raccolta di rime spirituali rimasta manoscritta e oggi conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi, databile attorno al 1547.119 La preziosa rilegatura del volume così come il contenuto di quei versi, tutti incentrati su una religiosità fortemente cristocentrica di matrice evangelica, dimostrano da un lato quanto la giovane regina tenesse a quel dono e dall’altra suggeriscono una certa affinità spirituale con l’attempato letterato fiorentino.120 Come è stato sottolineato si tratta di una prima redazione della raccolta poetica Dello Amore divino cristiano nel decennio successivo dedicata a un altro esponente di spicco della famiglia Medici, il duca di Firenze Cosimo.121 Nonostante le frequentazioni valdesiane del giovane duca, la scelta di Cosimo come secondo destinatario va ascritta a ragioni di convenienza cortigiana piuttosto che ad affinità di ordine spirituale, come sembra suggerire l’insistenza nella dedica su vicende politiche. Per molti versi inafferrabile e difficilmente classificabile, la complessa spiritualità del Brucioli, che trova compiuta e meno filtrata espressione nelle sue rime, è stata di volta in volta accostata al pensiero di Erasmo,122 di Calvino,123 di Butzer,124 o ancora alla spiritualità dei discepoli di Valdés.125 Nessuna di tali interpretazioni appare però pienamente soddisfacente, da un lato perché non tiene conto delle reali frequentazioni religiose dell’esule fiorentino e dall’altro perché sottovaluta alcune sfumature della sua riflessione teologica. Come lo aveva fatto il Caracciolo dieci anni prima anche il Brucioli fin dalla dedica prendeva le distanze dal genere della poesia d’amore, dalla «lascivia delle canzoni amorose», solita destare «ne’ giovinili petti a non dire anchora ne’ vecchi torti appetiti», con l’ambizione di
voltare gli huomini dal cantare le laude delle creature a quelle del creatore, et dallo amore cieco et pieno di tenebre [...] a quel luminoso et celeste.
L’impostazione delle rime sacre appare da subito caratterizzata da un forte cristocentrismo e da un’attenzione particolare per alcuni temi ricorrenti nella poesia di ispirazione evangelica, quali l’insistenza sui meriti di Cristo contrapposti alle colpe degli uomini peccatori, sui «benefici» ricevuti dall’umanità tutta per mezzo della sua passione e del suo sacrificio, sulla generosità e gratuità del creatore:126
Perché tutti i remedi erano scarsi
alla piaga crudel dell’antiguo angue
senza l’aiuto di questo signore
che in croce ci donò il suo proprio sangue
non potendo altrimenti mai placarsi
il padre eterno se non col suo amore.
Ricorrente e affine a quanto compare quasi ossessivamente nella produzione poetica di Margherita di Navarra appare l’immagine del sangue di Cristo sparso sulla croce per la redenzione dell’umanità:127
Signore sien priego i miseri peccati,
de servi tuoi, nel sangue benedetto,
del tuo figliuolo, re nostro cancellati.
Così come caratteristica della spiritualità dell’evangelismo francese era la valorizzazione della grazia divina come unica via di accesso al cielo128 e la concezione di una salvezza larga e inclusiva, concessa per l’infinita dolcezza e bontà di Dio, aperta perciò a tutti i peccatori indistintamente:
Et quei che sono della tua chiesa fuore,
illumina Giesù col divin volto
acciocché solo a tutti sia signore
ciascun sotto di te sia raccolto
sotto di te che beato puoi fare
chiunque alla gratia tua si sia rivolto.129
Si tratta di temi e immagini certamente presenti nel Beneficio di Cristo pubblicato a Venezia nel 1543 e tradotto in francese due anni più tardi, ma in realtà ampiamente circolanti all’interno della cerchia dell’evangelismo francese da almeno due decenni.130 Il Brucioli peraltro fin dal suo soggiorno lionese aveva avuto modo di leggere alcune opere manoscritte della sorella di Francesco I, tra cui certamente il Dialogue en forme de vision nocturne, aveva adoperato un simile linguaggio e adottato analoghe posizioni dottrinali nei suoi commenti ai testi sacri, nelle sue introduzioni alla Bibbia o ancora in alcuni suoi Dialogi editi tra la fine degli anni Venti e i primi anni Quaranta, ben prima cioè della diffusione nella penisola dei testi valdesiani e dello stesso Beneficio di Cristo.131
Attraverso un insistito ricorso alla metafora della luce e al tema dell’ illuminazione del fedele da parte di Dio, il poeta si raffigurava come incapace non soltanto di accedere al «celeste chiostro» con le proprie forze, ma addirittura inadeguato a trovare le parole giuste per lodare Dio.132 Secondo un’impostazione platonizzante cara a Margherita la natura umana veniva presentata come scissa tra il carcere corporeo, incatenato ai beni terreni e fonte di ogni sciagura, e l’anima in esilio, desiderosa di involarsi verso il cielo, ma bisognosa di un intervento divino per ricongiungersi al corpo celeste.133 Più originali e alquanto significativi per situare nelle polemiche del suo tempo il Brucioli appaiono i versi che egli dedicava alla descrizione della Chiesa dell’epoca, paragonata a una nave alla deriva, che si rivolgeva a Dio descrivendo la sua miseria, la sua afflizione e la sua impotenza (ff. 309v-311r):134
Lassa, ch’io non so più in qual parte io vada
perché chiusa mi veggio intorno intorno,
a poter ire, al ciel la vera strada.
Et già veggo sparito il vero giorno,
che soleva dar luce agli occhi mia,
perché il suo sole a noi non fa ritorno.
Né veggo dove quella gratia sia,
per la qual già un tempo mi difesi,
dalla malignità del mondo ria
et io ch’assai di mie bellezze accesi,
non pur nel luogo dove nacqui prima,
ma fori anchor de’ primi miei paesi
a tale sono hor, che più nessuno stima,
uel ch’io mi dica et anchor manco cura
che la virtù dal cielo in me si imprima.
La vita ognun col comodo misura,
et spreza anchor le mie minor sorelle,
afflitte, et in continua paura.
Le quali in ver non pare che sieno più quelle
ch’esser solieno, sì misere le veggio,
discinte scalze, vili et poverelle.
Et non basta di questo, che di peggio,
gni hor si teme, et gratia non si impetra
al nostro aiuto dal celeste seggio.
Fuggita è in ogni loco quella pietra,
che sol può reparar nostra ruina,
et che da lor dureza i cuori spetra.
Et questo avvien perché ciasun camina
Come lo muove la sua voglia insana,
del tutto fuor d’ogni luce divina.
Ma chi dal vero albergo si allontana,
si fumo e vento si pasce la sera,
veggendo stolta ogni speranza humana.
