Revue Italique

Conférence Barbier-Mueller 2017

OJ-italique-467

«Sincero solo», Iacopo Sannazaro, lezioni di tenebra

Carlo Vecce

Sincero solo è la rubrica che precede la vii egloga dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro. Nella tradizione della poesia pastorale, il titolo di un’egloga coincide spesso con la semplice didascalia che indica gli interlocutori del canto pastorale, come la didascalia teatrale all’inizio di una scena. Se si tratta di un monologo, il nome del pastore è accompagnato dall’aggettivo «solo». Nell’Arcadia, è una condizione che si verica diverse volte: nella iii egloga, Galicio solo, nella vii, e nella xi, Ergasto solo. Canto di un solo pastore è anche quello di «Ergasto sovra la sepultura» nella v egloga (compianto funebre del pastore Androgeo), di Caracciolo nella x egloga (riferito da Selvaggio), e di Meliseo nella xii (ascoltato da Barcinio e Summonzio).

Non è mai però un vero monologo. La struttura del testo appare sempre dialogica, rivolta ad un pubblico più ampio: gli elementi della natura e del paesaggio che circondano il pastore, e che fanno da sfondo compartecipe alle sue angosce e alle sue eusioni, o gli stessi pastori che lo ascoltano. In ogni caso, è dominante l’urgenza di comunicazione che costituisce il fondo paradossale della bucolica, oscillante tra la dimensione collettiva e protettiva della comunità di pastori-poeti e quella della ricerca della solitudine, dell’abbandono della ‘conversazione’ civile, della fusione con la natura nelle sue forme più estreme e selvagge. «Sincero solo» è, prima di ogni altra cosa, un canto di solitudine.

Eppure, no a questa svolta decisiva, la vicenda raccontata nell’Arcadia sembrava essersi svolta esclusivamente nel segno della sfera colletiva, della comunità dei pastori sospesa nella ripetizione di gesti e ritualie nell’andare attraverso i luoghi (o le ‘stazioni’ di un pellegrinaggio, come le ha eicacemente denite Gérard Marino) di quello che appare sempre come un paesaggio interiore.1 Era un’atmosfera senza tempo, anche se il tempo interno era scandito da una successione ciclica di albe ed aurore, meriggi, tramonti, sere e notti rischiarate dalla luna; e i pastori non erano mai soli.

Come è noto, l’Arcadia ha una storia testuale lunga e complessa. Dopo la composizione di alcune egloghe sciolte (ispirate alla generica condanna morale di un presente dominato dalla corruzione e dalla violenza, e dalla nostalgica rievocazione dell’armonia perduta dell’età dell’oro), Sannazaro aveva deciso di raccoglierle in un unico ‘libro’: non però un libro di sole egloghe (secondo il modello virgiliano, o il contemporaneo tentativo del Boiardo), ma un prosimetro, una struttura narrativa in prosa che avrebbe accolto al suo interno le egloghe antiche (ampiamente rielaborate al ne di integrarle nella nuova struttura) e nuove (composte insieme al prosimetro). Nasceva così la prima redazione intitolata Libro pastorale nominato Arcadio, tra Ferrara e Napoli, tra il 1483 e la ne del 1485, in dieci prose e dieci egloghe precedute da un prologo. L’opera si diuse subito con un’ampia tradizione manoscritta (soprattutto in area settentrionale), e con alcune stampe non autorizzate agli inizi del Cinquecento; ma l’autore aveva già messo mano ad una nuova redazione (tra 1490 e 1503), che approdò alla prima edizione del 1504, col titolo denitivo di Arcadia e l’aggiunta di due prose, due egloghe e un congedo A la sampogna.2

L’egloga vii appartiene alla redazione più antica del Libro pastorale, che (nella scansione virgiliana delle dieci prose-egloghe) si snodava intorno ad un centro strutturale dierente rispetto alla successiva Arcadia: il passaggio dalla v egloga alla vi prosa. La v egloga, Ergasto solo (commemorazione funebre del pastore Androgeo, padre di Ergasto e proiezione allegorica del padre dello stesso Sannazaro), corrisponde alla scoperta della presenza della morte nel rarefatto mondo d’Arcadia, che no a quel punto sembrava immune dal contagio del tempo, della storia, della corruzione, della decadenza: un tema elegiaco (et in Arcadia ego) destinato ad un’immensa fortuna nella cultura letteraria e gurativa dell’Europa moderna.3 Il personaggio che dice io non si era mai staccato dall’insieme indistinto della comunità pastorale: aveva camminato insieme a loro da una stazione all’altra, aveva ascoltato gli stessi canti, aveva eseguito gli stessi rituali. Solo dopo il canto di Ergasto «sovra la sepultura» il soggetto emerge nella storia con tutta la forza della prima persona (vi, 4):

Finalmente io (al quale e per la allontananza de la cara patria e per altri giusti accidenti ogni allegrezza era cagione di innito dolore) mi era gittato appiè d’un albero, doloroso e scontentissimo oltra modo, quando vidi, discosto da noi forse un tratto di pietra, venire con frettolosi passi un pastore ne l’aspetto giovenissimo.

