Revue Italique

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Travestimenti aragonesi (anche pastorali)

Carlo Vecce

Il codice del travestimento, fenomeno culturale e sociale ampiamente condiviso nel sistema delle corti italiane del Rinascimento, acquista un rilievo crescente nella Napoli aragonese dopo il 1465, l’anno che segna un decisivo momento di svolta per la città e per il Regno con la vittoria di Ferdinando d’Aragona nella guerra contro il pretendente Giovanni d’Angiò e i baroni filoangioini. Il sentimento della rinascita è marcato da eventi fortemente simbolici come la riapertura dello Studio e l’arrivo di Ippolita Sforza, sposa di Alfonso duca di Calabria, mentre l’immagine della maiestas è oggetto di un’attenta strategia di comunicazione, che passa anche attraverso la metamorfosi di sovrani e principi in eroi e condottieri antichi, celebrati nelle arti visive (dall’Arco di Trionfo di Castelnuovo alle miniature dei codici della biblioteca reale), nella storiografia, nell’oratoria e nella poesia encomiastica.1

La riorganizzazione dei rapporti tra intellettuale e potere vede l’ascesa di una nuova classe di funzionari, non più forestieri ma reclutati nella capitale e nel regno, appartenenti alla piccola aristocrazia cittadina o provinciale o anche a classi subalterne (Antonello Petrucci, Francesco Del Tuppo). La loro mobilità sociale è resa possibile dalla formazione giuridica e umanistica offerta da varie istituzioni educative: lo Studio, la scuola di grammatica istituita in Castelnuovo da Alfonso il Magnanimo, e i ludi privati retti da umanisti come Giovanni Pontano, alla guida della cosiddetta ‘accademia’ dopo la morte del Panormita nel 1471, la comunità di umanisti erede del circolo che era solito riunirsi intorno ad Alfonso, nella celebre «ora del libro».

Anche l’accademia si presenta come uno spazio di travestimento, in cui i Moderni si rivestono dei panni degli Antichi e attualizzano un sogno di rinascita dell’Antico simile a quello che si coltiva nell’accademia romana di Pomponio Leto. Il primo livello di trasformazione è la creazione del nome accademico, derivato dal nome di persona (Elysius Calentius, Iovianus Pontanus) o del luogo d’origine (Panormita, Galatheus), oppure da qualità poetiche e morali (Actius Syncerus). Nell’iconografia ufficiale, la figura dell’umanista è quella di un oratore togato o un filosofo antico, curvo sui libri del suo studiolo. Così appare il Pontano nei frontespizi del De oboedientia e De principe (in due codici allestiti per la biblioteca aragonese e miniati da Cristoforo Maiorana), mentre nel busto di Adriano Fiorentino è privo degli attributi tipici dell’attività intellettuale (libri, penna, toga), in una nudità eroica simile a quella dei ritratti degli antichi romani.2

Quel che si mette in scena in accademia è un moderno teatro della sapienza, che Pontano presenta nei suoi Dialoghi come uno spazio non chiuso ed elitario ma aperto alla città, in luoghi che sono come soglie intermedie tra pubblico e privato, i porticati esterni (porticus) delle case degli umanisti, prima del Panormita e poi del Pontano, così simili agli antichi Sedili di Napoli, tradizionale luogo d’aggregazione della nobiltà cittadina. Allo spettacolo che offrono di sé gli intellettuali corrisponde all’esterno lo spettacolo reale della vita, in tutti i suoi aspetti, anche quello propriamente teatrale, evocato nella Lepidina e messo in scena alla fine dell’Antonius, in cui un poeta mascherato improvvisa sulla piazza la recita di un cantare epico.3

Ma il travestimento (di nomi, persone, comunità, luoghi) è qualcosa di più di un raffinato gioco di corte o di accademia. Coinvolge il rapporto dell’autore con se stesso, con gli altri autori, con il pubblico, con le istituzioni e il potere, e nella trattatistica politica si intreccia con la riflessione sulle forme della comunicazione tra intellettuale e principe, e tra principe e popolo. Come trasmettere messaggi anche scomodi, opinioni divergenti su situazioni difficili ma reali, in modo che non venissero recepite come aperta critica o ribellione agli indirizzi politici generali?

Diomede Carafa, nel Libro de li precepti overo instructione de li cortesani indirizzato al figlio Giovanni Tommaso e pubblicato con dedica di Joan Marco Cinico a Beatrice d’Aragona, elogia il parlar poco, aggiungendo che «Nostro Signore Idio nce creao doe aurechye et una buoccha, ché se vole più che lo doppio intendere et una parlare».4

Pontano, nel iv libro del De oboedientia, ammette che è necessario talvolta ‘vestire’ la verità, e anche simulare e dissimulare, a seconda delle circostanze:

Ad haec veritas ipsa non adeo nuda semper incedit, quod poetis placet, ut non aliquando sese ipsa vestiat. Quod et Habraam et sacrae docent historiae. Quinetiam nunc simulare nunc dissimulare prudentis est, ut in rebus dubiis atque adversis et ubi fortuna variat.5

A fine secolo, dopo le grandi crisi politiche e civili che investono il Regno (la cosiddetta Congiura dei Baroni e l’impresa di Carlo VIII), Antonio De Ferrariis detto il Galateo sarà ancora più esplicito. Nel dialogo lucianeo Heremita ricorda che obiurgare il principe può essere molto pericoloso, come dimostra l’incontro con un’inquietante figura di san Giovanni Battista decollato che gira portando in mano la propria testa, a memoria di quel che accade quando la voce della verità si fa sentire troppo chiara.6

Nella crisi del sistema di comunicazione della corte, spetta ai governanti il compito di conoscere direttamente la realtà. Dopo il crollo del Regno nel 1501 e l’inizio del dominio spagnolo, Galateo rilancia nel De educatione l’immagine del principe en travesti, che si rende invisibile travestendosi da popolano e girando in incognito tra la gente per apprendere la verità dalle loro opinioni, senza mediazioni cortigiane interessate o deformanti:

Quapropter quidam principes sumpto plebeio habitu per tabernas et compita, per templa incogniti errare soliti sunt, ut quid vulgus, quid opifices, quid mulierculae de se sentirent, ipsimet intelligerent, ausi meo iudicio rem optimis principibus dignam.7

Su questa linea si collocano dunque i travestimenti del sistema letterario contemporaneo, in una pluralità di forme linguistiche e metriche (strutture polimetriche di terzine piane e sdrucciole, stanze di canzoni, frottole di endecasillabi con rimalmezzo) e di generi comunicanti tra loro (farsa, intramesa, gliommero, strussula, canzone per aenigmata, egloga). In quest’ampio spettro l’allegoria pastorale conserva una funzione primaria, perché strumento di comunicazione di messaggi politici e sociali in un sistema di potere che, nell’Italia del Quattrocento e in particolare a Napoli, poteva ancora essere assimilato all’antica metafora (politica e religiosa) del pastorato. Ne tratta sempre Pontano, quando nel iv libro del De oboedientia presenta una teoria dello stato assoluto moderno temperato da un rapporto principe-sudditi ricondotto (su base aristotelica e scolastica) al rapporto di famiglia (padre-figli) e di pastorato (pastore-pecore):