Ma io mi dolgo che ciascuno spera,
farsi dal cielo per le sue forze degno,
fuor d’ogni retta via, et luce vera.
Et così non ho più forza, arte o ingegno,
alvare alcuno, perché una scura notte,
soprastar sento al mio afflitto legno,
afflitto legno, che ha sparte et rotte,
l’arbor, le vele, et perduto il timone,
et le genti che porta mal condotte.
Perché nessun più la sua speme pone
n quella prima pietra, o vivo sasso,
che due muri in un ferma et compone.
Et quando io veggo quanto afflitto et lasso,
hor mai si resti tutto il fondamento,
senza il quale non è ben muovere un peso
più si raddopia anchora il mio tormento
et nessuno il mio duolo ascolta o intende,
o sicura del mio grave lamento
così rovina tale sopra me pende,
che io che la conosco, lassa tremo,
se dal cielo qualche aoito non ascende.
Et così senza cagion pavento et temo,
veggendo come l’edificio santo,
ridotto tutto sia quasi allo estremo
et il mondo si sta pure in festa et in canto
et io sento squarciare il divin templo,
il divin templo che amato ho tanto.
gran ruina senza alcuno esemplo,
che pe nostri peccati il ciel minaccia,
se il tempo andato a dietro ben contemplo
volta tu Signor mio, ver noi la faccia,
et mostrame qual sia il vero sentiero,
et fa che quel da ciaschedun si faccia.
Che a me non vale in sembiante severo
O in humile a questo, o a quel mostrarmi
Perché ciascun troppo è contrario al vero,
ritorna dunque priego a visitarmi,
che tu mia guida sei, maestro, et donno
et puoi della miseria ove io son trarmi
ch’i’ non posso svegliar dal pigro sonno,
mentre in discordia tutto il mondo langue.
Quei c’han di me più parte, et che più ponno
che gran forza ha quel primo crudel angue,
ch’ogni hor pascersi vuol del nostro sangue.
Lassa che questo dubito anchor forse,
non sia per fare in me qualche aspra piaga,
tanto quel suo venen ne petti scorse
onde io del mal commune fatta presaga,
prima che il mio valore sia spento in tutto,
rego ogni alma ch’è del suo ben vaga,
a Dio si volti, et non col volto asciutto.
Emerge un Brucioli in qualche modo ancora affezionato all’idea di cattolicità della fede, certamente indisposto ad accettare la frattura da parte di chi «dal vero albergo si allontana», desideroso piuttosto di un rinnovamento radicale condotto dall’interno e incentrato sulla dottrina della giustificazione per sola fede piuttosto che sulle azioni umane («Ma io mi dolgo che ciascuno spera, / farsi dal cielo per le sue forze degno, / fuor d’ogni retta via, et luce vera»), un rinnovamento che impedisca la catastrofe dello scisma e restituisca dignità e autorevolezza a una Chiesa addormentata, pigra, incapace di salvare i fedeli senza il soccorso divino. Ciò nonostante in altri versi il Brucioli insisteva sul tema della persecuzione perpetrata da quelli che definiva gli «avversarii di Christo»135 probabilmente da identificarsi con quegli inquisitori che lo avrebbero accusato di eresia dal 1548 in poi, o più genericamente con quei cattolici intransigenti, custodi zelanti dell’ortodossia e nemici della divulgazione del messaggio evangelico in lingua vernacolare a tutti i credenti.136
L’esperienza spirituale e la produzione poetica del Brucioli confermano dunque l’esistenza all’interno del cristianesimo del primo Cinquecento di una corrente moderata, per molti versi disposta a fare propri alcuni capisaldi del pensiero riformato,137 ma fedele a un’idea di Chiesa non scismatica: a partire dall’approvazione del decreto tridentino sulla giustificazione nel gennaio 1547 e della successiva «presa di potere» da parte dell’Inquisizione romana ai vertici della curia gli spazi di manovra per uomini come lui erano destinati inevitabilmente a restringersi sempre più, fino a non più prorogabili scelte di campo, al di qua o al di là della frontiera confessionale. A un’analoga definizione di Brucioli come evangelico, piuttosto che cripto riformato, conduce l’analisi delle sue vicende processuali: durante gli interrogatori egli non assunse infatti una linea difensiva cauta e simulatrice come fecero altri, mapreferì mantenere intatte le proprie convinzioni, specialmente per quanto concerne la fede e il libero arbitrio,138 ritenute compatibili con l’antica fede, come se continuasse a
credere realizzabile un rinnovamento religioso e culturale di profonda origine umanistica, ma con sostanziali apporti dalla Riforma, senza opporsi con questo alla Chiesa cattolica.139
Congiuntamente con il percorso dell’Alamanni e del Caracciolo il caso dello stampatore fiorentino conferma poi l’evoluzione di una parte dei letterati italiani, ma non solo, da una poesia classicheggiante e di tematica amorosa a una di interesse spirituale. In tal senso appare significativo constatare come accanto ai pamphlet, ai libricini, ai fogli volanti, e alle prediche, anche i versi furono considerati canali efficaci e strumenti funzionali per la messa in circolazione di convinzioni spirituali e di un programma riformatore sul crinale dell’eresia. In tal senso il mondo dell’evangelismo francese rappresentò un precoce modello a cui ispirarsi sia per le scelte lessicali e dottrinali sia per le strategie comunicative adottate;140 un modello ripreso da poeti italiani in esilio che seppero poi in maniera creativa riproporre in versi volgari quello stesso progetto religioso e culturale nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta.
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1 Si vedano i numerosi lavori di Massimo Firpo, tra cui almeno le recenti sintesi in inglese e in italiano: Massimo Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2016; id., Juan de Valdés and the Italian Reformation, Fernham, Ashgate, 2015.
2 Elena Bonora, Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, Torino, Einaudi, 2014.
3 Guillaume Alonge, Ludovico di Canossa, l’evangelismo francese e la riforma gibertina, «Rivista Storica italiana», CXXVI (2014), pp. 5-54.
4 Gigliola Fragnito, «Per lungo e dubbioso sentero»: l’itinerario spirituale di Vittoria Colonna, in M. S. Sapegno (a cura di), Al crocevia della storia. Poesia, religione e politica in Vittoria Colonna, a cura di, Roma, Viella, 2016, pp. 177-213.
5 Cesare Guasti, Documenti della congiura fatta contro il cardinale Giulio de’ Medici, «Giornale storico degli Archivi Toscani», 3 (1859), pp. 142-143.
6 Ibid., pp. 143-145.
7 Ibid., p. 147.
8 Ibid., pp. 185-187.
9 Sulle operazioni militari durante le quali collaborarono fra gli altri con il Fregoso cfr. ibid., pp. 187-193.
10 Ibid., pp. 206-207.
11 Ibid., pp. 208-209.
12 Henri Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, Luigi Alamanni (1495-1556), Paris, Hachette, 1903, pp. 489-91.
