Revue Italique

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Sul contributo della bucolica italiana al rinnovamento della poesia rinascimentale in Spagna (le fonti del locus amoenus e la mediazione di Garcilaso)

María de las Nieves Muñiz Muñiz

A metà Cinquecento la poesia spagnola si rinnovò in profondità rifondendo Petrarca con altri poeti classici e moderni e in particolare con il Sannazaro dell’Arcadia. Principale artece di questa mistione fu Garcilaso de la Vega, le cui poesie, apparse insieme a quelle di Boscán nel 15431 ma composte circa un decennio prima, condizionarono lo sviluppo ulteriore della lirica iberica non senza lasciare traccia sui romanzi pastorali e sulle più svariate opere del Siglo de Oro, compreso il Quijote di Cervantes.2

Segno precoce del bucolismo inltratosi nella nostra poesia petrarchizzante fu uno scorcio pastorale inserito da Boscán nel sonetto Solo y pensoso, che era una palese riscrittura di quello di Petrarca. Lì, arrivato ai versi sul tralucere del tormento amoroso nella solitudine dei campi «perché negli atti d’allegrezza spenti / di fuor si legge com’io dentro avvampi. / Sì ch’io mi credo omai che monti e piagge, / e umi e selve sappian di che tempre / sia la mia vita, ch’è celata altrui» (Rvf 35, 7-11), il poeta catalano si era staccato dal modello per sostituirvi il topos dei campi inariditi dal dolore e una scena di greggi pascolanti, vv. 7-11:

que aún los campos me suelen ser pesados
porque todos no stan secos y muertos.
Si oyo balar acaso algún ganado,
y la boz del pastor da en mis oídos,
allí se me rebuelve mi cuydado
3

Era un indizio minimo ma signicativo della svolta che si andava preparando. Infatti, di lì a poco Garcilaso doveva completare la trilogia di egloghe composte a apoli tra il 1533 e il 1536 che, grazie a una originale lettura dell’Arcadia di Sannazaro,4 contribuirono in modo decisivo a superare l’astrattezza loicizzante dei Cancioneros.

Fondamentale fu in tale senso l’imporsi del locus amoenus come sistema di similitudini e di metafore atte a modulare l’espressione dei sentimenti e la descrizione di cose e di persone. Un sistema arricchito da Sannazaro mercé la sua capacità di costruire un intreccio coerente di immagini campestri attorno al mito orco e alle vicissitudini dei pastori.Sulla sua scorta, Garcilaso inventò variazioni di così larga e pervasiva fortuna, da investire persino le allegorie bibliche di San Juan de la Cruz, come mostrano i versi del Cántico espiritual che paragonano l’anima a un orto coperto di ori e accarezzato dal vento («ven, austro, que recuerdas los amores, / aspira por mi huerto, / y corran sus olores, / y pacerá el amado entre las ores», Canciones entre el alma y el esposo, strofa 130).

In mancanza di uno studio sistematico al riguardo, mi limiterò qui a esaminare alcuni esempi della rete di contaminazioni che a monte e a valle si intrecciarono nei loci imitati da Garcilaso.

La durezza della donna e le sue similitudini

Incomincerò dalla deprecatio della durezza della donna amata, un topos risalente alla litania di similitudini negative attribuite da Ovidio a Galatea: la quercia per la durezza, l’ondeggiar dell’acqua per la natura ingannevole, il roveto per l’asprezza, l’orsa per l’aggressività, il mare sordo per l’indierenza ecc. («durior annosa quercu, fallacior undis, / [...] / asperior tribulis, feta truculentior ursa, / surdior aequoribus», Metamorfosi xiii 799-804). Sannazaro si attenne a soli tre comparanti quando imitò questo luogo nel lamento di Carino: «O crudelissima e era più che le truculente orse, più dura che le annose querce, e a’ miei preghi più sorda che gli insani mormorii de l’inato mare!» (Arcadia, Prosa viii 41), salvo aggiungere al surdior aequoribus lo stridore della tempesta. Ancora più selettivo fu Bembo in un sonetto che ridusse il paragone a due elementi e accostò alla quercia di Ovidio le tigri ircane con cui la Didone di Virgilio aveva apostrofato Enea («Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres», Eneide iv 367): «Se la più dura quercia, che l’alpe aggia, / v’avesse partorita, e le più infeste / tigri Ircane nodrita» (Rime cv 1-3).

Si spiega così che nell’Egloga ii Garcilaso contaminasse Bembo e Sannazaro quando mise in bocca di Albanio un’invettiva analoga a quella di Carino, vv. 563-65:

¡Oh era, dije, más que tigre hircana
y más sorda a mis quejas qu’el rüido
embravecido de la mar insana!
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In questo modo egli aveva riunito le due innovazioni introdotte nel topos ovidiano da entrambi i poeti: lo sviluppo descrittivo del mare e la contaminazione con Virgilio. Viceversa, gli imitatori spagnoli di Garcilaso si limitarono a ripetere il suo paragone no a farlo diventare una formula ssa: «Tú sola, más cruel que era hircana / [...] / Tú sola, más que roca endurecida / en la tormenta de la mar insana / [...] / Tú sola era has sido / más sorda a mi lamento / que el animoso viento» (Francisco de la Torre, Egloga ii 88-96); «¡Oh más que tigre hircana embravecida!» (Francisco de Figueroa, Sonetto xxix 1); «¡Ay mi pastora, a mi dolor más cruda / que la era silvestre o tigre hircana, / a mi cansada voz más sorda y muda / que con la tempestad la mar ynsana, / más mudable que el biento» (Estançias de Figueroa: «Del ziprés triste y de la verde yedra», vv. 9-13); «Sólo te ruego que procures, Silvia, / de ablandar esta tigre y era» (Cervantes, Trato de Argel, Jornada Segunda, p. 1069); «El semblante tiene hermoso, / los hechos de tigre hircana» (Anonimo, Doña Blanca está en Sidonia, vv. 19-20); «si tu primer sustento hubiera sido / leche de tigres en la hircana tierra» (Lope de Vega, Sonetto cliii 5-6).