Hi principio qui populos regerent reges dicti, a similitudine etiam patres appellati, quin et pastores eos vocavit antiquitas, quos et sacrosanctos et augustos esse voluit atque inter divos merita retulit.8

Come è noto, la poesia bucolica in volgare si era sviluppata a Napoli intorno al 1480 per dare voce alle istanze di riforma morale e civile che aveva sollevato la situazione politica contemporanea, la crisi della piccola nobiltà cittadina, schiacciata tra il potere dei grandi signori feudali (i baroni) e l’emergere delle classi popolari, favorite dalla politica regia di sviluppo delle attività produttive e dei commerci.9 Tra i testi più antichi, alcune egloghe isolate di Pietro Iacopo De Iennaro e del giovane Iacopo Sannazaro, databili al 1481-1482 (anni in cui entrambi i poeti ebbero a soffrire di spoliazioni di feudi aviti), e raccolte dopo il 1486 in una piccola antologia di bucolici napoletani che un anonimo lettore-copista contemporaneo poteva aver pensato come risposta autoctona all’edizione dei bucolici toscani (i senesi Francesco Arsocchi e Iacopo Fiorino de Boninsegni e i fiorentini Bernardo Pulci e Girolamo Benivieni), le Bucoliche elegantissimamente composte stampate a Firenze da Antonio Miscomini nel febbraio 1482 (1481 stile fiorentino). Ne sopravvivono due manoscritti più tardi, con differenze notevoli di ordinamento e di attribuzione, ma probabilmente derivati dalla medesima fonte: Napoli, Biblioteca Nazionale, XIII.G.37, ff. 3r-33r (N), e Vaticano lat. 9371 (V).

N fu iniziato il 25 settembre 1489 in Castelnuovo dal barone Giovan Francesco di Montefalcione, come dichiara lo stesso copista nella nota introduttiva in cui esplicita anche il contenuto della prima parte del codice: «quinterno de egloghe et altre cose de piacere composti per <du>i poeti jentelomini neapolitani» (f. 1r); il resto del manoscritto continua invece con una trascrizione del Libro pastorale nominato Arcadio di Sannazaro e delle Rime di De Iennaro. Nella prima sezione si leggono, nell’ordine, una breve lettera Silvio a la Sibilla (f. 3r, probabilmente Francesco Galeota e Ceccarella Minutolo), le egloghe i, vi e ii dell’Arcadia di Sannazaro (adespote, come quasi tutte le egloghe successive), l’egloga anonima Montano e Collano, le egloghe iv e viii della Pastorale di De Iennaro, l’egloga Alfanio e Cicaro (con la nota finale «Finis / Sannazaro»), le egloghe viii e iv dell’Arcadia e i e v della Pastorale.10

V, copiato poco prima di N, presenta solo testi bucolici, con l’inserzione della rielaborazione napoletana della Deifira dell’Alberti attribuita ad Angelo Caracciolo (Dialago de Palimacro et de Filarco); nell’ordine, le egloghe viii e i della Pastorale, l’egloga Alfanio e Cicaro, le egloghe ix e vi dell’Arcadia e iv della Pastorale, l’egloga Montano e Collano, l’egloga v della Pastorale, il Dialago, le egloghe viii, i, iii e ii dell’Arcadia, e infine l’egloga di Rustico Romano (Giuliano Perleoni) in morte di Giangaleazzo Sforza duca di Milano (1477).11

Le egloghe di De Iennaro ci restituiscono un testo più antico rispetto alla redazione offerta dall’edizione della Pastorale (Napoli 1508), e nel solo N parzialmente orretto secondo il testo di quella redazione. Le egloghe di Sannazaro appartengono invece lla prima redazione del prosimetro, il Libro pastorale nominato Arcadio (copiato anche in N), con l’eccezione della vi egloga in V, in redazione anteriore. Di più, altri due testi adespoti potrebbero essere attribuiti ai «dui poeti jentelomini» che di fatto occupano tutta l’antologia bucolica (a Sannazaro l’egloga Alfanio e Cicaro, e a De Iennaro l’egloga Montano e Collano), e sarebbero dunque un esempio di egloghe estravaganti che entrambi gli autori avrebbero in seguito lasciato al di fuori dei rispettivi prosimetri, dopo averle saccheggiate per la composizione di altri testi. Di fatto, per Sannazaro, una redazione anteriore al prosimetro è riconoscibile solo per le egloghe i, ii, vi dell’Arcadia, secondo la lezione del codice Marciano It. Z 60 (= 4752) (M), copiato a Venezia alla fine del Quattrocento con materiali provenienti da Napoli, Ferrara e Milano. All’inizio del manoscritto, altre tre egloghe (Aglao et Aglasto, Daphnis Dameta et Alphesibeus, Palemon et Philenus) recano un’esplicita attribuzione al Sannazaro, confermabile solo nel primo caso (affine alla prima dell’Arcadia).12

Le prime egloghe di Sannazaro, nel passaggio dalla redazione estravagante alla prima redazione del prosimetro, rivelano l’importanza dell’onomastica nel gioco di travestimento del giovane umanista (il «coltissimo giovene») in pastore. Le sue scelte appaiono più attente e originali di quelle dei suoi contemporanei. In N e V l’egloga adespota Alfanio e Cicaro, basata sul confronto morale tra passato e presente, potrebbe suggerire la contrapposizione tra i due pastori anche per mezzo dei loro nomi: il vecchio saggio Alfanio (da Alpha, ‘origine’) risale alle origini favolose del genere umano nell’età dell’oro e condanna la corruzione del presente, mentre il giovane Cicaro (dal latinismo cicaro, ‘ragazzo, monello’), turbato dal discorso del compagno, decide ormai di «viver ne li deserti e in solitudine» (v. 66).

Nella prima egloga dell’Arcadia Sannazaro si sdoppia in entrambi gli interlocutori, Selvaggio ed Ergasto (che continueranno ad essere sue proiezioni autobiografiche nel resto del prosimetro). Selvaggio richiama il Silvius petrarchesco (nome usato anche dal Galeota), e la condizione di solitudine, di fuga dal consorzio umano, che è propria di chi si fa ‘abitante delle selve’, come avvertiva un antico copista-lettore, Iacopo Malagugio (nel codice Ambrosiano C 112 inf., del 1503): «Silvagio: a sylva molinatum est nomen, veluti ‘habitans sylvas’». Ergasto, derivato dal greco ergastér, ‘lavoratore’, caratterizzerebbe invece la condizione del ‘travagliato’, rappresentato come aaticato e prostrato dalle pene d’amore, dalla malinconia e dal disagio esistenziale.13 L’egloga a sua volta allude non solo alla soerenza d’amore di Ergasto ma anche alla diicile situazione politica e civile, alla tensione tra la monarchia aragonese e i baroni, e alle malversazioni di corrotti funzionari regi (chiamati «lupi»). Da osservare che nella prima redazione estravagante il pastore si chiamava Argasto (un nome simile all’Aglasto dell’egloga Aglao et Aglasto in M), e che l’importante variante veniva registrata e spiegata anche dal Malagugio: «Ergasto ‘operarius’ vel ‘operator’ dicitur latine. Argastus vero dicitur ociosus. Nam argos signicat ocium. Ergos autem est opus».

