Revue Italique

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Due sonetti di Galeazzo di Tarsia in una rara stampa del 1558 e una sua lettera a Niccolò Franco

Tobia Toscano

Con l’edizione critica procurata da Cesare Bozzetti nel 19801 le Rime di Galeazzo di Tarsia hanno conseguito una sistemazione inappuntabile sotto il profilo testuale, mentre sul piano dell’esegesi l’alone di mistero che circondò la vita del poeta, nonostante la benemerita ricostruzione offertane con dovizia di corredo documen tale da Carlo De Frede,2 oppone ancora in più punti notevoli resistenze a una pacifica interpretazione, sicché in alcuni casi esse continuano a rimanere «disperate», secondo la lapidaria postilla apposta dal Dionisotti3 all’edizione Contini-Ponchiroli.4

Non è questo il luogo, né sovvengono ancora elementi significativi a sufficienza, per una riapertura del “caso” Galeazzo, ma è certo che ad ogni ripresa del suo canzoniere il lettore è costretto a misurare lo scarto tra la compattezza del corpus poetico e la sua irriducibilità a un tracciato biografico, ancorché sufficientemente noto. Cosi come non si può fare a meno di accogliere le implicazioni problematiche dellósservazione espressa da Quondam in margine alle Rime di diversi signori napolitani e d’altri, pubblicate dal Giolito a più riprese e con diverse serie di presenze a partire dal 1552, che, a fronte di «tante rituali partecipazioni», sono caratterizzate «almeno da una radicale assenza: quella di Galeazzo di Tarsia».5 È possibile che anche questa estraneità alla canora schiera dei petrarchisti meridionali sia il risultato di un atteggiamento scontroso del barone di Belmonte, reo di infrazioni ben più clamorose sotto llprofilo penale, tanto che riuscirebbe difficile immaginare un suo diretto interesse alla partita multipla della comunicazione poetica mediocinquecentesca. Rimane tuttavia atipica la ritardata diffusione delle sue rime anche post mortem, se bisognerà attendere 32 anni per trovare due sonetti (37 e 9 dell’edizione Bozzetti) in Rime et versi in lode della ill.ma et ecc.ma s.ra d.na Giovanna Castriota, monumentale raccolta allestita da Scipione de Monti e stampata a Vico Equense da Giuseppe Cacchi nel 1585, e oltre un sessantennio per la parziale editio princeps allestita da Giovan Battista Basile nel 1617 (Napoli, Roncagliolo).

Al cospetto di una tradizione cosi rada e tarda acquistano particolare rilevanza testimonianze sia pure parziali che consentono di antidatare di qualche decennio unafase di incipiente trasmissione del testo di Galeazzo, rimasta tuttavia senza esiti apprezzabili.

Nel 1558 due sonetti di Galeazzo di Tarsia (nn. 24 e 28 dell’edizione Bozzetti) furono inclusi nelle Seste rime di Laura Terracina e rappresentano pertanto il primo testimone a stampa della tradizione:6

Le Seste Pime Della Signora / Lavra Terraccina [sic] di Napoli. / nuouamente stampate. / [ritratto della Terracina] / in lvcca appresso vincenzobusdrago mdlviii.

Alle pp.174-75 i due sonetti di Galeazzo di Tarsia, che si trascrivono con lievi interventi sull’interpunzione:

Del Signor Galeazzo di Tarsia

Chiaro e di vero honor, Marmo lucente,
che l’alta imagen de l’eterno amore
serbi, qual Gemma lucido colore
nel più felice sen de l’Orïente,

chi può segnare un picciol raggio ardente
de l’immenso splendor, che a torno fore,
o l’altro in parte, che t’alluma il core,
ombreggiar con la penna e con la mente[?]

Doveva stile il ciel darne o pensiero
conforme a si sublime e raro ogetto
e non fuor del mortal uso intagliarti.

Ma poi che questo e quel non giunge al vero
scenda a parlar di te puro intelletto
o almen basti il desio senza lodarti.

Del medesimo

Roma, le palme tue ch’in marmi e in oro
roder non può del tempo invida lima,
foran quasi di nulla, o in poca stima
poste a lato a costei, ch’io sola adoro.

Quelle fenno ombra dal sublime
foro a l’Asia, a l’Afro et a l’Europa prima,
questa d’un bel Diamante alza la cima
ricca, del ciel nel più beato choro.