13 Jean-Marie Le Gall, L’honneur perdu de François Ier. Pavie, 1525, Paris, Payot, 2015, pp. 242-243.
14 Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, cit., pp. 58-9, 491-92.
15 Guasti, Documenti della congiura fatta contro il cardinale Giulio de’ Medici, cit., p. 197.
16 Ibid., p. 211.
17 Ibid., p. 193.
18 Ibid., pp. 201, 211-12; vedi su questi temi anche Stephano Dall’Aglio, Savonarola in Francia: circolazione di un’eredità politico-religiosa nell’Europa del Cinquecento, Torino, Aragno, 2006, pp. 93-94.
19 Cesare Guasti, Documenti della congiura fatta contro il cardinale Giulio de’ Medici, cit., p. 207.
20 Luigi Alamanni, Opere toscane, Lyon, Gryphe, 1532, p. 419.
21 Alamanni, Opere toscane, pp. 421-435.
22 «Et perché io faccia ognihor chiaro disdetto / Non son possente no, senz’altra aita, / Di tor l’entrata a tanto rio diletto» (ibid., p. 427).
23 «Anch’io di posseder fui troppo vago / Fin che tu Padre mi levasti ’l tutto, / Ond’hor più queto in povertà m’appago. / Spesso (né ’l posso io dir con volto asciutto) / Avaro et sordo ne bisogni altrui, / Negato ho gia di charitade il frutto» (Ibid., p. 423).
24 Ibid., p. 425.
25 «Non si può gir senza celesti scorte / per questo periglioso aspro viaggio, / senza prender talhor le strade torte. [...] Et chi t’ha seco, al gir non ha mestiero / di remi, o vele, che col pie sicuro / Può calcar l’onde come advenne a Piero» (Ibid., pp. 433-34).
26 Ibid., pp. 86-107.
27 «Ah con qual dritto oprar, con quai parole / Tanta in noi charità puote agguagliarse ? /Ma chi pensa agguagliar di terra il cielo?/ Noi pur siam vermi, tu del ciel Signore, / Noi peccator, tu la bontade eterna, / Noi siam senza veder, tu somma luce» (Ibid., p. 186).
28 Ibid., p. 257.
29 Émile Picot, Les Italiens en France au XVIe siècle, Manziana, Vecchiarelli, 1995, p. 109.
30 Alamanni, Opere toscane, 1532, pp. 366-418. Nelle Selve edite nel 1533 ricompaiono gli stessi nomi di fiorentini lionesi (Buonaccorsi, Del Bene, Guadagni, Sertini, Altoviti), ai quali si aggiunge anche Vincenzo Buonvisi (Luigi Alamanni, Opere toscane, Lyon, Gryphe, 1533, pp. 17-18).
31 «Tu genovese, anchor che saggio e buono / forse già fusti, hor non so ben che dire, / così vario di te si sente il suono. / Senza biasmi temer del tuo fallire / seguì hor l’Adorno, il tuo Fregoso poi / teco sfogando i ciechi sdegni e l’ire. / Opra pur si, che l’un de Duci tuoi / sempre temendo, al quarto april non giunga, / ch’el molto riposar par che t’annoi. / Et la dimora ne duoi lustri lunga / del tuo fido Ottavian si rara sia, / ch’eterna invidia il suo nimico punga» (Alamanni, Opere toscane, 1532, p. 414).
32 Ibid., pp. 416-418.
33 Piero Floriani, Le satire di Luigi Alamanni, in Il modello ariostesco, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 109-110. È stata giustamente sottolineata l’opera di autocensura da parte dello stesso Alamanni che preferì non dare alle stampe una satira troppo virulenta nei confronti del potere pontificio, cfr. Franco Tomasi, Appunti sulla tradizione delle «Satire» di Luigi Alamanni, «Italique: Poésie italienne de la Renaissance», 4 (2001), pp. 44-45.
34 Alamanni, Opere toscane, 1532, p. 404.
35 Coloro che possedevano o vendevano le Opere toscane erano passibili di arresto, come provano i casi di Giovanni di Gabriello de’ Rossi e di alcuni librai fiorentini, cfr. Ugo Rozzo, La cultura italiana nelle edizioni lionesi di Sébastien Gryphe (1531-1541), in Jean Cubelier de Beynac, Michel Simonin (éd.), Du Po à la Garonne. Recherches sur les échanges culturels entre l’Italie et la France à la Renaissance. Actes du Colloque International d’Agen (26-28 septembre 1986), Agen, Centro Matteo Bandello d’Agen, 1990, pp. 171-172 e Paolo Simoncelli, Fuoriuscitismo repubblicano fiorentino, 1530-1554, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 28, 122, 128-129.
36 Antonio Brucioli, Dialogi, Venezia, Da Sabbio, 1528-29, pp. 50v-51r.
37 All’Alamanni che lo chiama padre l’abate risponde prontamente: «A che mi chiami tu padre, conciosia cosa che tu medesimo abborisca questo nome di padre, sapendo per lo Evangelio che uno è il padre nostro in cielo» (Brucioli, Dialogi, p. 51v). Sempre il benedettino profetizza «che in quello anno medesimo – come di poi avvenne – deveva Firenze liberarsi da la tirannide, e ignominiosamente essere vinto, e preso il papa, e in termine di sei anni haversi a vedere per tutto rinovare la Chiesa» (p. 52r).
38 Carlo Dionisotti, La testimonianza del Brucioli, in id., Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, p. 222.
39 Ibid., pp. 222-223. Vedi anche Gorgio Spini, Tra Rinascimento e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940, pp. 51-55.
40 «Guardisi oltra i monti la più gran parte della nazione tedesca come saggiamente ammonita da quella povertà di che di sopra vi ragionai, ha lungamente con le sue armi stesse servato intero il suo libero vivere dagl’insulti tirannici dei suoi vicini» (Orazioni politiche del Cinquecento, a cura di Manlio Fancelli, Bologna, Zanichelli, 1941, p. 5).
41 Ibid.
42 Non dissimile nel tono risultava la lettera scritta dal Della Palla a Michelangelo da Firenze nell’ottobre 1529 (Michelangelo Buonarroti, Il carteggio di Michelangelo, a cura di Giovanni Poggi, Paola Barocchi, Renzo Ristori, Firenze, Sansoni, 1967-79, vol. 3, pp. 282-83).
43 Rudolf von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato, Torino, Einaudi, 1970, pp. 131-142; vedi anche Giancarlo Mazzacurati, 1528-1532: Luigi Alamanni, tra la piazza e la corte, in Charles Adelin Fiorato, Jean-Claude Margolin (éd.), L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance, Paris, J. Vrin, 1989, pp. 55-56, 63-65 e Paola Cosentino, L’intellettuale e la corte: Luigi Alamanni e la monarchia francese, in Luisa Secchi Tarugi (a cura di),Cultura e Potere nel Rinascimento, Verona, Cesati, 1999, pp. 391-93.