Più complessa la metamorfosi della seconda egloga, che in prima redazione si presentava come un violento atto d’accusa contro i ‘lupi’, cattivi consiglieri del principe, e poi sfumava l’invettiva politica nel passaggio al prosimetro. Del tutto diversi i nomi dei pastori in M: Vulsano e Turingo, nomi che riettono la prima formazione umanistica di Sannazaro, che alla scuola lessicograca di Giuniano Maio aveva approfondito la lettura di autori come Varrone e Livio, schedati nel giovanile Repertorium rerum antiquarum (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, lat. 9477).14 Vulsano può essere infatti accostato a Vulso, antico cognome romano (Liv. 22,35 e 40,59) derivato a sua volta da una famiglia di parole (vulsus, vulsura, vello: cfr. Varr. R.R. 2,11) appartenente al lessico della pastorizia, evocazione di un arcaico mondo pastorale in cui si praticava ancora lo strappo della lana invece della tosatura. Nel contesto allegorico dell’egloga, il nome può anche caricarsi del signicato di ‘strappare’, ‘sradicare le male piante’, cioè di un’esortazione all’esercizio inessibile della giustizia nei confronti dei ‘lupi’. Turingo, invece, dal cognome romano Turrinus, suggerisce la gura di un pastore che resta saldo come una torre, nello sbandamento generale.

Nel prosimetro, Vulsano diventerà un più generico Montano (‘montanaro’, pastore dei monti, interlocutore dell’egloga Montano e Collano attribuibile al De Iennaro nei manoscritti N e V, e quindi identificabile con De Iennaro), e Turingo Uranio, che è un trasparente riferimento al Pontano, autore del poema Urania (1479), come suggerisce un antico lettore: «Uranio signifiant celeste, est mis en cest oeuvre pour Pontan, qui a faict un oeuvre intitulé Urania».15 Nella nuova redazione del prosimetro, alleggerendo la portata politica dell’egloga, Sannazaro preferisce dunque privilegiare il contesto culturale contemporaneo, intessendo una rete di riferimenti ai poeti che erano stati sue ‘guide’ nei diversi generi poetici: Montano-De Iennaro per la bucolica volgare, Uranio-Pontano per la poesia umanistica latina, e Cariteo (citato alla fine della seconda prosa) per la lirica volgare.

Anche la terza egloga estravagante (la sesta dell’Arcadia) è oggetto di un radicale processo di cambiamento, attuato però senza perdere di vista la tematica morale tipica della prima produzione bucolica di Sannazaro: la critica di un presente dominato dall’avidità e dal vizio (allegoria riferita certamente alla Napoli contemporanea) e la nostalgia per un favoloso tempo felice. In prima redazione, il dialogo era tra i pastori Murano e Orcano. Murano era il pastore che ‘mura’, che protegge le pecore con opportuni steccati, come aveva affermato Vulsano/Montano nella seconda egloga: «alcuni saggi pastor le mandre murano» (v. 42; cfr. Alfanio e Cicaro v. 49: «Li gran pastur le ricche mandre murano»). Più oscuro il nome Orcano, che, se derivato dal greco orchos, ‘giuramento’, sarebbe il ‘pastore del giuramento’, leale e fedele alla parola data.

Il passaggio da quelle egloghe isolate alla prima redazione del prosimetro, intitolato in una famiglia di manoscritti (e nelle prime stampe non autorizzate fra 1502 e 1504) Libro pastorale nominato Arcadio, risente dell’incalzare della storia contemporanea, tra l’inizio del 1483 e l’inizio del 1486. È in questo periodo che Sannazaro probabilmente compose, tra Ferrara (dov’era al seguito di Alfonso duca di Calabria) e Napoli, il Libro pastorale, concluso nella struttura di un prologo, dieci prose e dieci egloghe, di cui l’ultima ingloba al suo interno il canto non di un pastore d’Arcadia ma di un poeta napoletano contemporaneo amico dell’autore, chiamato con il suo nome reale, Giovan Francesco Caracciolo. Novità rivoluzionaria, introdotta nella storia del genere bucolico, è l’ambientazione integrale della vicenda e delle egloghe in Arcadia (una soluzione pregurata da Virgilio, ma non perseguita sistematicamente dall’autore antico né da altri autori successivi). Quell’Arcadia diventa un mondo autonomo, non è più un’allegoria ma un ‘doppio’ del mondo reale, con la sua geografia, le sue leggi e i suoi codici di comportamento. Non è più un travestimento. Sannazaro (che si proietta anche in alcuni pastori arcadici: Selvaggio, Ergasto, Carino) appare nella vicenda come personaggio, come un migrante in Arcadia che si è improvvisato pastore, e che interagisce con gli altri pastori conservando la sua storia e la sua personalità (rivelate alla comunità pastorale nella prosa vii), il nome di famiglia (Sannazaro) e quello accademico (Sincero), attribuitogli dalla stessa fanciulla amata. Questo spiega anche l’ulteriore allontanamento del Libro pastorale dalla poesia bucolica contemporanea sul piano dell’allegoria politica. Nel doppio arcadico il principe scompare, diventa invisibile, o resta appena riconoscibile nelle enigmatiche allusioni delle egloghe più antiche, anteriori alla composizione del prosimetro. A differenza dei bucolici contemporanei, in Sannazaro non compare quasi alcun accenno encomiastico ai principi aragonesi e alla corte di cui comunque, dal 1481, egli fa parte come cortesano.

Segno eloquente di questa obliqua appartenenza è il probabile codice di dedica dell’opera, il Vaticano Barberiniano lat. 3964, databile alla prima metà del 1486 e miniato con le armi di Ippolita Sforza, la ‘fenice’ arrivata a Napoli nel 1465, protettrice di letterati e mediatrice delle crisi civili e diplomatiche degli anni più recenti. Con questo codice, era a lei che Sannazaro implicitamente indirizzava l’opera, come aveva fatto anni prima Masuccio per il suo Novellino. Ed era a lei che si rivolgeva, in quello stesso difficile 1486, un capitolo ternario del Galeota, per impetrarne l’intercessione in una nuova stagione di pacificazione e di perdono, vv. 10-24:16

Vidi la terra, che sovente brama
la tua salute al tuo rimedio prima,
che per amore et riverentia t’ama;

videla, come piange et se delima
Napole bella toa, de parte in parte,
ch’io non so dirlo in angosciosa rima.