Il prato smaltato di fiori

Nel suo commento alle poesie di Garcilaso, Sánchez de las Brozas (detto il Brocense),6 aveva individuato la fonte sannazariana di un’altra immagine dell’Egloga ii: «preséntanos al colmo el prado en ores / y esmalta en mil colores su verdura» (1150-51). Si trattava di una quasi traduzione dei versi dell’Arcadia: «Vedi le valli e i campi che si smaltano / di color mille» (Egloga viii 142-43), ma al lologo sfuggì che il poeta spagnolo aveva impiegato la medesima formula nell’Egloga iii: «Y van articiosos esmaltando / de rojo azul y blanco la ribera» (325-26), e che in questo caso l’aveva variata ricorrendo a un locus amoenus di Ariosto che elencava i colori dei ori in serie ternaria: «D’un cavallier ch’all’ombra d’un boschetto / nel margin verde e bianco e rosso e giallo / sedea pensoso tacito e soletto / sopra quel chiaro e liquido cristallo» (Orlando furioso ii 35, 1-4). Non fu però l’imitazione ariostesca ad attecchire nei poeti del Siglo de Oro, bensì il verbo sannazariano esmaltar, che nì per assumere il valore antonomasico di ‘dipingere di ori colorati’: «con la rosada llama, qu’encendía / Delio aún no roxo, al tierno y nuevo día / esclarece y esmalta, orla y colora» (Fernando de Hererra, Sonetto lxxi 6-8); «Este es el río humilde y la corriente / y ésta la cuarta y verde primavera / que esmalta el campo alegre y reververa / en el dorado Toro el sol ardiente» (Lope de Vega, Sonetto vii 6-8); «Y en competencia de oridos prados / Quando esmalta el Abril la seca tierra» (Lope de Vega, Jerusalén conquistada, Parte ii, libro xiii, octava 162, v. 6).

La calura estiva

Le intermittenze bucoliche di Ariosto lasciarono altre tracce sul poeta spagnolo. È il caso della calura estiva, un motivo risalente all’Idillio vi di Teocrito («Seduti tutti e due presso una fonte, / alla metà d’una giornata estiva»), che Ovidio aveva sviluppato in due luoghi delle Metamorfosi («aestus erat, magnumque labor geminaverat aestum» Met. v 586; «aestus erat mediusque dies, solisque vapore / concava litorei fervebant bracchia Cancri», Met. x 126-27). A Ovidio si era ispirato Boccaccio per descrivere la Valle delle Donne «in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si potesse divisare» (Decameron, vi Conclusione), e da lì il gran caldo era passato alla prosa decima di Sannazaro («essendo il caldo grande e veggendone un boschetto fresco davanti», Arcadia x 45), nonché a un luogo del Furioso che descriveva Astolfo vinto «dal gran caldo e dalla sete infesta» (Orlando furioso xxii 11, 5). Viceversa, in altro luogo del Furioso, l’aestus di Ovidio era rispuntato nella persona di Angelica intenta a riposarsi «da la via stanca e da l’estiva arsura» (Orlando furioso i 36, 3). Fu quest’ultima soluzione a colpire Garcilaso, che utilizzò sistematicamente il verbo arder per descrivere la canicola estiva e meridiana. Così nell’Egloga ii, dove Albanio narra la propia storia a imitazione di Carino, vv. 443-51:

Aconteció que en un’ardiente siesta,
viniendo de la caza fatigados,
y en medio aquesta fuente clara y pura,
que como de cristal resplandecía,
mostrando abiertamente su hondura,
de arena, que d’oro parecía,
de blancas pedrezuelas varïada,
por do manaba el agua que bullía.
En derredor ni una sola pisada
   de
era o de pastor o de ganado
   a la sazón estaba señalada.

Una palese riscrittura del passo in cui Sannazaro aveva rifuso le acque trasparenti di Teocrito (Idillio xxii 36-39) con l’ovidiana fonte di Narciso (Metamorfosi iii 407-4139):

ne ponemmo ambiduo a sedere a la margine d’un fresco e limpidissimo fonte che in quella sorgea. Il quale né da ucello né da era turbato, sì bella la sua chiarezza nel selvatico luogo conservava, che non altrimente che se di purissimo cristallo stato fusse, i secreti del translucido fondo manifestava. E dintorno a quello non si vedea di pastori né di capre pedata alcuna, perciò che armenti giamai non vi si soleano per riverenza de le Ninfe accostare. (Arcadia, Prosa viii 29-30)

Garcilaso vi aveva introdotto alcuni ritocchi: l’aggiunta dei ciottoli di Teocrito («blancas pedrezuelas»), l’incremento di epiteti descrittivi, l’enumerazione ternaria delle orme assenti («de era o de pastor o de ganado») e, appunto, l’estiva arsura di Ariosto («ardiente siesta»). Altre tracce della iunctura ariostesca si trovano nell’Elegía i e nell’Egloga i no a sommare ben quattro occorrenze, tutte composte di ‘ardere’ e di ‘estivo’, Egloga i 123-25, 233-35, 1041-46:

ardiendo yo con la calor estiva,
el curso enajenado iba siguiendo
del agua fugitiva.
[...]
Cuando el húmido otoño ya refrena
del seco estío el gran calor ardiente
y va faltando sombra a Filomena.
[...]
hay una vega grande y espaciosa
En la ribera verde y deleitosa
del sacro Tormes, dulce y claro río,
hay una vega grande y espaciosa,
verde en el medio del invierno frío,
en el otoño verde y primavera,
verde en la fuerza del
ardiente estío.

E in Elegía i 143-45:

El viejo Tormes, con el blanco coro
de sus hermosas ninfas, seca el río
y humedece la tierra con su lloro
[...]
por el arena en el
ardiente estío.

E si noti come l’ultima variante: ardiente estío, riprenda a chiasmo l’estiva arsura di Ariosto.

A seguirne le tracce furono, tra gli altri, Gutierre de Cetina («Dulce, sabrosa, cristalina fuente, / refugio al caluroso, ardiente estío», xxxiii 1-2), Francisco de Figueroa («Mas no tan presto en el ardiente estío, / cuando el rayo del sol más fuerza tiene, / con él se seca el húmido rocío» (ciii 24-26), e il Cervantes delle Novelas ejemplares in un canto amebeo della Gitanilla («eres, bella gitana, / frescor de la mañana, / céro blando en el ardiente estío», 43-45, p. 93). Allargherò ora il campionario di esempi incentrandomi su un motivo capitale del locus amoenus: quello delle acque. Data la varietà della sua morfologia, mi atterrò grosso modo alla distinzione proposta da Virgilio tra il ristagnare e lo scorrere dei umi («seu stabit iners seu prouet umor», Georgiche, iv 25). Partirò quindi dalle acque quasi immobili per inseguire poi le varie forme del loro usso.