Ella è pur tua, et non poteva altronde
uscir, che da quel sasso almo e famoso
che diede al fianco tuo l’altra colonna.

Hor sorgi al primo honor, anzi che roso
sia da gli anni il bel tronco e l’auree fronde,
e tu del mondo, ella di te fia donna.

I due sonetti furono ristampati anche nella seconda edizione della medesima opera della Terracina (cc. O 3v-O 4r):7

SESTE / RIME DE LA / SIGNORA LAV= / RA TERRA= / CINA / NOVAMENTE RE= / uiste, et stampate, Con / altri nuoui sonetti, / [fregio tipografico] / IN NAPOLI / Appò Raymondo / Amato. / 1560.

Il testo dei due sonetti di Galeazzo, fatte salve le consuete varianti grafiche, compare qui nello stesso assetto dell’edizione Busdrago 1558, con l’aggiunta di due varianti erronee (24, 7: «t’allumina il core» per «t’alluma il core», 28, 12: «Hor scorgi» per «Hor sorgi») imputabili entrambe al compositore di tipografia.

Un descritto di queste due edizioni può considerarsi il ms. V.A. 64 della Biblioteca Nazionale di Napoli, copia di fine Ottocento che sembra dipendere dall’edizione Amato 1560, della quale corregge (per evidenti necessità metriche) t’allumina di 24, 7, ma conserva scorgi in 28, 12 oltre alla nuova dedica e al componimenti aggiunti.

L’esame delle poche varianti di un qualche peso8 al cospetto degli altri testimoni che trasmettono i due sonetti (in entrambi i casi V, NR e NS)9 induce a ipotizzare che il nuovo testimone (= Ter) derivi da un antigrafo indipendente, essendo portatore di lezioni singolari e di almeno un errore non presente nella restante tradizione. Al v. 6 del son. 24, infatti, Ter legge a torno fore, contro t’orna fuore di NS e torna fore di NR: la trasformazione del verbo ornare nell’avverbio a torno destituisce il sintagma di significato plausibile e pertanto la lezione deve essere ritenuta guasta. Esclusiva di Ter è anche la sostituzione della particella disgiuntiva o (vv. 11 e 12) con la congiunzione e, che depotenzia l’efficacia del dettato poetico: il poeta avrebbe potuto cantare la donna solo disponendo di stile e di profondità di pensiero adeguati o se le qualità di lei non fossero «fuor del mortal uso».

A ribadire l’indipendenza di Ter è anche la lezione del v. 2 imagen de l’eterno contro imago del divino unanimemente attestata dall’intera tradizione. Tale variante potrebbe essere la spia di una redazione più antica o anche concorrente, superata al momento della revl’sl’one finale attestata dal Codice Cavalcanti (ora perduto) e su cui lo Spiriti eseguì la sua edizione del 1757.

Una traccia più cospicua di procedure rielaborative è conservata da Ter ai vv. 5-6 del son. 28, laddove si legge:

Quelle fenno ombra dal sublime foro a l’Asia,
a l’Afro et a l’Europa prima,

contro:

Quelle fenno a l’Europa, a l’Asia,
al Moro ombra da i sacri sette colli in prima,

con la sostituzione della parola in rima al v. 5 e il distanziamento dei complemento oggetto ombra dal verbo fenno (solo V legge fanno, a giudizio del Bozzetti, «quasi certamente errore»). A ulteriore conferma della sua indipendenza, al v. 3 Ter legge o in poca e al v. 14 fia (tutti gli altri: o poca, sia).

Per converso in due luoghi significativi la lezione di TER coincide una volta con V (v. 11: «l’altra colonna» contro «l’alta colonna» a testo, da NR e NS) e un’altra con NR e NS (v. 13: «lauree fronde» contro «l’aurea fronde» a testo, da V). Nel secondo caso sembrerebbe da preferirsi il plurale auree, se le fronde devono essere riferite alle palme del v. 1.

