Revue Italique

Titre de section

SECTION_ITA_20_1

«Si ricerca ancora dottrina non picciola». Varchi, la poesia pastorale e i Sonetti del 1555

Giovanni Ferroni

Prima d’illustrare e leggere la lirica pastorale di Varchi intanto quella contenuta nei Sonetti del 1555 ,1 credo sia opportuno svolgere una sorta di preambolo e, a costo di ripetere cose già note, prendere posizione su alcune questioni critiche che incidono in modo signicativo sulla comprensione dell’opera e della personalità del letterato orentino.

1. Varchi poeta, innanzi tutto. La recente tradizione di studi a cui si deve l’averne riscoperto la gura2 facendo riemergere quel che resta del suo scrittoio e della sua biblioteca,3 ricostruendone la sionomia intellettuale4 e rivendicandone la centralità per la cultura, non solo orentina, di medio Cinquecento, ci ha insegnato ad apprezzare soprattutto il critico e l’esegeta di poesia,5 il traduttore e il linguista,6 il teorico dell’arte e il consigliere di artisti,7 il ancheggiatore dell’evangelismo,8 lo storico,9 e inne il volgarizzatore di Aristotele e il losofo.10 In estrema sintesi si può dire che della poliedrica gura e attività varchiane sono stati enfatizzati gli aspetti che più ne mettono in luce le spiccate doti di organizzatore e di mediatore culturale. E lo si è fatto, come si vedrà, a buon diritto. Molto più in ombra è restato invece il poeta, non soltanto – e sarebbe l’assurda normalità – quello latino,11 ma – ed è più sor prendente – anche quello in volgare.12 Eppure, la poesia è per Varchi un elemento vitale, fondante del proprio essere intellettuale e, ancor prima, della pienezza della propria umanità. Già la stessa banale e muta mole della sua produzione lirica che tanto poco appetibile la rende ai suoi lettori d’oggi sarebbe suiciente a ricordarlo, ma, a voler cercare prove più eloquenti, basterà sfogliare le sue biograe antiche – a cominciare da quella del Busini.13

Qui gli inizi poetici di Varchi e tutta la sua educazione losoca e letteraria sono presentati come piuttosto ritardati rispetto a quelli di altri e più celebrati lirici del Cinquecento, ma al tempo stesso, vi si rivelano, da subito, alcuni tratti che sarebbero divenuti costanti della sua personalità letteraria ed umana. Racconta infatti il Busini che Benedetto, ormai diciottenne, dopo aver imparato

i fondamenti della scientia si dette poi a preghiera d’un suo amico, dal quale apprese le regole del comporre, a far versi latini: e con tanto ardore vi si pose che alcuno altro non componeva versi latinamente né più eleganti né maggior numero di lui, havendo allora per maestro e compagno ser Francesco Priscianese [...] e messer Bettino de’ Pazi e Giovan Battista de’ Libri, co’ quali si ritrovava ogni giorno a ragionare di lettere e compor versi.14

Il primo elemento che risalta nel giovane Benedetto è l’«ardore»: una volta scoperta la propria vocazione letteraria, il desiderio di sapere e lo sfegatato amore per la poesia, ora latina ma poi anche volgare, rappresentano il cuore della sua esistenza, ciò per cui non risparmia né fatiche né sacrici. A dimostrazione del fatto che si tratta di un elemento ricorrente nella rappresentazione del giovane Varchi, riporto, fra le tante, una sola, molto nota, testimonianza, cioè il passo in cui l’allievo e amico Silvano Razzi racconta dell’impegno e dell’abnegazione con cui, il giovane Benedetto, per recuperare il tempo perduto e poter accedere alla sorgente della sapienza antica, frequentava lezioni pubbliche e private di Vettori:15

sape[ndo] malamente attendere alla losoa senza la [lingua] greca, prima che altro facesse si diede con tanto studio ad apprenderla da Piero Vettori [...] con quanto facesse alcun altro giammai, non perdonando né a fatica né a disagio veruno. [...] durò mesi e forse anni ad essere massimamente di verno, ogni mattina una o due ore innanzi al dì a casa di lui, senza la lezione che poi udiva dal medesimo pubblicamente.16

Assieme all’«ardore» quindi anche il «tanto studio», assieme alla poesia anche la losoa e l’intuizione, si direbbe, che l’una non possa stare senza l’altra, che con la stessa passione dovessero essere amate e praticate entrambe. Tuttavia agli occhi dei contemporanei il poeta prevaleva sul losofo.

Si sa, e il passo di Razzi ce lo ricorda, che, come molti di quelli instaurati da Varchi durante la sua formazione orentina, anche il rapporto con Vettori fu di lunga durata: trasformandosi col tempo, il discepolato divenne amicizia, stretta collaborazione quando, fra la metà e il nire degli anni ’30, i lavori lologici di Vettori su Cicerone giungevano ai torchi veneziani dei Giunti,17 per poi guastarsi negli anni ’40 in seguito alla disputa sul ‘farneticare’ e, inne, ricomporsi, almeno in parte.18 Era dunque con la sicurezza di una lunghissima conoscenza, di una consuetudine più che trentennale e con la lucidità del grande umanista che Vettori, commentando con qualche ironia l’enfatica orazione in morte di Varchi recitata pochi giorni prima da Lionardo Salviati, poteva circoscrivere, all’interno dell’eccezionale varietà dell’opera e degli interessi dell’antico allievo ed amico, la parte in cui questi aveva meglio realizzato la sua natura e la sua più originaria vocazione:

Varchius enim magno ingenio a natura praeditus fuit; factusque erat ad artem illam colendam, quam primis vitae temporibus frequentavit, nec umquam postea, graviore etiam aetate confectus, dimisit, idest ad poema pangendum.19

losofo né linguista né storico, ma poeta era nato il Varchi: «ad poema pangendum». Il giudizio di Vettori potrebbe essere anche letto in senso limitativo, ma è pur sempre un giudizio che, nel contesto della lettera, non mi pare abbia echi polemici, che trova conferma nei racconti di Busini e Razzi e che, cosa che più importa, ha pieno e larghissimo riscontro nei testi dello stesso Varchi. In particolare il riferimento di Vettori alla poesia come scaturigine e cuore della vocazione letteraria varchiana mai più rinnegata o deposta, anche quando con l’avanzare dell’età agli occhi del mondo sarebbe stato opportuno volgersi ad altri studi («factusque erat ad artem illam colendam, quam primis vitae temporibus frequentavit») è l’oggetto di una rivendicazione costante da parte di Varchi, una scelta che ribadisce e difende in moltissimi luoghi a cominciare, come ciascuno può vedere, da quelli paratestuali e proemiali dei Sonetti.

2. C’è poi il Varchi maestro. Dai passi delle biograe di Busini e Razzi si trae infatti che l’amore per il sapere e la poesia fu animato non soltanto da una passione e da una volontà fuori dal comune, ma che fu vissuto, da subito e poi sempre, non nell’isolamento o con l’animo, geloso, del custode di un tesoro, ma come mezzo di costruzione di una socialità il più possibile larga, con la ducia del seminatore e con uno slancio pedagogico che lo distingue nel panorama dei letterati del Cinquecento – ivi compreso lo stesso Vettori – e che si esprime, in modo particolarmente puro, nel suo epistolario e nelle sue liriche. Nell’immagine di quel gruppetto di giovani che «si ritrovava ogni giorno a ragionare di lettere e compor versi»20 si scorge infatti, se non proprio un’accademia in nuce, certo una caratteristica propensione all’esercizio comunitario delle lettere, ad una socialità della critica e della scrittura poetica. In quella esperienza, acerba e spontanea, sembrano trovare la loro radice più profonda i celebri sviluppi successivi, cosicché, di nuovo, Varchi sembra recare in sé, per tutta la vita, lo stigma di quel primo aacciarsi alla poesia e alla cultura. Anche dopo l’uscita dalla cerchia ristretta delle mura e delle amicizie orentine, la disponibilità di uno spazio nel quale poter liberamente discutere e condividere il sapere e la poesia, la possibilità di poter comunicare ad altri le proprie conoscenze facilitando l’accesso a ciò senza di cui la vita dell’uomo non è umana, tutto questo rappresenterà per Varchi, molto più che per altri suoi contemporanei, una dimensione essenziale per lo sviluppo del proprio pensiero e della propria poetica.

Non è certo un caso che alcuni degli oggettivi punti di svolta della sua biograa intellettuale e dei nuclei testuali più signicativi della sua opera si collochino in corrispondenza di impegni accademici o, come nel caso dell’Hercolano, di controversie letterarie. Furono del resto l’appassionato impegno con cui, nel biennio 1540-1541, Varchi promosse le attività degli Inammati – conservando come cosa propria gli statuti che regolavano la vita dell’accademia –21 e la centralità del suo ruolo nell’incessante susseguirsi di letture a fargli acquisire, per la prima volta, una riconosciuta «statura culturale» e «ad arancarlo dai modelli no allora presenti nella sua formazione» per farlo «approdare a quella che cominciava a delinearsi come una nuova poetica».22 È certo stato uno degli esiti più notevoli delle ricerche della Andreoni far emergere la diacronia del pensiero critico varchiano, cioè come quella «nuova poetica» ‘post-bembiana’, lentamente abbozzata fra Padova e Bologna, si vada precisando proprio fra i contrasti e le polemiche dei molti anni trascorsi nell’Accademia Fiorentina, anni che segneranno, a dispetto delle ostilità e degli avversari, il denitivo consolidarsi della fama e del prestigio di Varchi e il loro estendersi ben oltre i conni toscani.23

Come detto, quello formalizzato dell’accademia è però soltanto uno degli spazi nel quale si esprime la più generale inclinazione del Varchi a condividere la conoscenza e a farne la base per intensi e duraturi rapporti umani. È infatti la scrittura epistolare – e non solo quella in prosa, ma anche quella verseggiata dei sonetti – che permette di osservare dalla minore distanza possibile il formarsi del nesso fra sapere e culto dell’amicizia: permane in essa e si rinnova, specialmente durante l’esilio, l’esperienza delle frequentazioni e delle giovanili discussioni orentine.24 Fra le centotrenta missive varchiane no ad oggi ritrovate25 sono particolarmente signicative e famose le prime sei di quelle a Carlo Strozzi, vergate fra l’agosto e il novembre del 1539.26 Esse ci presentano il Varchi nel ruolo, per lui consueto e congeniale, di precettore e si distinguono in virtù di «un modo di esprimersi senza condizionamenti».27 Spicca in questi scritti, con un’evidenza rara, cosa sia per Varchi il sapere, a cosa esso sia nalizzato, quali siano i metodi per acquisirlo. Informato da Luca Martini sulle condizioni e sulle qualità del giovane Strozzi, Benedetto «aerra al volo le esigenze del giovane connazionale»:28 n dalla seconda lettera, prima ancora che il suo discepolo gli renda note le sue nalità, intuisce che possano essere condensate nel «volere essere uomo, cioè l’intendere».29 L’espressione, un po’ ellittica, sarà precisata non molti giorni dopo, quando Varchi specica cosa, oltre alla lingua, si debba cavare dalla lettura dei classici: «i costumi e il vivere civile e da uomo da bene» cioè, come ribadisce poche righe sotto, «il vivere civilmente e giovare al mondo e gli uomini, che è quello per che si nasce».30 Questo tipo di fruizione del sapere, reso funzionale alla formazione dell’uomo e, in particolare, alla sua socialità, aveva radici profonde nell’umanesimo ‘civile’ orentino e risulta molto prossimo a quello insegnato da Piero Vettori nei corsi tenuti allo Studio proprio fra il 1538 e il 153931 e che Varchi spronava Carlo a frequentare, anche al di là delle sue eettive possibilità di comprensione.32 In Varchi però questa tradizione e quella consonanza di pensiero col Vettori si sostanziano di una più impellente necessità didattica («quando veggo un c’ha voglia d’esser uomo [...] io n’ho tanto piacere che non potreste crederlo e massimamente sendo orentino»)33 che trae ulteriore energia da una formazione faticosa («io vi mostrarrò in pochi dì tutto quello che ho imparato con lunga esperienza e grandissima fatica»)34 e dalla consapevolezza dello scarso numero di maestri competenti e di buoni costumi («che siano buoni e dotti, se ne truovano radissimi»).35 Sebbene poi la frequentazione di scelti amici

(La forza tutta sta nella bontà e nel giuditio e io per me credo che voi abbiate imparato e siate per imparare più in un’ora da Luca [Martini] che in 10 anni dal Zeo [...] e tanto più avendo Luca che, se bene non ha studiato, egli sa e, credetemi, la natura fa il giuditio e la pratica)36

possa sostituire i maestri, la carenza di questi si fa particolarmente grave quando si tratti della generosità nel comunicare il proprio sapere («io so quanta carestia è di quegli che vogliono o sappiano dire il vero per diverse cagioni»).37

Tale carenza tuttavia è però dovuta, secondo Varchi, a cause non solo genericamente congiunturali, ma anche più specicamente culturali e ‘di sistema’: non ultima infatti di quelle «cagioni» è la convinzione, professata e diusa anche dagli antichi, che il vulgo debba essere escluso dalla conoscenza. Merita a questo proposito la citazione il passo, davvero notevole, del proemio all’inedito Comento sopra il primo libro dell’Etica d’Aristotele, scritto a Padova, nel pieno della partecipazione agli Inammati. Varchi giustica la propria opera di traduzione: non solo, sostiene, la lingua toscana si gioverebbe di questo lavoro ma

anco le cose del mondo andrebbeno per ventura assai meglio, conciò sia cosa che tutti gli errori et tutti i peccati vengono come diceva Socrate [...] dall’ingnoranza, non eleggendo alcuno d’errare né di peccare se non ingannato riputando o bene o vero quello ch’è pessimo o falsissimo. Onde non so io come sia leggittima o vera, et massimamente nelle cose che al ben vivere dell’huomo appartengono, quella cagione che dicono alcuni, gli antichi così loso come teologi havere occultato i divini misteri della santissima losoa sotto diversi velamenti et gure varie, accioché gli huomini idioti et volgari, come indegni et dispregiatori di cotanto dono non gli potessero né vedere né conoscere già mai, perciò che se bene molti di cotale gente a guisa delle bestie vivendo, sogliono per il più dispregiando e avvilendo i cari tesori delle vere cose et immortali, havere in pregio et honore il vile fango delle bugiarde et caduche et ridersi di tutti coloro i quali ad altro attendono che o a darsi piacere o ad accumulare danari faccendonsi bee d’ogni altra cosa, viene questo però, per quanto giudico, le più delle volte, perché non hanno chi mostre loro semplicemente et con agevoleza la verità, et essi sotto tanti velami et copriture nascosta trovar da per sé non la possono, che bene si dee credere che molti di loro ne cerchino alcuna ata, i quali la impararebbero volentieri se trovassero chi volesse loro et sapesse insegnarla.38

Volgarizzare signica eliminare ostacoli linguistici ma soprattutto, sciogliendo nodi testuali, appianando incoerenze, svelando «velamenti e gure varie», eliminare gli ostacoli culturali che impediscono l’accesso alla «verità» losoca e teologica e il suo riconoscimento. Al di là della ‘pericolosità’ intrinseca al proposito di Varchi, della rottura con una tradizione secolare che questa pagina implica, al di là del fatto che in queste ragioni sta la radice dello specico modo di tradurre, ‘attualizzante’, di Varchi, devono essere sottolineati l’ardimento, la libertà con cui egli presenta un progetto di cui ha benissimo chiare sia le ricadute sociali sia la necessità per i singoli individui. Non gli sfugge infatti come il piccolo gruppo dei conoscitori del bene siano accerchiati dalla realtà comune del mondo soprattutto di quello dell’élite mercantile di Firenze , quello in cui i più vivono «a guisa di bestie» non soltanto «dispregiando e avvilendo i cari tesori delle vere cose et immortali», ma deridendo tutti quelli che non si comportano come loro. Il male, nell’etica intellettualistica che Varchi ripropone («perché la mente, non la mano / Opra tra noi, chi ben conosce il vero» dirà a Giulio della Stufa),39 dipende da un errore della ragione che, per ignoranza, scambia «il vile fango» per «cari tesori», dipende dalla mancanza di maestri che mostrino «semplicemente et con agevoleza la verità», che cos’è che davvero renda uomini, cosa davvero ha valore, cosa è buono, l’agire che veramente ci fa immortali.