Vedile intorno el summo Jove et Marte,
che sanguinoso absedio li fanno,
ove so’ invano le nostre arme et l’arte:

vedi quel gram dolor, vedi l’affanno
de popul tuo, che del bel nome aspecta
soccorso vero nel continuo damno:

però che tu fra noi si’ stata electa,
che fusse al gram remedio salute,
togliendone del Ciel ogni vendeta.

Nel Libro pastorale non mancano invece le allusioni a personaggi che rinviano a due sfere ben determinate, autonome o estranee al sistema del potere: la cultura umanistica e la poesia volgare (Pontano; Elisio Calenzio, riflesso nel pastore Galicio; De Iennaro, proiettato in Montano e Opico; e infine Cariteo e Caracciolo), e soprattutto il mondo degli affetti familiari (il padre e la madre di Ergasto, Androgeo e Massilia, compianti dai pastori sui loro sepolcri, non sono altro che il padre e la madre di Sannazaro, Cola e Masella di Santomango).

Un caso particolare, sul quale vale la pena soffermarsi, è quello del vecchio stregone Enareto, «degno veramente di molta riverenza ne la rugosa fronte, con la barba e i capelli lunghi e bianchissimi più che la lana de le tarentine pecore» (Arcadia ix 36). Si tratta dell’umanista Giuniano Maio, docente di umanità nello Studio, commentatore ed editore di classici, maestro di Sannazaro e precettore di principi aragonesi, ai quali dedicherà anche un’importante opera politica in volgare, il De maiestate.17 Quello strano nome, Enareto (dal greco ainarétes, ‘coraggioso’), era in prima redazione Enarato (da enarrare, cioè ‘raccontare, inter pretare’): e infatti viene usato nella stessa forma da De Iennaro, nel presentare un pastore che (con le stesse qualità magiche e divinatorie attribuite a Maio da Sannazaro e altri) profetizza la rivolta dei baroni e il loro finale supplizio (Pastorale iii).18 L’Enarato di De Iennaro è una figura amara, di chi ‘sa’ ma non può parlare, e che continua a ripetere, vv. 128-31:

un gran secreto ho ascoso dentro al petto
[...]
nel cor tegno una fossa cupa, occolta
de ingiurie, che una volta fiano intese
da chi le nostre offese, absente, aborre,
et col desir soccorre ad nostra aita;

e che anzi alla fine dà a Gianuario un aperto consiglio di dissimulazione, vv. 154-56:

In questo mezo simula et ringratia
chi più te offende et quel che tanto asperrimo
te induce ad querelar de tua disgratia.

Non è un caso, dunque, che solo su questo personaggio Sannazaro addensi una serie di riferimenti a diverse modalità di travestimento ‘politico’, a forme di simulazione e dissimulazione ‘onesta’ che (come più di cent’anni dopo nel trattato di Torquato Accetto) hanno come finalità primaria la sopravvivenza del cortesano in un mondo dominato da lupi feroci. Tra i suoi sortilegi, Enareto possiede infatti quello dell’invisibilità, reso possibile dalla mitica pietra dell’Elitropia (di boccacciana memoria):

Né tacque quella la quale inseme legata con una certa erba e con alquante altre parole, chiunque indosso la portasse, potrebbe a sua posta andare invisibile per ogni parte, e fare quanto gli piacesse, senza paura di essere impedito da alcuno. (Arcadia ix 31)

Se non gli è possibile rendersi invisibile, Enareto sembra essere almeno in grado di mescolarsi tra i lupi, in una curiosa esibizione di oggetti ‘lupeschi’:

nell’una de le mani avea di genebro un bastone bellissimo quanto alcuno mai ne vedesse a pastore, con la punta ritorta un poco, da la quale usciva un lupo che ne portava uno agnello, fatto di tanto artificio, che gli avresti i cani irritati appresso. (Arcadia ix 36)

Ed è addirittura capace di trasformarsi in un lupo, per intendere i loro segreti, adattando ad una bassa attività di spionaggio la saggia auscultazione dell’opinione popolare da parte del principe:

Et aperta la mia tasca, ne trarrò veleni potentissimi, coi quali a mia posta soglio io transformarmi in lupo, e lasciando i panni appiccati ad alcuna quercia, mescolarmi fra gli altri ne le deserte selve; non già per predare come molti fanno, ma per intendere i loro secreti e gl’inganni che si apparecchiano a’ pastori di fare; i quali potranno ancora al tuo bisogno commodamente servire. (Arcadia x 36)

Un’immagine che riprende apertamente il Novellino di Masuccio Salernitano, in cui da un lato si denunciava la trasformazione dei lupi in agnelli («de pastori deventano lupi con manto de la mansueta pecora avolti»), dall’altro si ammoniva a non fingersi lupi senza esserlo («Dunque non essendo tu lupo, non conviensi dello suo pure foderarsi il mantello»).19

Con la ‘pubblicazione’ del Libro pastorale di Sannazaro (cioè la sua prima diffusione manoscritta, dal 1486 in poi), Pietro Iacopo De Iennaro, che pure aveva iniziato a scrivere egloghe prima del più giovane amico, si trovò a rincorrerlo, senza mai riuscire a raggiungerne l’altezza d’ingegno. Raccolse le egloghe già composte, la i, la ii e la v, «le quali recetate in pubblici lochi se intesero», dedicate al lamento per la corruzione dilagante nell’amministrazione del Regno e, più in particolare, per la sottrazione del feudo avito delle Fratte (venduto a Onorato Gaetani il 5 giugno 1482) da parte dei soliti ‘lupi’, invocando il ritorno provvidenziale di un Fauno che rimetterà le cose a posto (Alfonso duca di Calabria), e di cui si celebra l’effettivo rientro nell’egloga viii (1484). Premise alla raccolta una prosa narrativa autobiografica intitolata Transcorso del voluntario exilio, e aggiunse altre egloghe (fino al numero complessivo di quindici), talvolta del tutto estranee alla materia pastorale. La materia politica e storica è aggiornata agli ultimi tragici sviluppi della congiura dei Baroni, la cattura del ‘secretario’ Antonello Petrucci e di altri a Castelnuovo il 13 agosto 1486, il loro processo e la loro esecuzione nel 1487, probabile terminus post quem per la composizione della Pastorale, che però sarebbe stata pubblicata solo dopo la morte dell’autore, nel 1508.