Più complessa invece è la scelta tra alta e altra, lezioni che «potrebbero essere d’autore» entrambe, a giudizio del Bozzetti (p.94), che a testo sceglie alta, ritenendo che la lezione altra (finora attestata solo da V) «potrebbe essere autentica qualora si volesse riconoscere nel verso un’allusione alla poetessa Vittoria Colonna che sarebbe qui ricordata insieme alla nipote». L’editore è infatti convinto che tanto il son. 24 quanto il son. 28 facciano parte di «un gruppetto di rime verosimilmente composte per Vittoria Colonna jr.» (p.82), avanzando anche il sospetto (a proposito del son. 28) che «ci si trovi di fronte a una riutilizzazione per Vittoria [i.e. junior] di rime scritte primamente per la madre Giovanna d’Aragona, o meglio per il famoso Tempio in suo onore stampato nel 1554».10 Saremmo cosi agli estremilimiti cronologici consentiti dalla bloTrafia di Galeazzo, morto nel 1553. È teoricamente possibile immaginare che il Ruscelli lo avesse invitato ad essere della partita, dal momento che la prima uscita del Tempio in onore di Giovanna d’Aragona sembra fosse stata programmata per il 1552, come il Ruscelli stesso riferisce nell’avviso ai lettori premesso alla Lettura (...) sopra un sonetto dell’illustriss. signor marchese Della Terza alla divina signora Marchesa del Vasto (In Venetia per Giovan Griffio, l’anno MDLII).11 Più difficile è invece accettare l’idea che non solo Galeazzo avesse accolto, senza dar seguito, l’invito, ma anche avesse trovato il tempo, praticamente in articulo mortis, di rimodulare per la figlia quanto aveva concepito per la madre. Senza dire che, se questo sonetto fosse realmente cosi tardo, mal se ne giustificherebbe la presenza in V, ritenuto plausibilmente dal Bozzetti testimone di «una fase ancora iniziale di organizzazione di un “canzoniere”».12

Rimane che il vero problema è costituito ancora oggi dalla precisa identificazione della donna cui il poeta indirizza questi come i sonetti affini. Obiettive ragioni di cronologia hanno in qualche modo convinto gli esegeti che le passioni del “giovane” Galeazzo difficilmente si sarebbero appuntate sulla più matura Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, più attempata di almeno un trentennio e defunta nel 1547. E tuttavia neanche appare pacifico riferire questi versi alla più giovane Vittoria, la cui biografia non sembra conservare tracce di rilevanti legami con la città di Roma, che nel son. 28 viene presentata come adeguato sfondo della grandezza della donna, il cui valore è paragonabile solo con i fasti della storia dell’Urbe. Al contrario, proprio a Roma aveva scelto di vivere quasi stabilmente la Marchesa di Pescara almeno dal 1535, acquistandovi una posizione di anno in anno più rilevante, come provano i lunghi e intensi rapporti, tra gli altri, con Pietro Bembo e Michelangelo Buonarroti. Nemmeno, sia concessa una breve digressione, il son. 43 (È questo il vago e lucido Oriente) consente, senza forzature esegetiche, che lo si ritenga «scritto in occasione del matrimonio di Vittoria Colonna jr. con Garcia di Toledo»13 qui la donna di cui si piange l’assenza è rievocata come «fatal vivo mio sole» (v. 3), con un richiamo troppo stringente delle Rime di Vittoria Colonna seniore per essere casuale.14 Invero il Bozzetti non si nasconde le difficoltà esegetiche che si oppongono alla pacifica individuazione di Vittoria jr. nella donna di cui si lamenta l’assenza, e perciò non esclude che si possa alludere persino alla morte della moglie di Galeazzo, salvo arrendersi all’impossibilità di «identificare il monte, palazzo o eremo, cui il sonetto si rivolge».15

La topografia delle dimore dei nobili napoletani nel ’500 potrebbe tuttavia offrire qualche appiglio non trascurabile. È indubbio che il luogo cui si rivolge il poeta sia il colle di Sant’Elmo (o Sant’Ermo nella grafia più antica), come si desume da una lettura non prevenuta dei vv. 7-8 del son. 43:

Fur qui tante bellezze al mondo sole,
Onde poggiavi al ciel, Ermo dolente?

