Revue Italique

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«Né cal di ciò chi m’arde». Riscritture da Orazio e Virgilio nell’ultimo Bembo

Guglielmo Gorni

Nell’edizione postuma delle Rime del Bembo si legge, per la prima volta a stampa, un sonetto di materia amorosa che si segnala per il lessico ricercato, specie in sede di rima, e per la complessa sintassi, retta da mano maestra. «Sono questi ― scrive Dionisotti ― probabilmente gli ultimi, certo, fra gli ultimi (cfr. CVII) versi d’amore del Bembo».1 È sonetto invernale, a quanto dichiara la «nevosa bruma»2 che, come in una “petrosa” dantesca, non basta a mitigare il fuoco interno che consuma il vecchio poeta innamorato. Solo il rigore della stagione potrebbe dargli sollievo, «Refirigerio al bollor, che mi disossa», perché dalla donna, insensibile a preghiere e lamenti, non può aspettarsi aiuto. I Giganti, nella loro temeraria scalata al cielo, non furono privi di pietà e amore tanto quanto lei. E il mare in tempesta «Non cura men le dolorose strida» dei naufraghi, di quanto la misteriosa e altera bellezza si dà pensiero dei «prieghi» del poeta:3concetto che i vv. 8-12 riprendono dalla chiusa della prima quartina, «Né cal di ciò chi m’arde e mi consuma», ampliandolo a quadro di genere, ossia marina tempestosa con naufragio.

Se ’l foco mio questa nevosa bruma
Non tempra, onde verrà che sperar possa
Refrigerio al bollor, che mi disossa,
Né cal di ciò chi darde e mi consuma?

L’antica forza, che qual leve piuma
Soprapose Ossa a Pelio, Olimpo ad Ossa,
Non fu d’amor e di pietà sì scossa;
E mar, quando più freme irato e spuma,

Non cura men le dolorose strida
De la misera turba, che si vede
Perir nel frale e già sdruscito legno,

Ched ella i prieghi miei: dura mercede.
Ma così va, chi per sua luce e guida
Prende bel ciglio e non cortese ingegno.
(Rime 58)

L’invenzione e la lingua del sonetto, dietro una scorza di petrarchismo ben temperato, sono tutte classiche, come in altri esemplari della silloge, specie i più tardi.4Ex uno disce omnes. Si vuol mostrare qui che Se ’l foco mio è quasi un’ode latina in forma di sonetto, e che alla sua lettura giova più l’uso avveduto del Lexicon del Forcellini che la consultazione, tanto più facile e corriva, delle Concordanze petrarchesche. Si può ben dire che il testo nasce per intero come riscrittura dai sommi maestri, Virgilio e Orazio. Già nel capoverso bruma (nel senso di “inverno”) è ricordo oraziano, dall’ode a Torquato Diffugere nives, «et mox bruma recurrit iners» (Carmina IV vii 11-12), o meglio da un’epistola a Mecenate, Quinque dies tibi pollicitus, «Quodsi bruma nives Albanis illinet agris» (Ep. I VII 10). Anche in Virgilio si legge «horrida cano / bruma gelu» (Geor. III 442-43) e «frigida sub terra tumidum quem bruma tegebat» (Aen. II 472), e d’altra parte nivosus è attestato in poesia almeno presso Ovidio e nelle Silvae di Stazio. Fonti oraziane e virgiliane5 abbondano in tutto il sonetto. Per «mar (...) irato» il riscontro più persuasivo è con l’epodo Beatus ille qui procul negotiis, «neque borret iratum mare» (Epod. II 6). E il mare freme e spuma come in molta poesia classica. Di solito freme per i venti, ma qui varrà piuttosto il ricordo di una similitudine virgiliana, «ceu saxa morantur / cum rapidos amnis, fit clauso gurgite murmur / vicinaeque fremunt ripae crepitantibus undis» (Aen. XI 297-99); e spuma al pari di «Haec inter tumidi late maris ibat imago /aurea, sedfluctu spumabant caerula cano» (Aen. VIII 671-72), tanto per restare al solo Virgilio.