Le acque quasi immobili

Descrivendo il «fresco e limpidissimo fonte» di Carino, Sannazaro era ricorso all’iperbole delle acque immobili: «ma quietissimo senza mormorio o rivoluzione di bruttezza alcuna discorrendo per lo erboso paese, andava sì pianamente che appena avresti creduto che si movesse» (Arcadia, Prosa viii 29-31). Il modello era il ume Alfeo di Ovidio, scivolante senza vortice e senza rumore al punto da far dubitare del suo movimento («invenio sine vertice aquas, sine murmure euntes, / perspicuas ad humum, per quas numerabilis alte / calculus omnis erat, quas tu vix ire putares», Metamorfosi v 586-91). Pure Ariosto impiegò questo motivo nel Furioso, ma concependo il dubbio come una disgiuntiva fra lo stare e il uire: «si ritrovaro al n sopra un bel ume / che con silenzio al mar va declinando, / e se vada o se stia, mal si prosume» (Orlando furioso xiv 64, 2-4). La dierenza era minima, eppure non sfuggì a Garcilaso, che applicò al ume Tago un’ulteriore variante del dubbio: l’impossibilità cioè di determinare in quale direzione esso andasse: «Con tanta mansedumbre [...] en aquella parte caminaba, / que pudieran los ojos el camino / determinar apenas que llevaba» (Egloga iii 65-68). Era come notò il Brocense uno spunto preso dalla descrizione del ume Arar nel De bello gallico di Giulio Cesare («In Rhodanum inuit incredibili lenitate ita ut oculis in utram partem uat iudicari non possit», De bello gallico i 12).

Verso la ne del Cinquecento, Luis Barahona de Soto imitò la ricreazione di Garcilaso restaurando la disgiuntiva ariostesca ch’egli aveva scartato: «Va desde aquí la corriente / del agua tan sosegada, / que apenas la vista siente / si corre o si está parada» (Fábula de Acteón xiii 120-23). L’arte della contaminatio permetteva ormai, non solo di riconoscere le fonti sottaciute dal modello, ma di riutilizzarle per gareggiare con esso.

Il «lento correr»

Ancora una postilla: la lentezza del ume suggerì ad Ariosto di bucolizzare il lento correr con cui Petrarca aveva espresso la condizione paradossale dell’amante comparandolo a un cavallo restìo («vola dinanzi al lento correr mio», sonetto vi 4), Orlando furioso i 35, 5-8:

Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto, fra picciol sassi,
il correr lento.

Piacque l’immagine al Tasso dell’Aminta, che la contaminò con quella ovidiana del ume Leteo «cum murmure laben [...] crepitantibus unda lapillis» (Metamorfosi xi 602-603) e convertì il lento correr in un lento, mormorante umicello («e le dolci parole, assai più dolci / che ’l mormorar d’un lento umicello / che rompa il corso fra minuti sassi» (Aminta 470-72). Traducendo l’Aminta nel 1609, Juan de Jáuregui invertì l’ordine degli elementi e trasformò il lento umicello in un lento murmurar («El lento murmurar de un arroyuelo / que rompe el curso entre menudas guijas» 509-10), dopo di che Góngora spartì questa soluzione in due diversi luoghi delle Soledades, il primo incentrato sulla lentezza («del perezoso arroyo el paso lento» Soledad i 542), il secondo sul frangersi dell’acqua («Rompida el agua en las menudas guijas» (Soledad ii 349).

Agli inizi del Seicento le imitazioni formavano una rete uviale tanto intricata da rendere diicile risalirne la corrente, ma non sempre il percorso successivo a Garcilaso scelse meandri così pronunciati.

I fiumi trattenuti

Prettamente virgiliano è il topos delle acque trattenute, di cui il poeta orì due versioni: l’una per descrivere l’eetto del ghiaccio invernale sui umi («Et cum tristis hiems etiamnum frigore saxa / rumperet et glacie cursus frenaret aquarum» Georgiche iv 135-36), l’altra, per rapportare al mito orco il canto del pastore («Pastorum musam Damonis et Alphesiboei, / immemor herbarum quos est mirata iuvenca / certantes, quorum stupefactae carmine lynces / et mutata suos requierunt umina cursus» Bucoliche viii 1-4). Si capisce che i bucolici rinascimentali predilessero questa seconda versione. Così fece Pontano nella prima egloga («Et mirata suos requiescent umina cursus» Eclogae i 7, 53), e Sannazaro in due diversi luoghi dell’Arcadia: nel primo per elogiare Virgilio (Titiro), capace, col suo canto, di far «i velocissimi umi arrestare dai corsi loro, poco curando di rendere al mare il solito tributo» (Arcadia, Prosa x 18), nel secondo, come invocazione diretta alla natura da parte del pastore Ergasto: «e voi, fontane e rivi, / fermate il corso e ritenete i passi» (11-12). Si aggiunga un terzo caso applicato al potere delle arti magiche, capaci, «fermando i umi», di «rivoltare le correnti acque ai fonti loro», (Arcadia, Prosa ix 10).

Garcilaso orì ben quattro versioni di questo topos: due di esse ispirate al mito orco («Si quejas y lamentos pueden tanto / que enfrenaran el curso de los ríos» Sonetto xv 1-2; «con dulce son qu’el curso al agua enfrena» Sonetto xxiv 10); la terza, al virgiliano «glacie cursus frenaret aquarum» («y en el rigor del hielo, en la serena / noche, soplando el viento agudo y puro / qu’el veloce correr del agua enfrena» Elegía ii 187-89); la quarta applicata alle arti magiche alla stregua di Sannazaro («a los caudales / ríos el curso presuroso enfrena / con fuerza de palabras y señales» Egloga ii 1077-79).