Opportunamente gli editori di Galeazzo pongono l’iniziale maiuscola, segno che a loro giudizio si tratta di un preciso toponimo. Ha ragione il Bozzetti nel rifiutare la tesi, affacciata dallo Spiriti e accolta dal Bartelli e dal Ponchiroli, che il luogo desolato per l’assenza della donna possa essere la villa di Leucopetra (o Pietrabianca) dei fratelli Martirano, che, in verità, essendo collocata dalle parti di Portici era dominata dal Vesuvio, come conferma l’ezzologia mitologica ricostruita da Bernardino Martirano nel Pianto d’Aretusa.16 E però sulle pendici del colle di Sant’Elmo era situata la villa denominata Pietralba, utilizzata frequentemente da Francesco Ferrante d’Avalos e da Vittoria Colonna, negli anni seguiti al matrimonio del 1509.17 È facile immaginare come il luogo, ora desolatamente ermo per l’assenza di lei, fosse stato un tempo allietato dalla presenza di dame e cavalieri, ospiti nella villa del Marchese di Pescara. Se ne deduce che l’esegesi di non pochi componimenti di Galeazzo, pur in contrasto con le ragioni della cronologia comunemente accettata, si rivela più pacifica e soprattutto più piana se tra le due Colonna si opta per la più anziana. In difetto di spazio e di argomentazioni per riaprire la troppo vexata quaestio di un canzoniere in origine a quattro mani, che ora attribuisce esclusivamente al nipote anche rime che potrebbero essere state scritte dal nonno, si potrebbe ritenere non del tutto disdicevole che ilpiù giovane Galeazzo, alpari deipetrarchisti di un decenniopiù giovani di lui (Berardino Rota, Ferrante Carafa, Angelo Di Costanzo, Luigi Tansillo) abbia coltivato il “mito” di Vittoria Colonna seniore, indirizzandole versi di encomio adorante (è il caso dei sonetti 24 e 28 letti anche da Ter) o levando nostalgico lamento per il definitivo allontanamento di lei da Napoli: il son. 43 richiama all’evidenza il 24 per la ripresa delle parole in rima Oriente e ardente (vv. 1 e 4).

Se si accetta tale ipotesi, sarebbe indubbio che la donna esaltata nei sonetti trasmessi da Ter sia Vittoria Colonna seniore: l’incipit del son. 24 (Chiaro e di vero honor Marmo lucente) è trasparente allusione onomastica, mentre molto più esplicito è il riferimento nel v. 11 del son. 28, con la parola in rima colonna, senza trascurare che anche le palme del v. 1 sono simbolo di “vittoria”.

Sulla scelta tra le due lezioni concorrenti («altra» e «alta»), entrambe meritevoli di considerazione, influisce anche l’interpretazione che ne risulta. Il Bozzetti sembra disposto ad ammettere altra solo a condizione di cogliere nel testo, dedicato alla nipote, un’allusione alla zia, richiamando l’incipit del sonetto di Berardino Rota Tu seconda Vittoria, alta Colonna. Riferendo il sonetto alla Marchesa di Pescara, la lezione altra offrirebbe un solido aggancio extratestuale con il petrarchesco Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro (Rvf. 269), scritto per la morte del cardinale Giovanni Colonna, cui Galeazzo alluderebbe nel sintagma altra colonna. Al v. 2 del medesimo sonetto del Petrarca («che facean ombra al mio stanco pensero») è più scopertamente debitore il v. 5 nella redazione di TER «Quelle fenno ombra dal sublime foro»), che appare superata nella restante tradizione manoscritta e a stampa.18

Ardua come sempre nelle vicende della trasmissione del testo di Galeazzo di Tarsia la ricostruzione a ritroso del percorso seguito dai due sonetti prima di approdare nelle Seste rime di Laura Terracina, contornate secondo il solito da un’abbondante folla di rimatori, molti dei quali continuano a rimanere per noi poco più che semplici nomi. La dedica all’edizione stampata da Raimondo Amato nel 1560, datata «Di Piaggia a XXV d’Agosto del MDLVIII»,19 riepiloga il cammino alquanto avventuroso dell’intera raccolta, uscita a Lucca dai torchi di Vincenzo Busdrago a insaputa dell’autrice:

avendo già posto in bello la mia opera (...), avendola, dico, ridotta a termine, che ne restava il mio debole giudizio sodisfatto, non teneva altrimente per allora pensiero di mandarla a luce: quando ecco un giorno i prieghi di messer Marc’Antonio Passero e del Signor Polidoro Terracina, tirati da un gran sforzo di messer Martin Pighinucci, mi posero in animo d’inviarla ad un certo messer Vincenzo Arnolfini di Lucca (...). Ed in questo, cadendo l’occasione che messer Antonio Terminio, mio amicissimo, dovea partirsi per Genova per alcuni suoi affari, mi parse assai convenevole con una commodità cosi sicura inviargliela.