Il proemio dell’opera, indirizzato al duca Alfonso, rivela apertamente la necessità del ‘travestimento’ pastorale che l’autore deve adottare per evitare pericolose vendette da parte dei ‘lupi’:

Queste tre pietati, adunque, Illustrissimo Duca, volendono ch’io devesse insudare a detrahere, reprendere e biastimare li nephandi costumi, e per consequente il precipitio loro con la tua illustratione pronosticare, temendo che ‘l scrivere in quei tempi, che su la rota de la discordata fortuna sedevano, loro notorii vitii e furti senza alcun poetico colore, dove in la roba me haveano nociuto, nocerme in la persona fosse stata cagione irritarli. Onde me parve, sotto pastorale e rustico velame, il cruciato e tanto inhumanemente offeso animo sfogare.20

Il Transcorso, quindi, ambientato non in Arcadia ma a Napoli, deve iniziare con il travestimento di Pietro Iacopo in Gianuario, che si descrive come un manierato pastore da teatro:

con lo nodoso bastone, astritto da la callosa mano, col despelato zaino, sostentato da lo stanco humero, como colui che, portandose al supplicio, el timore in desiderio rivolge [...] con l’abito incognito, rabuffata barba et difformata vista.21

Gianuario lascia Napoli, passa per Cuma, Averno, Linterno, e arriva sotto le mura dell’antica Arunca; in pochi giorni passa per Minturno, il Liri, la palude pontina, la selva Gallinaria, e ascolta (di nascosto) i pastori che cantano l’egloga I contro i lupi, «Pastor fugite la rapace furia», col pronostico della loro ruina (vv. 138-39 e 158, «un saggio duce / me riduce in qualche speme [...] ritornato essendo il Fauno invitto», versi naturalmente assenti nella prima redazione);22 arriva a Roma, poi passa sul fiume Pescara, dove ascolta Piatino e Fileno sospirare e piangere (egloga iv, imitazione della Saphyra di Filenio Gallo); ripassa per le valli del Sangro e del Volturno, ascolta in una selva (simile a quella con cui si apre l’Arcadia) l’egloga v «Damme el caprecto mio che tu m’hai tolto», se ne fa spiegare il senso da un «bianchissimo vecchio»; segue immediatamente l’insperato annuncio della sconfitta dei baroni («li orrebili orsi et dragoni sono incarcerati [...] i lupi offensori nostri, fra laciuoli del nostro divino Satiro presi demoraveno»), e il ritorno in una Napoli pacificata dal Fauno. Contemporanea alla composizione dei prosimetri di Sannazaro e De Iennaro appare la sperimentazione linguistica e metrica dello gliòmmero, così chiamato da un vocabolo napoletano che significa ‘gomitolo’ ma anche ‘involtino di interiora’ (di capra o maiale), come suggerisce la stessa forma metrica utilizzata, la frottola di endecasillabi con rimalmezzo che si avvolge su se stessa come un gomitolo. Mentre le egloghe cercano di accostarsi a modelli linguistici toscani, lo gliommero tenta una parodia giocosa del dialetto, tutta giocata all’interno del contesto urbano, e non sull’opposizione città-campagna (che è invece alla base della poesia rusticale e nenciale a Firenze). Si tratta con ogni probabilità di poesia recitata, forse dallo stesso autore travestito da popolano; e forse recitata a corte, in contesto carnevalesco e in forma di monologo recitativo, per veicolare messaggi anche politici e sociali. Come ha scritto Nicola De Blasi:

Il poeta umanista che nel travestimento carnevalesco mette in scena se stesso non in una finzione pastorale (come nella bucolica), ma nelle vesti di un esponente del popolo cittadino, sia nel passaggio dal registro letterario (in latino o nel volgare letterario consueto) alla varietà parlata dal popolo cittadino, sia nell’assunzione di un punto di vista diverso dal proprio, dà voce a un contrasto tra modi diversi di parlare nonché di percepire la realtà e la situazione socio-politica presente.23

Se qualcuno suggeriva al principe di travestirsi da popolano e girare in incognito tra i vicoli e i mercati, lo gliommero offre al principe una comoda scorciatoia: è il cortesano travestito da popolano che porta in palazzo la voce della piazza.

La moda dello gliommero, confusa con la persistente tradizione della frottola, coinvolge diversi poeti contemporanei: Francesco Galeota descrive in un’oscura Frotola a lo illustrissimo S. Don Federico in Gliomaro un mondo alla rovescia dai doppi sensi politici, e un’altra frottola-gliommero compone Antonio Caracciolo.24 Ma gli studi più recenti di De Blasi dimostrano che gli gliommeri furono soprattutto un’invenzione di Sannazaro, e in parte una continuazione del sodalizio con De Iennaro che negli anni precedenti aveva visto i «dui poeti jentelomini» impegnati nella composizione di egloghe. Dalla bucolica allo gliommero, era solo un cambio di costume, un salto di scena: dall’Arcadia al cuore della città, da pastore a popolano.

Al Sannazaro sarebbe infatti da attribuire lo gliommero adespoto Eo non agio figli né fittigli, conservato nel codice Riccardiano 2752 ff. 75r-79r (che contiene anche il sonetto xcvii di De Iennaro e l’egloga v della Pastorale).25 L’attribuzione è resa possibile dalla forte affinità dello gliommero con l’egloga Alfanio e Cicaro, a sua volta attribuibile a Sannazaro. Come in quell’egloga, un popolano si lamenta del presente (e addirittura anche degli aragonesi, che trascurano le esigenze del popolo) ed evoca nostalgicamente lo splendore angioino. Dopo il racconto grottesco di un’imbarazzante disavventura (il protagonista, appartatosi in vicolo per un impellente bisogno cor porale, viene sor preso e sbeffeggiato pubblicamente) viene riferito il discorso di un altro popolano di nome Marchionna, che dà voce al disagio delle classi subalterne e al malcontento cittadino, vv. 74-78 e 86-88:

Adesso nuy meschini popolani
simmo como ad cani straciati:
quisti so’ li peccati de sta terra,
perczò ce dà Dio guerra e carastia,
e spesso la moria se nce renova
[...]
Si mmò io stesse de vena, recontara
questa cità amara a che è advenuta,
che mai se nce ajuta uno bono homo.

Nel violento finale, rivolto direttamente al principe, si esplicita la richiesta di processare i responsabili de «li peccati de sta terra», di frustarli nelle piazze e rinchiuderli nel carcere criminale, vv. 203-15:

Singniore, io ne voria incarecare,
che devisevo andare allo regente,
che face incontenente la justicia,
e tutta sta malicia le contate,
e fa’ che ne jorate, ca ve crede;
catapede catapede e bengo appresso
e porto lo processo con denare.
Faciamoli frostare per le chiacze
e più de mille maze li donamo,
e po’ le chiavamo a lo criminale
e da l’officiale agiamo carte,
che mai più non le parta de ste ceppe
per fin che non chiova passe e fico secche.