44 Massimo Firpo inserisce il componimento dell’Alamanni all’interno di una propaganda antimperiale tesa ad evidenziare le responsabilità di Carlo V negli eventi che portarono al sacco di Roma nel 1527, senza però insistere sulla forte carica polemica, ben presente nel testo, nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, Massimo Firpo, Il sacco di Roma del 1527 tra profezia, propaganda politica e riforma religiosa, in id., Dal sacco di Roma all’Inquisizione, Alessandria, Edizione dell’Orso, 1998, pp. 27-31.
45 Per il testo completo vedi Alamanni, Opere toscane, 1532, pp. 316-342; cfr. Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, cit., pp. 255-257.
46 «L’insegnia pia delle celesti chiavi / Ritornerete poi nel santo albergo, / onde pria la scacciò l’altero Scytha. / E ’l rector d’esse e suoi seguaci intorno / a piu santi costumi, a miglior vita / Ridurrete Signior co i vostri preghi. / Indi colmo d’honor di spoglie ornato / con triomphi inauditi, e pompe e ostro / Tornerete a posar nel nido Gallo» (Alamanni, Opere toscane, 1532, p. 341).
47 Ibid., p. 338.
48 Alamanni, Opere toscane, 1533, pp. 206-210.
49 Richard Cooper, Marguerite et ses poètes italiens, in id., Litterae in tempore belli, Genève, Droz, 1997, pp. 172-179.
50 Per un giudizio sulle Selve cfr. Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, cit., pp. 220-225.
51 «O lyguro terren che n’hai mandato / un si chiaro, leggiadro, ornato spirto / che ti può vita dar perpetua anchora? / Il mio gran Theocren da te ci viene, / il mio gran Theocren, che tale apparse / al mio famoso Re che solo il volle / ai suoi chiari figliuoli maestro e guida; / quando il Greco, e ’l Roman conobbe, e ’l Tosco / per alcun tempo mai conosce solo / questo gentil che si l’Italia honora. / Non pur del suo saver, ma d’altre tante / virtù ch’a dirle io sol non fui possente, / ma con gli scritti anchor farà più chiaro / il suo valor, sì che torra fatica/a chi brama di lui parlare appieno» (Alamanni, Opere toscane, 1533, p. 16). Cfr. Louisa Capodieci, Vénus, Bacchus et l’amour. Rosso Fiorentino entre Vasari, Théocrène et François Ier, in Jean-Émile Girot (éd.) La poésie à la cour de François Ier, Paris, Pups, 2012, pp. 188-190.
52 Mazzacurati, 1528-1532: Luigi Alamanni, cit., pp. 54-60; Franco Tommasi, La poésie italienne à la cour de François Ier: Alamanni, Martelli et autres cas exemplaires, in La poésie à la cour de François Ier, cit., pp. 69-78.
53 Alamanni, Opere toscane, 1532, p. 261.
54 Ibid., p. 262.
55 Sulla collaborazione dell’Alamanni con Lazare de Baïf e Guillaume Pellicier mi permetto di rimandare alla mia monografia Gli ambasciatori del re Cristianissimo. Saperi, credenze e spionaggio nella Venezia del primo Cinquecento di prossima pubblicazione presso l’editore Donzelli.
56 Vittoria Colonna, Carteggio, a cura di Ermano Ferrero Giuseppe Müller, Torino, Loescher 1892, pp. 189-191; Barry Collett, A Long and Troubled Pilgrimage, Princeton, Theological Seminary, 2000, pp. 126-127; Verdun-Louis Saulnier, Marguerite de Navarre, Vittoria Colonna et quelques autres amis italiens de 1540, in Mélanges à la mémoire de Franco Simone: France et Italie dans la culture européenne, Genève, Slaktine, 1980, pp. 284-285.
57 Lettere del Cinquecento, a cura di Giuseppe Guido Ferrero, Torino, Utet, 1967, p. 526. Una testimonianza del ruolo di mediazione svolto dall’Alamanni anche tra la Colonna e il Vergerio è dato da una lettera che quest’ultimo le rivolgeva dalla Francia: «Messer Aloisi Alamanni mi ha detto di aver avute lettere di Vostra Eccellenzia, nelle quali ella mi saluta, e si scusa di non aver potuto rispondere ad alcune mie» (Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, Libro primo, Venezia, Figliuoli Manuzio, 1544, p. 125v).
58 Simoncelli, Fuoriuscitismo repubblicano fiorentino, cit., pp. 157-159, 166-167, 248, 314, 324, 348, 352. Sull’attività politica dell’Alamanni cfr. anche Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1971, vol. 3, p. 2043.
59 Jean Zeller, La diplomatie française vers le milieu du XVIe siècle, d’après la correspondance de Guillaume Pellicier, évêque à Montpellier, ambassadeur de François Ier à Venise (1539-1542), Paris, Hachette, 1880, pp. 241-43 e Guillaume Pellicier, Correspondance politique de Guillaume Pellicier ambassadeur de France à Venise, 1540-1542, a cura di Alexandre Tausserat-Radel, Paris, Alcan, 1899, vol. 1, pp. 266-267, 272-273, 278.
60 Anne Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio e la riforma a Venezia, 1498-1549, Roma, Il veltro editrice, 1988, p. 182. Con queste parole il Vergerio raccontava l’incontro con Margherita in Francia, dalle quali traspare la stima di cui la regina godeva nella cerchia romana della poetessa: «La vidi e contemplai attentamente per spatio di una hora continua, mentre che sua Maestà parlava con il cardinal mio; e parevami vedere e udire in quella faccia, e in tutti i gesti di quel corpo una dolcissima harmonia di Maestà e di modestia, e clementia. Poi, per la opinione, che la Eccellentia vostra mi ha di lei nell’animo impressa negli occhi suoi mi pareva discernere quello spirito fervente e quel lume che Dio le ha dato, così chiaro da poter camminar alla beatitudine della eterna vita, senza incappare negli impedimenti che sono in questa mortale» (Lettere volgari, cit., 1544, pp. 98rv).
61 Si veda in proposito il racconto entusiasta che il Vergerio fa alla Colonna del suo incontro con la regina di Navarra (ibid., pp. 99v-101v).
62 Negli anni Cinquanta tra i suoi familiari compare l’eretico Pietro Gelido, cfr., I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558), edizione critica a cura di Massimo Firpo e Sergio Pagano, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2004, vol. 2, p. 613; vedi anche, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, nuova edizione critica, voll. I-III, (con la collaborazione di Luca Addante, Guido Mongini e Lorenzo Sinisi), Roma, Libreria editrice vaticana, 2011-2015, vol. I, pp. 46-47, 209 e I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1555-1567), a cura di Massimo Firpo e Dario Marcatto, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2000, ad indicem.