L’insistente impiego della formula «el curso enfrena» la convertì in uno stereotipo che gli imitatori fecero scattare a ogni iperbolica lode della poesia: «Toda la suavidad que en dulce vena / se puede ver, veréis en uno solo, / que al son sabroso de su musa enfrena / la furia al mar, el curso al dios Eolo» (Cervantes, La Galatea vi: «Canto de Calíope», 78, 1-4); «Fugitivo cristal, el curso enfrena, / en tanto que te cuento mis pesares» (Lope de Vega, Sonetto clxxxxiii 1-2); «Pulsa las templadas cuerdas / de la cítara dorada, / y al son desata los montes, / y al son enfrena las aguas» (Góngora, romanza Oh cuan bien acusa Alcino, 5-8); «sobre un arroyo, de quejarse ronco, / mudo sus ondas, cuando no enfrenado» (Góngora, Soledad i 241-42). In questo caso, come vediamo, la soluzione di Garcilaso si impose con chiarezza alle sue fonti.

Le acque fuggitive

Veniamo ora al motivo delle acque veloci. Fra i suoi precedenti classici, la maggiore fortuna toccò al «tenuis fugiens per gramina rivos» di Virgilio (Georgiche iv 19). Boccaccio se ne ricordò nella sua descrizione della Valle delle Donne, dove disse dell’acqua di un canaletto che «inno al mezzo del piano velocissima discorreva» (Decameron vi Conclusione). Ma fu Petrarca ad orirne l’imitazione più inuente in un sonetto dei Rerum vugarium fragmenta: «Parme d’udirla, udendo [...] / [...] et l’acque/ mormorando fuggir per l’erba verde» (Rvf 176, 9-11). L’aggiunta del mormorio rendeva l’immagine particolarmente adatta al locus amoenus, e Sannazaro non mancò di sfruttarla incrementandone l’eetto acustico: «il mormorare de le roche onde (le quali fuggendo velocissime per le verdi erbe [...] rendevano [...] piacevolissimo suono a udire» (Arcadia, Prosa x 58). Al suono sannazariano si attenne pure Garcilaso in una sobria imitazione che dava maggiore spazio al prato: «Salicio, recostado / al pie de un alta haya en la verdura / por donde un agua clara con sonido / atravesaba el fresco y verde prado» (Egloga i 45-48), mentre in un altro punto della stessa egloga, egli si spinse a comprimere la velocità della corrente in un solo aggettivo: «el curso enajenado iba siguiendo / del agua fugitiva» (Egloga i 124-25). Fu questa trovata a venir ripresa da Lope de Vega in due luoghi: l’uno come mera ripetizione in un componimento della Dorotea («Sus alabanzas cantan / las aguas fugitivas, / las aves que la escuchan, / las ores que la imitan», Atto iii, scena iv: Ay riguroso estado, 21-24); l’altro come originale ricreazione nel sonetto già citato a proposito dei umi trattenuti: «Fugitivo cristal, el curso enfrena» (clxxxiii 1). L’ossimoro ispirò a sua volta a Góngora un più audace tour de force che comparava la visione dei seni di Galatea immersi nelle onde («pomi di neve» sotto l’acqua fuggitiva) al supplizio di Tantalo, Fábula de Polifemo y Galatea 41, 8:

Entre las ondas y la fruta, imita
Acis al siempre ayuno en penas graves,
que, en tanta gloria, in
erno son no breve,
fugitivo cristal, pomos de nieve.

Il poema di Góngora era apparso nel 1612; due anni dopo Cervantes recuperava questa immagine nel Viaje del Parnaso, e lo faceva all’interno di una similitudine copiata quasi pedem litteram da un’altra del Furioso dove il desiderio erotico di Fiordispina veniva comparato alla sete di Tantalo («Come l’ infermo acceso di gran sete, / s’in quella ingorda voglia s’addormenta, / ne l’ interrotta e turbida quiete, / d’ogn’ acqua che mai vide, si ramenta» Orlando furioso xxv 43), Viaje del Parnaso vi 13-18:

Sueña el enfermo, a quien la ebre ardiente

abrasa las entrañas, que en la boca

tiene de las que ha visto alguna fuente

y el labio al fugitivo cristal toca,

y el dormido consuelo imaginado

crece el deseo, y no la sed apoca.

È diicile sapere se anche Góngora avesse avuto in mente l’ottava di Ariosto quando associò il desiderio erotico al supplizio di Tantalo; quello che è certo è che l’acqua fuggitiva era servita allo scopo perché si era resa autonoma dal locus amoenus e aveva assunto nuovi signicati in virtù dell’epiteto.

Il dolce mormorar dell’acqua

Alla bucolica ci riporta di nuovo la riscrittura petrarchesca del «tenuis fugiens per gramina rivos», e più concretamente l’aggiunta del verbo mormorare: «l’acque/ mormorando fuggir per l’erba verde». Essa poteva provenire sia dal murmur presente in un altro luogo delle Georgiche («illa cadens raucum per levia murmur / saxa ciet scatebrisque arentia temperat arva» Georgiche i 109-10), sia dal «cum murmure labens» del ume Leteo di Ovidio. In ogni caso, imitando i versi di Petrarca, Sannazaro aveva restaurato l’aggettivo raucum («il mormorare de le roche onde / le quali fuggendo velocissime per le verdi erbe» Arcadia, Prosa x 58), forse risalendo alla fonte originaria, forse a un altro rifacimento dei Rerum vulgarium fragmenta dove il raucum [...] murmur era rispuntato: «o roco mormorar di lucide onde/ s’ode d’una orita et fresca riva» (Rvf 279, 1-4). Comunque sia, la iunctura trovò nella poesia spagnola solo uno spazio tangenziale che allentò il suo legame con l’ambito bucolico. Ne fu causa l’associazione del suono rauco al pianto nella garcilasiana allegoria del ume Tormes («y humedece la tierra con su lloro, / [...] / con ronco son de llanto y de gemido» Elegía i 147-49), riutilizzata da Góngora quando, riprendendo il motivo delle acque trattenute, immaginò un «arroyo, de quejarse ronco» (Soledad i 241). Fuori dal prato arcadico rimase pure Lope de Vega, che attribuì al mare il ronco murmurar imitando la prosopopea del Tormes: «Mira este mar por una, y otra parte / ... / abrazando esta peña, que amorosa / con ronco murmurar la llama esposa» (Jerusalén conquistada, Libro xiv 144, 5-7).

