Revue Italique

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L’egloga rappresentativa nel Quattrocento: un’ipotesi storiografica?

Cristina Montagnani

In realtà avevo pensato di intitolare questo mio intervento Per un fantasma che resta: l’egloga rappresentativa nel Quattrocento; poi ho pensato fosse preferibile una forma più neutra. Premetto che non orirò fulminanti scoperte, o acquisizioni sensazionali: mi limiterò a ragionare su dati noti, ma spesso sovrainter pretati, quando non inter pretati in maniera scorretta.

La prendo alla lontana, dall’inizio del secondo prologo del Sacricio di Agostino Beccari, scritto in occasione della rappresentazione dell’estate del 1587, a Sassuolo, vv. 1-24:

Già gli antichi poeti aveano in uso
d’introdurr’i pastori, che a vicenda
scopriano i propri amori, quando col canto,
quando col suon de la sampogna, forse
per mitigar il duol, le pene interne
ch’apportar suol Amor seco e i suoi strali.
E ciò da un sol pastor, talor da due
in versi si spiegava, o in dolci note,
[...]
e quindi altro piacer mai non si trasse
che col legger talor simil poemi.
[...]
Però il poema pastoral si vede
a questi dì da quel costume antico
molto diverso, che non più si scorge
un pastor sol, né due, ma quattro e cinque,
con belle ninfe or compagnate or sole,
comparir in spettacoli et in scene.
1

Mi pare evidente come l’autore sottolinei da un lato una continuità, dall’altro una frattura: continuità nella tradizione bucolica, ma frattura là dove vengono contrapposti «gli antichi poeti», che producevano testi da «legger», al «poema pastoral», sviluppato «in spettacoli et in scene», come se solo il tardo Cinquecento fosse depositario della forma drammatica che si sviluppa dalla bucolica.2

Comunque si vogliano vedere le cose, il tema del rapporto fra egloghe scritte per essere lette, anche a voce alta, e testi teatrali, se pure in forma embrionale, si pone quindi già in una data alta, e potremmo dire che continua a porsi, molti secoli più tardi, nei famosi saggi carducciani sull’Aminta,3 e soprattutto nella summa, profondamente storicistica e dunque organicistica, che Enrico Carrara realizza nel volume Vallardi del 1909 dedicato a La poesia pastorale. In una dimensione critica di primo Novecento non stupisce certo nessuno che si dipani un lo che dai mimi teocritei corre sino al Pastor do, inanellando testi in realtà assai diormi fra loro, e che ben diicilmente si potrebbero pensare come rappresentati o rappresentabili.4 Ma il tema posto da Carrara nel capitolo dedicato appunto all’«egloga rappresentativa» è importante, e merita un supplemento di indagine: è esistita, a anco della linea maestra che dall’Orfeo del Poliziano (variamente declinato sino all’Orphei tragoedia ora attribuita a Boiardo) conduce ai testi cortigiani di ne Quattrocento, una strada specicamente bucolica?

Ossia un testo, o una serie di testi, in cui la dimensione egloghistica non sia solo una componente, ma rappresenti la totalità dell’opera. Tornando a Carrara, esiste, prima del Tirsi del Castiglione, un’«egloga rappresentativa»?5 E in che rapporto si colloca con l’invenzione antiquaria del Poliziano che vuole richiamare in vita l’esempio antico del Ciclope euripideo?

Questo, appunto, è il tema del mio intervento, che si dovrà confrontare, come vedremo, con pochissimi testi e con qualche rimando indiretto: un magro bottino, ma qualcosa nella rete rimane. Inizio con qualche testimonianza: la più signicativa, entro i conni del Quattrocento, mi pare quella relativa alla rappresentazione che si svolse l’8 luglio del 1496 a casa del protonotaro Antonio Galeazzo Bentivoglio, che fra l’altro è il dedicatario della stampa bolognese delle Cose vulgare di Poliziano (Orfeo compreso) del 1494.6 Le notizie sono tramandate da una lettera di Floriano Dol a Francesco I Gonzaga:7 nella descrizione di uno spettacolo realizzato per una occasione festiva, articolato in cinque quadri, leggiamo che

ne la ultima comedia, overo egloga, ne veneron uno pastore citaredo cum una soa dilecta Nimpha.8

Se il termine egloga, dichiarato sinonimo di comedia, non pare qui signicativo, la presenza in scena della coppia pastore «citaredo» / ninfa, cui si accompagna un gigante che irrompe sulla scena e rapisce la fanciulla, potrebbe indicare un, seppur minimo, svolgimento drammatico.