Dopo l’inaspettata entrata in scena di un nuovo pastore (il giovane Carino, altro ‘doppio’ di Sannazaro), e l’inserzione di un’ antica egloga sciolta (la vi, dialogo tra Opico e Serrano che rievoca un’irrecuperabile età dell’oro), Sannazaro viene invitato da Carino, nella vii prosa, a presentare se stesso e la propria storia, e lo fa come persona reale, storica, non allegorica, dichiarando alla ne sia il suo cognome (Sannazaro) che l’epiteto che gli era stato attribuito dalla fanciulla amata (Sincero), e che intanto, nella Napoli aragonese, era diventato il suo nome accademico (Accio Sincero, in latino Actius Syncerus). È la storia di un giovane napoletano distrutto da un amore impossibile, che decide di fuggire dalla sua città (e dalla pulsione di morte) per perdersi nelle solitudini d’Arcadia.

Carino piacevolmente a me voltatosi, mi domandò chi e donde io era, e per qual ragione in Arcadia dimorava. Al quale io, dopo un gran sospiro, quasi da necessità constretto, così rispusi: - Non posso, grazioso pastore, senza noia grandissima ricordarmi de’ passati tempi; li quali avegna che per me poco lieti dir si possano, nientedimeno avendoli a racontare ora che in maggiore molestia mi trovo, mi saranno accrescimento di pena e quasi uno inacerbire di dolore a la mal saldata piaga, che naturalmente rifugge di farsi spesso toccare; ma perché lo sfogare con parole ai miseri suole a le volte essere alleviamento di peso, il dirò pure. (vii, 1-2)

Io non mi sento giamai da alcun di voi nominare Sannazaro (quantunque cognome a’ miei predecessori onorevole stato sia) che, ricordandomi da lei essere stato per adietro chiamato Sincero, non mi sia cagione di sospirare. (vii, 27)

Le selve d’Arcadia, prima rappresentate come locus amoenus, teatro di una natura benigna e in armonia con gli esseri umani, divengono ora, in consonanza con la disperazione di Sincero, dei luoghi alpestri, solitari, disumani, dove la vita si rivela in tutta la cruda realtà di soerenza e morte:

[...] queste solitudini di Arcadia, ove [...] non che i gioveni ne le nobili città nudriti ma appena mi si lascia credere che le selvatiche bestie vi possano con diletto dimorare. (pr. vii, 18)

La fuga di Sincero in Arcadia non lo aiuta dunque a dimenticare il suo amore, e a guarire dalla sua malattia. Il modello è, con tutta evidenza, Petrarca, nella canzone Si è debile il lo a cui s’attene (Rvf 37), segnata da parole chiave come duro exilio (v. 37), tenebre (v. 45), dì et nocte (v. 64). Come Petrarca, Sincero si rende conto che le solitudini d’Arcadia, invece di donargli un oblio ristoratore, continuano a riettere e moltiplicare l’immagine dell’amata, e a raddoppiare il suo dolore.4

La transizione dalla prosa alla poesia, dal racconto di Sincero al suo canto, è favorita dall’intervento di Carino, che lo invita a cantare davanti a tutti i pastori un’egloga che ha già ascoltato «ne la pura notte», ripetendo l’invito di Licida nella nona egloga di Virgilio, «Quid, quae te pura solum sub nocte canentem / audieram? Numeros memini, si uerba tenerem» (Buc. ix 44-45):