La passione pedagogica che il Varchi ormai maturo esprime in questa pagina non nasce però da ragioni né da ambizioni esclusivamente intellettuali. L’urgenza polemica, lo scandalo per l’ignoranza di chi «impararebbe volentieri», sono animati da un’esperienza diretta, quella di chi, muovendo da una posizione di svantaggio, ha cercato la verità con fatica, di chi si è scontrato con l’ottusità degli «idioti et volgari» ed è stato deriso per aver pregiato, amato e inseguito le «vere cose et immortali» anziché i «danari» o il «piacere». Anche il proemio al Comento, alla stregua delle lettere allo Strozzi, mostra in atto come il desiderio di imparare ne generi un altro, uguale, di insegnare, di donare, largamente, soprattutto a chi, come un compatriota, ci è per familiarità più prossimo. La scintilla di virtù intravista nel desiderio di un allievo non può che far nascere amore per quell’allievo, per il bene che egli potrà compiere se qualcuno, mostrandogli il vero, gli insegnerà a riconoscerlo.

3. E inne, necessariamente, il Varchi innamorato. Sul passo della biograa busianiana citato per primo occorre fare un’ultima osservazione: le amicizie di cui Varchi, poeta latino, si circonda e di cui anche da altre fonti, veniamo a sapere, sono tutte maschili. Il dato, che in certa misura è ovvio, acquista rilievo perché, come è noto, quasi tutti maschili saranno gli amori di Benedetto e quasi tutti per giovinetti i suoi versi d’amore. È proprio infatti nel contesto di quelle frequentazioni di amici che Benedetto, spinto da un altro ardore, quello amoroso, inizia a scrivere versi volgari. La biograa di Busini, che cito riducendo l’episodio all’essenziale, è ancora una volta di grande utilità:

Era messer Giovanni [glio di Alessandro de’ Pazzi] molto giovane et assai bello della persona il quale, perché vedeva che suo padre et suo zio [Antonio de’ Pazzi] ne tenevano conto assai perché Benedetto lodava sempre il vivere libero e la casa loro che con tanto cuore si era opposta alla tirannide de’ Medici, gli cominciò a far tante careze et volerlo tanto spesso con esso lui, col quale ragionava quasi sempre o di lettere o di coniurare a qualche tempo per la libertà, che Benedetto si innamorò di questo giovane in tanto che né dì né notte non trovava posa. Il quale amore fu cagione che egli lascio indietro la pratica di Antonio e di messer Bettino [de’ Pazzi] et di molti altri che gli recavano onore e riputatione assai, e dove prima era tutto dedito agli studi latini si volse, per compiacere a messer Giovanni o pure perché a ciò l’inclinavano i cieli acciocché egli desse saggio dell’ingegno suo in ogni facoltà di dire, essendo di 25 anni, a comporre sonetti et altre maniere di versi toscani, voltando ode d’Oratio e canzone di Tibullo di latino nel nostro parlare orentino con tanta leggiadria, et così acconciamente che venne desiderio a Niccolò Machiavegli, già vecchio, et a Lodovico Martelli [...] di conoscerlo. [...] Di qui nacque che Alessandro, più sospettoso che tenero dell’onor del gliuolo, gli cominciò a biasimar questa pratica, incolpando Benedetto benché ingiustamente di que’ vizii che si credono esser maggiori in un giovane.40

Bello, letterato, repubblicano: Benedetto non poteva probabilmente chiedere di meglio. Lo straordinario concentrarsi in una persona sola di tutte le possibili manifestazioni della virtù, di tutte le più vive idealità fanno sì che Giovanni de’ Pazzi si trovi all’inizio della serie non breve degli amori di Varchi, primo, o fra i primi, di quei giovani innamorati per i quali egli comporrà rime e carmi di lode e tradurrà versi e prose altrui, in una mistione inscindibile di ammirazione, letteratura, insegnamento, solidarietà e disinteresse materiale anche qui si veda l’incredibile noncuranza con cui si lasciano indietro persino «onore e riputatione», elementi essenziali per l’ethos del patriziato orentino e per chiunque volesse contare qualcosa in quella società.41 Ora però, sui termini di questi amori varchiani, un punto cruciale per chi ne voglia leggere la poesia ma che non mi pare suicientemente e correttamente indagato, credo sia il caso di intendersi un poco meglio.

Dei giudizi di Dionisotti è rimasto, come tanti altri, celebre quello su Varchi il quale essendo «tanto più giovane e tanto diverso», faceva a petto al Giovio la gura del pettegolo «pedante omosessuale».42 A questa rasoiata, sulla quale è già stato eccepito quanto si poteva,43 Dionisotti aggiungeva una nota esplicativa secondo cui «l’omosessualità era apertamente professata dal Varchi. A quella data, e per uno che scrivesse in volgare a qualunque data, era professione insolita e che si prestava alla satira». La scarsa stima di Dionisotti per Varchi non toglie forza a questa seconda parte del suo giudizio così come non l’accresce a quello di chi ne condivide sostanzialmente l’assunto pur accompagnandolo con una valutazione più simpatetica sull’uomo e l’autore.44 Entrambe le posizioni sono in denitiva fuorvianti poiché nascondono e travisano ciò che più conta della «omosessualità» di Varchi – se così la si può o la si vuol chiamare –,45 e cioè la costruzione culturale nella quale egli inserì l’amore per altri maschi, ciò che ne determina la forma storica, il signicato, e ciò che rende la sua gura sostanzialmente dierente da quella, poniamo, di Berni. Mi riferisco non soltanto alla componente platonico-ciniana,46 elemento certo decisivo e che in nessun caso può essere ridotto a scappatoia retorico-losoca per coprire con un velo d’onestà e conformismo la propria passione per i giovinetti, amici e pupilli, ma più in generale alla stretta connessione di quelle scelte amorose con gli ideali politici, sociali, morali e culturali e con la peculiare socialità in cui essi erano coltivati. L’episodio narrato da Busini, persona notoriamente schietta, dev’essere quindi considerato nel suo insieme e la questione dell’«omosessualità» di Varchi, se non la si vuole fraintendere, dev’essere considerata in quel contesto e non al di fuori, in astratto, o peggio avendo in mente condizioni di vita a noi contemporanee. È infatti all’interno di uno spazio amicale ben denito da interessi comuni che nascono gli innamoramenti di Varchi il quale, grazie alla propria abilità poetica e senza alcuna remora o autocensura, si fa carico di proiettare verso l’esterno quelle relazioni amorose e, con esse, precisi valori ideali e conseguenti scelte esistenziali. Così facendo egli celebra gli amati e rappresenta se stesso di fronte al vasto pubblico dei suoi lettori, quelli a lui contemporanei e, ovviamente, quelli futuri. Per questo non sor prendono davvero, anche in ambito amoroso,47 la sua chiarezza e la sua libertà d’espressione. Certo che Varchi professa «apertamente» i propri amori omosessuali, e più apertamente – aggiungerei – di quanto non facessero i personaggi dei dialoghi platonici tradotti da Ficino,48 ma egli ne celebra la virtù, la funzione puricatrice – anche in senso religioso – non certo «que’ vizii che si credono esser maggiori in un giovane»; certo che le sue scelte prestavano il anco «alla satira» – e alle bee si potevano aggiungere anche le pugnalate –,49 ma anche dal suo amore per beni immateriali come la cultura e la poesia, dal praticarle persino in età avanzata, poteva venirgli un non minore discredito e non minori esigenze di difesa e legittimazione.

L’amore che Varchi difende è molto più che un sentimento o una passione individuali, è una somma di idealità condivise e da condividere: perciò l’amore per la bellezza e la poesia, per il sapere e per i fanciulli, amici o allievi, per l’attività letteraria e quella pedagogica, sono le diverse facce d’uno stesso poliedro, le costanti esistenziali e gli inscindibili aspetti di una personalità dedita instancabilmente, socraticamente, al dialogo, all’aermazione del valore della sapienza e degli studi.

Sebbene quel «benché ingiustamente» aggiunto da Busini debba, a mio avviso, indurre a qualche cautela in più nel giudicare, anche sul piano strettamente biograco, l’esperienza amorosa di Varchi,50 proporsi di usare la sua poesia per accertare fatti diicili, se non impossibili, da vericare o l’analisi di passioni (?) svanite con chi le provò, signica, a mio avviso, proporsi un falso bersaglio e ridurre l’amore a una questione caratteriale o psicologico-sociale, andando così incontro a una serie di fraintendimenti. Nel leggere la poesia di Varchi, che è quanto qui interessa, non credo perciò che sia opportuno cercare le ‘prove’, anche indirette o mascherate, della sua «omosessualità» o studiarla come se fosse il frutto di un omoerotismo celebrato e praticato in quanto tale. L’immagine del pederasta e rivestito di ipocrite vesti platoniche è, in denitiva, poco convincente, non per ragioni di morale che qui non conterebbero nulla, ma perché, all’atto dell’inter pretazione, si rivela essere un’ipotesi antieconomica e incongrua.

Credo perciò che la cronaca debba passare in secondo piano: non perché essa non sia importante – anzi, in una poesia molto legata alle occasioni qual è quella varchiana, sarebbe essenziale riuscire a identicare sempre date, cose e persone –, ma perché il messaggio di quella poesia si pone al di sopra delle occasioni biograche servendosene per sostenere valori che, nelle intenzioni di Varchi, non possono essere ridotti a una dimensione privata o individuale o contingente. Le pagine che seguono cercheranno quindi di aver cara la lettera delle sue liriche, pastorali e non, di assumere come vincolante la il punto di vista interno di cui esse sono la testimonianza.

4. Poeta, maestro e innamorato: così, come vedremo, si rivelava messer Benedetto anche nella sua poesia pastorale, produzione minoritaria ma molto consistente e molto ignorata, del tutto coinvolta cioè nella sfortuna critica che è toccata al Varchi poeta e che è dovuta, almeno in parte, come ho accennato, al disagio nel leggere e nel gestire una produzione che quasi sempre appare, anche a lettori esperti, uviale, ripetitiva, irriducibile a un’organizzazione macrotestuale davvero convincente, capace cioè di dare unità e senso alla miriade dei frammenti.

Tale disinteresse per i sonetti pastorali e le ecloghe è in parte, di nuovo, il frutto di una prospettiva critica che non coincide con quella cinquecentesca. Si ricorderà che, nella dedicatoria al conte Agostino Ercolani dei Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi stampati postumi a Bologna nel 1576, l’editore Salvietti, che rmava la lettera datata al 10 ottobre di quell’anno, aermava che

fra tutte le compositioni in Rima di M. Benedetto Varchi [...] tengono il primo luogo le pastorali: et se non il primo; il quale molti danno a i componimenti, e Rime fatte nella traduzzione di que’ libri di Boetio, che sono intitolati Della Consolazione della Filosoa; almeno il secondo.51

Prime o seconde che fossero si resta comunque in zona d’alta classica l’aermazione è un’interessante testimonianza della ricezione della poesia di Varchi fuori da Firenze e dalla Toscana, alcuni anni dopo la sua morte, in un contesto poetico ormai del tutto diverso rispetto a quello in cui erano stati composti la maggior parte dei testi raccolti nella stampa, quando era già sorto ed in pieno fulgore l’astro di Torquato Tasso che, proprio in ambito pastorale, aveva già lasciato un’impronta decisiva con l’Aminta. Salvietti o chi stese in sua vece la dedicatoria non si dionde nell’illustrazione delle ragioni della graduatoria della poesia varchiana, ma la scelta di ristampare quei testi e la loro difesa sulla base di un inequivocabile giudizio di valore motivato da questioni di stile e di lingua,52 indicano che la poesia pastorale di Varchi aveva, per i lettori del secondo Cinquecento, una sua autonoma sionomia estetica che dava loro uno spicco che le altre «compositioni in Rima» non avevano.

Da questo punto di vista, l’editore bolognese e gli amici con i quali condivideva quel giudizio e che non mi sembra assurdo immaginare abbiano anche promosso la stampa,53 avevano molte buone ragioni. La pastorale era infatti una forma che Varchi aveva maneggiato di frequente, con una certa abilità e originalità anche, ma soprattutto in modo sistematico. Rispetto a tutti i poeti coevi Varchi si distingue per l’organizzazione delle proprie liriche pastorali in serie chiuse alle quali, dopo il 1555, quando cioè inizierà a progettare nuove e diversamente strutturate edizioni delle sue rime, assegnerà un numero ordinale e un titolo ricavato dal nome del loro protagonista.54

Giova a questo punto srotolare la mappa dell’Arcadia varchiana e segnarne le vie principali. Due gli approdi a stampa, entrambi già citati: i Sonetti editi a Firenze e Venezia nel 1555 e i Componimenti pastorali stampati a Bologna. Quest’ultima edizione è particolarmente importante perché, come aermato sempre nella lettera prefatoria, propone le rime pastorali

non come se ne leggono alcune sparsamente nel primo libro de’ Sonetti [...] ma in quel modo che, negli ultimi anni suoi, pregatone da suoi amici, l’Auttore stesso gl’acconciò come volle, che stessono.55

Essa quindi raccoglie i «primi sonetti pastorali»56 cioè i Fillidi, i «secondi sonetti pastorali»57 cioè i Carini, i «terzi sonetti pastorali» qui senz’altra indicazione di nome58 e due ecloghe, con sonetto di dedica, indirizzate a Piero della Stufa.59 Di queste serie, le prime due, cioè i Fillidi e i Carini erano già comparse, con una successione dei testi leggermente diversa e qualche diversità di lezione, nei Sonetti del 1555.60

L’edizione Salvietti è senz’altro importante ma, nonostante le patenti di nobiltà esibite nella prefatoria, non rappresenta davvero l’ultima volontà di Varchi che è invece conservata dalla superstite tradizione manoscritta. Mi propongo di tornare altra volta sull’argomento e qui mi limito a ricordare che il testimone di maggior prestigio della poesia pastorale di Varchi è il ms. Ashburnham 1039 della Laurenziana il quale raccoglie: (1) i Fillidi – primi sonetti pastorali; (2) i Carini – secondi sonetti pastorali; (3) i Tirinti, cioè i «terzi sonetti pastorali» della stampa bolognese e inoltre (4)i Cherinti – quarti e ultimi sonetti pastorali , più, in fondo al manoscritto, staccate, tre ecloghe, una per Giovanni Rucellai, con lettera d’accompagnamento, e le altre due per Piero della Stufa con il loro sonetto di dedica.61 Neppure l’Ashburnham però è completo perché in due manoscritti orentini, uno della Biblioteca Nazionale Centrale (Palatino 231, cc. 1r-12r) e un altro della Riccardiana (2828 olim o.iii.vii, cc. 82r-93r), conservano la quinta e ultima serie di sonetti pastorali o «semi-pastorali», come recita la rubrica del Riccardiano: i Cirilli.62 A questo cor pus si dovrebbero sottrarre i sonetti di dedica ma anche aggiungere altri sonetti pastorali sparsi nell’edizione del 1555 e altri testi più o meno aini per es. qualche traduzione dal latino o dal greco. Limitandosi comunque ai soli cinque cicli di sonetti si tratta di 163/164 testi l’oscillazione dipende dal fatto che i Tirinti nell’Ashburnham hanno un testo in meno rispetto alla stampa bolognese una cifra davvero ragguardevole e che non mi pare abbia eguali fra i lirici della prima metà del Cinquecento.