Siamo forse nel carnevale del 1486, nel momento più difficile della congiura dei Baroni, subito dopo la situazione evocata dal canto di Caracciolo nell’egloga x del Libro pastorale. I personaggi dello gliommero corrispondono a personaggi reali: il Reggente, cioè il presidente della Gran Corte della Vicaria e luogotenente del Gran Giustiziere del Regno, Bernardino Geraldini d’Amelia, nominato nel 1485; e il viceammiraglio nominato dal Grande Ammiraglio del Regno, Antonello Sanseverino, uno dei capi dei baroni ribelli.

L’erudito cinquecentesco Giovanni Battista Bolvito citava altri gliommeri di Sannazaro, oggi perduti, e in particolare alcuni versi di uno gliommero che avrebbe adottato, almeno per la parte introduttiva, la forma dell’epistola in lingua, per cui il nome del destinatario veniva esplicitato nell’incipit senza travestimenti: «Pietro Jacobo mio, non so che fare».26 La risposta è probabilmente lo gliommero anonimo Iacobo Sannazaro tu partuto (Riccardiano 2752), che esibisce il nome del corrispondente nel primo verso, ma passando subito al dialetto:

Iacobo Sannazaro tu partuto
io vinne venuto e tutto hieri
fui con messer Stratieri.

La forma epistolare interessa tutto lo gliommero, e non ne è solo la cornice. Il testo, faceto e scurrile, perde la leggerezza surreale di Sannazaro, ed è molto forte la critica del presente (v. 131, «nullo contento sta napolitano»), con la denuncia delle discordie tra i quartieri di Napoli e della prepotenza degli stranieri, e la solita nostalgia del buon tempo antico dei cortesi re angioini, Ladislao e Renato. L’autore è probabilmente De Iennaro (destinatario di Pietro Iacobo mio), che in altri testi si rivela molto attento alle dinamiche politiche dell’amministrazione cittadina e del sistema elettorale dei sedili.27 Tra i personaggi compare inoltre un medico stralunato di nome messer Stratieri, ricorrente in tutti questi gliommeri.

Sannazaro riprende la cornice epistolare in lingua in Licinio, se ’l mio inzegno fusse ancora.28 La cornice serve per introdurre lo gliommero in dialetto e nello stesso tempo per distanziarne il messaggio. Il passaggio è dal tipico amante petrarchesco ad un popolano apparentemente sconclusionato, che in realtà, dietro fantastiche metafore gastronomiche e dettagli realistici di fatti di cronaca, veicola le solite allusioni politiche: nostalgia del passato angioino, critica della presente, mancanza di magnificenza e splendore (tematiche affrontate dal Pontano nei suoi trattati delle virtù civili) eccetera. Il tema è quello dello svelamento della verità, con allusioni a meschini episodi di corruzione come la compravendita di una gabella: «Molte cose se sanno allo secreto / ch’a te che si’ Secreto dir se pono» (vv. 73-74). Se per Secreto s’intende «funzionario addetto alle pubbliche entrate», il probabile destinatario è proprio De Iennaro, presidente della Regia Camera della Sommaria e amministratore di finanze di vari territori nel Regno dal 1479 in poi. Lo gliommero sarebbe la risposta a Iacobo Sannazaro tu partuto, con la ripresa di simili riferimenti (messer Stratieri, i re angioini), in un tempo non lontano da quello del primo gliommero Eo non agio figli né fittigli (sicuro terminus post quem è l’accenno alla morte di papa Sisto IV nel 1484: ma saremmo probabilmente sempre nel 1486-1487).

Il nome Licinio (da licinio, ‘leccio, elce’) è un possibile senhal bucolico di De Iennaro, perché è sotto un leccio che Gianuario si pone a giacere quando arriva ad Arunca nel Transcorso della Pastorale: «al pedale de un folto licinio a giacere postome».29 E infatti, concluso lo gliommero, la parte finale in lingua è il tradizionale lamento dell’amante disperato, tipico del petrarchismo cortigiano e della bucolica.

Il popolano si traveste di nuovo in pastore, e abbandona la città per le solitudini selvagge, vv. 128-41:

Queste verde campagne e queste piagge
che de fiere silvagge son sì piene,
queste ben nate arene e questi liti,
ove ognor gli occhi afliti vòlgo e giro,
e l’aere ov’io sospiro, e queste rive,
queste fontane vive, e queste valli,
questi fioriti calli e questi boschi,
quest’antri ombrosi e foschi e queste erbette,
queste acque benedette, ove Diana
e la mia dolce e umana Citerea
con ciascuna altra Dea par che si lave,
questa terra suave e queste grotte
mi stanno giorni e notte innanzi agli occhi,
né cosa è che mi tocchi tanto a l’alma.

Contiguo allo gliommero è il mondo dello spettacolo di corte, che a Napoli assume la forma della ‘farsa’ (dal francese farce), un genere misto caratterizzato dalla forte presenza di contenuti encomiastici. Una farsa è, in assoluto, la prima prova poetica (e teatrale) di un ventenne Sannazaro, lo spettacolo organizzato a Napoli nel 1477 per le nozze tra Costanza d’Avalos e Federico Del Balzo, glio del potente Pirro principe di Altamura. Il matrimonio avrebbe dovuto contribuire ad un avvicinamento tra la feudalità del regno e la corona (gli Avalos erano tra i più fedeli seguaci degli aragonesi), e infatti la sposa fu accompagnata nel breve tragitto da Castelnuovo al Palazzo Del Balzo dallo stesso re Ferrante. Allo ne del banchetto il dio Imeneo («vir liberali forma, vultu hilari ac verecundo»: lo stesso poeta?) chiede silenzio, e recita l’orazione in lode del matrimonio, con un nale scherzoso che sarebbe stato degno di uno gliommero:

Ergo, viri omnes, ducite uxores; vos, mulieres, nubite viris. Sed quum omnes dixerim, excludi senes intelligabis: nam nuptiae, nuptiae non sunt, sed inferiarum nunciae.30

Le altre farse di Sannazaro sono documentate tra il 1489 e il 1492. Il 21 agosto 1489 il cronista Giovanni Pietro Leostello annota che Sannazaro e Cariteo hanno organizzato alcune farse a Castelcapuano per alleviare la guarigione di Alfonso dopo un periodo di malattia; e le cedole della tesoreria aragonese registrano le spese sostenute per una farsa recitata a Castelnuovo il 29 novembre 1489, sempre su istanza del duca.31 Si tratta probabilmente delle farse conservate nello stesso codice che tramanda lo gliommero Licinio, se ’l mio inzegno fusse ancora, il Parigino it. 1543: un monologo di Venere che cerca il figlio Amore (derivato da Mosco, in gara con la traduzione di Poliziano); un contrasto tra una giovane e una vecchia (sul tema della giovinezza fugace, ricorrente in Poliziano e Lorenzo e nei canti carnascialeschi fiorentini); una Predica de’ XII eremiti (sul tema dell’amore disperato); e il bando per una giostra di Ferdinando d’Aragona principe di Capua. In particolare, la farsa di Venere inizia con il personaggio del prologo che fa riferimento esplicito al travestimento di scena, vv. 31-32 e 65-66:

Or donche, in tal vestito io m’apresento
per dirve l’argumento de l’istoria
[...]
io mi vo a spogliare ’sti vestiti
ca vui stati vestuti quanti siti.32

Più tarde appaiono le farse contenute nel codice di Monaco, Bayerische Staatsbibliothek it. 265, probabilmente allestito dal nobile napoletano Giosué Capasso agli inizi del Cinquecento. Capasso poté salvare i testi di Sannazaro forse grazie ad una frequentazione diretta dell’autore, per la comune appartenenza al seggio di Portanova, e soprattutto perché suo padre, Loise, cortigiano di re Federico, nel 1501 era stato uno dei pochi (insieme a Sannazaro) a seguire il sovrano nell’esilio francese, ed era morto a Tours compianto dal re. Anzi, è il modello delle farse sannazariane ad ispirare gli esperimenti dei più giovani: tra 1497 e 1501 Giosué aveva infatti recitato «davante la maiestà del re Federico» una farsa del Bene e del Male, nelle vesti un sapiente che aveva girato tutto il mondo in cerca della verità.33

Nel codice di Monaco sono attribuite a Sannazaro La ambasciaria del Soldano esplicata per lo interprete (conservata anche nel Riccardiano 2752 e nel Marciano it. IX 622), la Presa di Granata e il Triunfo della Fama (recitate a Castelcapuano il 4 e il 6 marzo 1492, come ricorda la lettera di accompagnamento a Isabella Del Balzo, con precise indicazioni delle scenografie e dei costumi).34 La prima farsa è giocata sul triangolo comunicativo sultano-messaggero-amata, e sull’ambiguità evocata dalla dichiarazione di non conoscere la lingua d’arrivo: «manda questo privato suo messaggio, / lo qual non sa il linguaggio italiano» (vv. 18-19), con un finale che è ancora (come nello gliommero) lo stesso di un’egloga o di una canzone ‘alla disperata’, vv. 66-79:

Queste vostre parole
rare e nel mondo sole, alma mia Diva,
seran cagion che viva il signor mio,
che sol del gran disio se nutre e pasce,
e, morendo, rinasce nel dolore,
e, rinascendo, more, in van sperando;
e vasse lamentando per li boschi,
per luochi oscuri e foschi e per campagne,
per valle e per montagne, e ’ndarno grida,
movendo con sue strida i tronchi e i sassi;
con gli occhi umidi e bassi e con suspiri
dimostra i soi martiri ad onne gente,
e con voce dolente morte brama,
e con mancante spirto ognor ve chiama.

Il codice di Monaco è in realtà la più importante raccolta di farse aragonesi che ci sia pervenuta. Oltre a quelle di Sannazaro, Capasso e altri, vi leggiamo infatti l’unica farsa superstite di Piero Antonio Caracciolo, figlio di quel Giovan Francesco a cui Sannazaro aveva affidato il canto di dolore della x egloga del Libro pastorale: una farsa intitolata Lo Magico, che venne «representata davante la maiestà del Re da epso Pyrrantonio in persona de uno Magico». Piero Antonio sembrava riecheggiare l’atmosfera magica delle prose finali del Libro pastorale e al tempo stesso la tradizione di Luciano e dell’ermetismo, inter pretando la parte di un negromante che richiama in vita gli spiriti di Diogene, Aristippo e Catone, che si mettono a disquisire sul tema della felicità. Lo stesso autore andò in scena con il seguente travestimento:

Primo andava togato con faccia et barba antiqua, de summa autorità, accompagnato da quattro discipuli vestiti di biancho.35

Il coinvolgimento diretto dell’autore come attore protagonista era una costante delle farse aragonesi.

E intanto Sannazaro riprendeva in mano il Libro pastorale, lo correggeva e lo ampliava nella forma della redazione definitiva intitolata Arcadia, con l’aggiunta di due prose e due egloghe e un congedo. Ma era definitivamente tramontato il sogno di armonia e di convivenza civile del Libro pastorale, dopo la conclusione tragica della congiura dei Baroni e la scomparsa della destinataria del codice Barberiniano, Ippolita Sforza (1488). La ripresa della scrittura, a distanza di anni, avveniva nel segno della difficoltà di comunicazione di un messaggio che, all’altezza della prima redazione, sembrava ancora comprensibile e trasparente, anche attraverso lo schermo dell’allegoria. All’inizio dell’xi prosa Sannazaro ricordava esplicitamente che la canzone di Caracciolo, nella x egloga, «per lo coverto parlare fu poco da noi intesa» (Arcadia xi 7). La stessa opacità che, pochi anni dopo, avrebbe caratterizzato un’anonima canzone recitata nella festa di nozze di Ferdinando II d’Aragona e l’infanta Giovanna nel 1496, Io te canto in discanto

benché il vero senso di lei non fusse inteso da veruno fuorché dal Sanazzaro e dal Pontano e dal Caracciolo.36

L’Arcadia si concludeva con il ritorno di Sincero a Napoli, con un fantastico viaggio sotterraneo che lo portava ad uscire nel bel mezzo della città (travestita da «selva»), dalle acque di una fontana a pochi passi da casa sua. Ancora attonito, e oppresso dall’angoscia di un ritorno segnato da ambigui presagi di morte e di sventura, il poeta si volge attorno per riconoscere i luoghi che un tempo gli erano stati familiari, e due vecchi amici che si avvicinano, Barcinio e Summonzio (Cariteo e Summonte, travestiti in «pastori fra le nostre selve notissimi»). Sincero si distende sul prato, per ascoltarli, ma loro non lo riconoscono più: «tanto il cangiato abito e ’l soverchio dolore mi aveano in non molto lungo tempo transfigurato» (Arcadia xii 50). Il travestimento è diventato una metamorfosi. Alla fine dell’Arcadia, la maschera pastorale è lo stesso volto di Sincero.

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1 J. Barreto, La Majesté en images. Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon, Rome, Ecole Française de Rome, 2013; F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico, Roma, ISIME, 2015; G.M. Cappelli, Maiestas. Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese (1443-1503), Roma, Carocci, 2016.

2 Valencia, Biblioteca universitaria 833, f. 3r, e 52 f. 26r. Cfr. J. Barreto, Il diritto all’immagine nella Napoli aragonese: i ritratti di Pontano e Sannazaro, in «California Italian Studies», 3-1 (2012) (https://escholarship. org/uc/item/1t29z5rr).

3 Giovanni Pontano, Dialoghi, a cura di L. Geri, Milano, Rizzoli, 2014, pp. 463-69. Cfr. C.V. Tufano, La Lepidina di Giovanni Pontano e il suo rapporto con il sistema dei generi letterari fra tradizioni antiche e innovazioni umanistiche, in «Studi Rinascimentali», 9 (2011), pp. 37-51.