Molto più vago il riferimento a una performance di Serano Aquilano nel 1493 in una lettera del 18 giugno 1493 di Piergentile Varano al Marchese Francesco I Gonzaga, dove si descrivono le nozze di Lucrezia Borgia con Giovanni Sforza:

Facto el sposalitio, el Papa vene fora in sala, ove era apparichiata una Egloga pastorale molto polita, facta per Seraphino [...]. Dreto fu apparichiata la comedia de Menechino, in latino, la quale non havendo ben piazuto al Papa, non la lassò nire.9

Il fatto che dreto cioè dopo l’egloga (comunque non identicabile) fossero rappresentati i Menaechmi farebbe pensare a un avvenimento teatrale; ma le esibizioni di Serano, in genere, erano individuali: testi recitati, o meglio intonati, con accompagnamento musicale. L’evento romano cui allude il Varano, dunque, non dovrebbe essere stato dissimile dalla presentazione, sempre a Roma in occasione del carnevale del 1490, di un’altra egloga di Serano, questa sopravvissuta e identicabile.10 Si tratta di Dimmi Menandro mio,11 componimento bucolico aatto tradizionale sulla decadenza dei tempi moderni, e sulla grettezza dei grandi signori, soprattutto di Ascanio Sforza, testé abbandonato dall’Aquilano; ma il biasimo si estende a tutta la curia romana. Il riferimento alle egloghe di Serano mi permette di aprire, per richiuderlo subito, il capitolo sulle egloghe potenzialmente drammatiche, e quindi passibili di essere rappresentate; parecchi i nomi, e i testi, che via via sono stati proposti. Per ricordare solo i candidati che ritornano più di frequente, inizierei da Pasciute pecorelle, la cosiddetta Semidea del Correggio,12 intanto perché l’autore, come vedremo, ha molto a che spartire sia con la bucolica che con il teatro, e in secondo luogo perché nella lettera dell’8 luglio 1493 che accompagna l’invio del testo a Isabella d’Este il poeta scrive:

Mando ala Signoria Vostra uno capitulo da cantarli drento, già fatto più anni, quale, se li piacerà, poterà tenerlo a questo eecto; et non essendo a proposito, me lo farà intendere, che forsi mi disponerò a qualche cosa più delectevole per Lei. [...] Il capitulo è una egloga pastorale, dove Mopso e Dapni pastori parlano insieme; Mopso si duole di la fortuna, Dapni se ne gloria. El senso alegoricho lo dirò a bocha ala Excelentia Vostra como li parlo.13

Si tratta quindi di un testo cantato o cantabile (non direi certo rappresentabile), sul tipo di quelli dell’Aquilano.

In altri casi, decisamente meno interessanti, il testo stesso recherebbe marche drammatiche, tali da renderne possibile una realizzazione scenica; registro solo qualche titolo, per sottolineare che questi casi di rappresentativo non hanno altro che il nome attribuito loro nella trattatistica novecentesca (che discende quasi in toto dal libro di Carrara): la Lilia di Filenio Gallo;14 La persa agnella del Buoninsegni;15 l’egloga di Galeotto del Carretto del 1492 per il ponticato di Alessandro VI, Ite secure e più non state pavide,16 e così via.

Forse più signicativa l’egloga in terzine Aphilo e Ausonio di Angelo Michele Salimbeni:17 si tratta della consueta disputa sulla natura e gli eetti di amore, ma accompagnata da didascalie tutte piuttosto interessanti per l’argomento che stiamo trattando. A partire dalla prima: «Et prima comenza Aphilo pastore giovene et fra sé dice così mirato che s’ha intorno»; più avanti, quando il protagonista vede avvicinarsi l’altro pastore: «Visto Ausonio da Aphilo alquanto da la longa, Aphilo dice li seguenti tri terzeti prima che arrivi Ausonio», e ancora «In questo giunge Ausonio». Segue poi una «Seconda parte de l’egloga, et stato alquanto Aphilo mirabondo, et mirando Ausonio, che così languiva per amore, dice così quasi ridendo de la sua sciocheza».