5. Il manoscritto laurenziano però contiene non soltanto la quasi totalità dei testi pastorali varchiani, ma anche una lettera di dedica che ne attesta, una volta di più, la sua posizione piuttosto a valle rispetto all’opera correttoria e di rielaborazione e rimeditazione, anche strutturale, compiuta da Varchi sulla propria lirica. La dedicatoria a Giulio de’ Nobili è inoltre signicativa perché rappresenta una delle pochissime occasioni di esplicita riessione teorica sulla poesia pastorale da parte di Varchi e non solo di Varchi, a dire il vero e conviene perciò leggerla integralmente:63

Benedetto Varchi al molto magnico e suo osservandissimo messer Giulio de’ Nobili.
Egli non m’è nascoso molto magni
co messer Giulio mio osservandissimo l’oppenioni degl’huomini dintorno i componimenti pastorali essere molte, e molto tra se diuerse, concio sia cosa, che si ritrouuino64 Alcuni, i quali gli odiano, e abboriscono egualmente tutti quanti, dicendo, che il pastoralmente comporre è non laudabile opera di spiriti puliti, e nobili, ma fatica biasimeuole, d’ingegni rozzi, e contadini: della quale oppenione, per lo essere ella manifestamente non meno falsa, che ridicola, non s’ha conto nessuno à tenere. Alcuni altri non gli riutano del tutto, ma gli approuuano65 solamente nell’Egloghe; e questi sono diuisi in due parti, per cio che Alcuni66 d’essi le uorrebbono in uersi sciolti, e Alcuni in Versi rimati; e questi || sono medesimamente in due parti diuisi, percioche Alcuni amano l’Egloghe in uersi ordinarij d’undici sillabe, e alcuni le desiderano in Versi à sdrucciolo di dodici. Ne mancano di coloro, i quali le bramano parte senza Rime, e parte con elle, e quegli, che così le bramano, uogliono, che elleno hora colle rime ne’ luoghi soliti, e hora con67 quelle, che rime in corpo chiamate sono, si compongano, ò ordinarie, ò sdrucciolose, che siano. Delle costoro oppenioni quale sia la più diritta, ò la manco torta, non è ne uizio mio, ne intendimento di douere, ò di uolere giudicare al presente. À me per hora basta di sapere, si per relazione d’Altri, e si per la sperienza stessa68 di Voi medesimo, che tutte le maniere delle composizioni69 rusticane ui piacciono, e ui dilettano70 sommamente; e di uero lo scriuere uil||lesco con quella grauità, e leggiadria, che si richiede, per arrecare alcuno non pur diletto, ma eziamdio protto à’ lettori è molto diuerso, e dierente dallo scriuere contadino senza leggiadria, e senza grauità nessuna, per fare solamente ridere la Gente. E còme che questo non si faccia senza qualche ingegno, e giudizio, in quello però oltra l’ingegno, e giudizio grandissimo, si ricerca ancora dottrina non picciola, e molto più di fatica è mestiero di porui, che coloro, i quali prouato non hanno, per auuentura non crederebbero. In qualunche modo si sia, io mosso dalle ragioni, e cagioni sopradette pensai di dover fare cosa à Voi grata, e àgli studiosi di que|sta lingua non discara, se posto insieme tutte le ciance mie pastorali, ò Villesche, ò rusticane, ò contadine, che chiamare si debbiano, in diuersi tempi, e per uarie cagioni da me composte e à più persone, miei singularissimi amici indiritte,71 ue ne facessi, qualun||che siano, un presente, dandoui pieno arbitrio, et assolutissima balía di poterne fare tutto quello, che più ui paresse, e piacesse, si per mostrare alcun segno, quantunque picciolo, à Voi, di quello scambievole Amore, che io per le uostre rarissime qualità ui porto grandissimo, e a gli Altri di quanto per gli di Voi uerso me innumerabili benizij ui debbo.

Il testo è piuttosto singolare sia per il poco spazio concesso alla lode del dedicatario sia, soprattutto, per il modo indiretto e un po’ contorto con cui Varchi per un verso presenta e giustica il dono di tutta la sua poesia pastorale, per l’altro aronta le questioni che più gli stanno a cuore. Il testo risponde quindi a due esigenze, in partenza distinte, che l’argomentazione varchiana s’incarica d’intrecciare dando luogo a un viluppo che mi sembra sia necessario districare per comprenderne il senso.

Tutta la prima parte della lettera è dedicata a un tema – l’esposizione dei diversi pareri sull’ammissibilità del genere e sulla sua praticabilità in rapporto a criteri metrico-formali – che Varchi tratta come una discussione oziosa («delle costoro oppenioni quale sia la più diritta, ò la manco torta») così come, sul nire, ostenta disinteresse per le denominazioni di genere («ciance mie pastorali, ò Villesche, ò rusticane, ò contadine, che chiamare si debbiano», con evidente riecheggiamento decameroniano). Le disquisizioni metriche sull’ecloga sono quindi poste da canto quasi come fossero o topic, e sono superate dal semplice, ma essenziale, fatto che il singolo destinatario cui Varchi si rivolge gradisce la poesia pastorale in tutte le sue forme, indierentemente: «À me per hora basta di sapere [...] che tutte le maniere delle composizioni rusticane ui piacciono, e ui dilettano sommamente». Questo primo punto fermo a cui giunge la riessione varchiana – il diletto – vale a individuare sia la ragione della scelta del dedicatario sia una forma di indiretta legittimazione per il genere poetico e per chi lo pratica – se è amato, in «tutte le maniere», da una tale persona lo si dovrà dunque trattare come «laudabile opera di spiriti puliti, e nobili» – sia, inne, muovendo proprio dall’indiscriminato gradimento di Giulio de’ Nobili, a introdurre la distinzione che davvero interessa Varchi e cioè quella fra lo «scriuere uillesco» e lo «scriuere contadino», fra una pastorale decorosa, bembianamente a metà fra leggiadria e gravità, e una poesia rusticana più nenciale, priva d’utile, nalizzata a «fare solamente ridere la Gente». Entrambe possono certo essere difese in virtù della diicoltà dell’articio che le produce –hanno infatti egualmente bisogno di «ingegno» e «giudizio» –, ma non hanno la stessa dignità, non sono la stessa cosa: lo «scrivere villesco» ricerca «dottrina non picciola e molto più di fatica» e arreca «protto a’ lettori». La «grauità» e la «leggiadria» sono quindi i mezzi espressivi di una costruzione artistica che richiede all’artece una notevole tensione intellettuale («ingegno», «giudizio», «fatica») ma grazie alla quale egli riesce a somministrare al lettore, con il piacere, anche la «dottrina» ch’egli ha chiuso nei suoi versi. Parrà forse poca cosa e trita teoria oraziana, ma quest’ultimo passaggio è la chiave di volta del discorso di Varchi sulla pastorale e rappresenta un elemento, in parte, innovativo. La menzione del «protto» a proposito della letteratura pastorale non è difatti ovvia in Varchi perché nelle poche altre occasioni in cui il tema è arontato appare chiaro che lo scopo precipuo del genere è quello di dilettare. Così accade per esempio nella lettera del 1539 a Giovanni Rucellai, scritta come accompagnamento alla traduzione del terzo idillio teocriteo, l’Amarilli, poi divenuta una delle tre ecloghe varchiane e conservata anch’essa nel Laurenziano; così accade in occasione di due lezioni all’Accademia degli Inammati sull’ode alla fonte Bandusia di Orazio e sulla Syrinx ancora di Teocrito.72 In tutti questi casi la lirica pastorale vale come mezzo di ricreazione, come intermezzo piacevole rispetto allo studio continuato di discipline più impegnative e più utili. È inoltre signicativo che, nella lettera al Rucellai, Varchi additi al giovane amico e discepolo il senso ultimo del testo teocriteo nella semplice imitazione della

diversa, e dogliosa impazienza, e alne ultima disperazione, d’un rozzo, e eramente innamorato capraro, raccontante ad alta voce, dinanzi all’uscio della druda, gl’amori, le pruove, e gl’aanni suoi.

Un lamento d’amore, il rustico παρακλαυσίθυρον d’un uomo semplice, nient’altro: toccherà allo stesso Varchi intervenire sul testo antico per integrarlo o censurarne alcune parti, per attualizzarne il contenuto in modo da consentirne una fruizione più procua.

La poesia a cui Varchi ambisce e che intende orire ai suoi «singularissimi amici» è quindi altra cosa dal semplice passatempo ed è allora allo «scrivere villesco» che andranno ascritte le composizioni pastorali aidate in «assolutissima balía» a Giulio de’ Nobili. Una certa ‘rozzezza’ e la relativa semplicità dello stile saranno, come vedremo, uno dei segni distintivi del genere anche nei testi pastorali di Varchi, ma il riferimento a una nalità educativa, come pure quelle, non meno inedite, alla «dottrina non picciola» e alla fatica richieste dalla composizione pongono i cicli di sonetti pastorali di Varchi su un piano diverso da quello che sarebbe connaturato al genere. Si comprende allora perché il dibattito tecnico sull’ecloga, la discussione sul nome da assegnarsi al genere siano respinti: si tratta di falsi bersagli, di questioni sterili che devono essere superate dalla necessità di mostrare come la difesa della pastorale, genere diuso e apprezzato per la sua piacevolezza, vada condotta più ancora che sul piano della diicoltà artistica della realizzazione su quello del contributo che anch’essa porta alla formazione etica, e cioè umana, del lettore. Il punto, ancora una volta, anche nella dedicatoria a Giulio de’ Nobili, sono per Varchi, le cose, il «voler essere uomo» e, assieme, la difesa della liceità della poesia come attività adatta a «spiriti puliti, e nobili», come esercizio degno d’ottenere il giusto contraccambio della lode.73

La dedicatoria dell’Ashburnham ore quindi i presupposti teorici della lirica pastorale di Varchi e, al tempo stesso, toccando i punti essenziali della sua riessione sulla letteratura, ci mostra come anche la pastorale rientri perfettamente all’interno dell’idea varchiana di cultura e di poesia, come vi si trovi perfettamente integrata. Le conseguenze di queste premesse sono chiare: innanzi tutto, stando alle istruzioni per l’uso che ci sono fornite, i testi pastorali di Varchi richiedono al lettore, di oggi e di allora, di non fermarsi all’involucro costituito dalla loro articiale scorza ma di cercare di estrarne la «dottrina», di cavarne il «protto» oltre che il «diletto»; secondariamente che ciò implica il superamento da parte di Varchi dei conni ‘naturali’ del genere pastorale; inne,e se ne dovrà tener conto, che non è possibile disgiungere il Varchi pastorale dal Varchi, per dir così, petrarchista.

6. Il corpus conservato nel manoscritto laurenziano, con l’ulteriore giunta dei Cirilli, oltre ad essere in parte inedito e quindi fuori dal controllo del lettore, è troppo esteso e frutto di occasioni troppo diverse per poterne trattare in modo suicientemente preciso in questa sede. Mi limiterò quindi non all’ultima o alla penultima volontà d’autore, ma alla prima e cioè ai testi pubblicati nel 1555. Questo ‘taglio alto’ della tradizione ore due vantaggi sul piano critico, consentendo di osservare tanto l’interazione e il contrasto fra lirica pastorale e lirica ‘petrarchesca’ quanto il formarsi dello stile pastorale di Varchi, vericandone anche alcuni possibili sviluppi e possibilità no a una data non troppo lontana da quella in cui fu allestito il ms. Laurenziano.

Per la verità, quanto al primo punto, la struttura stessa del volume non pare favorire l’interazione fra la lirica pastorale e quella ‘petrarchesca’: la p. 179, con il titolo «SONETTI | PASTORALI» scritto in capitali e posto a centro pagina, segna inequivocabilmente l’inizio d’una nuova sezione e sembrerebbe indicare piuttosto una già sicura coscienza della diversità delle maniere e una loro netta divisione ispirata a criteri che potremmo sommariamente denire ‘classicisti’. Tuttavia le cose, di là da quella carta, sono in parte meno nette perché – e si tenga da qui in avanti d’occhio la Tavola – le due serie di sonetti pastorali che saranno poi, con qualche modica, rispettivamente, i Fillidi e i Carini nell’Ashburnhamiano e nella stampa bolognese, sono intervallate dal blocco piuttosto compatto dei quarantadue testi, di cui tre soltanto pastorali, tutti relativi alla lode o al biasimo del men che quindicenne Giulio della Stufa nuovo pupillo e nuovo amore di Benedetto,74 secondo, in ordine gerarchico e di successione, a quello per Lorenzo Lenzi. Più confusa ancora la conclusione del volume con una miscellanea poetica contenente altri nove sonetti pastorali posta sotto la poco rassicurante rubrica «Alcuni sonetti del medesimo Autore, parte ritrovati nello stampare, e parte aggiunti di nuovo»: una sorta di cassetto per testi destinati ad essere forse recuperati e inseriti in organismi più strutturati – un paio saranno infatti ricollocati fra i Fillidi e i Carini.