63 Sul soggiorno italiano dell’Alamanni e del cardinal d’Este tra il 1539 e il 1540 cfr. Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, cit., p. 113; Correspondance des nonces en France Carpi et Ferrerio, 1535-1540 et légation de Carpi et de Farnese, a cura di J. Lestocquoy, Roma-Paris, Presses de l’Université gregorienne-E. de Boccard, 1961, pp. 465, 194, 501, 529, 547, 565, 566; Annibal Caro, Lettere familiari, a cura di Auto Greco, Firenze, Le Monnier, 1957-1961, vol. I, pp. 166-67, 174-75.
64 Pellicier, Correspondance politique, vol. 1, p. 282.
65 I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, cit., vol. 2, p. 800.
66 Ibid., vol. 2, p. 700.
67 Sul soggiorno francese del Carnesecchi vedi Massimo Firpo, Pietro Carnesecchi, Caterina de Medici e Juan de Valdés. Di una sconosciuta traduzione francese dell’Alphabeto christiano, in Michael Erbe (éd.) et alii, Querdenken. Dissens und Toleranz im Wandel der Geschichte, Mannheim, J&J Verlag, 1996, pp. 75-88.
68 «Non so rendere conto niuno di lui circa questo, perché non ho mai parlato seco di tal cosa» (I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, cit., vol. 2, p. 701).
69 «Parlò per me – rivelava agli inquisitori il Carnesecchi nel gennaio 1567 – in nome così del re come della regina un personaggio mandato da quelle Maestà a congratularsi con il papa della sua assunzione: et questo fu monsignor della Bordigiera, fratello del cardinale della Bordigiera che è qui. Et alcuni mesi dapoi fece pure un simile officio per me con Sua Santità in nome particolare della regina un vescovo di Macone, che fu figliolo di messer Luigi Alemanni, essendo stato mandato dalla prefata regina a Roma per procurare il cappello al cardinale Salviati ch’è adesso» (I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, cit., vol. 2, pp. 798-99). Sul legame tra Caterina e Giovanni Battista cfr. Lettres de Catherine de Médicis, a cura di Hector de la Ferrière, Gustave Baguenault de Puchesse, Paris, Imprimerie nationale, 1880-1943, 11 voll.: vol. 1, p. 97; vol. 9, pp. 336-337; vol. 10, pp. 338, 528.
70 Hauvette, Un exilé florentin à la Cour de France au XVIe siècle, cit., p. 265.
71 Luigi Alamanni, Coltivazione, Firenze, Giunti, 1546, s.n.
72 Lettres de Catherine de Médicis, cit., vol. 1, p. 34; in un’altra lettera sempre al duca così Caterina evocava l’Alamanni: «Messire Loys Alamanny, mon maistre d’hostel ordinaire, duquel je désire le bien et avancement autant et plus que de personne qui soit à mon service, pour les bons et recommandables services qu’il m’a dès longtemps faictz et qu’il contynue chacun jour» (p. 37). Altre ricorrenze di Luigi in ibid., vol. 1, pp. 620-621.
73 Fin dal 1550 su indicazione del padre Luigi Caterina si impegnò per favorire il matrimonio tra Niccolò e la figlia del ricchissimo Tommaso Guadagni, la cui tutela era stata affidata a due amici di lunga data di Luigi, Tommaso Sertini e Albizzo del Bene (Lettres de Catherine de Médicis, vol. 1, pp. 37-38). Caterina peraltro si spese in favore anche di questi altri esuli antimedicei, a testimonianza di come ormai dopo oltre vent’anni quegli slanci repubblicani avessero finito per lasciare spazio ad altri atteggiamenti più cortigiani nei confronti della nuova regina all’interno della comunità di fiorentini in Francia.
74 Si riporta di seguito la trascrizione integrale della lettera, sconosciuta al curatore della corrispondenza di Caterina de’ Medici alla fine dell’Ottocento e rimasta pertanto inedita: «Catherine de Médicis à Mons. de Ferrals (ambassadeur à Rome), Blois, 25 mars 1572 [Copia d’una lettera che la Maestà della Regina Madre del re Christianissimo scrisse all’ambasciadore di Francia a Roma in favor di Monsignor di Macone]. Monsieur de Ferrailz. Pour le desir et affection que le roy monsieur mon filz, la royne ma fille et moy avons de procurer à l’evesque de Mascon tout le bien, honneur, et advancement, qu’il nous sera possible en l’eglise, Nous parlames au Legat dernierement qu’il estoit icy, tant pour l’expedition de l’Abbaie du Jard en faveur du dict evesque, que pour la promotion d’icelluy à la dignité de cardinal, en quoy il s’est chargé fort volontiers de faire le meilleur office, qu’il pourra envers notre Saint Père et pour ce que nous desirons tous et moy principallement et particulierement de le veoir gratiffié tant en la dicte expedition qu’en la promotion au cardinalat et de reconoitre envers lui les longs et agreables services que luy et les siens ont faict des long temps à ceste couronne et à moy en particulier, et que pour ces memes causes j’ay des long temps faict, et continue à faire la requeste à nostre Saint Père pour sa promotion. Je vous prie, Monseigneur de Ferrailz, emploier tous vos moiens tant envers nostre dict Saint Père que le dict legat, et autres seigneurs et cardinaux, à ce que le dict evesque soit gratiffié en cela, et prendre pour l’amour de moy ceste poursuite tellement à cœur, que je puisse conoitre, que vous y soies emploié comme vous aves tousjours fait en tout ce qui me touche, et qui vous est singullierement, et affectueusement recommandé de moy. Vous asseurant que vous me feres plaisir aussy aggreable de poursuivre cest affaire, iusques à ce que l’effect s’en ensuive, que autre que vous me scauries faire à present: Et quant vous ne pourries obtenir ceste grace, et faveur pour le dict evesque à ceste fois, je vous prie continuer toujours à toutes occasions de le faire au nom du Roy mon dict seigneur, et filz et de moy iusqu’à ce que vous l’aies obtenu encores que je ne vous en feisse point de recharge; priant Dieu, Mons. de Ferrailz, vous tenir en sa saincte et digne garde. Escripte à Bloys ce XXVe jour de Mars 1572. Sottoscritta. Caterine [Et sotto è scritto ciò che segue della propria mano di Sua Maestà] Je vous prie, que je conoisse en cecy le credit que vous aves auprès du Pape et vous emploier de facon, que je en voie l’issue, que ay tant desiré: car vous ne me scauries faire plus aggreable service, ny que je reconoisse de meilleur cœur. [Segnata dal segretario d’essa Sua Maestà al di sotto]. – Chantereau – » (Archivio di stato di Firenze, Misc. Medicea, 669, ff. 316rv).