Rispose allora Carino al mio lungo parlare: - Gravi sono i tuoi dolori, Sincero mio, e veramente da non senza compassione grandissima ascoltarsi; ma dimmi, se gli dii ne le braccia ti rechino de la desiata donna, quali furono quelle rime, che non molto tempo è ti udii cantare ne la pura notte? De le quali se le parole non mi fusseno uscite di mente, del modo mi ricorderei. Et io in guidardone ti donerò questa sampogna di sambuco, la quale io con le mie mani colsi tra monti asprissimi e da le nostre ville lontani, ove non credo che voce giamai pervenisse di matutino gallo che di suono privata l’avesse; con la quale spero che (se da li fati non ti è tolto) con più alto stile canterai gli amori di fauni e di ninfe nel futuro. E sì come insino qui i principii de la tua adolescenzia hai tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosamente dispesi, così per lo inanzi la felice giovenezza tra sonore trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo non senza speranza di eterna fama trapasserai. - E questo detto si tacque; et io l’usata lira sonando così cominciai: (vii, 30-33)

La promessa del dono di una siringa di qualità superiore, fatta di legno di sambuco, ha una esplicita rilevanza metapoetica: col nuovo strumento Sincero potrà volgersi ad uno stile più elevato, sempre d’ispirazione bucolica e mitologica, ma probabilmente in latino, come confermano le contemporanee Elegiae e soprattutto il poemetto Salices, incantato racconto di amori di fauni e di ninfe.5 Il nuovo canto segnerà anche uno spartiacque esistenziale, il passaggio dall’adolescenzia ad una più matura giovinezza, impegnata nel confronto con i poeti più grandi (un passaggio così importante da essere oggetto di una delle poche varianti sostanziali registrate nelle prose dal Libro pastorale all’Arcadia: nella prima redazione infatti si leggeva pueritia e adolescentia invece di adolescenzia e giovinezza).6

E nalmente Sincero inizia a cantare; accompagnandosi non con una siringa (come tutti gli altri pastori d’Arcadia, tranne Uranio nella ii egloga), ma con una lira, che rinvia alla lirica d’amore d’ascendenza petrarchesca. Il suo canto è un’infrazione al proposito iniziale dell’opera, di riferire fedelmente le egloghe ascoltate nel corso del viaggio in Arcadia (nel prologo, 4: «potrò ben io fra queste deserte piagge, agli ascoltanti alberi et a quei pochi pastori che vi saranno, racontare le rozze ecloghe da naturale vena uscite, così di ornamento ignude exprimendole come sotto le dilettevoli ombre, al mormorio de’ liquidissimi fonti, da’ pastori di Arcadia le udii cantare»).

Eseguita davanti agli altri pastori su invito di Carino, si tratta in realtà della replica di un canto di solitudine già modulato da Sincero «ne la pura notte». Un’altra forte infrazione alle regole (anche se autorizzata dalla citazione virgiliana di Buc. ix 44-45): nessun pastore canta di notte. Quando sopraggiungono le tenebre, il canto di solito si interrompe e i pastori devono tornare alle loro capanne e ricondurre le greggi agli ovili, come aveva ricordato Montano alla ne della ii egloga, vv. 133-135 (con un’eco del polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, La notte torna e l’aria e ’l ciel se annera), invitando i pastori ad avviarsi sulla via del ritorno in un trasognato paesaggio lunare. Sincero solo non è il canto bucolico di un pastore d’Arcadia, ma la canzone di un petrarchista napoletano esule in Arcadia, un canto delle tenebre che rovescia l’illusione di armonia e di sospensione della morte che sembrava regnare nell’utopia arcadica. Sincero, disperato d’amore, vive ormai come un uccello notturno, rifugiandosi nelle grotte di giorno e piangendo di notte: e solo l’immagine dell’amata, apparendogli in sogno, sembra riportarlo alle illusioni della vita e dell’amore.

Sincero solo

   Come notturno ucel nemico al sole
lasso vo io per luoghi oscuri e foschi
mentre scorgo il dì chiaro in su la terra;
poi quando al mondo sopravien la sera
non com’ altri animai m’acqueta il sonno
ma allor mi desto a pianger per le piagge.

   Se mai quest’occhi tra boschetti o piagge,
ove no splenda con suoi raggi il sole,
stanchi di lacrimar mi chiude il sonno,
visïon crude et error vani e foschi
m’attristan sì ch’io già pavento a sera,
per tema di dormir, gittarmi in terra.

   O madre universal, benigna Terra,
a mai ch’io posi in qualche verdi piagge,
tal che m’addorma in quella ultima sera,
e non mi desti mai, per
n che ’l sole
vegna a mostrar sua luce agli occhi foschi
e mi risvegli da sì lungo sonno?