Sempre a Bologna restiamo con Diomede Guidalotto,18 le cui Egloghe e prose sono pubblicate dopo il crinale del secolo, nel 1504; nella dedicatoria allo zio, l’autore aerma però che i testi furono rappresentati appena scritti, nella villa di Bondanello, e solo in un secondo tempo raccolti nella struttura prosimetrica in cui oggi ci si presentano. Quanto in questa aermazione sia nzione letteraria non è dato sapere, né dai testi emergono signicativi indizi di rappresentazione; certa, invece, la conoscenza da parte dell’autore dell’Orfeo del Poliziano, stampato, come si ricordava, nel 1494 a Bologna.

Dopo tanto girovagare sulle tracce dell’egloga rappresentativa «redolentem ubique et necubi apparentem», a mo’ di pantera dantesca, vorrei ora fermarmi sull’unico testo quattrocentesco cui la denizione calza davvero a pennello. E questo sin dal titolo, Egloga o vero pasturale, «però che in questa si introducono certi pastori, che parlano e disputano d’amore»,19 composta da Bernardo Bellincioni a Milano, per incarico del «signor conte di Caiaza», ovvero Giovanni Francesco Sanseverino.20

L’autore toscano, forte del suo «ornato orentino parlare»,21 porta sulla scena milanese22 un testo profondamente permeato di cultura laurenziano medicea, e senza dubbio alternativo rispetto alle pièces cortigiane che discendono dall’Orfeo e dai suoi sviluppi padani: è infatti assente l’articolazione in atti che troviamo nell’Orphei tragoedia e nel Cefalo, come poi nella Pasitea; il contenuto non è mitologico, non esiste una struttura narrativa; la forma è polimetrica, ma il metro dominante non è la terzina dell’egloga, bensì l’ottava.23

L’apertura del testo si stacca da ogni esempio noto: in assenza di collocazione bucolica, il pastore Silvano esordisce infatti con un componimento in distici di settenari a rima baciata, con una sorta di ripresa frutto della ripetizione in apertura e chiusura della stessa coppia di versi. Struttura semplice, che presenta qualche – vaga – ainità con la frottola, ma aatto inusuale in posizione di apertura: gli inserti frottolistici della iii egloga di Arzocchi, che in teoria dovrebbero essere il modello più prossimo a questo nostro, si presentano infatti a testo già avviato, e la stessa cosa accade nella v delle Pastorale boiardesche. Unico tema sviluppato dal componimento è quello amoroso; Silvano lo declina secondo accenti schiettamente misogini, con evidenti echi dei celebri versi di Poliziano (nell’ottava comune a Stanze e Orfeo): «Quanto chiamar mi posso sventurato» (v. 39 dell’Egloga) e «Quant’è misero l’huom che cangia voglia» (v. 277 dell’Orfeo e i 14, 1 delle Stanze, forse leggermente più discosto). Anche il paragone naturalistico dei vv. 51-52 di Bellincioni pare un omaggio alla celebre ottava: «Quanto un nuvol la state, o ’l verno el sole, / dura sua fede» e ai vv. 281-84 dell’Orfeo (i 14, 5-8 delle Stanze): «Ché sempre è più leggier ch’al vento foglia / [...] / e vanne e vien come alla riva l’onde». Piride e Alfeo, con modalità dierenti, esaltano Amore, e la potenza lucreziana della passione (che si traduce nella singolare – forse eetto di omaggio cortigiano? – esibizione del «puto [...] gliolo» di Alfeo).

Davvero inusitata è poi la dimensione rusticale dell’egloga, che non ha eguali in nessuno dei testi composti nel Nord Italia, e trova invece il suo precedente immediato nella temperie culturale dell’entourage laurenziano; qualcosa di simile all’inserzione del registro basso nell’Orfeo tramite l’ottava di Tirsi, ma ancora più accusato. A titolo di esempio, allego le due ottave in cui il pastore Silvano rievoca il suo innamoramento: in opportuno locus amoenus, come in occasione dell’incontro fatale fra Julo e Simonetta, ma con toni ben diversi.