Lasciamo però quest’ultimi sonetti (e le questioni che implicano) nel loro deposito e occupiamoci dei novantasei che li precedono. Come detto, sono distribuiti in modo da incorniciare il cor poso blocco centrale con due serie pastorali che, a loro volta, possono essere inter pretate come sostanzialmente omometriche: 27 sonetti la seconda (i futuri Carini: dedica al Soderini, teoricamente fuori serie, seguita dai ventisei testi con Carino protagonista) e altrettanti la prima, o quasi. Alla dedica al Caro seguono infatti dodici sonetti relativi agli amori di vari pastori per Filli, due estranei a questo ciclo ma pastorali – funebre il primo, di corrispondenza il secondo –,75 altri dieci per lo più incentrati sugli amori di Licori e in chiusura i due sonetti epitalami (quindi: 1+12+2+10+2=27).76 Si noterà, molto di passaggio, che questa cifra è interessante: non solo perché richiama il 1527, anno dall’innamoramento per Lorenzo Lenzi, e perché al momento della scrittura dei sonetti per Giulio della Stufa sono passati 27 anni dall’incontro con l’amatissimo Lauro (e si è quindi nel 1554),77 ma anche perché risulta da numeri ‘perfetti’ essendo scomponibile in 3 × 9 e perché, in aggiunta, anche 42 è multiplo di 3 – naturalmente 3 × 14 cioè 3 × (9+5) – cosa che può far immaginare una qualche attenzione per le proporzioni fra le parti della raccolta e, vagamente, ricordare quelle tassiane o bembiane.78

Ciò che più conta però è che, pur se osservata di lontano e sulla carta, la seconda parte dei Sonetti varchiani, all’apparenza contraddittoria, non risulta semplicemente costituita da tre blocchi o raccolte giustapposti perché vi sono indizi suicienti per pensare che le sequenze e i singoli testi pastorali vi si siano impiegati a ni strutturali, che compongano, in denitiva, un discorso tendenzialmente unitario con i testi ‘petrarcheschi’. D’altra parte, la segmentazione, quella implicita – sonetti interposti – e quella esplicita – rubriche e intestazioni –, qui come in altri libri di poesia cinquecenteschi, varrà a individuare sezioni, a marcare punti di stacco o di svolta, ma non a cancellare gli elementi di continuità fra le parti. Alcuni sono quasi ovvi – per esempio la connessione fra i sonetti per Giulio della Stufa alias Carino e quelli dedicati al Soderini – altri sono invece meno appariscenti e richiedono, per essere rilevati, qualche accortezza in più. Nel complesso, credo che l’articolazione delle parti nella seconda sezione dei Sonetti del 1555 non sia casuale: pur componendosi di sequenze testuali diverse per origine e anche piuttosto distanti per epoca, il loro accostamento non lascia inerti i testi e, anzi, mi pare dimostri bene la volontà di Varchi di disporre accuratamente le parti e le singole tessere che le compongono e di sfruttare le possibilità oerte dai diversi generi letterari in funzione del messaggio, della «dottrina», che intende orire ai suoi lettori, a cominciare da quelli privilegiati – dedicatari e destinatari.

7. Soermiamoci allora sulla prima sequenza di sonetti pastorali. La dedica a Caro (1),79 testo proemiale nei temi e nei modi, resta fuori serie, ma dà precise indicazioni sul carattere di questi primi sonetti – sicuramente i futuri, veri e propri Fillidi, quelli cioè che hanno come ideale protagonista Filli (2-13), ma forse anche i successivi (16-25) – che Varchi denisce «rozzi pastorali aanni / D’oscuro, e basso stil giovin lavoro» (vv. 5-6). La dichiarazione è almeno in parte topica, ma si dovrà osservare che, per quanto riguarda lo stile, riecheggia quella che accompagnava la presentazione dell’Amarilli teocritea al Rucellai e che con essa quadra perché anche qui si tratta, per lo più, di amori infelici.

Al sonetto di dedica segue un nuovo proemio (2), questa volta pastorale, cui corrisponde il sonetto conclusivo (13): entrambi infatti sono scene di sacricio a Bacco da parte di Damone (qui e sempre alter ego pastorale di Varchi), cosicché la struttura dei Fillidi, aperta e chiusa da libagioni (2, 13-14 e 13, 5-7) risulta perfettamente circolare. Perimetrare una serie pastorale con scene sacricali o votive non è un fatto senza tradizione: per restare a quella volgare, lo si incontra anche nella seconda parte del Libro primo degli Amori di Bernardo Tasso (1531-1534) nella quale tanto il ciclo di sonetti scritti in lode di Alcippo-Brocardo quanto quello dei sonetti sull’amore di Batto-Tasso erano inquadrati da una coppia di testi dedicati a divinità antiche che proponevano oerte di doni votivi accompagnati da preghiere di petizione e di ringraziamento. Il raronto è qui particolarmente pregnante perché era proprio con il sacricio a Bacco di un «irco bianco» (ed. 1531, 144, 1) perché «abbian seco l’uve eterna pace» (v. 12) che il Tasso concludeva il ciclo di Alcippo-Brocardo, proponendo un testo dall’evidente valore metapoetico, benaugurante cioè circa l’eternità della poesia e del poeta.80 Le analogie formali fra questo testo e quello che apre i Fillidi sono così manifeste, anche laddove si presentino per distacco,81 che se ne può ben inferire una corrispondenza anche circa il signicato da attribuire alle «sante viti» (v. 8) del sonetto varchiano.82

La corrispondenza formale e contenutistica con gli Amori non si ripete nella conclusione della sfortunata vicenda di Damone-Varchi: mentre Batto-Tasso oriva un ex voto a Cupido, questi sacrica di nuovo a Lieo, questa volta inteso però come dio dell’ebrezza, del vino in cui dimenticare i patimenti amorosi. Torneremo a breve su questo sonetto, ma va detto intanto che se gli Amori valgono come antecedente per il piccolo ciclo dei Fillidi (2-13),83 Varchi, riprendendo la materia pastorale, la depura delle connotazioni polemiche che ne avevano accompagnato la comparsa nel canzoniere tassiano e, pur avendo dato prova di aver consapevolmente partecipato al tentativo di rinnovamento classicista della poesia volgare,84 non rivendica qui alcun ruolo innovatore per sé e per la propria poesia. Ciò però che più importa nel rapporto tra i Fillidi e gli Amori è che si tratta molto più di un rapporto contrastivo di quanto non lo sia di somiglianza. Varchi procede infatti molto oltre la proposta poetica del Tasso, tracciando, almeno in parte, un sentiero diverso, cosa che signica, ovviamente, non solo diversità di gusto, ma di ragioni e di obiettivi.

La diversità di Varchi riguarda innanzi tutto la facies stilistica dei suoi testi: limitandosi alla prima serie di sonetti pastorali (2-25) si osserva, rispetto a quelli tassiani, una maggiore concretezza e una maggiore icasticità. Se per il Tasso l’immaginario, il lessico della pastorale sono quelli, decorativi e purgatissimi, appresi dai poeti latini moderni, tutti volti al preziosismo, alla dolcezza, all’eufonia del verso, Varchi pur non ignorando, si direbbe, la tradizione neolatina,85 è meno legato a questa concezione di lingua e stile e conserva piuttosto maggiore memoria della lettura di Teocrito – e in questo senso la citata traduzione per Giovanni Rucellai è signicativa – e della tradizione toscana antica e moderna (Boccaccio, Lorenzo de’ Medici, Alamanni), in parte allusa anche nella dedicatoria a Giulio De’ Nobili. La costruzione di un universo arcadico passa, per Varchi, attraverso la denizione di uno stile capace cioè di evocarne, con maggiore evidenza, la semplicità e l’ingenua rozzezza. Così nei suoi versi, oltre a una presenza non trascurabile di rime un po’ aspre – alcune di provenienza dantesca –, s’incontrano, sul piano del lessico, voci inconsuete e attente a nominare le cose: tra i ori ci son certo viole e gigli, ma assieme a più rari «oralisi» (7, 1); risaltano le «viscere» del capro oerto a Bacco (1, 8) come pure, a anco della più comune «cornice» che dà infausti presagi (5, 6), le «tortore» catturate come dono (6, 10), il «troncone» (8, 5) con iscrizioni d’amore, la «pastura» del gregge (10, 4), le «fragole» (11, 11) e gli «aranci» (16, 14); oppure le voci e locuzioni icastiche o tecniche quali «inherba» (8, 1), «avvinciglia» (detto dell’edera, 4, 4), «appostare» (6, 11) per la caccia, «ruminare» (7, 7), «abbaiare» (11, 12), «innaiare» (17, 7), «cadere rovescio» (3, 14) al termine della corsa dietro l’amata. Sono solo pochi esempi ma suicienti per mostrare come l’arricchimento del registro linguistico basso, senza sconnare nel vile o nel triviale, sia senza dubbio un elemento di spicco della proposta di Varchi, un obiettivo ch’egli doveva aver presente anche stendendo la dedicatoria a Giulio De’ Nobili, là dove sperava di

fare cosa [...] àgli studiosi di questa lingua non discara» riunendo le sue «ciance [...] pastorali.

La denizione della grana linguistica e dello stile della pastorale di Varchi, come pure lo studio delle sue ‘fonti’, potranno essere discussi solo dopo il commento puntuale di almeno una serie signicativa di testi. È perciò più opportuno riprendere e proseguire una lettura dei Fillidi evidenziando l’altro, macroscopico, tratto distintivo della lirica pastorale varchiana rispetto a quella di Tasso, ovvero la maggiore cura posta nel costruire percorsi narrativi estesi e coerenti.

Il sacricio a Bacco su cui si conclude la serie 3-13 è non soltanto il contraltare del sonetto incipitario ma la conclusione della trama narrativa, esile ma non povera di mezzi, che unisce i sonetti e che, in estrema sintesi, può essere così riassunta: Damone si lamenta e insegue Filli, la ninfa che lo aveva amato e per il cui amore era stato invidiato da altri pastori, per poi abbandonarla: una vicenda quindi di amore come semplice passione. Ciò che però è più interessante e innovativo, è il modo con cui Varchi costruisce e conduce la narrazione lirica.

Superato il proemio con il sacricio a Bacco, il primo vero sonetto del ciclo è un nuovo sacricio di ringraziamento al fonte, ai prati e al leccio, additati al compagno Tirsi, agli elementi cioè che avevano assistito ai felici amori di Damone e della sua ninfa (3); ne scopriamo il nome – Filli – nel sonetto successivo (4) che riporta le parole indirizzate dal pastore nel corso dell’inseguimento della ninfa. I successivi tre si immaginano come soliloqui di Damone che lamenta l’atteggiamento innaturalmente crudele di Filli (5-6) o allocuzioni alla Ninfa per portale doni campestri, serbati solo per lei, nel tentativo di ricondurla a sé e di ostacolare il corteggiamento di Licida (7). Seguono tre testi che presentano, come locutori, due diversi personaggi: Mosso, che sparge ori a Venere perché Filli non lo fugga (8), e Coridone che prima legge un’iscrizione che racconta gli amori felici di Filli e Damone, infuriandosi con movenze quasi ariostesche, e poi ripropone il topos della visita della amata crudele all’amante morto per amore (9-10). Ai testi dei due amanti infelici, fa seguito un nuovo dittico, due sonetti che si ngono scritti su una corteccia (11-12): il primo raigura il momento in cui Damone e Filli si confessano il reciproco amore, il secondo si rivolge al lettore della prima (e delle altre simili che devono esserle immaginate attorno) avvisandolo che ora Filli lo fugge. L’ultimo testo (13), come detto, è una nuova libagione in onore di Bacco «deità più d’altra mite» (v. 8) grazie alla quale cessa l’inseguimento di Filli.

La presenza e l’intervento, oltre alla coppia principale, di altri personaggi in primo piano, Mosso e Coridone, e sullo sfondo, Testili, Licida e gli altri possibili lettori interni alla ctio dei sonetti 11-12; la brillante invenzione di far immaginare questi due testi scritti non sulle pagine del libro ma su una «scorza» (12, 1); la presenza di episodi incidentali accennati, come il nascondino fra i due amanti (3, 7-8), o narrati, come quello della cagna di Damone, Licisca, che abbaia facendo scappare Filli (12, 9-11), o come l’altro in cui Mosso che «pien di furore» (9, 9) getta nel ume il suo bastone proprio per aver letto il messaggio inciso su un tronco con cui Filli dichiara eterno amore per Damone; il gioco di piani temporali con l’alternanza improvvisa fra il lontano passato felice con quello, più recente, della fuga dell’amata, e la sua interferenza con le azioni dei personaggi – Mosso si adira, ma solo perché le iscrizioni ancora non lo aggiornano circa l’avvenuta rottura tra Filli e Damone, fatto a cui porrà esplicitamente rimedio il sonetto 12, 1-4:

Pastor, che leggi in questa scorza e ’n quella
Filli scritto, e Damon, che Filli honora,
Sappi, che tanto fu pietosa allora
Filli a Damon, quant’hor gl’è cruda, e fella;

la preferenza accordata alla visione sul racconto, all’azione anziché al chiarimento delle sue cause o delle sue circostanze, evidente nella costruzione di 9 o nel rapporto di successione temporale fra 11 e 12 che a ritroso chiarisce quello fra 1 e 2; la tornitura classica dei sonetti di corresponsione amorosa e la cura nella descrizione degli aetti (2-3, 9, 11): sono tutti elementi che rendono particolarmente vivida la pittura dell’Arcadia e che fanno davvero di questo ciclo, piccolo ma senza esempio, per quanto ne so, nella tradizione lirica volgare, uno degli esiti migliori della lirica varchiana.

La conclusione della vicenda dei Fillidi, come detto, non è positiva. La seconda terzina del sonetto 13, il secondo sonetto a Bacco, infatti segna la resa di Damone:

Questi l’arme crudei; quel segua Amore:
Ch’io vivere, e morir vo’ teco insieme,
E se Filli mi vuol, vengami dietro.

La scelta di Bacco non più dio protettore della poesia come in 2,86 ma del vino come fonte di «dolcezza, e speme» (v. 9) porta sì a un’aermazione, molto spiccia, della propria indipendenza da parte di Damone, ma ancor di più a una sorta di riuto dell’amore che è un fatto signicativo in Varchi, se si ha presente l’alto concetto che ne ha.

8. I Fillidi non sembrerebbero avere, nonostante siano ambientati in riva al Mugnone, un legame con la biograa varchiana e neppure un particolare intento didattico. Diverso invece il caso di quelli che potremmo chiamare ‘Licoridi’, cioè i sonetti 16-22 scritti per gli amori di Iola e Licori, separati dal destino – l’uno a Firenze l’altra a Roma –87 cui si aggiunge l’amore di Damone per lo stesso Iola. Non so determinare le identità reali di questi personaggi, a parte quella di Varchi,88 ma è senza dubbio signicativo, anche per comprendere le successive serie testuali, il sonetto 22 che chiude la sequenza e precisa la natura dell’amore di Damone per Iola, già aermato anche nei testi 19 e 21:

Pastor, se per rea sorte, o nulla senti
D’Amore o pure amando ami infelice,
Fermati; non varcar, ch’entrar non lice
Né profani il bell’antro, né scontenti:

Qui, sol mirando i santi lumi ardenti
Del bellissimo Iola, e poco dice,
Più ch’altro mai Pastor lieto e felice
Hebbe tutti Damone i suoi contenti.