   Dal dì che gli occhi miei sbandiro il sonno
il letticciuol lasciai per starmi in terra,
i dì seren mi fur turbidi e foschi,
campi di stecchi le
orite piagge;
tal che quando a’ mortali aggiorna il sole
a me si oscura in tenebrosa sera.

   Madonna (sua mercé) pur una sera
gioiosa e bella assai m’apparve in sonno
e rallegrò il mio cor, sì come il sole
suol dopo pioggia disgombrar la terra,
dicendo a me:
- Vien, cogli a le mie piagge
qualche
oretto, e lascia gli antri foschi. –

   Fuggite omai, pensier noiosi e foschi,
che fatto avete a me sì lunga sera;
ch’io vo’ cercar le apriche e liete piagge,
prendendo in su l’erbetta un dolce sonno;
perché so ben ch’uom mai, fatto di terra,
più felice di me non vide il sole.

   Canzon, di sera in orïente il sole
vedrai, e me sotterra ai regni foschi,
prima che ’n queste piagge io prenda sonno.

Il passaggio al genere lirico e all’imitazione petrarchesca è marcato dall’ uso della rainata forma metrica della sestina. Il modello è sempre Petrarca, la prima sestina del Canzoniere, «A qualunque animale alberga in terra / se non alquanti c’hanno in odio il sole» (Rvf 22). Come ha già osservato Gorni, la fedeltà di Sannazaro agli schemi metrici petrarcheschi si estende anche alla situazione tematica ed esistenziale.7 Il poeta, a dierenza delle altre creature, vive una situazione di ‘straniamento’ cosmico, di inversione delle condizioni di vita in un’eterna veglia. Quel che in Petrarca è solo un auspicio (che almeno una volta Laura abbia pietà di lui), in Sannazaro sembra avverarsi nella dimensione del sogno (vv. 25-30): ma l’identico nale basato sugli adynata riporta ad una chiusa ssità esistenziale.

La serie delle parole-rima di Sannazaro (sole foschi terra sera sonno piagge) risponde a quella petrarchesca (terra sole giorno stelle selva alba) con un complesso gioco di identità (sole terra) e di varianti. L’eetto è quello di un procedimento di ‘inversione’ (come in un negativo fotograco): l’alba si rovescia in sera, le stelle in foschi, il giorno in sonno (con ulteriore assonanza). Lo schema delle parole-rima nel congedo, (D)A(C)B(F)E, appare invece invenzione originale di Sannazaro, e collegabile ad un’altra sestina petrarchesca, Chi è fermato di menar sua vita (Rvf 80: congedo (D)A(C)B(E)F).

Il contrasto tra gli animali che riposano la notte e l’amante disperato che veglia era topico in Virgilio, all’inizio del libro iv dell’Eneide (l’angosciosa veglia di Didone), fedelmente ripreso da Dante all’inizio del ii canto dell’Inferno:

   Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno

   m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate.