75 Merita segnalare che anche altri studiosi tendono a inserire i componimenti dell’Alamanni all’interno della produzione di marca evangelica, cfr. Jean-François Gilmont, Le protestantisme des libraires et typographes lyonnais (1520-1560), «Revue d’Histoire ecclésiastique», 101 (2006), p. 1002 e Jonathan A. Reid, King’s Sister-Queen of Dissent: Marguerite of Navarre and her Evangelical Network, Leiden-Boston, Brill, 2009, p. 671.
76 La trascrizione delle canzoni spirituali del Panciatichi si trovano in appendice a Matteo Fadini, Le «Canzoni spirituali» di Bartolomeo Panciatichi, in «Bollettino della società di studi valdesi», 218 (2016), pp. 103-146, in particolare pp. 138-139.
77 Probabile che a mettere in relazione Margherita e i Caracciolo fosse stato l’ambasciatore a Venezia Lazare de Baïf che a più riprese nella sua corrispondenza con la corte della fine del 1529 raccomanda il principe di Melfi e i suoi cari.
78 Jean Jalla, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto: 1517-1580, Firenze, Claudiana, 1914, pp. 60-65; Remy Scheurer, Caracciolo, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1976, pp. 382-83; Rosanna Gorris Camos, «Entro nella biblioteca dei duchi». Présences de Gabriele Simeoni à la cour des Savoie, exemplaires et dédicaces, in Silvia D’Amico, Catherine Magnien-Simonin (a cura di), Gabriele Simeoni (1509-1570?). Un florentin en France entre princes et libraires, Genève, Droz, 2016, p. 394.
79 Per l’attribuzione dell’opera al Caracciolo cfr. Nicole Bingen, Amomo (1535): Jean de Maumont? Ou Antonio Caracciolo..., «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 62/3 (2000), pp. 521-559; vedi anche Tomasi, La poésie italienne, cit., pp. 78-79; sul ruolo del Simeoni cfr. Jean Balsamo, Gabriel Syméoni, figure de l’italianisme français, in Gabriele Simeoni (1509-1570?), cit., pp. 77-78. Compagni di studio in giovinezza, Simeoni e Caracciolo avrebbero mantenuto un legame duraturo anche nei decenni successivi. quando alla morte del padre Giovanni Antonio accolse per alcuni anni nella sua famiglia vescovile il poeta fiorentino. Cfr. Chiara Lastraioli, La vena satirica di Gabriele Simeoni, in Gabriele Simeoni (1509-1570?), cit., p. 196; Vita di M. Gabriel Symeoni, di natione fiorentino, et d’obbligo lucchese, edizione critica a cura di Franco Tomasi, in Gabriele Simeoni (1509-1570?), cit., pp. 539, 546-549.
80 Per comodità si cita dall’edizione italiana dell’opera: Rime toscane d’Amomo per madama Charlotta d’Hisca, Venezia, 1538, pp. D viv-D viiir.
81 Thierry Wanegffelen, Ni Rome ni Genève. Des fidèles entre deux chaires en France au XVIe siècle, Paris, Champion, 1997, pp. 233-235; Jean-Marie Le Gall, Marguerite de Navarre: The reasons for remaining Catholic, in Gary Ferguson, Mary B. McKinley (éd.), A companion to Marguerite de Navarre, Boston-Leiden, Brill, 2013, pp. 73-87.
82 Antonio Caracciolo, Le mirouer de vraye religion, par reverend père messire Antoine Caracciolo, de Melphe, abbé de Sainct Victor, Paris, Simon de Colines, 1544, pp. 4v-5r.
83 «Pource que les oeuvres et les merites des hommes ne sont poinct de si grande souffisance, qu’ilz puissent meriter la vie eternelle, mais les merites de Iesus Christ la nous ont acquise. Lequel tout seul a merité pour tous, et a avecques son sang payé la debte et le tribut, que nous debuons à Dieu» (Caracciolo, Le mirouer de vraye religion, p. 5v).
84 «Il est bien vray que le bon Dieu (qui par nostre faulte nous veoions perduz, et par sa seulle grace nous a iustifiez, et restitué en nostre première innocence) demande avoir quelque fruict de noz bonnes oeuvres, en tesmoignage et corroboration du liberal arbitre, qu’il nous a rendu; et de la iustice, laquelle par la foy de Iesus Christ, il nous a donnée» (Ibid., p. 6r).
85 Ibid., pp. 8v-9r.
86 Ibid., pp. 10v, 30r.
87 Ibid., pp. 8v, 11v.
88 Ibid., p. 13v.
89 «L’espoux de noz ames, Iesus Christ, les voyant affligez, ou pour la mémoire de leurs pechez, ou par désir de veoir la face de Dieu, qui habite une lumière inaccessible, il les vient doulcement consoler, et leur monstre sa beaulté: qui surmonte celle de tous les humains» (Ibid., pp. 16r).
90 Caracciolo evoca la pubblicazione dei libri dei Profeti e dei Vangeli «imprimez et à bien petit pris se vendent» (Ibid., p. 23r).
91 Wanegffelen, Ni Rome ni Genève, cit., pp. 235-249.
92 Il Simeoni nella sua autobiografia così descrive la vicenda: «[Simeoni] Si messe con ogni studio a seguitare l’impresa, et trovato modo di guadagnare il Nuntio del Papa, che era un Triultio, vescovo di Tolone, gli condusse alla fine il Caracciolo innanzi, avertitolo prima molto bene de’ propositi che doveva tenere nella sua giustificatione, la quale fu così ben condotta (oltre a qualche favore ottenuto dalla Corte di Francia, et la dispositione del pontefice, che facendo contro al Re guerra per conto di Parma, haveva bisogno di danari, et di ricuperare i privilegii con l’entrate, emolumenti et obedienza, che già gl’era stata tolta in Francia, come a nimico publico della corona) che, contro alla volontà di due cardinali inquisitori (quali furono il Teatino et Burgos, che giudicarono la abiuratione del Caracciolo falsa, forse, come si presumeva, avvertiti dal capitolo et clero di Troia che non voleveno tal vescovo), finalmente furono le bolle spedite et portate da un suo Maiordomo detto Salevert » (Vita di M. Gabriel Symeoni, cit., pp. 548-49). Di diverso avviso il biografo del Caracciolo che sottolinea – sulla base di una testimonianza di Pio IV, più tarda e certamente interessata a screditare Paolo IV – il ruolo decisivo del Carafa nel favorire la rapida conclusione dell’inchiesta nei confronti del suo parente (Joseph Roserot de Melin, Antonio Caracciolo, évêque de Troyes (1515?-1570), Paris, Letouzay et Ané, 1923, pp. 62-63).