Più lunga vita ebbe l’accezione bucolica di un’altra immagine di Petrarca che associava la dolcezza al verbo mormorare: «Chiara fontana in quel medesmo bosco / sorgea d’un sasso, et acque fresche et dolci / spargea, soavemente mormorando» (Rvf 323, 37-39). Lo dimostrò il «grato mormorio» con cui Poliziano contraddistinse il suono dei ruscelli («Sentesi un grato mormorio dell’onde, / che fan duo freschi e lucidi ruscelli» Stanze per la giostra i 71), e il söave suon attribuito da Sannazaro all’accordo del canto pastorale con lo scorrere dei «liquidi cristalli» («E le fontane e i umi per le valli / mormorando diran quel ch’ora io canto / con rilucenti e liquidi cristalli; / [...] / Et il söave suon di lucide onde» Egloga xi 136-38, 151).

Abbiamo visto come Sannazaro avesse anche messo al centro l’armonia diusa dalla zampogna e il dolce risonare nelle selve del canto dei pastori («Deh, tu solevi col dolce suono de la tua sampogna tutto il nostro bosco di dilettevole armonia far lieto» Arcadia, Prosa v 24; «Le selve che al cantare de’ duo pastori [...] aveano dolcissimamente rimbombato» Arcadia, Prosa x 1). A questi luoghi dovette pensare Ariosto quando allacciò dulcedo ed armonia descrivendo il concerto allestito da Alcina per allietare la mensa di Rinaldo: «citare, ar pe e lire, / e diversi altri dilettevoli suoni / faceano intorno l’aria tintinire / d’armonia dolce e di concenti buoni» (Orlando furioso vii 19, 1-4). Peraltro, il tintinire dell’aria non poteva non avere dietro il retentir le valli di Petrarca nel sonetto 219, che men- zionava anche il mormorar dell’acqua («Il cantar novo e ’l pianger delli augelli / in sul dí fanno retenir le valli, / e ’l mormorar de’ liquidi cristalli» Rvf 219, 1-3).

Tale lo sfondo del locus amoenus inserito da Garcilaso nell’Egloga ii per situarvi la storia di Albanio, 64-69:

Convida a un dulce sueño
aquel manso rüido
del agua que la clara fuente envía,
y las aves sin dueño,
con canto no aprendido,
hinchen el aire de dulce armonía.

Come notò il Brocense, questi versi traducevano quelli del Beatus ille di Orazio in cui i placidi sonni si associavano allo scorrere dell’acqua e al canto degli uccelli («labuntur altis interim ripis aquae, / queruntur in silvis aves / fontesque lymphis obstrepunt manantibus, / somnos quod invitet levis», Epodi ii 27-30). La dulce armonía però riportava anche all’armonia dolce di Ariosto, e, in modo più diffuso, al dolce suono e alla dilettevole armonia dell’Arcadia. Inoltre, dietro la formula «hinchen el aire» traluceva il «late loca [...] implet» dell’usignolo virgiliano (Georgiche iv 510), non meno di quanto il «manso ruido del agua» non rinviasse al petrarchesco «mormorar de’ liquidi cristalli». Era dunque, quella di Garcilaso, una contaminazione a cerchio che correggeva i modelli con le loro imitazioni e viceversa. L’artificiale armonia di Ariosto era ridivenuta così un canto «no aprendido» alla stregua di quelli non «ammaestrati» dell’Arcadia (Proemio 1-2), mentre il dolce rimbombar di Sannazaro aveva riportato al miserabile carmem di Virgilio.

Ma Garcilaso aveva anche declinato il verbo mormorare come dulce murmurar nel primo locus amoenus dell’ Egloga ii 13-14:

El dulce murmurar deste rüido,
el mover de los árboles al viento,
el suave olor del prado
orecido.

Questa formula si impose chiaramente a quella della dulce armonía, e lo dimostrò per tempo la traduzione dell’Orlando furioso pubblicata da Jerónimo de Urrea nel 1549, dove l’armonia dolce di Ariosto venne spiazzata dal dulce murmurar di Garcilaso («Cítaras, ar pas, música excelente / había a la mesa, y otros instrumentos; / que el aire reteñía suavemente / con dulce murmurar de sus concentos» vii 19, 1-4). Seguirono il suo esempio Jorge de Montemayor («el dulce murmurar d’aquella fuente» Historia de Alcida y Silvano, ottava 84, 4), Baltasar Gil Polo («al dulce murmurar de la corriente» Diana enamorada, libro i, Mientras está el mayor de los planetas 5), Alonso Núñez de Reinoso («oyendo el dulce murmurar de aquella viva agua» Los amores de Clareo y Florisea, p. 145), e altri ancora, finché Cervantes non la impiegò per descrivere l’acustica dei discorsi sommessi al di fuori di ogni contesto bucolico («al dulce murmurar, al oportuno / razonar de las dos» Viaje del Parnaso, vi 115-16). È ben vero che l’autore del Quijote fece ricorso anche alla dulce armonía ariostesca nel medesimo poema, ma solo per parodiare il suono delle trombe militari degradandole a musiche amene («El son de los clarines la ribera / llenaba de dulcísima armonía», Viaje del Parnaso, i 169-70).

La bucolica e i poemi cavallereschi si erano contaminati reciprocamente man mano che correvano verso il loro occaso. I generi morivano: le formule sopravvivevano nel linguaggio.

Il «manso ruido»

Una fortuna ancor maggiore ebbe il sintagma manso ruido impiegato da Garcilaso nel suo rifacimento dei versi oraziani («aquel manso rüido / del agua que la clara fuente envía»). La ’mansuetudine’ venne chiamata in causa dal poeta in altre due occasioni: una di esse traducendo «andava sì pianamente» di Sannazaro come «Con tanta mansedumbre [...] caminaba» (Egloga iii 65-66), l’altra, sempre nell’Egloga iii, descrivendo il vento in altro suo celebre locus amoenus: «Movióla el sitio umbroso, el manso viento, / el suave olor d’aquel florido suelo» (73-74).