La raccolta fu spedita a Lucca, ma l’Arnolfini, dopo averla «più di un anno e mezzo tenuta (...) senza purefarmene mai motto», la fece stampare con dedica a Isabella della Rovere, marchesana di Massa, che non mostrò alcun gradimento, con l’aggiunta di quattro sonetti e un’epistola di altro autore. Di qui la decisione di procedere a una seconda edizione, dedicata a Cola Antonio Caracciolo, «con l’altre cose che di nuovo ci ho aggiunto». Intanto si può procedere a una più precisa taratura cronologica: la dedica dell’edizione Busdrago è del 12 giugno 1558. Detraendo i diciotto mesi di attesa decorsi dopo l’invio a Lucca, se ne deduce che il Terminio sia entrato in possesso del manoscritto all’inizio del ’57, sicché la raccolta fu probabilmente allestita nel corso del 1556. In molti casi l’occasione dei componimenti rinvia agli anni 1552-5420 e quindi è probabile che la somministrazione dei due sonetti di Galeazzo vada considerata il primo tentativo, rimasto senza seguito per molti anni, di aprire uno spiraglio su un’officina poetica, fin lì gelosamente interdetta ai lettori.

Tra i nomi evocati dalla Terracina nella dedica della raccolta, Antonio Terminio e Marc’Antonio Passero, sembra più plausibile che al secondo potesse in quegli anni far capo questo piccolo rivolo tarsiano, sebbene riesca difficile spiegarsi come l’uno e l’altro, solerti raccoglitori di «rime di nobilissimi signori napoletani» per conto di Gabriel Giolito de’ Ferrari,21 abbiano abbandonato una pista che presumibilmente avrebbe potuto assicurare una fruizione più estesa e immediatamente postuma della rime di Galeazzo. Può anche darsi che i due sonetti viaggiassero alla spicciolata o anche fossero filtrati, data la tematica, dagli ambienti Colonna-d’Avalos; certo è che nessuno del poeti napoletani allora nel pieno dell’attività sembra essersi accorto della voce che veniva ad aggiungersi al coro dei cigni di Sebeto.22

Una lettera inedita di Galeazzo di Tarsia a Niccolò Franco è conservata nel ms. Vaticano Latino 5642 (c. 326r-v), che raccoglie la corrispondenza dello scrittore beneventano a partire dal 1540.23 Si osserverà che la missiva, importante in sé perché inviata dalle carceri della Vicaria il 23 luglio 1549, nel corso di una delle tante detenzioni cui fu sottopostoil violento barone di Belmonte, lascia un po’delusi per la totale assenza di riferimenti all’attività letteraria. È forse l’unico documento in cui Galeazzo parla direttamente di sé e tuttavia, pur rivolgendosi a un letterato del quale mostra di conoscere le opere, non apre alcuno spiraglio sulla sua vita privata, al di fuori delle sue vicende giudiziarie.

GALIAZZO DI TARSIA, A M. NICOLO FRANCO.

Signor mio, non è cosa già nuoua, se ben’hora si pone in carta, ch’io habbi sempre osservata la riuerenza del nome uostro, et come habbi oltra modo desiderato di darmigli a conoscere per amico et per seruo, il che per altro non è rimaso insino a quest’hora, che per poco ardire, che n’ho hauuto; si dè parso tutta via; che la grandezza de la vostra virtù mi portasse spauento, imaginandola non meno terribile ne i costumi, che ueramente sia nelli scritti. perché hauendo questa mia credenza annullata la relatione del s. Camillo Strambone, ho preso animo di faruel chiaro; oltre che in questa occasione, di trouarmi dico prigione con un vostro amico sì caro, farei gran torto a me stesso a non darci principio, anzi mi pareria di prouocar la fortuna a molto maggior trauaglio tra tanti mali. Et per Dio tanto più, quanto da q(ue)sta amicitia mi par pigliare felice augurio, pigliandolo dico, mentre con l’accostarmi ad un’animo Franco, non solo ne rinfranco | quanto potrei smarrire qui di coraggio, ma m’è presagio di libertà, che pure è[?] chiara insegna del v(ost)ro nome. nela quale, se mai Dio mi conduce, si come spero per sua pietà, et per mia innocenza, vedrà v. s. quanti saranno gli effetti nel confermarvi questa amicitia mentre a quella mi raccomando. Da la Vicaria a xxiii di luglio del xlviiij.