Quella ch’io cerco, un dì discinta e scalza
vidi coi
ori e ghirlandette fatte:
passando un
umicello, e’ panni s’alza,
monstrò le gambe, parien di latte;
percosse un pesse in quelle, e sguixza, e sbalza:
lei per piacer con lui scherza e combatte:
rise e sguardommi, onde io arse di quella,
che si monstrò pietosa come bella.

Un’altra volta a l’ombra in un boschetto
La vidi con un bianco agnel in braccio;
cantando un rusignuol, ne avea diletto,
e disse a me: «Silvan, poi ch’io ti piaccio
e’ vorrei pur pigliar quel useletto:
adiutami un po’ tender questo laccio».
Dissi: «Sta lieta, s’tu non piglie quello,
in gabbia alla cassina honne un più bello».

Forse superuo commentare (basta leggere), e parecchio è stato già detto; aggiungo solo qualche altro elemento lessicale che rimanda alla tradizione sviluppatasi attorno a Lorenzo. Le ghirlandette, per esempio, sono nella canzone di Poliziano Monti, valli, antri, colli ai vv. 33-39, tutti signicativi per il nostro contesto, compreso il riferimento nale alla pietà:

Deh, se nissun l’ha vista
giù per l’ombrose valli
sceglier tra verdi erbette
per tesser ghirlandette,
gli bianchi e rossi
or, gli azzurri e’ gialli,
priego che me la ’nsegni,
s’egli è che ’n questi boschi pietà regni
24

e sempre lo stesso testo, al v. 21, ci presenta il «bianco piede» della donna. In contesto diverso, anche l’Ambra di Lorenzo mostra una fanciulla che, scalza, corre nell’acqua: «E, saltando dell’onde, stringe il passo; / di timor piena fugge nuda e scalza» (28, 1-2);25 ancora, il paragone col latte è forse banale, ma «di latte» è la Beca del Pulci (5, 5). Chiudo qui, perché il contesto è ampiamente topico, ma vorrei ricordare alcuni versi della Nencia, che non coincidono lessicalmente coi nostri, ma senza dubbio ricordano l’agile raigurazione della ragazza che solleva la gonna e mostra le gambe (8, 1-4):

Ell’è dirittamente ballerina,
che la se lancia com’una capretta,
girasi come ruota de mulina
e dassi della man nella scarpetta.
26

Dicevo poco più sù che manca ogni forma di sviluppo drammatico, posto che i tre pastori protagonisti si limitano a discutere vantaggi e svantaggi della condizione di innamorato,27 ma una svolta viene comunque impressa al testo dalla irruzione del reale, non sotto la consueta forma di fatti storici déguisés alla pastorale, ma in presa diretta, con l’arrivo sulla scena di una coppia di altolocati protagonisti di origine genovese.28

La donna, che appare di posizione più elevata rispetto al «caro parente» che l’accompagna, risolve la questione amorosa sentenziando, se pure in maniera implicita, a favore di Piride, ‘arso’ da amore, che infatti chiude il testo con una ballata in ottonari (la stessa struttura del coro nale dell’Orfeo) in cui esalta la vita dell’uomo innamorato rispetto a quella solitaria del pastore.

Dopo molto rifarsi a Poliziano, dunque, una chiusa di segno opposto, con un patente intento cortigiano: non è infatti noto, né ipotizzabile, chi sia la donna, ma la sua presenza sarà da mettere in relazione non solo con la dominazione milanese su Genova,29 ma anche con la gura di Giovanni Francesco Sanseverino, che «a uno certo suo proposto», come si legge nelle righe che introducono il testo, fece realizzare testo e rappresentazione. Il proposto resta sconosciuto, ma una qualche relazione fra il committente e la bella dama «nata [...] nel bel regno d’amore» (v. 234) possiamo immaginarcela senza diicoltà.