4 Diomede Carafa, Memoriali, a cura di F. Petrucci Nardelli, Roma, Bonacci, 1988, p. 270.

5 Iohannis Ioviani Pontani Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1518, vol. I, f. 36r.

6 Antonio Galateo, Eremita, a cura di S. Valerio, Bari, Adriatica, 2004.

7 Antonio De Ferrariis dit Galateo, De educatione, par C. Vecce, Bruxelles-Leuven, Peeters, 1993, p. 156.

8 Pontani Opera omnia, cit., f. 29r; M. Foucault, «Omnes et singulatim», in Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Milano, Medusa, 2001, pp. 107-46; Cappelli, Maiestas, cit., pp. 129-30.

9 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 356-57; M. Riccucci, Il neghittoso e il er connubbio. Storia e lologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001; E. Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, in La cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento, a c. di P. Sabbatino, Firenze, Olschki, 2009, pp. 71-95; Id., Arcadia X-XII, in Travestimenti. Mondi immaginari e scrittura nell’Europa delle corti, a c. di R. Girardi, Bari, Edizioni di Pagina, 2009, pp. 35-70.

10 M. Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P.J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’«Arcadia», in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cxxxi, 1954, pp. 305-51; C. Vecce, Il prosimetro nella Napoli del Rinascimento, in Il prosimetro nella letteratura italiana, a c. di A. Comboni e A. Di Ricco, Trento, Università di Trento, 2000, pp. 221-52; F. Montuori, Note sulla compilazione della Pastorale di Pietro Jacopo de Jennaro, in Iacopo Sannazaro, cit., pp. 97-118. Cito i testi della Pastorale e dell’Arcadia da E. Percopo, La prima imitazione dell’Arcadia, in «Atti della Regia Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli», xviii, 1896-1897, pp. 1-240; Iacobo Sannazaro, Arcadia, a c. di C. Vecce, Roma, Carocci, 2013.

11 G. Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia» del Sannazaro, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 38-39; Vecce, Il prosimetro, cit., p. 235. La V egloga della Pastorale è anche nel Riccardiano 2752, copiato a Napoli alla ne del ’400. Alfanio e Cicaro viene pubblicato in coda all’edizione del Libro pastorale stampata da Sigismondo Mayr a Napoli il 26 gennaio 1503 (cfr., anche per la proposta di attribuzione a Sannazaro, G. Velli, Tra lettura e creazione. Sannazaro - Aleri - Foscolo, Padova, Antenore, 1983, pp. 20-32).

12 Villani, Per l’edizione, cit., pp. 46-51; M. Riccucci, Una silloge bucolica quattrocentesca. Per la storia del codice marciano 4752, in «Rinascimento», xxxix, 1999, pp. 371-408; Ead., Un anonimo imitatore dell’Arcadia. Lettura di un’egloga inedita, in «Per leggere», 3, 2002, pp. 25-43.

13 Villani, Per l’edizione, cit., p. 97.

14 C. Vecce, Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina, Sicania, 1998.

15 C. Vecce, L’Arcadie de Sannazar, selon Jean Martin, in Jean Martin. Un traducteur au temps de François Ier et de Henri II, Paris, Presses de l’École Normale Supérieure, 1999, p. 173. Cfr. F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967, p. 24; M. Riccucci, Il neghittoso, cit., p. 186.

16 Terseto composto per la Ill.ma Madonna Duchessa di Calabria (F. Flamini, Francesco Galeota gentiluomo napolitano del Quattrocento e il suo inedito canzoniere, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», xx, 1892, pp. 61-62).

17 Vecce, Gli zibaldoni, cit., pp. 28-31; G.A. Palumbo, La biblioteca di un grammatico, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, a c. di C. Corati e M. De Nichilo, Lecce, Pensa Multimedia, 2009, pp. 193-208; M. Soranzo, Poetry and Identity in Quattrocento Naples, Farnham, Ashgate, 2014, pp. 71-88; Barreto, La majesté, cit., pp. 229-65.

18 Riccucci, Il neghittoso, cit., pp. 187-90.

19 Riccucci, Il neghittoso, cit., pp. 125-30.

20 Percopo, La prima imitazione, cit., p. 52.

21 Percopo, La prima imitazione, cit., p. 55.

22 Percopo, La prima imitazione, cit., p. 75.

23 N. De Blasi, A proposito degli gliommeri dialettali di Sannazaro: ipotesi di una nuova attribuzione, in Iacopo Sannazaro, cit., pp. 29-57 (cit. alle pp. 55-56).

24 Flamini, Francesco Galeota, cit., pp. 62-65; G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di Filologia Italiana», xxxvii, 1979, pp. 119-279.

25 De Blasi, A proposito, cit. (propone invece un’attribuzione a De Iennaro G. Parenti, Un gliommero di P.J. De Jennaro, in «Studi di Filologia Italiana», xxxvi, 1978, pp. 321-65). Sul codice Riccardiano, cfr. Parenti, «Antonio Carazolo desamato», cit.

26 Napoli, Biblioteca Nazionale, San Martino 442: G. B. Bolvito, Variarum rerum, vol. II, f. 20r. Un frammento riportato dal Bolvito, Quand’io feci taverna a quel soldato, cita a sua volta l’inizio dello gliommero a Licinio, con il ricordo di re Andrea. Cfr. Iacobo Sannazaro, Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza,

1960, pp. 475-76.

27 Palermo, Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, I.C.17, . 34r-44r: P.I. De Iennaro, Libro terczo de Regimento dell’opera de li homini illustri sopra de le medaglie. Cfr. J.H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli, Guida, 1995.

28 Conservato nel codice Parigino it. 1543, miscellanea poetica cortigiana di origine milanese, copiata prima del 1497 con testi risalenti al periodo 1490-1494 (ne deriva Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano II.II.75). Cfr. Iacobo Sannazaro, Lo gliommero napoletano «Licinio, se ’l mio inzegno», a c. di N. De Blasi, Seconda edizione ampliata, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 1999.

29 Percopo, La prima imitazione, cit., p. 55.

30 Napoli, Biblioteca Nazionale, X.B.67, . 398v-401r: Giovan Tommaso Moncada, De vita Illustris Constantiae Davalos comitissae Acerrarum. Cfr. Addesso, Teatro e festività, cit., pp. 79-91.

31 E. Percopo, Vita di Iacobo Sannazaro, a c. di G. Brognoligo, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», lvi, 1931, pp. 123 e 189-90.

32 Sannazaro, Opere volgari, cit., pp. 257-60. Altre farse perdute sono attestate dal

Bolvito.

33 G. Capasso, Le farse, il trionfo, il lamento, a c. di M. Montanile, Napoli, ESI, 1990.

34 Sannazaro, Opere volgari, cit., pp. 276-95.

35 Addesso, Teatro e festività, cit., pp. 92-117.

36 C. Naselli, L’antica canzone napoletana di Capodanno «Io ti canto in discanto», in «Siculorum Gymnasium», viii, 1955, pp. 322-35.