Amor sel vide, e sallo il ver, se mai
Arse più casto cor più bel desire,
E più gradito di tutti altri assai.

Volle ben sì, volle Damon morire,
E più volte morì, ma i dolci rai
Vivo il tornar, né sa ben come, dire.

Dalla grotta felice in cui ha potuto ssare i «santi lumi ardenti» di Iola, Damone allontana sia coloro che sono privi d’ogni gentilezza spirituale e non «sentono» Amore, sia coloro che lo provano ma sono invischiati in una passione dolorosa che non può essere il vero amore, il «bel desire» che nasce invece «da casto cor», il cui piacere massimo sta nella contemplazione della bellezza dell’amato onde la precisazione conclusiva circa la natura eudemonica, antipetrarchista, del miracolo di morte e risurrezione provocato dall’ardore amoroso. Così, denendo l’amore, Varchi amante denisce anche il pubblico, riduce la platea dei potenziali lettori, di coloro che possano davvero comprendere i suoi versi e il loro contenuto.

9. Se da questa sequenza passiamo a esaminare, molto brevemente, la serie composta dai sonetti per Giulio della Stufa (28-69) – i pastorali 23-25, in cui fa la sua comparsa anche il Lenzi, sotto il nome di Dafni (25),89 credo si debbano considerare il frutto di occasioni diverse e possano qui essere tralasciati – i termini con cui è descritto l’amore per i giovinetti, amici e allievi, non cambia, anzi si precisa in virtù dell’impostazione fortemente pedagogica che caratterizza la serie. Per almeno tutti i primi sei sonetti – una sequenza compattissima, stretta da forti legami intertestuali e da una ancor più forte solidarietà concettuale – Varchi mostra ripetutamente al giovanissimo e dotato allievo («Havete innanzi al quindicesimo anno / Senno maturo ed eloquenza piena», 28, 3-4) che (30, 1-4):

[...] chi cerca fama, e restar vuole
Ne’ petti, e bocche altrui mai sempre vivo,
D’ogni altro Amor, d’ogni altra cura schivo,
Sol l’alme suore, e ’l santo Apollo cole.

E se in questi versi l’importanza della poesia per vivere veramente, la disciplina necessaria per praticarla, l’esclusività di quell’amore sono condensati in un breve giro di frase, nel sonetto precedente lo stesso tema di fondo, l’invito a incamminarsi per «la strada di virtù», ha più ampia trattazione ed è accompagnato da un esigente programma di vita che molto dice anche dell’animus con cui Benedetto si era consacrato agli studi:

Giulio chi vivo al ciel volare, ed oltra
La Tana e ’l Nilo esser nomato brama
(Se benigno astro, o miglior forza il chiama)
Non segue Bacco, o ’n pigre piume poltra.

Non vive mentre è vivo, non che oltra
Cui non incende ardente honrata brama
Di quelle caste Dee, ch’immortal fama
Acquistan solo a chi per tempo spoltra.

La sequela di Bacco, divinità che non avrà quasi altra menzione nei Sonetti, neppure in quelli che hanno come protagonista Carino-Giulio,90 indicherà qui l’accondiscendenza a piaceri sensibili che, assieme alla pigrizia, impediscono il d’alimentare il fuoco della «honrata brama». Tuttavia credo appaia anche abbastanza chiaro il rimando al sonetto 13, cioè alla negativa conclusione dei Fillidi – la vicenda di un amore elegiaco, infelice, che trova rifugio e speranza solo nell’oblio qui allusi e proposti al lettore come antimodello rispetto alla via di gloria indicata al giovane Della Stufa. Gli amori di Damone e Filli sembrano svolgere questa stessa funzione anche pochi testi più avanti. Varchi, a partire dal sonetto 34 nel quale aerma l’immediato innamoramento per il giovinetto («Io per me, da ch’udii la voce, e i duoi / Lumi vostri mirai, tali, e cotante / Sentii nel cor faville» vv. 5-7) inizia una sequenza in lode di Giulio, delle sue virtù di cor po e di spirito che richiamano alla memoria dell’ormai anziano Benedetto altri amori e altri giovinetti: Giuliano Gondi, Giulio Strozzi (38), ma soprattutto Lorenzo Lenzi. Al termine e al culmine di questa sequenza, Varchi precisa, dopo averne già aermato la castità, la qualità dell’amore che lo unisce Giulio (45, 9-14):

Il foco, ch’arde la vil gente, è ghiaccio
A lato al nostro: quello i corpi e questo
Incende l’alme, e le consuma e strugge;

Questo non parte mai, quel sempre fugge;
L’un seguita il piacer, l’altro l’honesto;
Oh quante cose qui trapasso, e taccio?
91

In estrema sintesi, scrive Varchi, tutto teso nel suo slancio educativo verso il giovane amico, l’amore volgare è sico, incostante ed egoistico: tali sono anche i comuni «pastorali aanni» narrati all’inizio della seconda parte dei Sonetti giacché quel «sempre fugge» si applica perfettamente alla Filli amata da Damone, volubile e, appunto, fuggitiva, fonte di rabbia, frustrazione e amarezze per tutti i pastori che di lei s’invaghiscono. La pastorale in questo caso particolare ma non ovviamente in quello del rapporto Damone-Iola visto sopra rappresenta un traviamento dell’amore e quel primo ciclo, privo, come detto, di apparenti signicati allegorici, può acquistare nuove valenze proprio nel rapporto di contrasto con i sonetti, pastorali e non, sull’«Amor vero» (35, 12).

La dialettica con la pastorale però si sviluppa anche all’interno dei sonetti per Giulio. Subito dopo aver tracciato i conni che lo separano dalla «vil gente», Varchi presenta un sonetto in cui Giulio diventa Carino e la realtà, spirituale, si esprime attraverso la cifra arcadica (46):

Mentre ’l mio buon Carin quasi novello
Narcisso, al trapassar dell’onde chiare
D’Ema, se stesso mira, e le sue rare
Doti, onde scrivo ogn’hor, penso e favello,

Vago coro di Ninfe il dolce, e bello
Volto scorgendo, cui solo uno è pare,
Tosto dal fondo sovra l’acque appare,
Più, ch’a sua preda mai rapace uccello.

E dopo lunga in van preghiera, seco
Dal suo destrier con dolce forza tolto,
Rapillo, e dentro al bel cristallo il trasse,

Ma ei più d’Hila e saggio, e forte, bieco
Guardolle irato, e ’l passo indietro volto,
Le lasciò tutte sbigottite, e lasse.

Il testo, con il racconto di questa sorta di avventura in riva all’Ema viene alla mente quella boiardesca della Fonte del Riso che richiama esplicitamente i due importanti miti classici già usati nel sonetto 25, introduce, descrivendo la tentazione d’un amore sensuale subita da Giulio, una nota di profonda inquietudine perché è vero che, per questa volta, il giovinetto resiste alla seduzione del vizio, forte dell’altero sdegno della propria virtù, ma è anche vero che la «dolce forza» delle ninfe lo fa cadere da cavallo nelle acque del ume. Il racconto di questo allegorico episodio pastoral-cavalleresco non è posto lì a caso, ma ha il valore di una prolessi: alla nuova lode di 47 fanno seguito, nella forma d’un ammonimento di Varchi al giovane, le avvisaglie dell’errore di Giulio. Il nesso fra questo sonetto con quello sulle ninfe dell’Ema è evidente (48, 1-6, 9-14):

Se da queste onde, ch’a solcare havete
Di Cariddi, e di Scille, e di Sirene,
E d’altri mille horrendi mostri piene,
Condurvi in porto, e salvo uscir volete,

Non sol con ambe le man gl’occhii chiudete,
Ma turate le orecchie

[...]

Contra la vista lor, contra l’amaro
Suon, che sì dolce a chi l’ascolta, pare,
Nullo è, se non fuggir, certo riparo.

Fuggite dunque Signor mio, se caro
V’è ch’io v’ami, et honori, e pinga al paro
Delle frondi, più d’altre, amate, e care.

La fuga dalle tentazioni, spiega l’innamorato maestro, sarebbe il solo modo di preservare la propria integrità contro «i mille horrendi mostri» che assalgono e tentano di corrompere i giovani e, al tempo stesso, di conservare la possibilità d’essere amato, cantato e accostato al Lenzi. La pietra del paragone d’ogni amore varchiano è però destinata a restare unica. Giulio, infatti, sconterà la fragilità della propria fanciullezza cadendo nella rete del vizio e dando luogo a una rottura con Benedetto che occuperà quanto resta di questa sezione fra ammonimenti, rimproveri, proteste d’amore e la conclusiva riconciliazione (62).92 Tralascio l’analisi di questi testi e mi limito a rilevare che le due successive apparizioni della maschera di Carino al di fuori del ciclo a lui dedicato, nei sonetti 54 e 55, si inseriscono nella serie di testi che commentano l’accaduto e ne traggono una sorta di bilancio. Benedetto, che a buon diritto può dire «Ben fui di mio dolor certo indivino, / E vidi il danno altrui venir lontano» (54, 5-6), così confermando il valore prolettico dei sonetti 46 e 48, cerca ora di scusare il giovinetto sebbene Amore gliene mostri la colpevolezza (54, 9-13), ora corso il suo cuore «Al poggio, ove di noi regna il divino» (55, 8), consultatosi cioè l’amore con l’intelletto assume invece una posizione molto più rigida («ad alma gentil più tosto, ch’una / Volta fallar, perir mille convene» vv. 10-11). Nei sonetti 46 e 54-55 di pastorale vi è poco, eccezion fatta, come detto, per la maschera di Carino; ciò non di meno l’uso dell’appellativo arcadico di Giulio è suiciente ad evocare il genere e, con esso, a marcare l’importanza del momento logico-narrativo. In eetti, per Varchi, quel bilancio, la precisazione delle ragioni e delle circostanze del traviamento del ragazzo «voler [...] o destino», colpa della volontà, dell’età o del pernicioso inusso dei costumi contemporanei e di quelle del proprio agire l’errore nell’aver collocato il proprio amore in un oggetto imper- fetto, la diicoltà di staccarsene con nettezza, l’inevitabilità di tale distacco sono questioni decisive perché chiamano in causa la realtà e la verità di quell’amore per come Benedetto lo ha descritto nel citato sonetto 45, l’eettiva conformità con il modello ideale d’amato Lorenzo Lenzi, ovviamente.

10. Questo nodo problematico su cui si chiudono i sonetti per il Della Stufa la reale natura dell’amore, i suoi eetti, la sua comprensibilità per gli altri sta alla base anche della diicile serie pastorale che chiude la seconda parte dei Sonetti (70-96). Il tema è già esplicito nella dedica al Soderini al quale i sonetti sono oerti proprio perché egli non «dispregia / Le sante forze del celeste Amore» (vv. 3-4). Poiché infatti conosce e comprende l’amore uranio, potrà ben difendere i testi che ne parlano contro la «gente vil» (v. 9 con ripresa di 45, 9) e sostenere il diritto di Benedetto d’avere «In non giovine cor giovin pensiero» (v. 11) cioè d’amare e quindi di scrivere poesia d’amore nonostante l’età avanzata. Amore quindi come «sentiero / Al ciel» (vv. 13-14) è ciò che muove questa volta il canto di «Damon pastore» (v. 5), composto (vv. 6-8):

nell’andata state,
Mentre del bel Carin seguia l’amate
Orme tra riso e duol, speme e timore.

Spicca, in questa sintesi del tema del ciclo, l’annunciata oscillazione emotiva che non dev’essere però ricondotta a un difetto d’amore, alle ambasce della passione che caratterizzavano i Fillidi, quanto piuttosto al compiacimento per gli amori di Carino-Giulio con Nape e alle circostanze che determineranno la separazione di costei e di Damone dal giovinetto.

Il plot di questa seconda serie pastorale, come la prima caratterizzata da un’articolazione narrativa e da precise determinazioni di luogo,93 prevede infatti una prima parte (71-85) con gli amori e gli episodi della vita pastorale di Carino conclusa dall’improvvisa partenza del pastorello (86-87), e una seconda parte (88-91) in cui Damone e Nape ne lamentano l’assenza e inne un’ultima compattissima sezione (92-96) in cui Damone resta solo e giustica il suo amore per Carino che è stato all’origine della forzata lontananza di questi («Chi me l’asconde, oimè, chi lo mi toglie», geme il pastore in 93, 10).

Sono proprio gli ultimi cinque testi, una sorta di corona di sonetti, talvolta anche capnidi, a indicare la sicura origine biograca della svolta narrativa che si consuma con la separazione degli amanti: il «tristo fato», il «vano altrui temer» (94, 3-4) l’«invidia, o gelosia», l’«ira ed asprezza» (v. 10), la speranza che il «duro cor» (95, 4) si ricreda e comprenda di aver sbagliato a separare Carino da Damone sono infatti tutti elementi che mostrano che, ancora una volta, come già era accaduto per Alessandro de’ Pazzi o per Giulio Strozzi e i suoi fratelli, l’amore di Benedetto per i suoi giovani allievi è fonte di equivoci – a torto, sostiene qui e sempre il poeta-amante.94 Questa radice biograca segna così tutta la serie e spiega o ne determina alcuni tratti fondamentali, a cominciare dalla mancanza di sovrapposizione tematica con i sonetti 28-62 rispetto ai quali, mancando ogni riferimento all’errore di Carino-Giulio, si dovrà piuttosto pensare a un rapporto di successione cronologica. La giustapposizione dei sonetti per Giulio e i Carini non sarebbe perciò solo determinata dall’identità del loro destinatario/ protagonista, ma dalla volontà di Varchi di raccontarci l’inizio, il mezzo e la ne di una esperienza amorosa sulla quale egli aveva molto investito dal punto di vista poetico-culturale, che avrebbe dovuto porsi al livello di quella laurenziana, ma che invece egli è costretto ad abbandonare. La rinuncia, per altro, non è solo amorosa, ma anche letteraria, perché il sonetto 96 segna l’abbandono di quella poesia da parte di Damone-Varchi per potersi dedicare «a più grave lavoro» (v. 13).