Per dare un’idea dell’effetto imitativo che questa ricorrenza provocò, basterà citare una lista rappresentativa di casi: «Claros y frescos ríos / que mansamente vays» (Boscán, Canción 48, 1-2); «En el mar sosegado, al manso viento / tiende la vela, alegre, el marinero» (Diego Hurtado de Mendoza, Canzone xvi, 43-44); «donde sus cristalinas aguas con un manso y agradable ruido se iban a meter en el mar Oceano» (Jorge de Montemayor, Diana vii, pp. 277-78); «Aquí el ruido que hace el manso viento / en los floridos ramos sacudiendo» (Gil Polo, Diana enamorada, I. Rimas provenzales vi 1-2); «abrasa el verde prado; / altera el manso viento» (Francisco de la Torre, Egloga vi 20-21); «El ayre el huerto orea / y ofrece mil olores al sentido; / los árboles menea / con un manso ruïdo» (Fray Luis de León, ode Qué descansada vida, 56-59); «Cuando miro el fino oro al manso viento / en lucientes rieles esparcido» (Fernando de Herrera, Sonetto clv 1-2); «Corría un manso arroyuelo / entre dos valles al alba» (Lope de Vega, La Dorotea, Atto ii, scena v, canto di Dorotea, vv. 1-2), «su frescura, verde hierba y apacible sombra a un manso arroyo que con mil lazos de plata bordaba» (Lope de Vega, Arcadia i, p. 69); «sintió entrar un manso viento» (Lope de Vega, Arcadia iii); «de verdes hojas lenguas vi que hacía, / por murmurar un rato el manso viento, de mi Tirsis cruel la tiranía» (Francisco de Quevedo, Octavas glosando «Que todo tiene fin si no es mi pena» 24-26); «el ya sañudo arroyo, ahora manso» (Góngora, Soledad i 343). Né fu immune dal contagio la prosa del Quijote: «acertaron a entrar entre unos árboles altos, cuyas hojas, movidas del blando viento, hacían un temeroso y manso ruido» (i 20, p. 227); «por donde corría un pequeño y manso arroyo» (i 27, p. 330).

Il canto accordato

Ma, se i rumori dell’acqua, del vento e degli alberi avevano condiviso un medesimo epiteto, altre concordanze li avevano amalgamati in modo per così dire sinfonico. Era stato questo uno fra i più importanti contributi di Sannzaro alla bucolica rinascimentale, sicché varrà la pena di citarne alcuni esempi emblematici andando dalle soluzioni più semplici a quelle più complesse e polifoniche:

mentre il mio canto e ’l murmurar de l’onde
s’accorderanno
(Egloga ii 7-9)

Et è fama che, mentre costui cantava, i circostanti pini movendo le loro sommità le rispondeano. (Prosa x 16)

Dei pastori alcuni mungevano, alcuni tondavano lane, altri suoavano sampogne, e tali vi erano che pareva che cantando si ingegnasseno di accordarsi col suono di quelle. (Prosa iii 14)

Ohimé, che a pena i nostri armenti sanno senza la tua sampogna pascere per li verdi prati; li quali mentre vivesti solevano sí dolcemente al suono di quella ruminare l’erbe sotto le piacevoli ombre de le fresche elcine. (Prosa v 28)

e noi con le nostre sampogne ti cantamo e canteremo sempre, mentre gli armenti pasceranno per questi boschi. E questi pini e questi cerri e questi piatani che dintorno ti stanno, mentre il mondo sarà susurreranno il nome tuo; e i tori parimente con tutte le paesane torme in ogni stagione avranno riverenza a la tua ombra, e con alte voci muggendo ti chiameranno per le rispondenti selve. (Prosa v 34)

Non meraviglia quindi se nell’epilogo Alla sampogna, il dissolversi dell’utopia arcadica era stato rappresentato dal silenzio delle selve: «le selve son tutte mutole, le valli e i monti per doglia son divenuti sordi» (A la sampogna 10). Per valutare il grado di novità del circolo acustico sannazariano, bisognerà ricordarne prima alcuni prestigiosi precedenti. Virgilio aveva non solo ‘bucolizzato’ il mito orfico facendo rispondere le selve al canto del poeta («Non canimus sordis, respondent omnia silvae» Bucoliche x 8), ma aveva sottolineato il simultaneo risuonare del canto del potatore e del tubare della tortora, del susurro delle selve e della voce dei pini («hinc alta sub rupe canet frondator ad auras; / nec tamen interea raucae tua palumbes / nec genere aeria cessabit turtur ad ulmo» Bucoliche i 56-58; «Maenalus argutumque nemus pinosque loquentis / semper habet» Bucoliche viii 22-23). Tuttavia, da nessuno di questi casi emergeva un suono propriamente concertato. La stessa cosa vale per il locus amoenus del Beatus ille oraziano, dove le acque e il canto degli uccelli si limitavano a produrre placidi sonni («labuntur altis interim ripis aquae, / queruntur in silvis aves / fontesque lymphis obstrepunt manantibus, / somnos quod invitet levis», Epodi ii 27-30).

Più varia e stretta fu invece la trama di sintonie acustiche ordita da Petrarca. Mi riferisco alla reductio ad unum dei suoni del paesaggio a partire dal rapporto simbolico con Laura («Parme d’udirla, udendo i rami et l’òre /et le frondi, et gli augei lagnarsi, et l’acque / mormorando fuggir per l’erba verde» Rvf 176, 9-11), e alla funzione amalgamante del mormorar dell’acqua che risuona insieme al canto degli uccelli o accompagna il pianto del poeta («Il cantar novo e ’l pianger delli augelli / in sul dí fanno retenir le valli, / e ’l mormorar de’ liquidi cristalli» Rvf 219, 1-3; «per quest’alta piaggia / sfogando vo col mormorar de l’onde, / per lo dolce silentio de la notte» Rvf 237, 19). Ma importante fu soprattutto il moltiplicarsi delle fonti canore in reciproca interazione («Se lamentar augelli, o verdi fronde/ mover soavemente a l’aura estiva, /o roco mormorar di lucide onde/ s’ode d’una fiorita et fresca riva» Rvf 279, 1-4).