Il verbo disossa è anche nel Petrarca (Rvf. 195, 10), certo. Ma «il bollor che mi disossa» riferito alla passione amorosa è proprio di conio virgiliano: basti citare «hi certe ― neque amor causa est ― vix ossibus haerent» (Egl. III 102), «ossibus implicet ignem» (Aen. I 660), «tum vero exarsit iuveni dolor ossibus ingens» (Aen. V 172), «ossibus implicat ignem» (Aen. VII 355), «ille repente / accepit solitam flammam, notusque medullas / intravit calor et labefacta per ossa cucurrit» (Aen. VIII 388-90), senza stare a produrre i luoghi in cui allude allo spirito vitale, «miserae calor ossa reliquit» (Aen. IX 475). Quanto a «dura mercede» può valere, per l’esclamativo sentenzioso, «primitiae iuvenis miserae bellique propinqui / dura rudimenta» (Aen. XI 156-57), mediatoforse dall’Ariosto, Orlando Furioso, XXI 32, 3-4 «se ben contra ogni debito mi avviene / ch’io ne riporti sì dura mercede». Nelle sue Prose,6 il Bembo scriveva: «Leggesi La Dio mercé La vostra mercé nelle prose, e Vostra mercé e Sua mercé nel verso», precisando che si trova eccezionalmente La sua mercé presso Gianni Alfani e La tua mercede in una ballata del Boccaccio. Peraltro lo stilema in sé parrebbe proprio una ripresa diretta dalla lirica provenzale: segnatamente dura merce figura, in posizione di rima, presso Uc de Saint-Circ, VI 457.34, vv. 7 e 47, nonché XII 457.15 nelle stesse sedi: tra i manoscritti provenzali posseduti dal Bembo,7 le due canzoni di Uc si leggono in DK.

L’«antica forza» è quella dei Giganti. Virgilio, a proposito però dei Titani, aveva usato l’espressione: «genus antiquum Terrae, Titania ubes» (Aen. VI 580), sennonché Titani e Giganti, intesi anche loro comefigli della Terra, sono spesso confusi. Quel che semmai pare strano è che, in un sonetto amoroso, trovi posto una gigantomachia (ma più oltre se ne vedrà un precedente bembesco). Per lo più il mito dei Giganti è addotto dagli elegiaci latini come tema alto per eccellenza nel contesto di una preliminare excusatio, facendo ammenda di non poterne trattare in verso, per modestia d’ispirazione, difetto d’arte o imperative ragioni amorose. Determinante qui, per il riconoscimento del modello, è l’ordine in cui i monti vengono posti l’uno sull’altro. La serie Ossa a Pelio, Olimpo ad Ossa è quella di Virgilio, «Ter sunt conati inponere Pelio Ossam / scilicet atque Ossae frondosum involvere Olympum; / terpater exstructos disiecit fulmine montes» (Geor. I 281-83), e dell’Aetna 48-49 «Construitur magnis ad proelia montibus agger: / Pelion Ossa gravat [o creat, o premit], summus premit Ossan Olympus», poemetto di grande importanza per la cultura del Bembo, autore di un dialogo latino che s’intitola De Aetna. Invece la successione inversa e più comune (il Pelio sull’Ossa, e l’Ossa sull’Olimpo) è accreditata da Omero (Od. XI 315-16); da Ovidio, «Adfectasse ferunt regnum caeleste Gigantas / altaque congestos struxisse ad sidera montes. / Tum pater omnipotens misso perfregit Olympum / fulmine et excussit subiectae Pelion Ossae» (Metam. I 152-55), nonché in tre luoghi dei Fasti (I 307-8, III 441-42) e degli Amores, «ingestaque Olympo / ardua devexum Pelion Ossa tulit» (II i 13-14); da Properzio, «Non ego Titanas canerem, non Ossan Olympo / impositam, ut caeli Pelion esset iter» (Carmina II i 19-20), per limitarci alle auctoritates più certe. L’Orazio lirico esclude l’Ossa, «fratresque tendentes opaco / Pelion imposuisse Olympo» (Carmina III iv 51-52), pur attendosi all’ordine omerico. La gigantomachia introduce dunque una nota solenne, che solleva la casistica amorosa a una dimensione eroica, e promuove il sonetto a componimento di ambizioni più alte. E si avverta infine che la “follia” dei Giganti era già stata paragonata alla dismisura di Perottino in amore negli Asolani II xv: gli uni e l’altro desiderosi a gran torto di conseguire un fine «a cui essi non erano bastanti».