Dopo la morte di Beatrice d’Este, nel 1497, l’epoca d’oro del teatro milanese va incontro a un brusco declino, e anche Niccolò da Correggio, fra gli altri, abbandona la corte di Ludovico il Moro, da cui lo dividono oramai dissidi insanabili, per fare ritorno a Ferrara. E qui vorrei chiudere questo veloce excursus, con il carnevale appunto detto «a la milanese» allestito dal Correggio nel 1506, due anni prima di morire, quando ormai è Alfonso I a regnare: siamo fuori tempo massimo rispetto al limite che mi sono proposta di rispettare, ma la profonda vocazione teatrale del nostro, e il suo essere, a tutti gli eetti, un uomo del Quattrocento, consentono forse questa infrazione.

La natura di dramma mescidato, sul modello dell’Orfeo e dell’Orphei tragoedia, ha infatti escluso il Cefalo da una ricognizione esclusivamente bucolica, ma l’esperimento del Correggio, che va in scena a Ferrara il 21 gennaio del 1487, con l’egloga che chiude il ii atto a celebrare la riconciliazione fra Cefalo e Procri, segna un passo in avanti fondamentale sulla strada della favola pastorale.

E forse l’egloga del carnevale del 1506 ci avrebbe detto qualcosa di più sui possibili sviluppi scenici della forma bucolica (siamo oramai nella immediata prossimità del Tirsi); come molti testi che abbiamo incontrato sul nostro cammino, anche questo però è perduto, e ne resta solo la descrizione che Bernardino de’ Prosperi invia a Isabella d’Este Gonzaga con la lettera del 5 febbraio 1506. È un testo noto,30 soprattutto per la totale incomprensione del contenuto dell’egloga, che ancora una volta pare ispirata al mito di Orfeo, vero leitmotiv di questo primo teatro profano. Due atti, ciascuno chiuso da un intermezzo: una struttura, quindi, più articolata dell’esperimento del Bellincioni, seppure di dimensioni limitate rispetto ai testi teatrali veri e propri.

Nonostante la sconsolata osservazione del Prosperi «Lo soggetto de questo non lo intesi», e pur con qualche intrusione che potremmo dire bretone, come la pozione magica preparata per il pastore innamorato, compaiono gli elementi fondamentali della vicenda come la conosciamo dopo il testo polizianesco. Il dialogo iniziale fra i due pastori, e il subitaneo accendersi di uno di essi per una ninfa che lo fugge fra la ne del primo atto e l’inizio del secondo, cui segue la parte sull’incantesimo amoroso, che a prescindere da possibili inussi dell’Arcadia di Sannazaro nella patria di Boiardo doveva sempre risultare di un qualche appeal. Inne la conclusione della vicenda:

Intratanto vene uno Appollo sonando la lira, quale lo seguia uno leone, uno orso et un altro animale articiosamente facti. Et mentre sonava usite alcune Nymphe quali lo percossino et retirolo fra loro.

Certo, Euridice non muore (o almeno il Prosperi non se ne accorge), e forse non muore neppure Orfeo, seppure maltrattato dalle Baccanti trasformate nel frattempo in ninfe, ma non c’è dubbio che è nel segno del mito diventato bucolico grazie a Poliziano che si declina l’egloga «a la milanese» di Niccolò da Correggio, estremo omaggio a un soggetto chiave del Quattrocento volgare.

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1 Agostino Beccari, Il sacricio, in Agostino Beccari, Alberto Lollio, Agostino Argenti, Favole, a cura di F. Pevere, Torino, RES, 1999.

2 Come è noto, l’ipotesi è invece negata a livello teorico dal Giraldi Cinzio nella sua Lettera sovra il comporre le Satire atte alle scene.