Era un ricco campionario di accostamenti facilmente traducibile in accordo musicale. A Sannazaro spettò il merito di compiere l’ultimo passo. La novità da lui introdotta non sfuggì a Garcilaso se, quando nella Egloga i fece accompagnare il lamento di Salicio dal rumore dell’acqua, impiegò il participio acordado in un senso diverso da quello abituale (suono ‘intonato’ con valore assoluto), 46-52:

al pie d’un alta haya, en la verdura,
por donde un agua clara con sonido
atravesaba el fresco y verde prado;
él, con canto acordado
al rumor que sonaba,
del agua que pasaba,

se quejaba tan dulce y blandamente.

In seguito, i romanzi pastorali si riempirono di accordi tra il canto dei poeti e quello degli uccelli, tra il mormorar dei fonti e il susurrar degli alberi, fino a dirli, in parole di Lope de Vega, «instrumentos naturales»:

Mas cuando Alcida oyó cómo tocaba
con aire tan gracioso y excelente,
y cómo con el son se concertaba
el dulce murmurar d’aquella fuente
(Jorge de Montemayor, Historia de Alcida y Silvano, ottava 84 1-4)

le forzó publicar su tormento a las simples avecillas, que de los floridos ramos la escuchaban, a los verdes árboles, que de su congoja parece que se dolían,ya la clara fuente, que el ruido de sus cristalinas aguas con el son de sus cantares acordaba (Gil Polo, Diana enamorada, i, preambolo, pp. 90-91)

Mientras que al triste, lamentable acento
del mal acorde son del canto mío,
en Eco amarga, de cansado aliento,
responde el monte, el prado, el llano, el río
(Cervantes, La Galatea, i, «Canción de Elicio» 1-4)

Por estas selvas amenas
al son de arroyos sonoros
cantan las aves a coros

de celos y amor las penas.
Suena el agua de las venas,
instrumento natural.
(Lope de Vega, La Dorotea, Atto ii, scena iii, canto di Dorotea 5-10)

Non per altro Cervantes fece invocare al pastore Grisóstomo innumerevoli suoni discordanti per accompagnare il proprio canto: il tubar della tortora, lo stridore del vento nella tempesta, mille voci di bestie e di esseri infernali (Don Quijote i cap. 13: Canción de Grisóstomo 17-29):

El rugir del león, del lobo fiero
el temeroso aullido, el silbo horrendo
de escamosa serpiente, el espantabl
baladro de algún monstruo, el agorero
graznar de la corneja, y el estruendo
del viento contrastado en mar instable;
del ya vencido toro el implacable
bramido, y de la viuda tortolilla
el sentible arrullar; el triste canto
del envidiado búho, con el llanto
de toda la infernal negra cuadrilla,
salgan con la doliente ánima fuera,
mezclados en un son.

Ogni parodia presuppone la caducità di un topos non meno della sua vasta fortuna. Ma intanto l’abbiamo visto le soluzioni ricreate da Garcilaso avevano dato frutti impensati che oltrepassavano il genere bucolico dopo aver arricchito il linguaggio poetico con la terza dimensione della natura. Solo sdipanando caso per caso la matassa del percorso imitativo sarà possibile ricostruire questo straordinario processo. Un esempio paradigmatico lo offre la storia dell’ossimoro fugitivo cristal, creato a partire dall’agua fugitiva di Garcilaso, allo stesso modo in cui l’agua fugitiva era derivata dal «tenuis fugiens per gramina rivos» di Virgilio passando da Petrarca e dall’Arcadia.

Bibliographie

Nella citazione dei testi poetici spagnoli mi attengo alle seguenti edizioni (limito l’indicazione di pagina ai passaggi in prosa e al teatro):Alonso Núñez de Reinoso, Los amores de Clareo y Florisea y los trabajos de la sin ventura Isea, a cura di M.Á. Teijeiro Fuentes, Cáceres, Servicio de Publicaciones Universidad de Extremadura, 1991.Anonimo, Doña Blanca está en Sidonia, in Flor de varios y nuevos romances, a cura di A. Durán, Madrid, Rivadeneira, 1851, t. II, p. 37.Baltasar Gil Polo, Diana enamorada, a cura di F. López Estrada, Madrid, Castalia, 1988.Diego Hurtado de Mendoza, Poesía, a cura di L.F. Díaz Larios e O. Gete Carpio, Madrid, Cátedra, 1990.Fernando de Hererra, Poesía castellana completa, a cura di C. Cuevas, Madrid, Cátedra, 1997.Francisco de Figueroa, Poesía, a cura di M. López Suárez, Madrid, Cátedra, 1989. Francisco de Figueroa, Poemas in Cartapacio di Francisco Morán de la Estrella, a cura di R.A. Di Franco, J.J. Labrador e C. Á. Zorita, Madrid, Patrimonio Nacional, 1989.Francisco de la Torre, Poesías, a cura di A. Zamora Vicente, Madrid, Espasa Calpe, 1944.Francisco de Quevedo, Obra poética, a cura di J.M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969. Fray Luis de León, Obras propias y traducciones, a cura di F. de Quevedo (ed. facsimile, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1992).Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, a cura di B. Morros, Barcelona, Crítica, 1995.Jorge de Montemayor, Los siete libros de la Diana, a cura di A. Rallo, Madrid, Cátedra, 1991.Jorge de Montemayor, Historia de Alcida y Silvano, a cura di A. Rallo, Madrid, Cátedra, 1991, appendice.Juan Boscán, Obras poéticas, edizione critica a cura di M. de Riquer, A. Comas e J. Molas, Universidad de Barcelona, 1957.Juan de Jáuregui, Aminta, a cura di J. Arce, Madrid, Castalia, 1970. Lope de Vega, Arcadia, a cura di E.S. Morby, Madrid, Castalia, 1980.Lope de Vega, Jerusalén conquistada, a cura di J. de Entrambasaguas, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 1951-1954.Lope de Vega, La Dorotea, a cura di J.M. Blecua, Madrid, Cátedra, 1996.Lope de Vega, Rimas humanas y otros versos, a cura di A. Carreño, Barcelona, Crítica, 1998.Luis Barahona de Soto, Fábulas mitológicas, a cura di A. Cruz Casado, Lucena, Ayuntamiento de Lucena, Publicaciones de la Cátedra Luis Barahona de Soto, 1999.Luis de Góngora, Soledades, a cura di R. Jammes, Madrid, Castalia, 1994.Luis de Góngora, Obras completas, I: Poemas de autoría segura. Poemas de autenticidad probable, a cura di A. Carreira, Madrid, Fundación José Antonio de Castro, 2000.Miguel de Cervantes, Comedia llamada El Trato de Argel, in Obras completas a cura di F. Sevilla Arroyo e A. Rey Hazas, Alcalá de Henares, Centro de Estudios Cervantinos, 1995.Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, ed. diretta da F. Rico, Barcelona, Círculos de Lectores, 2004.Miguel de Cervantes, La Galatea, a cura di F. López Estrada e M.T. López, Madrid, Cátedra, 1999.Miguel de Cervantes, Novelas ejemplares, a cura di J.G. López, Barcelona, Crítica, 2001.Miguel de Cervantes, Viaje del Parnaso, in Id., Novelas ejemplares, Poesía, a cura di D. Yndurain, Madrid, Turner, 1993.San Juan de la Cruz, Canto espiritual (segunda redacción), a cura di E. Pacho, Burgos, Editorial Monte Carmelo, 1998. Le edizioni di riferimento per i testi poetici italiani sono le seguenti:Angelo Poliziano, Poesie volgari, a cura di F. Bausi, Venezia, Vecchiarelli, 1997. Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996.Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1985. Giovanni Gioviano Pontano, Eclogae, testo critico, commento e traduzione a cura di L. Monti Sabia, Napoli, Liguori, 1973.Iacopo Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano, Mursia, 1990.Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976.Pietro Bembo, Prose e Rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966.Torquato Tasso, Aminta, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1963.