Dal riferimento a una realtà extraletteraria dipende però anche il ricorso ai veli dell’allegoria, veli ora più ora meno spessi e stesi sugli eventi e i personaggi della serie in modo non uniforme. Signicativa, a questo proposito, è la caratterizzazione di Nape, gura di per sé ambivalente – è ninfa di Diana ma è anche innamorata – e divisa fra una funzione meramente narrativa quando amoreggia castissimamente con Carino (per esempio in 71-73)95 e le valenze ulteriori, e tutt’altro che facilmente comprensibili, che acquisisce ogni qual volta entra in relazione con Damone il cui rapporto con la coppia d’innamorati è, d’altra parte, legato anch’esso a una dimensione fortemente simbolica.96 Così, ad esempio, all’inizio del ciclo, nel sonetto 72, Nape, raccolti molti ori, ne compone una ghirlanda per «darla al bel Carino» (v. 11) mentre Damone, che ha seguito la ninfa e ha veduto la scena, «[partiti lor] gioioso» si siede (v. 14) sotto il «verde pino» (v. 13) presso cui stava il pastorello: una scena che ha tratti senza dubbio simbolici e che forse, considerata l’importanza del pino per la tradizione pastorale – è la pianta sotto cui siedono i personaggi del primo idillio teocriteo – potrebbe forse anche alludere a una sorta d’incoronazione poetica. Successivamente, nel sonetto 74, Nape, mentre intreccia i capelli a Carino, viene spaventata dal «crocitar d’un corbo» (v. 3): Damone, con una freccia, lo fa «di voce privo, e di vita orbo» (v. 7) e la ninfa può così commentare, «tutta lieta» (v. 9):

   Caro Damon, sia benedetto il giorno
   Che del suo foco il mio Carin t’accese:
Dove sei tu, d’augelli oltraggio o scorno
   Non temo, od altre pastorali o
ese;
   Poscia nel bel Carin le luci a
isse.

Non so chiarire con sicurezza il signicato dei dettagli di questa scena, ma mi sembra fuor di dubbio che l’episodio e l’intervento di Damone abbiano un signicato che va oltre quello letterale. In questo caso si potrebbe pensare al cattivo augurio della futura separazione un nuovo caso di prolessi narrativa oppure alla volontà di far tacere le maldicenze e le «oese» di gente rozza, incapace di comprendere la relazione amorosa fra Nape e Carino. Su questa linea si pone del resto anche il sonetto 82 la chiave forse dell’intero ciclo in cui è il pastorello che invita Damone a fuggire alla vista di una «candida biscia» e ne riceve, come risposta, la seguente rassicurazione (vv. 9-14):

Non temer, Carin mio, ch’aperto segno
Ne mostra il ciel, ch’a glorioso
ne
I tuoi n’andranno, e i miei cortesi ardori;

Già sono io teco e tu, se quelle spine
Nol vietan, veder puoi l’alto sostegno,
   Nape, della tua vita, apparir fuori.

Nulla insomma potrà impedire ai «cortesi ardori» di Carino per Nape e di Damone per Carino di giungere al loro ne: la gloria. Nessuna insidia può avvelenare l’amore di Damone, nessuna siepe di «spine» potrà impedire a Carino di contemplare e di raggiungere Nape, «l’alto sostegno, / [...] della sua vita». Questa denizione, gli altri elementi che le stanno attorno assieme a quanto si è letto del sonetto 74, lascerebbero pensare che la ninfa stia a signicare, almeno per intervalli, una qualche virtù interiore se non la Virtù stessa, ovvero ciò senza la quale come aerma lo stesso Carino nel sonetto 83, centro geometrico del ciclo«nulla, che sia, mi piace o giova» (v. 4). Si potrebbero così spiegare le attenzioni di Damone per il buon andamento della relazione fra i due innamorati, come pure un sonetto, il 91, nel quale l’ultima apparizione della ninfa all’interno del ciclo si risolve in un duetto con Damone sull’amore per Carino ormai lontano concluso, a una sola voce, sulle parole «ardiam dunque, che mai / Non fur più dolci, e più cortesi lai» (13-14) ovvero su una manifestazione di perfetta sintonia ideologica e spirituale.

Tutt’altro che di facile lettura, il ciclo di Carino lascia aperte e, almeno per quanto mi concerne, prive di una risposta convincente, molte questioni inter pretative generali e particolari. D’altro canto, proprio queste diicoltà rendono tangibile l’impegno posto da Varchi nella composizione di questi versi per il suo pupillo, il «giudicio» e la «dottrina non picciola» che aveva racchiuso sotto i panni «villeschi». Neppure la poesia estiva composta nel ritiro della Tana può essere per Varchi poesia priva di scopo, puro piacere immaginativo e verbale: la celebrazione di Giulio, la difesa forse di un modello educativo e, certamente, del proprio rapporto con il giovane amico, divengono l’occasione per imbastire una complessa, e in parte cifrata, rappresentazione pastorale, per impartire una nuova lezione d’amore e di letteratura a Giulio.

Il ciclo di Carino è infatti anche la consapevole proposta di un modello poetico, del tutto congruente, nella sostanza, con il contenuto della lettera che Varchi avrebbe scritto al De’ Nobili. Gli stessi principi infatti erano stati esposti anche allo stesso Giulio della Stufa, in un epigramma con il quale Varchi replicava alla lettura di alcuni carmi di Giulio:

Quod tam casta facis, tam docta et carmina, sane
Nil mirum est, dum te rura, paterna tenent
Quandoquidem, ut fama est, non solum casta Diana,
Verum etiam sylvas docta Minerva colit.
Perge igitur, bone Iuli, et divam utramque secutus
Excole praeclaris moribus ingenium.97

Non so dire quali fossero i versi che il Della Stufa aveva mandato a Varchi,98 è però certo che questi, rispondendo all’allievo e lodandolo, oriva anche una lettura essenziale ma decisiva di quell’esercizio poetico non limitandosi a descriverne i tratti salienti ma proponendo una norma da seguire: la poesia pastorale, poesia che nasce negli ozi in villa, in un ambiente e in un tempo corrispondenti alla materia di cui si intende scrivere, deve avere come nume tutelare non soltanto Diana ma anche Minerva, non solo la castità ma anche la «dottrina» è qui, verrebbe da chiedersi il senso della coppia formata da Nape e Damone? La poesia pastorale infatti non è per Varchi solo lettera o solo diletto, come in Teocrito, non è soltanto uno svago estivo, il frutto di un calo di tensione spirituale, ma, al contrario, è la «laudabile opera di spiriti puliti, e nobili», è utilità per i mores ed esercizio dell’«ingegno» ainché «Quel dentro s’orni, e non il bel di fore» (59, 13), è via per giungere a «glorioso ne».

Annexe

Tavola

La seguente Tavola si riferisce alla sezione pastorale dei Sonetti stampati nel 1555. Nella prima colonna, da sinistra, si trova il riferimento al numero di pagina di quell’edizione; quindi la numerazione progressiva dei testi; quella relativa alle sezioni e sottosezioni individuate; gli incipit dei sonetti e una generica indicazione del tema di ciascuna sezione. Le linee tratteggiate indicano la presenza di partizioni interne alle singole sezioni; le linee doppie segnalano invece una cesura in presenza o meno di nuova rubrica. Per l’ultima sezione si sono registrati i soli sonetti pastorali.

____________

1 De Sonetti di M. Benedetto Varchi, Parte prima, in Fiorenza, appresso M. Lorenzo Torrentino, mdlv. Tutte le citazioni dei sonetti varchiani sono da questa edizione; nelle trascrizioni, anche degli incipit nella Tavola, correggo gli errori, distinguo ‘u’da ‘v’, riduco ‘j’ a ‘i’, riconduco all’uso moderno l’impiego dei diacritici e delle maiuscole.

2 La rivalutazione di Varchi, iniziata negli anni Settanta (molto più con l’articolo di R. S. Samuels, Benedetto Varchi, The “Accademia degli Inammati” and the Origins of the Italian Academic Movement, in «Renaissance Quarterly», xxix, 1976, pp. 599-633 che con il volume di U. Pirrotti, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo, Firenze, Olschki, 1971), è poi proseguita, con nuove acquisizioni, no alla metà degli anni Novanta e una vera accelerazione negli ultimi quindici anni.

3 Per un orientamento fra i manoscritti di Varchi e le stampe a lui appartenute si veda A. Siekiera, Benedetto Varchi, in Autogra dei letterati italiani. Il Cinquecento, a cura di M. Motolese, P. Procaccioli, E. Russo, consulenza paleograca di A. Ciaralli, Roma, Salerno Editrice, 2009, vol. i, pp. 337-51 e la bibliograa precedente lì messa a frutto.

4 Fondamentali, come noto, i lavori di S. Lo Re, La crisi della libertà orentina. Alle origini della formazione politica e intellettuale di Benedetto Varchi e Piero Vettori, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006 e Politica e cultura nella Firenze cosimiana. Studi su Benedetto Varchi, Manziana, Vecchiarelli Editore, 2008. Analisi dei molteplici aspetti dell’attività varchiana sono oerte anche da A. Andreoni, La via della dottrina. Le lezioni accademiche di Benedetto Varchi, Pisa, ETS, 2012 e dai contributi raccolti nei volumi miscellanei Benedetto Varchi 1503-1565, a cura di V. Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 e Varchi e altro Rinascimento. Studi oerti a Vanni Bramanti, a cura di S. Lo Re e F. Tomasi, Manziana, Vecchiarelli, 2013, pp. 11-214.

5 M.T. Girardi, La lezione su Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi (RVF xxix) di Benedetto Varchi accademico Inammato, in «Aevum», lxxix, 2005, pp. 677-718; C. De Bellis, La «leggiadria» di Laura e l’«oscurità» dei versi. Note al lessico di Benedetto Varchi commentatore di Petrarca, in Le parole “giudiziose”. Indagini sul lessico della critica umanistico-rinascimentale, a cura di R. Alhaique Pettinelli, S. Benedetti, P. Petteruti Pellegrino, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 303-25.

6 Su cui si veda Benedetto Varchi, L’Hercolano, a cura di A. Sorella, presentazione di P. Trovato, 2 voll., Pescara, Libreria dell’Università Editrice, 1995. Per la sua attività di volgarizzatore di testi losoci e un’analisi stilistica della sua prosa si vedano i recenti lavori di A. Siekiera, I lettori di Aristotele nel Cinquecento: i libri e le carte di Benedetto Varchi, in «Studi linguistici italiani», xxxix, 2013, pp. 198-218; Ead., Riscrivere Aristotele: la formazione della prosa scientica in italiano, in «Aristotele fatto volgare». Tradizione aristotelica e cultura volgare nel Rinascimento, a cura di D.A. Lines ed E. Reni, Pisa, ETS, 2014, pp. 149-67. Sulla traduzione di Boezio, D. Brancato, «O facitor degli stellanti chiostri»: un’inedita traduzione di Benedetto Varchi di De consol. philosophiae, Lib. I M.5, in «Lettere italiane», lv, 2003, pp. 257-66 e Id., L’epistola dedicatoria della Consolazione della losoa di Benedetto Varchi (1551). Fra retorica e politica culturale, in «Studi rinascimentali», i, 2003 , pp. 83-93.

7 Oltre alle indicazioni di F. Quiviger, Benedetto Varchi and the Visual Arts, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», l, 1987, pp. 219-24 e al quadro generale oerto da M. Collareta, Benedetto Varchi e le arti gurative, in Benedetto Varchi 1503-1565, cit., pp. 173-84, si veda anche A. Geremicca, Agnolo Bronzino. «La dotta penna al pennel dotto pari», Roma, UniversItalia, 2013; D. Gamberini, Benedetto Varchi, Giovann’Angelo Montorsoli e il Tempio dei “Pippi”. Un dialogo in versi agli albori dell’Accademia Fiorentina del Disegno, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», lvii 2015, 1, pp. 139-44 (con le indicazioni bibliograche richiamate alle pp. 141 e 143) e soprattutto, per il discorso qui condotto, Ead., A Bronze Manifesto of Petrarchism: Domenico Poggini’s Portrait Medal of Benedetto Varchi, in «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», xix, 2016, 2, pp. 359-83.

8 Rimando, su questo, a M. Firpo, Gli areschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997.

9 Ancora non a suicienza indagata però la Storia orentina; per le sue vicende testuali si veda S. Albonico, Nota al testo alla Storia orentina di Benedetto Varchi, in Storici e politici del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1994, pp. 1073-90 e D. Brancato, «Narrar la sustanzia in poche parole». Cosimo I e Baccio Baldini correttori della Storia orentina di Benedetto Varchi, in «Giornale italiano di lologia», lxvii, 2015, pp. 323-33; fondamentale il saggio di V. Bramanti, Viatico per la Storia orentina di Benedetto Varchi, in «Rivista Storica Italiana», cxiv, 2002, pp. 808-928.

10 Dopo le pagine di G. Papuli, B. Varchi: logica e poetica, in Studi in onore di Antonio Corsano, Manduria, Lacaita, 1970, pp. 525-52, di E. Garin, Umanisti artisti scienziati. Studi sul Rinascimento italiano, Roma, Editori Riuniti, 1989, pp. 142-48 e lo studio di S. Ballerini, Benedetto Varchi aristotelico ciniano, in «Misure Critiche», 1991, pp. 25-42, vd. ora M. Sgarbi, Benedetto Varchi on the Soul: Vernacular Aristotelianism between Reason and Faith, in «Journal of the History of Ideas», lxxvi 2015, pp. 1-23. Di contro però alla rivendicazione di un’attività speculativa non solo come «an amateur philosopher», si deve rilevare che la serietà dell’impegno varchiano nell’ambito losoco – «the depth of his familiarity with philosophy and his originality as a thinker, especially with regard to his personal reinterpretation of the ancient Greek commentators of Aristotle» – non toglie che i suoi volgarizzamenti e commenti aristotelici, ora conservati manoscritti fra le Filze Rinuccini, non siano mai stati pubblicati, nonostante le iniziali velleità, rimanendo riservati per lo più a una fruizione personale o a una diusione limitata alla cerchia ristretta degli amici e degli allievi in modo simile alla traduzione, oggi perduta, di un libro delle Familiares di Cicerone (su cui vd. Benedetto Varchi, Lettere (1535-1565), a cura di V. Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, p. 212). Quanto poi alle lezioni accademiche e agli ampi inserti aristotelici che vi sono contenuti (su cui A. Andreoni, Luoghi aristotelici nelle lezioni accademiche di Benedetto Varchi, in «Aristotele fatto volgare», cit., pp. 61-76), ne dev’essere rimarcata la diversità, come genere e come ni, rispetto alla lezione universitaria (ivi, pp. 62-63). La centralità che Varchi riconosce alla losoa e alle sue parti (logica, sica, etica ecc.) nel sistema del sapere e nella costruzione dell’uomo interiore, trova insomma esatta corrispondenza nell’appassionato studio con cui vi si dedicò, ma non implica la sua volontà di presentarsi come losofo di professione.

11 Oltre all’inveterata abitudine di trascurare questo tipo di produzione degli autori del Cinquecento, sui carmina varchiani pesa ancora l’assenza di un’edizione critica aidabile e il giudizio negativo di M. Feo tanto su l’edizione di Greco quanto sugli stessi carmina di Varchi (cfr. la recensione a Liber Carminum Benedicti Varchii, a cura di A. Greco, Roma, Edizioni Abete, 1969, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. iii, vol. iii, 1973, pp. 1193-1200). Non hanno purtroppo ancora avuto seguito gli importanti lavori di Silvano Ferrone: Indice universale dei carmi latini di Benedetto Varchi, in «Medioevo e Rinascimento», n.s., xi, 1997, pp. 125-95; Id., Materiali varchiani, in «Paragone. Letteratura», liii (2003), pp. 84-113; Benedetto Varchi, Epigrammi a Silvano Razzi, a cura di S. Ferrone, Fiesole, Città di Fiesole, 2003 e le recensioni di D. Brancato, in «Rivista di Studi Italiani», xxi, 2003, 1, pp. 272-76 e di D. Chiodo in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cxxii, 2005, pp. 126-29.