La lettera è seguita dall’intestazione «N. FRANCO AL S. GALEAZZO DI TARSIA», ma la restante parte di c. 326v è bianca: può darsi che il copista, che ha trascritto la lettera di Galeazzo, pensasse di inserire una lettera di risposta del Franco.

Quasi niente si sa di Camillo Strambone, compagno di carcere di Galeazzo e amico di Niccolò Franco. Nel Vat. Lat. 5642 la prima lettera diretta a lui è del 3 marzo 1549 da Popoli, in Abruzzo (cc. 300r-301r): il Franco si scusa per il ritardo nel rispondere dovuto a un incidente di caccia che gli ha impedito di usare la mano destra per un mese. Dal contesto appare che le lettere dello Strambone provengano da Napoli.24 Da altra lettera del Franco, di qualche giorno dopo (ma il numero del giorno non si legge), sempre da Popoli (c. 303r-v), si rileva che lo Strambone, che già si trovava in carcere, doveva essere un prete.25

Ad altra lettera allo Strambone, del 10 luglio 1549 da Peschio, che raggiunge il destinatari’o ancora in carcere (c. 325v-326r) segue la lettera di Galeazzo di Tarsia a Niccolò Franco che abbiamo trascritto. La corrispondenza tra il Franco e lo Strambone riprenderà dopo un biennio con una lettera del beneventano da Crotone il 12 ottobre 1551, alla quale lo Strambone, ormai libero, risponde da Taverna quattro giorni dopo (cc. 358ss.).

Ancora una volta un’apparizione fugace di Galeazzo di Tarsia, colto nell’atto di avviare una corrispondenza con un letterato. Ma è solo un lampo che, a conti fatti, non dirada più di tanto il buio che ancora (eforse per sempre) circonda la figura del barone di Belmonte.

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1 Galeazzo Di Tarsia, Rime, edizione critica a cura di C. Bozzetti, Milano, 1980.

2 Galeazzo di Tarsia. Poesia e violenza nella Calabria del Cinquecento, Napoli, 1991, che è una riedizione aggiornata del precedente saggio «Il poeta Galeazzo di Tarsia signorefeudale di Belmonte», Archivio storico per le province napoletane, III s., vol. II, 1962, pp.7-107.

3 Galeazzo Di Tarsia, Rime, edizione critica a cura di D. Ponchiroli, prefazione di G. Contini, Parigi, 1951.

4 C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, «Giornale storico della letteratura italiana», 140 (1963), pp.161-211, p.195.

5 Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, 1991, p.190.

6 Esemplare utilizzato: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Palat. 2.5.3.35. Ringrazio l’amico Stefano Bianchi che ha effettuato per me un ultimo controllo del testo.

7 Esemplare alla British Library: per la descrizione cfr. P Manzi, La tipografia napoletana nel 500. Annali di Giovanni Paolo Suganappo, Paimondo Amato, Giovanni de Boy, Giovanni Maria Scotto e tipografi minori (1533-1570), Firenze, 1973, pp.97-98. Ringrazio l’amico J. R. Woodhouse per avermi procurato la riproduzione fotografica del frontespizio e delle carte con i due sonetti di Galeazzo di Tarsia.

8 Non si tiene conto della varianti meramente grafiche.

9 V = Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginense Latino 1603; NR = Rime di Galeazzo Di Tarsia, Napoli, Roncagliolo, 1617; NS = Le rime di Galeazzo Di Tarsia, Napoli, Stamperia Simoniana, 1757.

10 Il riferimento è alla monumentale raccolta allestita da Girolamo Ruscelli con il titolo Tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona fabricato da tutti i più gentili spiriti et in tutte le lingue principali del mondo, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1555, la dedica al cardinale Madruzzo è datata 15 dicembre 1554.

11 «Con questo libro (...) dovea uscire anco il Tempio alla divina sig. Donna Giovanna d’Aragona»: progetto poi procrastinato, perché, su suggerimento di Ferrante Carafa, si era fatta strada l’idea (rimasta comunque senza seguito) di innalzare un’unico tempio in lode delle due sorelle Aragona, Giovanna e Maria.

12 Galeazzo Di Tarsia, Rime cit., p.XXIII.

13 Ibid., p.XXIII.

14 Si veda almeno il son. Vivo mio Sol, quanto de l’altro excede di Vittoria Colonna, in Rime, edizione a cura di A. Bullock, Roma-Bari, 1982, p.24.