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1 Las obras de Boscán y algunas de Garcilasso de la Vega repartidas en quatro libros, Barcelona, en la oicina de Carles Amorós, 20 março 1543.

2 Si veda J.M. Blecua, Garcilaso y Cervantes, Cuadernos de Ínsula, I. Homenaje a Cervantes, Madrid, Ínsula, 1947, pp. 141-50, poi in Id., Sobre poesía de la Edad de oro, Madrid, Gredos, I, 1970, pp. 151-60; E.L. Rivers, Cervantes y Garcilaso, in Cervantes: su obra y su mundo. Actas del I Congreso Internacional sobre Cervantes, Madrid Edi. 6,

1981, pp. 963-68; J.B. Avalle Arce, Don Quijote entre pastores y caballeros, in J. A. Ascunce (a cura di), Estudios sobre Cervantes en la víspera de su Centenario, I, Kassel, Reichenberger, 1994, pp. 119-24; e M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Ariosto, Garcilaso e Cervantes: la trama intertestuale, in Ead., L’Immagine riessa: Percezione nazionale e trame intertestuali fra Italia e Spagna, Firenze, Franco Cesati, 2012, pp. 213-39.

3 «Che persino i campi mi son gravi / perché non sono tutti secchi e morti. / Se sento un gregge belar, / e la voce del pastore giunge alle mie orecchie, / lì si rivolge il mio timore». Non escluderei il ricordo di questo spunto dell’Arcadia:

«Né odo mai suono di sampogna alcuna né voce di qualunque pastore, che gli occhi miei non versino amare lacrime» (Prosa vii 28).

4 Sul debito di Garcilaso con Sannazaro, oltre a R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso, Madrid, Revista de Occidente, 1948 (poi rivisto in Garcilaso. Estudios completos, Madrid, Itsmo, 1985), cfr. V. Bocchetta, Sannazaro en Garcilaso, Madrid, Gredos, 1976, A. Gargano, «Questo nostro caduco et fragil bene». Formas y signicados del locus amoenus en la Egloga I de Garcilaso, in G. Calabrò (a cura di), Signoria di parole. Studi oerti a Mario di Pinto, Napoli, Liguori, 1998, pp. 283-98; Id., Da Sannazaro a Garcilaso: traduzione e transcodicazione (a proposito dell’Egloga II), in M. de las Nieves Muñiz (a cura di), La Traduzione della Letteratura Italiana in Spagna (1300-1939), Firenze, F. Cesati Editore, 2007, pp. 347-60; Id., L’egloga a Napoli tra Sannazaro e Garcilaso, in A. Gargano, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII, Napoli, Liguori, 2005, pp. 181-201; Id., L’Arcadia di Sannazaro in Spagna: l’egloga II di Garcilaso tra imitatio e modello bucolico, in P. Sabbatino (a cura di), Iacopo Sannazaro. La cultura napoletana nell’europa del Rinascimento, Firenze, Olschki, 2009, pp. 287-96; M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Fonti grecolatine e «locus amoenus»: tra Sannazaro e Garcilaso, in Ead., L’immagine riessa, cit., pp. 133-62. L’unico studio incentrato sul debito di Lope de Vega con Sannazaro, è quello di M. Ricciardelli, L’«Arcadia» di J. Sannazaro e di Lope de Vega, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1966. Alcune segnalazioni di fonti sannazariane presenti in altri autori si devono a J. Fucilla, Relaciones hispano-italianas (cfr. in particolare i capitoli: «Ecos de Sannazaro y de Tasso en Don Quijote», «Gil Polo y Sannazaro»). In mancanza di altre indicazioni, s’intende che le nuove segnalazioni appartengono a chi scrive.

5 La fonte bembiana è stata segnalata da Bienvenido Morros nel commento a Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, Barcelona, Crítica, 1995, p. 169. Com’è noto, Garcilaso poté leggere le Rime di Bembo nell’edizione vene ziana di Antonio da Sabbio, apparsa nel 1530.

6 Obras del excelente Poeta Garci Lasso de la Vega. Con Anotaciones y emmiendas del Licenciado Francisco Sanchez, Salamanca, por Pedro Lasso, 1574, di cui esiste edizione in facsimile: Garcilaso de la Vega y sus comentaristas. Obras completas del poeta, acompanadas de los textos íntegros de los comentarios de El Brocense, Fernando de Herrera, Tamayo de Vargas y Azara, a cura di A. Gallego Morell, 2a edizione corretta e aumentata, Madrid, Gredos, 1972.