Il richiamo dantesco suggerisce uno sfondo infernale a quella che è come una discesa nel regno delle tenebre, in «luoghi oscuri e foschi», no ai «regni foschi». L’intera sestina si rivela un mosaico di tessere petrarchesche, ad iniziare dal sintagma notturno ucel, derivato da Petrarca, «che son fatto un augel notturno al sole» (Rvf 165, 14), e ripreso da Sannazaro nelle Rime, «ucel notturno sempre aborre il lume» (70, 11). L’accostamento di altri luoghi del Canzoniere sembra seguire il lo di una selezione tematica, la ricostruzione di un canto di tenebra che va oltre i conni della sestina 22: «per luoghi ombrosi e foschi mi son messo» (Rvf 281, 6); «quando è ’l dí chiaro, et quando è notte oscura» (Rvf 265, 6); «Quando ’l sol bagna in mar l’aurato carro, / et l’aere nostro et la mia mente imbruna, / col cielo et co le stelle et co la luna / un’angosciosa et dura notte innarro» (Rvf 223, 1-4); no al celebre «O letticciuol, che requie eri et conforto» (Rvf 234, 5). Al v. 19, la ripresa di «e le mie notti il sonno / sbandiro» (Rvf 360, 62-63) raorza il legame con la prosa precedente, dominata dal tema dell’esilio d’amore in Arcadia, derivata dalla canzone 360, canto di un esule tra «deserti paesi, / ere et ladri rapaci, hispidi dumi, / dure genti et costumi, / et ogni error che ’ pellegrini intrica, / monti, valli, paludi et mari et umi». Il mosaico intertestuale realizzato da Sannazaro dà quindi indicazioni utili per decifrare i percorsi di lettura del Canzoniere, secondo modalità non dissimili da quelle applicate nello studio dei poeti antichi, e apprese alla scuola umanistica di Giuniano Maio e Pontano. Petrarca è un classico moderno, da leggere ‘in verticale’, come Virgilio, Properzio, Orazio. In Sincero solo emergono infatti echi di un’altra sestina petrarchesca, la 237, di cui Sannazaro riconosce la liazione dalla 22, riprendendo i versi «Consumando mi vo di piaggia in piaggia / el dì pensoso, poi piango la notte» (Rvf 237, 19-20); e ancora «adormentato in qua’ che verdi boschi» (Rvf 237, 32); e «l’ultima sera» (Rvf 237, 7). Il canto di tenebra di Petrarca giungeva a Sannazaro anche attraverso la mediazione del petrarchismo quattrocentesco. Giusto de’ Conti aveva ripreso il tema dell’oscurità, della notte, del sonno (e del sogno), nel polimetro di ispirazione bucolica della Bella mano, La notte torna e l’aria e ’l ciel se annera (144, 1-6),8 nella sestina 98, Quando è la notte oscura e quando è ’l sole, e nel capitolo ternario 143, Amor con tanto sforzo omai me assale («Così facciamo; e mentre il giorno e ’l sole / se celano a ciascun che alberga in terra, / comincio, poi che ’l ciel et Amor vuole: / - Tu Notte, e voi Tenebre, che sotterra / nasceste eterne giù ne l’altro polo»). Simile la tematica della sestina sul ‘sonno’ di Cariteo, in cui la notte è però rischiarata dalla luce della luna (Endimione 18).9 Per Sannazaro, però, l’inserzione della sestina nel libro pastorale ha il signicato metapoetico di un deciso cambio di passo nel registro stilistico. Il passaggio improvviso alla forma lirica crea un eetto di sor presa nel lettore (abituato all’orizzonte bucolico) e dà al libro la forma di un canzoniere (seppur bucolico).10

Evidente, allora, la relazione intertestuale con i cantieri poetici paralleli (e contemporanei) di Sannazaro: la poesia latina (le Elegiae), e soprattutto la lirica volgare. Come è noto, il libro delle rime ci è giunto nella forma consegnata dall’editio princeps, pubblicata a Napoli nel novembre 1530, dopo la morte dell’autore e probabilmente sulla base di un suo manoscritto, col titolo Sonetti et canzoni. La sua articolazione in due parti è stata oggetto di un approfondito dibattito lologico e critico, che ha coinvolto il loro ultimo editore moderno, Alfredo Mauro, e poi Carlo Dionisotti, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Bozzetti, e da ultimo Rosangela Fanara e Tobia Toscano.11 Mentre la prima parte inizia con il tradizionale sonetto proemiale, la seconda è aperta da una sestina (Rime 33), in cui, secondo Santagata, «Sannazaro istituisce un rapporto di successione cronologica e di continuità esistenziale (l’amore) tra la raccolta stessa e l’Arcadia», in una sostanziale «omogeneità tematica tra il romanzo pastorale e la raccolta lirica».12 Di più, come ha osservato Bozzetti, la sestina 33, assente nella tradizione manoscritta, si legge solo nella princeps, e sembra indicare l’assenza di dinamica narrativa del canzoniere (per la caratteristica propria del metro-sestina, che torna su se stesso in forma circolare).13

La sestina dell’Arcadia era destinata ad una straordinaria fortuna, oltre i conni del libro pastorale: una fortuna anche musicale, che va da Giovan Tommaso Cimello (un musicista romano formatosi nella Napoli del vecchio Sannazaro con Giovanni Tommaso Di Maio e Giovanni Domenico da Nola) no alle celebri Lachrimae di John Dowland, Flow my tears. Imitazioni della sestina-egloga di Sannazaro compaiono nei testi pastorali del Cinquecento: in Spagna, nella Diana enamorada di Gil Polo (1564), nel Pastor de Philida di Luis Galvez de Montalvo (1582), e nella Diana di Montemayor (1558); in Inghilterra, nella traduzione inglese della Diana (1598), in cui si registra per la prima volta nella lingua inglese il termine Sextine, e nell’Old Arcadia di Philip Sidney. Non sempre i traduttori dell’Arcadia riescono a renderne fedelmente il gioco di parole-rima: Lopez de Ayala e Diego de Salazar ne trasformano le stanze in coplas de arte menor (1547), mentre in Francia Jean Martin le traduce in ottave composte da quattro distici di dodecasyllabes in rima baciata (1544). Solo Claude Pontoux le restituirà la forma regolare (1579), presente anche nelle traduzioni francesi della Diana di Montemayor (1578 e 1613), mentre in Inghilterra la prima sestina regolare apparirà nello Shepheardes Calender di Spenser.14

Il cerchio si chiude. La forma inventata da Arnaut, ripresa da Dante e da Petrarca, rientra nella cultura europea anche grazie alla mediazione di Sannazaro, nella nuova dimensione esistenziale della pastorale.