15 Galeazzo Di Tarsia, Rime cit., p.145.

16 Cfr. Bernardino Martirano, Il pianto d’Aretusa, edizione a cura di T R. Toscano, Napoli, 1993.

17 Cfr. A. Giordano, La dimora di Vittoria Colonna a Napoli, Napoli, 1906, pp.16-17.

18 Il Bozzetti, nel suo commento al son. 28 (Galeazzo Di Tarsia, Rime cit., pp.90-91), omette ogni riferimento a Rvf. 269, richiamando a sostegno del v. 11 Rvf. 126, 6 («a lei di fare al bel fiancho colonna»), mentre per i vv. 9- 10 sostiene la palese imitazione dal Della Casa, Rime 34, 8 («né con tal forza uscir potrebbe altronde»), la cui editio princeps tuttavia, a meno di non dovere ipotizzare una folta diffusione manoscritta, è posteriore di cinque anni alla morte di Galeazzo.

19 Si cita dal ms. V.A. 64 della Biblioteca Nazionale di Napoli.

20 La raccolta si apre con una stanza in memoria di don Pedro di Toledo, appena defunto (1553); presenta un sonetto Nel Matrimonio dell’Illustrissimo Don Garcia di Toledo (1552) e un altro per la partenza del Principe di Bisignano da Napoli (dicembre 1554).

21 Il libraio M. A. Passero si fece promotore della conoscenza dei petrarchisti meridionali, somministrando la maggior parte dei testi raccolti nelle antologie giolitine, a partire dalle Rime di diversi illustri signori Napoletani e d’altri nobiliss. intelletti nuovamente raccolte et non più stampate. Terzo libro. Allo Ill. S. Ferrante Carrafa. Con privilegio, Venezia, Giolito, 1552. Si veda al riguardo la testimonianza di Girolamo Ruscelli in Il Decamerone di M. Giovan Boccaccio, nuovamente alla sua intera perfettione non meno nella scrittura che nelle parole ridotto per Girolamo Ruscelli (...), Venezia, Vincenzo Valgrisio, 1552, p.339. Il Passero fu parte attiva anche nel reperimento dei testi per le Rime di diversi signori napolitani e d’altri nuovamente raccolte e impresse. Libro settimo, a cura di Ludovico Dolce, Venezia, Giolito, 1556, nel cui contesto è predominante la presenza di Antonio Terminio. Quest’ultimo a sua volta curò presso il Giolito nel 1563 La seconda parte delle Stanze di diversi auttori, in cui sono sono allineati numerosi autori meridionali.

22 L’amico prof. Giorgio Fulco mi comunica l’individuazione di un nuovo testimone del sonetto 12 (Vide vil pastorel pietosa e lieve) conservato dal ms. XIII. B. 77 della Biblioteca Nazionale di Napoli. Si tratta di un miscellaneo composito del sec. XVII con carte di varia misura. Il foglietto su cui è trascritto il sonetto, che non presenta varianti rispetto al testo vulgato, misura mm. 142 x 100 e, oltre che dall’intestazione «Galeazzo Tarsia», è preceduto dalla didascalia in lontananza.

23 Per un’indagine d’insieme sulla raccolta e l’indice dei corrispondenti, cfr. F. R. De Angelis, Epistolario di Niccolò Tranco. Codice Vaticano Latino 5642, «FM-Annali dell’Istituto di Filologia Moderna dell’Università di Roma», 1 (1979), pp.81-113.

24 «Hor io non lascio di ringratiarvi delle galanterie Napolitane, anchor che per via ne sia stato già preso il sagio, per quanto posso comprendere per la lettra seconda, nel che non mi stendo, sperando parlarvi a bocca, già che il Conte par che disegni venir a Napoli con far la strada di Fondi. Fra questo mezzo, vi confermo la solita affettione (...)».

25 Sto con desiderio estremo sapere a che sieno i vostri travagli, et come impregionato dai ceppi d’amore habbiate anima di entrare in altra prigione. Per l’ultime vostre me ne date buona speranza, si che tuttavia io ne spero di rivedervi con noi, se pur è vero, come scrivete, che il privilegio pretesco potrà schermirvi dal secolare, onde mediante Monsignor Clero farete le fica a la sbirraria, o, per dire correttamente, a la barba di Messer Tribunale».