3 Firenze, Barbera, 1858. Si legga, per esempio, un passaggio come questo di p. 22, che certo ha oerto al Carrara non poche suggestioni: «Dello stesso tempo altre piccole poesie rappresentative, non sempre e non tutte in terza rima, vennero in uso, pur col nome di ecloghe e più largamente di commedie pastorali e rusticali; le quali paionmi più tosto discendere per degenerazione dalla Nencia del Medici e dall’ Orfeo del Poliziano. Ora è invalsa un’opinione che in coteste due specie, frequenti sul nire del secolo decimoquinto e nei primi trenta o quarant’anni del decimosesto, vuol cercare e trovare le origini prossime del dramma pastorale. Il che, se intendasi della favola o tragicommedia del Tasso e del Guarino, non mi pare opinione sicura; e vorrei mostrarlo, non pur prendendo in più largo esame gli esempi accennati un po’ di passaggio e alla svelta da altri, ma anche recandone io di nuovi. Potrebbe essere una mostra non incuriosa di fatti ed esempi d’una poesia mezzo aulica e mezzo popolare, non molto conosciuta o da molti».

4 Stupisce decisamente di più ritrovare quasi gli stessi testi (che in larga misura sono poi quelli citati da Carducci nei saggi sull’Aminta), per nulla selezionati e ltrati, in un libro dei primi del XXI secolo, quando parecchie cose, almeno così ci si augura, dovrebbero essere cambiate: F. Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento. Da Firenze alle corti, Roma, Bulzoni, 2008.

5 E dunque del carnevale del 1508, secondo la persuasiva ricostruzione di C. Vela: Il «Tirsi» di Baldassarre Castiglione e Cesare Gonzaga, in La poesia pastorale nel Rinascimento, a cura di S. Carrai, Padova, Antenore, 1998, pp. 245-92.

6 La prima segnalazione risale ad A. D’Ancona nella seconda edizione delle Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, ii, pp. 370-72.

7 Le lettere del Dol al Marchese di Mantova, tuttora inedite, sono conservate nel Fondo Gonzaga dell’Archivio di Stato di Mantova (nn. 1143-46).

8 A p. 371 del volume di D’Ancona già citato.

9 A. Luzio, R. Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni familiari e nelle vicende politiche, Torino, Roux, 1893, p. 91.

10 Segnalata per la prima volta nelle già ricordate Origini del D’Ancona, ii, pp. 69-70. Analoga la condizione dell’egloga in terzine sdrucciole di Baldassarre Taccone Che fai Phileno, fra gente magnica, che fu presentata «nel convivio» di Giovanni Adorno, cioè del marito di Eleonora, glia di Roberto Sanseverino e dunque sorella del conte di Caiazzo (il testo nell’opuscolo per nozze che accoglie Atteone e Rime pubblicato nel 1884 da Felice Bariola).

11 Serafino Aquilano, Sonetti e altre rime, a cura di A. Rossi, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 281-94.

12 Pubblicata per la prima volta da G. Rossi, Il codice Estense X.*.34, in «Giornale storico della letteratura italiana», xxxii, 1898, pp. 90-108, con la didascalia del manoscritto: «Aegloga chiamata la Semidea di Messer Nicolò de Corezo disertissimo»; ora in Niccolò da Correggio, Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari, Laterza, 1969, pp. 339-45.

13 Cito da Nicolò da Correggio e la cultura di corte nel Rinascimento padano, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Correggio, Eurograf, 1989, p. 120.

14 Rime di Filenio Gallo, a cura di M.A. Grignani, Firenze, Olschki, 1973, pp. 69-85.

15 Jacopo Fiorino de’ Buoninsegni, Bucoliche, a cura di I. Tani, Pisa, ETS, 2012, pp. 43-56.

16 Poesie inedite di Galeotto del Carretto, a cura di A.G. Spinelli, in «Atti e memorie della Società storica savonese», I, 1888, pp. 455-519.

17 Stampata nei Rimatori bolognesi del Quattrocento, a cura di L. Frati, Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1908, pp. 353-62; non ne è nota la data, ma il Salimbene compone, nel 1478, un famoso epitalamio per le nozze di Annibale II Bentivoglio. Il testo è tràdito dal ms. 2716 dell’Universitaria di Bologna, che conserva un altro testo bucolico, di taglio schiettamente teatrale, ma datato al 25 giugno 1505: la Comedia dicta Astreo traducta da un vero innamoramento di Marcantonio Marescotti de’ Calvi. Su quest’ultimo si veda la voce del DBI di A. Antonelli e sull’Astreo F. Pezzarossa, «Ad honore et laude del nome Bentivoglio». La letteratura della festa nel secondo Quattrocento, in Bentivolorum magnicentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 35-113; in particolare le pp. 96-101.