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1 Iacopo Sannazaro, Arcadia / L’Arcadie, par G. Marino, Paris, Les Belles Lettres, 2004.

2 G. Villani, Per l’edizione dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, Roma, Salerno, 1989; Iacopo Sannazaro, Arcadia, a c. di C. Vecce, Roma, Carocci, 2013 (da cui sono tratte le citazioni che seguono).

3 E. Panofsky, «Et in Arcadia ego»: Poussin e la tradizione elegiaca (1936), in Id., Il signicato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1962, pp. 275-301.

4 D. Boillet, Paradis perdus et paradis retrouvés dans l’Arcadie de Sannazaro, in Ville et campagne dans la littérature italienne de la Renaissance, ii, Le courtisan travesti. Sannazaro, Castiglione, Le Tasse, Les grottes médicéennes, par A. Rochon, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1977, pp. 11-140, cfr. pp. 48-49.

5 F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967, pp. 31-32.

6 G. Villani, Processi di composizione e ‘decomposizione’ nell’ «Arcadia» di Sannazaro, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», xii, 2009, pp. 49-76, p. 76.

7 G. Gorni, Ragioni metriche della canzone, tra lologia e storia, in Studi di lologia e di letteratura italiana oerti a C. Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973, pp. 15-24. V. anche D. De Robertis, L’egloga volgare come segno di contraddizione, in «Metrica», ii, 1981, pp. 61-80; A. Comboni, La fortuna delle sestine, in «Quaderni petrarcheschi», xi, 2001, pp. 73-88.

8 C. Vecce, Echi contiani nella Napoli aragonese, in Giusto de’ Conti di Valmontone. Un protagonista della poesia italiana del ‘400, a c. di I. Pantani, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 297-315.

9 A. Bettinzoli, La fuga, il sonno, la morte. Su alcune “rime” di Iacopo Sannazaro: tra Petrarca, Macrobio e i classici antichi, in «Lettere italiane», lxvii, 2015, pp. 251-69.

10 I. Becherucci, Le eglogle non egloghe dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, in «Per leggere», 15, 2011, pp. 109-27.

11 Iacopo Sannazaro, Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961; P.V. Mengaldo, La lirica volgare del Sannazaro e lo sviluppo del linguaggio poetico rinascimentale, in «Rassegna della Letteratura Italiana», lxvi, 1962, pp. 436-82, e Contributo ai problemi testuali del Sannazaro volgare, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cxxxix, 1962, pp. 219-45; C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cxl, 1963, pp. 161-211 (ora in Id., Scritti di storia della letteratura italiana, a c. di T. Basile, V. Fera, S. Villari, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, vol. ii, pp. 4-37); C. Bozzetti, Note per un’edizione critica del Canzoniere di Iacopo Sannazaro, in «Studi di Filologia Italiana», lv, 1997, pp. 111-26; R. Fanara, Strutture macrotestuali nei Sonetti et canzoni di Jacobo Sannazaro, Pisa-Roma, I.E.P.I., 2000, e Sulla struttura del Canzoniere di J. Sannazaro: posizione e funzione della dedica a Cassandra Marchese, in «Critica letteraria», xxxv, 2007, pp. 267-76; T.R. Toscano, Ancora sulle strutture macrotestuali della princeps delle rime di Sannazaro: note in margine al commento del sonetto 85, in Classicismo e sperimentalismo nella letteratura italiana tra Quattro e Cinquecento, a c. di R. Pestarino, A. Menozzi, E. Niccolai, Pavia, Pavia University Press, 2016, pp. 19-51.

12 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 330-31.

13 Bozzetti, Note per un’edizione, cit., p. 113.

14 C. Pulsoni, Da Petrarca all’Europa: appunti sulla fortuna della sestina lirica, in «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti già dei Ricovrati e Patavina», cxxiii, 2010-2011, Parte II (Memorie della Classe di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali), pp. 201-17.