Resta da chiosare la singolare espressione che si accampa al quarto verso, «Né cal di ciò chi m’arde». Il senso, a prima vista, è indubbio: tanto più che si può rinviare per analogia al Petrarca, «Quest’arder mio, di che vi cal sì poco» (Rvf. 203, 9). Il verbo calere, nel senso di “importare”, si era imposto all’attenzione del grammatico nelle Prose della volgar lingua:8

Presero oltre acciò medesimamente molte voci i fiorentini uomini da questi, e la loro lingua, ancora e rozza e povera, iscaltrirono e arricchirono dell’altrui. Con ciò sia cosa che Poggiare, Obliare, Rimembrare, Assembrare, Badare, Donneare, dagli antichi Toscani detta, e Riparare, quando vuol dire stare e albergare, e Gioire sono provenzali, e Calere altresì; dintorno alla qual voce essi aveano in usanza famigliarissima, volendo dire che alcuno non curasse di che che sia, dire che egli lo poneva in non calere, o veramente a non cale, o ancora a non calente: della qual cosa sono nelle loro rime moltissimi essempi, dalle quali presero non solamente altri scrittori della Toscana, e Dante, che e nelle prose e nel verso se ne ricordò, ma il Petrarca medesimo, quando e’ disse:

Per una donna ho messo
egualmente in non cale ogni pensiero
(Rvf. 360, 33-34)

Un passo che va integrato con quello che tratta delle forme attestate nel verbi detti difettivi:

E sono di quelli ancora, che poche voci hanno, sì come è Cale, che altre voci gran fatto non ha, se non Calse Caglia Calesse Calere e alcuna volta Caluto e radissime volte Calea e Calerà e antichissimamente Carrebbe, in vece di Calerebbe.9

Se di cale (“importa”) si sprecano gli esempi nella lirica illustre, qui però va segnalata la costruzione particolare del verbo, dove ― come notavano Anton Federigo Seghezzi e già il Basile10― si dà «Voi in iscambio di a voi usato dall’Autore anche nelle stanze». Nelle Rime del Bembo, in effetti, si legge «non mi cal molto» (81, 8), «Se già come ti calse, ora ti cale / di me» (142, 81-82), «E voi lo vi togliete, e non vi cale» (Stanze, v. 384): testi tutti giovanili, per data accertata o per ragionevole congettura (è il caso, a parer mio, di 81), e ad ogni buon conto inclusi già nella princeps del 1530. Ma si dànno esempi più tardi in cui cal(e) ha una reggenza meno comune, come in «e voi di ciò calpoco» (28, 4), entro un sonetto che figura nella raccolta solo a partire dalla seconda edizione del 1535:

Viva mia neve e caro e dolce foco,
Vedete com’io agghiaccio e com’io avampo,
Mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo
Del vostro segno, e voi di ciò cal poco,

oltre al verso riprodotto più sopra, «Né caldi ciò chi m’arde», tanto affine a questi. Dove si può documentare l’uso di questo costrutto? Anzitutto nel Petrarca, «et son già roco, / donna, mercé chiamando, et voi non ca le» (Rvf. 133, 3-4), espressione che i commentatori moderni si limitano a tradurre «e a voi non importa, e voi non ve ne curate».11 Per trovare un’attestazione di voi per a voi anteriore al Petrarca, si deve ricorrere al commento, ancor prezioso, di Carducci-Ferrari,12 che annota: «Sottint. il segno del terzo caso: Par. IV 122 “Che basti a render voi grazia per giuzia”». E questo è quel che preme raccogliere su calere e sull’omissione di a in costrutti verbali che richiedono il dativo.

Dunque in Se ’l foco mio, tra la quartina esordiale e la seconda similitudine, si dà ― a quanto pare ― una ripetizione che riafferma con più energia la noncuranza della donna, adombrata già ai vv. 5-7. Ma forse nel Bembo c’è calere e calere. C’è il calere di derivazione provenzale, in uso nella lingua dei lirici, e il calere che, alla luce dei molti latinismi che connotano il sonetto, è piuttosto una ripresa dotta e diretta del Calere latino, nel senso di “scaldarsi, esser fervido o fervente”. Il secondo significato (a quanto vedo) non è attestato dai dizionari,13 ma il contesto del sonetto bembesco, con buona pace degli antichi interpreti, mi pare che accrediti il senso che si avanza qui.14 Passi un costrutto come «e voi di ciò cal poco» (28, 4): in latino sarebbe, all’incirca, «vestra parvi interest». E invece l’omissione di a non già davanti a un pronome personale (che è voi in tutti i casi raccolti), bensì davanti a chi, che segue il verbo e per giunta ne è separato da di ciò interposto (in tutti gli altri casi precede: anche nel Petrarca, «et voi non cale») crea, a mio parere, una seria difficoltà a sottoscrivere all’opinione vulgata. E i lemmi contigui foco e bollor parlano semmai per un recupero di CALERE. Si dovrà dunque registrare, pur con le riserve del caso, un cal(e) che è calco volgare di «Lycida[s] ... quo calet iuventus / nunc omnis et mox virgines tepebunt» («Licida, per il quale ogni giovane ora s’accende e di cui presto le donzelle si scalderanno») di un’ode famosa di Orazio, Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni, il cui cominciamento invernale è ben congruo al nostro sonetto, e il cui finale, per il vecchio Bembo, doveva apparire conveniente al caso suo:

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam:
iam te premet nox fabulacque Manes

et domus exilis Plutonia; quo simul mearis,
nec regna vini sorticre talis
nec tenerum Lycidam mirabere, quo calet iuventus
nunc omnis et mox virgines tepebunt.
(Carmina I iv 13-20)

Calere in senso erotico non è solo in Orazio: è bene attestato anche negli elegiaci.15 Nel sonetto, il verbo introduce un paradosso: la donna che «m’arde e mi consuma» non «cal di ciò», non brucia cioè del fuoco che la sua bellezza non cessa di alimentare.16 Nella generale temperie classicheggiante, l’inattestato recupero di «calet» non stona affatto. Tanto più che aneche il Bembo ricorre a Calere nei distici della lettera fittizia Amica ad Gallum, vv. 9–10:17

Cum te nunquam alia caliturum, Galle, puella,
Sed fore dicebas tempus in omne meum?

Non è che una congettura, ma cal e gli altri elementi d’imitazione virgiliana e oraziana la dicono lunga sul tardo classicismo bembesco, più di tanti discorsi. E infine si ponga mente che il sonetto nasce come falso d’autore, opera di un Bembo che, dopo la seconda edizione delle Rime (1535) e la morte della Morosina (6 agosto 1535), e probabilmente anche dopo la nomina a cardinale (marzo 1539), s’ingegna a comporre una poesia amorosa che, per certi stilemi, si riallacci alla produzione precedente: come per il sintagma, già petrarchesco, «bel ciglio», che ricorre già in un precoce omaggio a Maria Savorgnan, Son questi quel begli occhi (Rime 20, 3). Una strategia di riscrittura e di camuffamento, coonestata dalla veste classica, che l’autore aveva teorizzato già a proposito del sonetto Viva mia neve:18

La cagion perché io non voglio che questi Sonetti escano dalle mani vostre, è non solo perciò che pure ora nati sono, e potrolli mutare; ma ancora per questo: che non hanno in sé materia di questi anni, e spezialmente i due più nuovi. E io penso di porli un dì tra i giovenili. E se ora fosser veduti, sarei per aventura beffato a grasso riso del popolo.

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1 Cfr. Prose e rime di Pietro Bembo, a cura di C. Dionisotti, Torino, 1966, pp.556-57. Il sonetto, commentato da chi scrive, è anche nel primo tomo dei Poeti del Cinquecento, in corso di stampa presso l’editore Ricciardi. L’attacco in forma di periodo ipotetico è già bene affermato nella princeps del 1530, con almeno undici casi; ma, a norma di statistica, è soprattutto uno stilema caratteristico dell’età più matura, come rivelano gli otto nuovi casi della stampa postuma (oltre a 58, 133, 135, 136, 140, 153, 157, 164).

2 Cfr. Petrarca, Rvf. 185, 8 «foco che m’arde a la più algente bruma». Altre cospicue riprese da Petrarca sono al v. 8 (cfr. «Non freme così ’l mar, quando s’adira» di Triumphus Pudicitie 112) e al v. 9 (cfr. «dolorosi stridi» di Petrarca, Rvf. 135, 83); nel finale (che è nel gusto di Petrarca, Rvf. 303, 13-14) il v. 13, più che da Purg. 24, 141 «quinci si va chi vuole andar per pace», dipende da ma «così va, chi sopra ‘l ver s’estima» (Petrarca, Rvf. 65, 8). «Fraile legno» è in Petrarca, Rvf. 80, 28, mentre per sdruscito (verbo anche dantesco, cfr. Inf. 22, 57) riferito a nave i dizionari dànno esempi nel Boccaccio; invece bollor è voce dantesca, da Inf. 14, 134. L’avveduto eclettismo del Bembo maturo testimonia una disinvolta perizia d’arte e il relativo affrancamento dall’esclusivo modello petrarchesco.

3 Si accosti al finale dell’elegia Ad Lucretiam Borgiam, vv. 45-48: «Atque ego, qui miscros olim securus amantes / Ridebam, et saevi regna superba Dei, / Spectabamque mari laceras de litore puppes, / Nunc agor in caecas naufragus ipse vias», in Opere del cardinale Pietro Bembo ora per la prima volta tutte in un corpo unite, tomo IV, Venezia, Hertzhauser, 1729, p.346. La tempesta marina più memorabile della latinità è nel primo dell’Eneide: ma per «frale e già sdruscito legno» può forse valere il ricordo di Orazio, Sat. I i 5 «iam fractus» (in un contesto dove, al v. 6, c’è «navem iactantibus austris») e Ars p.20-21 «quid hoc, si fraetis enatat exspes / navibus».