12 All’indagine principalmente lologica di G. Tanturli, Una gestazione e un parto gemellare: la prima e la seconda parte dei Sonetti di Benedetto Varchi, in «Italique», vii, 2004, pp. 43-100 si sono aiancati i lavori, di tipo più critico, di B. Huss, «Cantai colmo di gioia, e senza inganni». Benedetto Varchi Sonetti (parte prima) im Kontext des italienischen Cinqucento-Petrarkismus, in «Romanistisches Jahrbuch», lii, 2001, pp. 133-57, di L. Paolino, Il «geminato ardore» di Benedetto Varchi. Storia e costruzione di un canzoniere ‘ellittico’, in «Nuova rivista di letteratura italiana», vi, 2004, 1-2, pp. 233-314 e di F. Tomasi, «Mie rime nuove non viste ancor già mai ne toschi lidi». Odi ed elegie volgari di Benedetto Varchi, in Varchi e altro Rinascimento, cit., pp. 173-214. Altre osservazioni in Chiodo, Varchi rimatore: Modi e forme della poesia di corrispondenza, in Benedetto Varchi 1503-1565, cit., pp. 157-71. Dal tentativo più ampio di lettura della lirica varchiana, quello della Paolino, questo contributo diverge su più questioni: poiché il fatto risulterà evidente al lettore, non mi è parso utile segnalare i punti di disaccordo.

13 La si legge in appendice al primo capitolo di Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 91-116. Sulla giovinezza di Varchi vd. anche V. Fiorini, Gli anni giovanili di B. Varchi, in Da Dante al Manzoni. Studi critici, Pavia, Tipograa Succ. Fusi, 1923, pp. 15-84.

14 Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 95.

15 Vettori non era stato però il primo maestro di greco per Varchi: ancora Busini (Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 95) ricorda che questi, nei primissimi anni ’20, aveva «imparato le prime lettere greche da messer Donato Giannotti, pubblico leggitore in Pisa, e imparò di maniera che potette interpretare alcune cose a que’ tempi diicilissime a intendere».

16 In Lezzioni di m. Benedetto Varchi Accademico Fiorentino, lette da lui publicamente nell’Accademia Fiorentina, sopra diverse materie, poetiche, e losoche, raccolte nuovamente, e la maggior parte non più date in luce, con due tavole, una delle materie, l’altra delle cose più notabili; con la vita dell’autore. In Fiorenza, per Filippo Giunti, 1590, c. †2v.

17 Parte della vicenda di quell’edizione e il ruolo di Varchi come intermediario fra Vettori e i Giunti può essere ricostruita tramite Benedetto Varchi, Lettere (1535-1565), a cura di V. Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008.

18 Cfr. Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 347 («diversi anni più tardi seguì una formale riconciliazione, ma l’amicizia venne meno per sempre»).

19 Il brano è contenuto nella lettera di Vettori scritta da Firenze al suo allievo Mario Colonna il 31 gennaio 1565 e poi pubblicata in Petri Victorii Epistolarum libri X. Orationes XIV. Et Liber de laudibus Ioannae Austriacae. Florentiae, apud Iunctas, 1586, lib. VI, n. 3, p. 133. Cfr. su questo stesso passo, con identica valutazione, anche Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 59-60.

20 Su di essi e sugli ambienti frequentati dal giovane Varchi si veda Fiorini, Gli anni giovanili di B. Varchi, cit., pp. 15-84 (in particolare le pp. 34-66).

21 Al Varchi, secondo la testimonianza del frammento della sua prima lezione sull’Etica (edita in A. Andreoni, Benedetto Varchi all’Accademia degli Inammati. Frammenti inediti e appunti sui manoscritti, in «Studi rinascimentali», iii, 2005, pp. 29-44, p. 40) fu aidato il compito di «primieramente alle lettioni ordinarie secondo le leggi et ordinamenti della nostra Accademia dare cominciamento»; a questo dovere egli volle adempire «giorno et notte con tutte le forze così della mente et come del corpo, posto da parte ogni piacere come men bello et lasciata indietro ciascuna altra cosa [co]me meno utile, non perdonando né a tempo né a fatica nessuna» (ibid.). Oltre alla propria lunga serie di interventi, anche in sostituzione di altri assenti, devono essere ricondotti all’inuenza e al magistero di Varchi anche le letture dei suoi giovani amici ed allievi. Piuttosto nutrita la bibliografa sugli Inammati: a Samuels, Benedetto Varchi, cit., si aggiungano almeno V. Vianello, Il letterato, l’accademia, il libro. Contributi sulla cultura veneta del Cinquecento, Padova, Editrice Antenore, 1988, pp. 17-91 e Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 191-256 (in particolare sulla vicenda dei ‘capitoli’ le pp. 239-56).

22 Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 256.

23 Valga ancora una volta la testimonianza di Busini (Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 114) che narra come, in occasione della visita del 1553 di Pietro di Toledo a Firenze, «non fu huomo o di piccolo o di grande aare, purché havesse sentimento alcuno di lettere, che non andasse a visitare il Varchi insino a casa sua per conoscerlo in faccia, come lo conoscevano per fama».

24 Michel Plaisance (in Id., Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier : la transformation de l’Académie des “Humidi” en Académie Florentine (1540-1542), in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, vol. i, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1973, pp. 361-438; poi in Id., L’Accademia e il suo Principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 29-122 da cui si cita) mostrando come le «lettres de Varchi font circuler les ideées du groupe padouan» (p. 44) a Firenze, rileva anche come esse facciano comprendere «la choralité du groupe orentin» (p. 46).

25 Per la storia editoriale e una lettura dell’epistolario vd. l’Introduzione di Bramanti a Varchi, Lettere (1535-1565), cit., pp. i-xxxv (che ripubblica il contributo intitolato Frammenti di un epistolario perduto incluso in Benedetto Varchi (1503-1565), cit., pp. 69-93). Al corpus lì edito devono essere aggiunte le quattro lettere a Petronio Barbati pubblicate in Benedetto Varchi, Lettere a Petronio Barbati – (Foligno 1548-1552), a cura di V. Bramanti, in «Lo Stracciafoglio», n. 8 (disponibile in rete all’indirizzo http://www.edres.it/pdf/Barbati.pdf) e l’altra pubblicata in G. Ferroni, Una lettera di Benedetto Varchi nel ms. Laur. Ashb. 1039, in Varchi e altro Rinascimento, cit., pp. 47-60.

26 Se ne vedano le letture, secondo prospettive diverse, di Plaisance, Une première airmation de la politique culturelle de Côme Ier, cit., pp. 41-53); Vianello, Il letterato, l’accademia, il libro, cit., pp. 33-46; Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 194-213 (del quale si condivide il giudizio, espresso alle pp. 200-201, sulla divergenza d’impostazione critica fra Varchi e Speroni).

27 Varchi, Lettere (1535-1565), p. xxx.

28 Vianello, Il letterato, l’accademia, il libro, cit., p. 35.

29 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 69.

30 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 73.

31 Se ne vedano le prolusioni in Petri Victorii Epistolarum libri X, cit., pp. 2-9.

32 Cfr. Varchi, Lettere (1535-1565), p. 70: «al tempo non mancate per cosa del mondo d’udire la Georgica da messer Piero, e, se poteste, la Rettorica d’Aristotele, ma è troppo diicile a chi non ha la lingua greca e qualche cognitione di logica»; p. 74 «udite anco la Rettorica da messer Piero, senza studiarla o prima o poi, ma solo per avvezarsi e per le parole».

33 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 71.

34 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 78.

35 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 75 (a proposito di Piero Migliorotti).

36 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 74. E si veda anche il seguente passo della lettera successiva (p. 77): «molto mi piace usiate simili pratiche [la compagnia del Tribolo, del Bronzino ecc.] quando sete fuora de gli studi, che si impara molte volte più da loro che da altri».

37 Varchi, Lettere (1535-1565), p. 71.

38 Andreoni, Benedetto Varchi all’Accademia degli Inammati, cit., p. 41.

39 Sono i vv. 7-8 del sonetto Signor mio caro un gentil cor sincero (n. 51 della Tavola in appendice).

40 Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 96. L’indicazione temporale data da Busini (25 anni = 1528) è scorretta: l’episodio dev’essere ricondotto, verosimilmente, al 1525 quando Varchi aveva 22 anni. Sul Varchi innamorato vd. anche S. Lo Re, Gli amori omosessuali del Varchi: storia e leggenda, in Extravagances amoureuses : l’amour au-delà de la norme à la Renaissance. Actes du Colloque international (Tours, 18-20 septembre 2008), sous la direction de É. Boillet et Ch. Lastraioli, Paris, Champion, 2010, pp. 279-95.

41 Sono, per esempio, valori centrali per un uomo di spicco quale Francesco Guicciardini: vd. F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003.

42 C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, p. 427.

43 Critica il giudizio di Dionisotti, e mi trova d’accordo, Lo Re (in Lo Re, Politica e cultura, cit.) che però mi sembra interpreti la voce ‘pedante’ usata da Dionisotti nel senso di ‘letterato ottusamente minuzioso’ anziché in quello, proprio, di ‘precettore’.

44 Vd. per esempio G. Dall’Orto, Varchi, Benedetto, in Encyclopedia of Homosexuality, edited by W. Dynes, New York, Garland, 1990, pp. 1359-60.

45 La categoria, come si sa, è moderna e non si limita a descrivere un fenomeno ma ne dà un’interpretazione che può essere applicata al Cinquecento, e a Varchi in particolare, solo a prezzo di qualche forzatura. Termini quali ‘omosocialità’ od ‘omoerotismo’ sarebbero preferibili. La bibliograa sul tema è ormai molto vasta e può fornire molti spunti d’analisi su Varchi; vd. in particolare, anche per ulteriori rimandi bibliograci, S. J. Campbell, Eros in the Flesh: Petrarchan Desire, the Embodied Eros, and Male Beauty in Italian Art 1500-1540, in «Journal of Medieval and Early Modern Studies», xxxv, 2005, 3, pp. 629-62 (trad. it. in Petrarca. Canoni, esemplarità, a c. di V. Finucci, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 151-86) con in quale non mi trovo sempre d’accordo ma che è utile a comprendere il nesso fra poesia e rappresentazione pittorica del desiderio.

46 Su questo aspetto in particolare si veda Huss, Cantai colmo di gioia, e senza inganni“, cit., pp. 142-50.

47 Varchi era persona avvezza a sostenere, con tutta la coerenza possibile, le proprie esperienze e le proprie posizioni: credo che in parte si debbano ancora fare i conti con chi, scrivendo la Storia per ordine di Cosimo, non vi aveva «rinnegato la fede politica per la quale aveva sopportato un lungo esilio» (Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 6-7).

48 Sugli interventi censori di Ficino nella sua traduzione vd. W. Olszaniec, Maxime omnium legitime amavit Socrates. Marsilio Ficino e i riferimenti all’omosessualità nei dialoghi di Platone, in «Humanistica Lovaniensa», lxii, 2013, pp. 113-25.

49 Con una ferita sulla testa si conclude l’amore di Varchi per Giovanni de’ Pazzi con il quale, del resto, egli «non volle mai più praticare, havendolo, sgannatosi aatto di lui, per malvagio giovane conosciuto» (Busini in Lo Re, Politica e cultura, cit., pp. 97-98).

50 Allo stesso modo Busini fuga ogni dubbio circa il rapporto col Lenzi denito «delissima amicitia et santa [...] senza interpositione o doglienza alcuna» (Lo Re, Politica e cultura, cit., p. 101). In considerazione dell’esemplarità riconosciuta dallo stesso Varchi all’amore per il Lenzi, pietra di paragone per tutti gli altri, si dovrebbero ritenere sempre validi i termini etico-losoci nei quali esso è posto. Per una comprensione di quell’amore, di cui qui non mi occupo, si terranno presenti anche gli studi relativi al ritratto del Lenzi dipinto dall’Allori ora custodito a Milano nella Pinacoteca del Castello Sforzesco: A. Cecchi, “Famose fronti di cui santi honori...”. Un sonetto del Varchi e il ritratto di Lorenzo Lenzi dipinto dal Bronzino, in «Artista», ii, 1990, pp. 8-19; E. Cropper, Pontormo and Bronzino in Philadelphia: A Double Portrait, in Pontormo, Bronzino and the Medici: The Transformation of the Renaissance Portrait in Florence, edited by C. Brandon Strehlke, Philadelphia, Philadelphia Museum of Arts, 2004, pp. 1-33; N. Macola, Sguardi e scritture: gure con libro nella ritrattistica italiana della prima metà del Cinquecento, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2007, e, da ultimo, la scheda di A Geremicca, in Florence. Portrait à la cour des Médicis, sous la direction scientifique de C. Falciani, Bruxelles, Fonds Mercator, 2015, pp. 162-63.

51 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi. Novamente in quel modo stampati, che da lui medesimo furono poco anzi il ne della sua vita corretti. In Bologna, a instanza de Gio. Battista, & Cesare Saluietti, mdlxxvii, c. A2r.

52 Prosegue infatti Salvietti dicendo che «elle sono bellissime, et non pure quanto più non si può dire, dolci, e piacevoli, ma piene d’innite locutioni, degne di essere sapute da chi fa professione della oritissima lingua, che hoggi è tanto, e meritamente in pregio» (Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, c. A2v).

53 La dedicatoria permette anche di ricostruire il contesto nel quale si decise di stampare i sonetti di Varchi: accanto al Salvietti stanno Giulio Leoni e Valerio Rinieri. Il testo per la stampa proveniva da materiali vicinissimi allo scrittoio di Varchi poiché a Salvietti era capitato «di conoscere, e divenire amico, di uno, e forse il maggiore amico, che havesse il Varchi nell’ultimo della sua vita: et appresso di havere per suo mezzo, essendo egli uno de gl’esecutori dell’ultima volontà del Varchi, la maggior parte, e migliore delle dette Rime pastorali» (Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, cc. A2r-v). L’amico di Varchi citato da Salvietti è, se non erro, Silvano Razzi esecutore testamentario del Varchi, assieme al Lenzi.

54 Questo tipo di denominazione per serie di sonetti composti per un unico destinatario non è limitata, in Varchi, ai testi pastorali: vd. l’elenco di materie tratto dalle carte rinucciniane in Tanturli, Una gestazione e un parto gemellare, cit., p. 50.

55 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, c. A2v.

56 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, cc. B1r-C3v.

57 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, c. C4r-E2v.