93 Cfr. Gilbert Gadoffre, Du Bellay et le sacré, Paris, Gallimard, 1978, pp. 183-208.
94 Per un’analoga interpretazione della sua spiritualità cfr. Gorris Camos, «Entro nella biblioteca dei duchi», cit., p. 400.
95 Si rimanda a Roserot de Melin, Antonio Caracciolo, évêque de Troyes, cit., pp. 130-177.
96 All’interno della raccolta vi sono componimenti in ricordo di Paolo III e Margherita di Navarra, entrambi defunti nel 1549, e uno in onore della duchessa di Valentinois, probabilmente da identificarsi nella figlia di Cesare Borgia, Luisa, morta nel 1553.
97 Antonio Caracciolo, Tre libri di rime sacre, in Bibliothèque Nationale de France, ms. it. 1384, c. 34r.
98 Ibid., c. 33rv.
99 Ibid., c. 34r.
100 Per l’analisi delle opere di Margherita e per una riflessione sui punti di contatto con la spiritualità e il linguaggio del Beneficio di Cristo cfr. Alonge, Condottiero, cardinale, eretico, cit., pp. 178-185, 297-316.
101 Caracciolo, Tre libri di rime sacre, cc. 85v-87v.
102 I salmi di David Profeta, tradotti in lingua toscana da Donno Antonio Caracciolo, vescovo di Moriana, conservato in una piccola scatola alla Biblioteca Nazionale di Torino, cod. ital. 430, collocazione: N. VII. 77.
103 Il soggiorno lionese del Brucioli è giustamente valorizzato in Chiara Lastraioli, Brucioli sconosciuto: de certaines traductions françaises des Dialogi et d’un manuscrit inconnu, in Élise Boillet (éd.), Antonio Brucioli, Humanisme et évangélisme entre Réforme et Contre-réforme. Actes du colloque de Tours, 20-21 mai 2005, Paris, Champion, 2008, pp. 147-152 e Rosanna Gorris Camos, Le fleuve et le pré: rhétorique du cœur et de l’esprit dans l’Heptaméron de Marguerite de Navarre, in Dominique de Courcelles (dir.), Rhétorique et littérature en Europe de la fin du Moyen Âge au XVIIe siècle, Turnhout, Brepols, 2008, pp. 67-79.
104 Guillaume Alonge Nicolas Balzamo, Savonarole en Picardie. Autour de Girolamo Arsagi (1485-1542), in «Revue d’Histoire de l’Église de France», 103 (2017), pp. 27-43.
105 L’Ecclesiasto di Salomo, tradotto dalla ebraica verità in lingua toscana, & con nuovo commento dichiarato. Per Antonio Brucioli, Venezia, B. Zanetti, 1536, s.n. [N.P.]
106 Ibid.
107 Nel 1547 Brucioli le dedicava un’opera contro gli ebrei (Antonio Brucioli, Epistola di Antonio Brucioli nella quale con la sola autorità della scrittura si prova, contro alla ostinazione degli ebrei Christo esser il vero Messia, predetto dalla legge, da psalmi e da propheti, Venezia, A. Brucioli e fratelli, 1547, p. 2r) e nel 1540 un’edizione commentata del Vecchio Testamento. Su questo testo cfr. Ugo Rozzo, L’Epistola sul Messia di Antonio Brucioli e la letteratura antiebraica, in Antonio Brucioli, Humanisme et évangélisme, cit., pp. 21-51.
108 Nella dedica il Brucioli si dilungava sull’esigenza di promuovere presso tutto il popolo la conoscenza dei testi sacri, scagliandosi contro i falsi sapienti «nimici del verbo di Iddio» (Antonio Brucioli, Sacrosanti libri del Vecchio Testamento tradotti dalla Ebraica verità in lingua italiana e con breve e cattolico commento dichiarati, Bartolomeo Zanetti, Venezia 1540, s.n.).
109 Il Nuovo Testamento di Christo Giesù Signore et salvatore nostro, di greco nuovamente tradotto in lingua toscana per Antonio Brucioli, con la tavola con la quale si possono trovare le Epistole et gli Evangeli che per tutto l’anno si dicono nelle messe, Venezia, Bindoni, 1539, s.n.; nel 1540 e nel 1541 a Anna d’Este vengono indirizzate ulteriori ristampe del Nuovo Testamento (Giorgio Spini, Bibliografia delle opere di Antonio Brucioli, «La Bibliofilia», 42 (1940), pp. 148-149).
110 Brucioli, Il Nuovo Testamento, 1539, s.n.
111 Nel 1540 al cardinale fu dedicato il terzo volume dell’edizione commentata dell’Antico Testamento (Brucioli, Sacrosanti libri del Vecchio Testamento, vol. 3, s.n.) e nel 1544 un commento al Nuovo Testamento (Spini, Bibliografia, cit., p. 157).
112 Le ristampe lionesi sono a cura di Guillaume Rouillé, stampatore rimasto cattolico, ma editore anche della parafrasi ai salmi del Flaminio nel 1548 (Spini, Bibliografia, cit., pp. 143-44, 150; Enea Balmas, Librai italiani a Lione, in Ugo Rozzo, (a cura di), Gli uomini, le città e i tempi di Matteo Bandello, Tortona, Cassa di Risparmio di Tortona, 1985, p. 270; Nathalie Zemon Davis, Le monde de l’imprimerie humaniste: Lyon, in Histoire de l’édition française, I, Le livre conquérant, Paris, Promodis, 1983, p. 277.
113 Su tutti questi temi si rimanda ad Alonge, Condottiero, cardinale, eretico, cit., pp. 129-139, 251-257; alla luce dell’influenza dell’esperienza francese sul percorso religioso del Brucioli occorrerebbe maggior cautela nel ricondurre la sua attività di stampa all’interno della campagna orchestrata dagli ambienti valdesiani, cfr. Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, cit., pp. 193-194.
114 Spini, Tra Rinascimento e Riforma, cit., p. 81.
115 Ibid., p. 185.
116 Ibid., p. 123.
117 Significativa è la frequentazione di diversi eretici italiani come il Carnesecchi da parte di Caterina nel corso degli anni Quaranta. Una testimonianza più tarda dell’ambasciatore veneziano da Parigi, il 27 luglio 1561, pare confermare i dubbi degli ambienti cattolici più intransigenti sulle posizioni spirituali della regina: «Fra quelli che tentano di debilitar la deliberation fatta nel parlamento in materia della religione, come scrivo nelle pubbliche, vi sono non solamente il Cancelliere et altri che apertamente fanno profezione di contrari alla vera fede, ma ancora è opinione che vi sia la Reina, la qual benchè parlando con li altri ambasciatori, et con me si mostri Catholica tuttavia per molti effetti passati et presenti che si sono veduti in lei, pare che habbi l’animo molto diverso dalle parole. Io non ho voluto scriver questo nelle pubbliche perché son informato che sono scritte di qua molte cose di quelle che si dicono o trattano nel Senato, le qual doveriano essere tenute secrete, et una di queste che si sapesse potria dispiacer assai, et alla gratia etc.» (Archivio di Stato di Venezia, Capi del Consiglio di Dieci, Lettere di ambasciatori e di rappresentanti presso le varie corti, busta 11, Parigi 27 luglio 1561).