4 Ma una parafrasi dell’ode oraziana a Ligurino (Carm. IV x) è già nella princeps dei 1530, O superba e crudele, o di bellezza (Rime LXXXVII).

5 Un regesto copioso di auctoritates latine nel Bembo lirico fu compilato dal Quattromani (1541 ­1605), e ora si legge, almeno in parte, nel mio contributo, Un commento inedito alle Rime del Bembo da attribuire a Sertorio Quattromani, in 17 commento al testo lirico, a cura di B. Bentivogli e C. Gorni, Atti del Convegno di Pavia, 25-26 ottobre 1990, Ferrara, Istituto di studi rinascimentali, Schifanoia 15-16, 1995, Modena, 1996, pp.121-32.

6 Cfr. Prose e rime cit., p.290 [III LXVII].

7 Cfr. G. Bertoni, «Le postille del Bembo sul codice provenzale K», in Studj Romanzi 1 (1903), pp.9-31, e Id., «Ancora le postille del Bembo sul manoscritto provenzale K», in Giornale Storico della Letteratura Italiana 61 (1913), pp.174-76, S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, 1911, ma si cita dalla ristampa a cura di C. Segre, 1995, p.213. Si veda anche il punto in C. Pulsoni, «Luigi da Porto e Pietro Bembo: dal canzoniere provenzale E all’antologia trobadorica bembiana», in Cultura Neolatina 52 (1992), pp.332-51, in particolare p.336 n.43, nonché C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, vol. 1, Dalle Origini al Tasso, Torino, 1993, p.22. Il riferimento da Uc de Saint-Circ è desunto dalla tesi di dottorato di Fabio Zinelli, Le canzoni di Uc de Saint-Circ. Saggio di edizione, Università degli Studi di Perugia, Anno Accademico 1996-97, relatore prof. M. Perugi: sono i testi nn. VI e VII, pp.294-305 e 306-15.

8 Cfr. Prose e rime cit., pp.94-9 5 [1 X]

9 Cfr. Prose e rime cit., p.265 [III LI].

10 Cfr. Opere cit., tomo II, p.197: l’altro luogo prodotto è, in dipendenza da altro verbo, «e voi pur piace»» (Stanze, v. 327). E Giovan Battista Basile, Osservazioni, ibid., p.149: «Voi (in luogo d’a voi nel terzo caso) "e voi di ciò cal poco" [Rime 58, 4]».

11 Cfr. Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, 1996, p.647. A illustrazione del caso si cita 21, 3 «v’aggio proferto il cor; mâ voi non piace», per sé non pertinente (sennonché Santagata, p.85, in alternativa a "ma a", pensa a «una costruzione latineggiante», con voi come caso diretto).

12 Cfr. Francesco Petrarca, Le Rime, a cura di G. Carducci e S. Ferrari. Nuova Presentazione di G. Contini, Firenze, 1965, p.211. La chiosa si deve a Severino Ferrari.

13 Nel Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia, s.v., Torino, 11, 1962, pp.541-42 si citano vari esempi, anche dal Bembo, ma non il significato che s’illustra qui.

14 A questa stregua, il v. 7 «Non fu d’amor e di pietà sì scossa», è proprio un verso cerniera: la donna è scossa da pietà come il mare in burrasca (vv. 8-12) e insieme refrattaria ad amore (v. 4).

15 Mi limito a citare Ovidio, Am. III vi 83 «te quoque credibile est aliqua caluisse puella» e Ars am. III 571 «ista decent pueros aetate et amore calentes».

16 Torna opportuna qui la parafrasi almeno della prima quartina: «Se questo inverno nevoso non attenua col suo freddo il mio fuoco interno, né d’altra parte colei che mi arde e mi consuma si scalda di ciò (di questo fatto, o di questo stesso fuoco), da dove potrà mai venirmi refrigerio al caldo che mi sfa?». Come si vede, il senso di “scaldarsi” (ad esempio, «non mi scaldo più che tanto di ciò») è contiguo a quello di "darsi cura". Ma quel che preme recuperare è, alla lettera, il senso primo, connesso a Calere.

17 Cfr. Opere cit., tomo IV, p.346.

18 Cfr. Opere cit., tomo III, p.155. E il finale di una lettera a Vettor Soranzo del 19 luglio 1530, che si legge ora in Pietro Bembo, Lettere, edizione critica a cura di E. Travi, III (1529-1536), Bologna, 1992, p.164 (n°1125).