58 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, c. E3r-H4v. Si tratta però dei Tirinti (vd. infra) scritti per Cesare Ercolani, glio di Agostinio cui è dedicata l’edizione Salvietti. La prefatoria dell’editore bolognese spiega anche la ragione della scelta del titolo e del nome attribuito al pastorello eponimo: «molto prima, e mentre [Varchi] si godea le belle stanze de’ vostri [di Agostino Ercolani] ricchi, e magnichi villaggi, dimostrò egli il grande amore suo verso di voi, e quanto vi fosse tenuto, in quella parte di questi sonetti, che sono intitolati i Tirinti, cioè gl’Hercolani» (c. A3r). Il semidio Ercole infatti era glio di Zeus e Alcmena moglie di Antrione, re di Tirinto.

59 Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, cc. I2r-K1v, K1v-L4v.

60 Per i Sonetti vd. la Tavola in appendice. Rinvio ad altra occasione il confronto fra le stampe e la tradizione manoscritta.

61 Una descrizione del ms. nel mio Una lettera di Benedetto Varchi, cit., pp. 57-58.

62 Rinvio a un lavoro successivo la descrizione dei testimoni e la pubblicazione dei sonetti.

63 Occupa le cc. 5r-6v; nella trascrizione mi limito a sciogliere tacitamente le abbreviazioni. Indico con la doppia stanghetta la ne di carta.

64 ritrouuino] la lezione ritrouino è corretta con inchiostro diverso e da altra mano (forse di Varchi) con l’inserimento di u nell’interl. superiore tra o e u e un segno di richiamo posto nell’interl. inferiore in corrispondenza dell’aggiunta.

65 approuuano] la lezione approuano è corretta con inchiostro diverso e da altra mano (forse di Varchi) con inserimento di u nell’interl. superiore tra o e u e un segno di richiamo posto nell’interl. inferiore in corrispondenza dell’aggiunta.

66 Alcuni] altra mano, probabilmente quella di Varchi, corregge, con inchiostro diverso, alcuni aggiungendo la maiuscola nell’interl. sopra la a, indicata con un punto sottoscritto.

67 con] inserita nell’interl. superiore in sostituzione di >in< sottolineato; correzione di altra mano, forse di Varchi.

68 la sperienza stessa] corregge le sperienze stesse sostituendo le -e, indicate con un punto sottoscritto, con tre -a aggiunte nell’interl. sup. da altra mano, forse di Varchi.

69 composizioni] -i sovrascritta a >e< da mano diversa da quella del copista, forse di Varchi.

70 dilettano] da dilettono per aggiungenta di una legatura bassa alla -o- , per inserimento nell’interl. superiore di una a in corrispondenza della o indicata da un punto nell’interl. inferiore; corresione di altra mano, forse di Varchi.

71 e à più persone, miei singularissimi amici indiritte,] nel margine inferiore, inserito con segno di richiamo posto nell’interl. inferiore fra composte e ue e ripetuto prima dell’aggiunta.

72 Per questi aspetti rimando ancora ai cenni contenuti nel mio Una lettera di Benedetto Varchi, cit., pp. 53-56.

73 Difesa tutt’altro che scontata giacché Salvietti, nella dedicatoria della sua edizione, cerca di giusticare Varchi per la composizione dei suoi sonetti: «non le sia grave, fra gl’altri suoi diporti, pigliarsi anco tal volta questo, di leggere alcuna di queste Rime, fatte dal Varchi quando si trovava in villa, dove assai più volentieri, che nelle Città dimorava; e più per passarsi tempo, scrivendo Pastorali, e boscherecci amori, che per aetto, che havesse non convenevole alla sua età, e professione» (Componimenti pastorali di M. Benedetto Varchi, c. A3r).

74 Per l’età del della Stufa si veda 28, 3.

75 Per il sonetto 15 è stato indicato il Busini come destinatario (Paolino, Il ‘geminato ardore’, cit., p. 288, nota 90).

76 In realtà i due sonetti epitalami che chiuderebbero la serie possono esservi compresi solo a patto di una piccola forzatura, non essendo alcuno dei due – e soprattutto il secondo per le nozze di Tansillo – ascrivibile al genere pastorale; tuttavia, per evidenti ragioni di simmetria all’interno di questa serie iniziale, mi sembra ammissibile che Varchi abbia usato due coppie di sonetti per marcare il passaggio dai sonetti per Filli a quelli per Licori e da questi a quelli per Giulio della Stufa.

77 Cfr. i seguenti passi: 33, 9-12; 36, 1-2 e 59, 5-8.

78 Su cui si veda S. Albonico, Come leggere le «Rime» di Pietro Bembo, in «Filologia italiana», i, 2004, pp. 159-80; Id., Il tempo e lo spazio nella lirica del Rinascimento, in Figura e racconto. Narrazione letteraria e narrazione gurativa in Italia dall’antichità al primo Rinascimento, Atti del Convegno di studi (Losanna, 25-26/11/2005), a cura di G. Bucchi, I. Folletti, M. Praloran e S. Romano, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, pp. 267-85; G. Ferroni, Come leggere «I tre libri degli Amori» di Bernardo Tasso (1534-1537), in Quaderno di Italianistica 2011, a cura di S. Albonico, Pisa, ETS, 2011, pp. 71-116.

79 La numerazione è quella usata nella seconda colonna da sinistra della Tavola.

80 Per quanto riguarda Libro primo degli Amori rimando ai miei Note sulla struttura del «Libro primo degli Amori di Bernardo Tasso» (1531), in «Studi Tassiani», lv, 2007, pp. 39-74 e «Viver al par delle future genti»: poetica in versi di Bernardo Tasso, in Gli dèi a corte. Letteratura e immagini nella Ferrara estense, Atti della IX Settimana di Alti Studi Rinascimentali, (Ferrara, 21-24 novembre 2006), a cura di G. Ventura e F. Cappelletti, Firenze, Olschki, 2009, pp. 415-47.

81 Cfr. la sostanziale identità della serie dei rimanti A in -orna per il Tasso (adorna: torna: corna: adorna) e in -orno per Varchi (intorno: adorno: adorno: corno), la somiglianza della descrizione del capro (Tasso, vv. 1-3: «Un irco bianco che la fronte adorna / avea di bei corimbi e di orita / vite, cotanto a lui cara e gradita»; Varchi, vv. 5-8: «consagro, e adorno / Di bianchi gigli, e candide viole / Questo capro, ch’ogn’hor far tronche suole / Tue sante viti hor col dente, hor col corno») e, più in generale, della scena mattutina (Tasso, v. 4: «allor che ’l Sol col novo raggio torna»; Varchi, vv. 2-3: «allor che ’l sole / Spunta dal ciel»). Le dierenze fra i due testi si appuntano in alcuni casi sui medesimi topoi: «la destra ardita» (v. 6) e il «ferro audace» (v. 13) di Alcippo si oppongono a Damone che «il terren tutto tremante / Sparse di sangue» (vv. 9-10); il vino «puro e maturo» (v. 12) per Tasso, «puro, spumante» (v. 13) per Varchi è versato sulla testa del capro da Alcippo (v. 13) mentre Damone «Colmo un vaso [...] / Si mise a bocca, e gl’occhi al ciel rivolse» (vv. 13-14).

82 Il sacricio a Bacco di una bestia che si ciba o danneggia l’uva vale, per Damone e Alcippo, sia ad onorare il dio orendogli una vittima pregiata sia a proteggere il raccolto del frutto che gli è sacro, per metafora la poesia agreste di cui può essere una delle divinità protettrici.

83 Il rapporto fra il sonetto 2 e il 144 degli Amori implica anche un termine post quem (il 1531) per quella lirica varchiana, termine che non necessariamente dev’essere esteso all’intera prima serie pastorale (3-25) potendo Varchi averla scritta in precedenza; per i sonetti 2-13 credo valga, di nuovo come termine post quem, la ne della repubblica orentina (1527) perché a quel drammatico evento dovrebbero riferirsi i versi iniziali del sonetto 9: «Quando Filli potrà senza Damone / Viver, [...] Tornarà indietro al fonte suo Mugnone. / Così scritto leggendo in un troncone, / A pie’ dell’honorate antiche mura, / Di cui hoggi il bel nome a pena dura» (vv. 1-2, 4-6).

84 Cfr. Tomasi, «Mie rime nuove non viste ancor già mai ne’ toschi lidi», cit., pp. 181 ss. e i testi lì pubblicati alle pp. 189 ss.

85 Nel sonetto Filli più vaga assai, che i oralisi (7) i doni che Damone ore all’amata sono oggetto del desiderio di Testili che, per ottenerli, cerca di sedurre il pastore che, d’altra, parte ha come potenziale rivale «quello indo / Di Licida». Una situazione simile, soprattutto per la presenza a parti invertite di una Phyllis e una Thestylis, si ha in tre lusus di Flaminio databili attorno al 1526 (in M. Flaminio, Carmina, testo e note a cura di M. Scorsone, Torino, RES, 1993, iii, 16-18), ma non pubblicati nell’antologia che aveva invece inuenzato Tasso (I. Sannazaro, Odae. Elegia de malo Punico - G. Cotta, Carmina - M.A. Flaminio, Carmina, Venetiis, s.n. [ma Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio e fratelli], 1529) e che perciò, allo stato attuale, non saprei dire per quali vie potessero essere noti a Varchi.

86 In 13 la poesia sembra piuttosto raigurata dalla più canonica acqua: «Sotto questa edra, a pie’ d’esta alta vite / Lungo queste acque vive, di cui solo / Mi piace il suon, per discacciare il duolo, / E far salde d’Amor mille ferite» (vv. 1-4).

87 Vd. per l’ambientazione e la separazione degli amanti i seguenti passi: 17, 13-14; 19, 12-13; 20, 13-14; 21, 5-6.

88 Non trovo convincente la proposta di Pirrotti, Benedetto Varchi, cit., p. 50 (ripresa da Paolino, Il ‘geminato ardore’, cit., p. 288 nota 88).

89 Damone prega le ninfe d’Arno e ore loro una corona d’alloro e ori bianchi ainché non rapiscano il giovinetto che si bagnerà nelle loro acque assieme al suo innamorato il quale sa bene, e perciò teme, «quanto già piacque / A se stesso Narciso, e come il bello / Hila ad Alcide fu rapito, e tolto» (vv. 12-14): versi che ovviamente implicano anche un’interpretazione spiritualizzante dei due miti citati e del secondo, soprattutto, notoriamente ambiguo. Un votum simile si trova anche nel sonetto 46, per il della Stufa, su cui si veda infra.

90 Vd. però la sporadica comparsa in 91, 8 (con signicato, credo, di nuovo metapoetico).

91 A questo testo andrà aggiunto almeno la conclusione dell’ode latina Iule, cui formam Venus ipsa, cantum (in Liber Carminum Benedicti Varchii, clxxxvi, 16-20) in cui Varchi ripropone l’immagine di un rapporto padre-glio, quale era stato con il Lenzi: «Te volens coepi, bone Stupha, amare, / Ut suos natos adamant parentes. / Tu pari ut patrem, redames me amore / Quod facis, oro». Per una considerazione complessiva del rapporto con il della Stufa implicherebbe, necessariamente, il pieno coinvolgimento dei carmina di Varchi per il giovinetto – e quelli di questi a lui –, testi che non solo condividono temi e concetti con i sonetti, con riprese talora ad verbum, ma dei quali forniscono anche un’integrazione, orendo qualche informazione circostanziale in più (si veda p. es. Liber Carminum Benedicti Varchii, clxxxvii) e aggiungendo qualche altro personaggio alla vicenda.

92 Quanto ai sonetti 63-69 io credo che debbano essere letti come un’appendice epistolare sull’amore per Giulio (64-69: 64-65 per Lenzi, gli altri rispettivamente per Lelio Bonsi, Lucio Oradini, Ghezio e Angelo Roscio) preceduta da un sonetto che rievoca l’innamoramento rivolto allo stesso della Stufa (63; sulle circostanze dell’innamoramento, in occasione d’una mascherata notturna, si veda il sonetto anniversario Hor si rivolge l’anno intero a punto nell’appendice dei Sonetti, p. 240). Ciò signica che il sonetto 69, con la decisione di Benedetto di «seguir solo il primo amor», cioè Lenzi, (v. 8) e di non farsi condizionare da «speme, o desio» (v. 14), non contraddice la conclusione a cui giunge il 62 con il nuovo inizio dell’amore per Giulio e la difesa del proprio agire («fedele amador nulla mai cuopre», v. 14): la diversità tipologica fra i testi crea una cesura interna alla serie che, evidentemente, implica l’interruzione della corrispondenza fra il succedersi dei sonetti e la progressione logico-temporale del discorso che quindi, con il sonetto 63 torna al punto iniziale della vicenda. D’altra parte la partecipazione di amici all’amore di Varchi per Giulio, e quindi la serie di sonetti epistolari che ne conseguono, trova conferma, oltre che nei carmina, anche nei cinque testi pastorali raccolti alle pp. 253-54 e 260 dell’appendice che chiude i Sonetti in cui Damone dialoga con altri personaggi a proposito di Carino e del suo errore.

93 La vicenda è ambientata nelle campagne poco a sud di Firenze (nominata in 76, 1 e 93, 2) in particolare nell’odierno comune di Bagno a Ripoli, lungo il corso dell’Ema (86, 12 e 88, 1-2), a Vacciano (78, 3; 88, 3 e 14; 89, 9), sul colle Fattucchia (80, 1) alle cui pendici si trovano il Fonte della Fata Morgana (80, 10-11) e la nota villa Il Riposo appartenuta a Bernardo Vecchietti che è «il Caprar» menzionato in 80, 14 e 89, 13 (su cui vd. almeno M. Bury, Bernardo Vecchietti Patron of Giambologna, in «I Tatti Studies in the Italian Renaissance», i, 1985, pp. 13-56 e 267-73). La separazione fra Carino e Damone implica anche un cambiamento di ambientazione: nel sonetto 89 Varchi si trova alla Tana (v. 4) come pure nei successivi 92-96 (vd. in particolare 93, 1-4).

94 Vd. anche la lode di sé stesso che Varchi fa pronunciare a Carino: «io dentro al mio cor dilibro, e sancio / Che mai non caggia in me per tempo oblio / Di lui [i.e. Damone], ch’è sol cortese amante e pio, / Quando gli altrui, e l’ardor suo bilancio» (84, 5-8).

95 Su Nape e Carino come innamorati vd. il sonetto 73, 9-14: «Coppia felice: il dio d’Arcadia mai / Più grazioso pastorel non vide, / Né Diana hebbe mai ninfa sì bella: / Carin m’assembra il sol, se parla, o ride, / Quando esce fuor dell’oriente; ed ella / Quando già cala all’occidente i rai».

96 La natura almeno parzialmente simbolico-allegorica del rapporto fra Carino e Nape di entrambi con Damone si rivela se si opera un confronto con i sonetti 16-22: è evidente in particolare come Licori sia un personaggio privo di connotazioni simboliche e privo di relazioni con Damone che si interessa soltanto a Iola e non interferisce nel rapporto fra questi e l’amata lontana.

97 In Liber Carminum Benedicti Varchii, cit., ccvii.

98 Forse le «due lunghe epistole latine» ricordate da Lo Re, Gli amori omosessuali, cit., p. 292.