18 Su cui si veda l’intervento di M.P. Mussini Sacchi, La nzione teatrale in un prosimetro pastorale rappresentativo del primo Cinquecento, in La poesia pastorale nel Rinascimento, a cura di S. Carrai, Padova, Antenore, 1998, pp. 173-212.

19 Così nella breve premessa, probabilmente da attribuire a Francesco Tanzi, che precede il testo nella stampa milanese del 1493 (Sonetti, canzoni, capitoli, presso Filipo di Mantegazi). Il componimento è modernamente edito nel Teatro del Quattrocento. Le corti padane, a cura di A. Tissoni Benvenuti e M.P. Mussini Sacchi, Torino, Utet, 1983, pp. 257-75 (da qui tutte le mie citazioni); importanti le osservazioni di P. Bongrani, Lingua e stile nella «Pasitea» e nel teatro cortigiano milanese, in Lingua e letteratura a Milano nell’età sforzesca. Una raccolta di studi, Parma, Università degli studi, 1986, pp. 143-50.

20 Sempre su suo suggerimento Baldassarre Taccone scrive, oltre alla Danae, l’egloga cui si è già fatto cenno.

21 Così il Tanzi nella dedica della stampa milanese a Ludovico il Moro (cito da Teatro del Quattrocento, p. 259).

22 Non abbiamo notizia di rappresentazioni, ma la natura teatrale del testo, fornito di didascalie, non può essere messa in dubbio; e fa serie con gli altri due del Bellincioni, ovvero la Festa di Paradiso e la Ripresentazione di Pavia, tutti accolti nella stampa milanese del 1493 più volte ricordata.

23 Due ottave (ma il testo è tutto nello stesso metro) fanno – vago – riferimento a «certi pastori» nella Representazione di Febo e di Feton, mentre sono in terzine, secondo il modello polizianesco, gli inserti bucolici del Cefalo e della Pasitea; in terzine sdrucciole anche il dialogo fra Mercurio e Siro nella Danae del Taccone; ma qui manca il contenuto egloghistico.

24 Angelo Poliziano, Rime, a cura di D. Delcorno Branca, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1986, pp. 389-91.

25 Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992, p. 543. E all’ottava prima si aaccia anche un «pesce» che si dimena per sfuggire alla rete.

26 Lorenzo de’ Medici, Opere, cit., p. 168.

27 In maniera non dissimile da quanto accade nella prima parte dell’egloga rappresentativa di Ercole Pio – perduta – recitata a Ferrara per il carnevale del 1508, secondo la descrizione di Bernardino de’ Prosperi che si può leggere in appendice al già ricordato volume della Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento, pp. 325-27; sulla relazione del Prosperi si veda anche C. Falletti, Racconto critico di un’egloga cortigiana a Ferrara nel 1508, in «Teatro e storia», ix, 1990, pp. 301-10.

28 L’usanza non doveva apparire peregrina a Milano, se in un’egloga di Gualtiero da Sanvitale spicca, fra i protagonisti, il Moro in persona: M. Bosisio, «Mosso da grande amor verso te movomi»: un’egloga rappresentativa inedita di Gualtiero Sanvitale, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014. Nonostante la denizione di «rappresentativa», che risale come sempre al Carrara, mi pare molto improbabile che il testo sia stato mai portato sulla scena, proprio per la presenza del signore della città, il cui ruolo sarebbe stato ben diicile da assegnare.

29 Su questo si fonda la datazione dell’egloga, successiva al 1488 (al 1490 secondo Bongrani, perché la corte milanese per tutto il 1489 è in lutto), anno della acquisizione milanese di Genova; terminus ante quem è la morte del Bellincioni, nel 1492. Sanseverino stesso, al di là della dama misteriosa, poteva intrattenere buoni rapporti con la città ligure per via del matrimonio della sorella Eleonora col genovese losforzesco Giovanni Adorno, cui si è già fatto cenno alla n. 10.

30 Riprodotto da ultimo in appendice al citato volume di Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento, cit., pp. 319-20; e prima nel Teatro del Quattrocento, cit., pp. 750-51, da cui cito.