118 Spini, Bibliografia, cit., pp. 149-50, 159-60.
119 Dalla dedica «Alla serenissima regina Caterina, regina di Francia» si ricava che il testo le fu offerto dopo l’ascesa al trono del marito (Antonio Brucioli, Hymni, cantici et psalmi dello amore divino christiano di Antonio Brucioli libri tre, manoscritto in Bibliothèque Nationale de France, Arsenal, ms. 8554, c. 2r).
120 Antonio Marsand, I manoscritti italiani della regia Biblioteca parigina, Paris, Stamperia Reale, 1835-1538, vol. 2, pp. 237-239.
121 Matteo Fadini, L’inquietudine in versi. Le opere di Marcantonio Cinuzzi e la letteratura eterodossa, tesi di dottorato, Università di Trento, 2014, tutor Andrea Comboni, pp. 4-12. Sulla Firenze valdesiana di Cosimo si rimanda a Massimo Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo, Torino, Einaudi, 1997.
122 Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, pp. 88-90, 187-88, 379-381; Ead., La circolazione clandestina di Erasmo in Italia: i casi di Antonio Brucioli e di Marsilio Andreasi, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 9 (1979), pp. 576-584.
123 Tommaso Bozza, Calvino in Italia, in Miscellanea in memoria di Giorgio Cencetti, Torino, Bottega d’Erasmo, 1973, pp. 411-419.
124 Ambrogio Catarino Politi, Compendio d’errori et inganni luterani contenuti in un libretto senza nome de l’autore, intitolato «Trattato utilissimo del benefitio di Christo crucifisso», Roma, Ne la contrada del Pellegrino, 1544, p. 20v; Spini, Tra Rinascimento e Riforma, cit., pp. 228-231; Alida Caramagno, Il percorso dottrinale di Antonio Brucioli, dal commento ai Salmi alle Pie et cristiane epistole, in Guido Dall’Olio, Adelisa Malena, Pierroberto Scaramella (a cura di), La fede degli italiani: Per Adriano Prosperi, vol. I, Pisa, Edizioni della Normale, 2011, pp. 53-65.
125 Massimo Firpo, Valdesiani e spirituali. Studi sul Cinquecento religioso italiano, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2013, pp. 139-140, 207-208; Massimo Firpo Fabrizio Biferali, Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 174.
126 Brucioli, Hymni, cantici et psalmi, c. 137v.
127 Ibid., c. 286v.
128 Ibid., cc. 117r-118r, 307v-308r, 316v-319r.
129 Ibid., c. 299v.
130 Guillaume Berthon, Quelques nouveautés bibliographiques autour d’Etienne Dolet et Jean de Tournes, «Bulletin de la Société de l’histoire du Protestantisme français», 158 (2012), pp. 671-682.
131 Diversa l’interpretazione di Matteo Fadini che, senza definire compiutamente il concetto di «eterodossia» a quella data ancora lontano da chiare categorizzazioni da una parte come dall’altra della barriera confessionale ancora in costruzione, insiste sulla dipendenza tra la scrittura poetica del Brucioli e la teologia di matrice valdesiana, di cui il Beneficio sarebbe una delle massime espressioni (Fadini, L’inquietudine in versi, cit., pp. 15-17).
132 Brucioli, Hymni, cantici et psalmi, cc. 114v-115v.
133 Ibid., cc. 117r-118r, 121v-125r, 314r-316v.
134 La metafora della nave si riferisce alla Chiesa e non all’anima del fedele (Ibid., cc. 309r-311r).
135 «S’a nimici di poi ti volterai, / quanto ciaschedun s’ami et si compiaccia, / non certo senza sdegno ammirerai / dispergi questi, et della chiesa scaccia / et il lor consiglio sia da te distruto, / col furor della tua severa faccia / vedi che mai non son col volto aciutto, / per la persecution c’habbiam da questi, che lieti son di nostro pianto et lutto. / Et se gli aiuti, signor mio fien presti / i servi tuoi, ch’in reverentia t’hanno / dove si veggono hor per pianto mesti / per la allegreza ne giubilerano» (Ibid., c. 301v). Vedi anche cc. 302r-303r, 305r-306v.
136 «Così quella virtù che in lei s’appiglia / cerca di poi ch’è ritornata in terra / mostrare a chi dal vero camino erra / come un lume dall’altro virtù piglia» (Ibid., c. 111v).
137 Se il Brucioli certamente aderì convintamente alla giustificazione per sola fede, un orientamento teologico peraltro largamente diffuso all’interno del mondo cattolico pretridentino, e non risparmiò lodi all’onnipotenza divina, più sfumato appare il suo giudizio nei confronti della predestinazione, che sulla base di una formazione umanistica e in linea con la spiritualità dell’evangelismo francese egli sembrò rifiutare, lasciando qualche minimo spazio di manovra all’arbitrio umano. Si veda ad esempio Brucioli, Hymni, cantici et psalmi, cc. 298r-300r. Per una lettura opposta riguardo alla predestinazione cfr. Fadini, L’inquietudine in versi, cit., pp. 19-21. Il confine delle interpretazioni teologiche tra esaltazione della grazia e affermazioni dottrinali in senso predestinazionistico può apparire talvolta molto sottile, ma una puntuale analisi della produzione del Brucioli, in prosa come in versi, non consente di classificarlo tra i fautori del servo arbitrio né tantomeno di una religione degli eletti. Sulla spiritualità evangelica del Brucioli vedi Alonge, Condottiero, cardinale, eretico, cit., pp. 254-257.
138 Andrea Del Col, Il secondo processo veneziano di Antonio Brucioli, «Bollettino della Società di studi valdesi», 146 (1979), pp. 90-92.
139 Ibid., pp. 86-87; vedi anche id., Il controllo della stampa a Venezia e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), «Critica storica», 17 (1980), pp. 469-470, 473-474.
140 Importanti le pagine dedicate da Jonathan Reid al tema dell’utilizzo dei versi per la propaganda evangelica da parte della rete di Margherita di Navarra nel suo ormai classico Reid, King’s Sister-Queen of Dissent, cit., pp. 447-495.