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Missive in versi: i Capitoli del Porrino a Vespasiano Gonzaga
L’Intendente di lettere associa inevitabilmente il metro della terza rima con la forma del poema allegorico, la Commedia dantesca, i Trionfi del Petrarca; lo specialista ne conosce invece un più ampio spettro di possibilità e una varia tradizione che va dalla fortuna quattrocentesca culminata nell’opera di Niccolò Lelio Cosmico,1 alla fioritura cinquecentesca della satira in Ariosto e Alamanni e del capitolo bernesco, e poi al capolavoro delle Epistole d’Ovidio di Remigio Nannini che inaugurò l’uso della terzina per le Eroidi volgari.2 Nei secoli del classicismo volgare la terza rima fu soprattutto il metro della trasposizione in lingua italiana dei versi latini e in particolare il diretto corrispettivo del distico elegiaco, che ebbe la più compiuta realizzazione nelle sei elegie composte da Bernardo Tasso e raccolte nel Libro secondo delle sue Rime,3 ma anche svariate altre interpretazioni che declinarono in un’ampia gamma di esiti le diverse possibilità dello stile ‘mediocre’.4 Il tono epistolare accomuna tutti, siano pure lontani come genere, i detti impieghi del metro della terza rima; così il capitolo amoroso come la satira, così il capitolo bernesco come l’elegia o l’eroide volgare. Si può dunque affermare che, insieme alla sonetteria di corrispondenza, la composizione in terza rima rappresenta nella tradizione italiana la forma principe dell’epistolografia lirica.
Tra gli innumerevoli episodi che potrebbero fornire il destro per testimoniare l’uso epistolografico della terza rima i capitoli indirizzati da Gandolfo Porrino a Vespasiano Gonzaga presentano la doppia occasione di trattare un argomento presso che sconosciuto5 e di consentire di illustrare un caso forse unico, certamente singolare, di applicazione particolare dell’epistolografia lirica. Il tipo di ‘lettera’ che il Porrino invia a Vespasiano Gonzaga, infatti, se a tutta prima parrebbe ascrivibile al genere del capitolo bernesco, a una considerazione ulteriore si apparenta piuttosto, e sia pure in tono scherzoso, al tipo della lettera di istituzione, una sorta di Lettere a Lucilio in versi. Del rapporto di familiarità tra i due personaggi, oltre agli stessi capitoli, è testimonianza una lettera dal Porrino inviata al Gonzaga e pubblicata dal Tiraboschi nella Biblioteca Modenese6 al luogo della voce biografica di un autore sul quale da allora non molto di più è stato scritto:7 tale lettera, posteriore di qualche anno alla stesura dei capitoli, accompagna l’invio del componimento redatto in occasione dell’infermità agli occhi che colpì Livia Colonna, spedito a Vespasiano per obbedire alla richiesta «che quando io componeva alcuna cosa, io gli la mandasse». Non abbiamo tuttavia altre notizie sicure sui rapporti tra il giovane figlio di Luigi Gonzaga, celebre ai suoi tempi con lo pseudonimo di Rodomonte, e il segretario della zia di lui, la bellissima Giulia duchessa di Fondi; è certo però che negli anni dell’infanzia di Vespasiano, nato a Fondi nel dicembre del 1532, il Porrino era presenza costante alla corte ducale; ed è probabile che anche a Napoli, ove Vespasiano seguì la zia dopo che la madre Isabella era convolata a seconde nozze, il Porrino avesse tra le sue incombenze quella di seguire l’educazione e la crescita del giovane rampollo Gonzaga. Quanto questa gli stesse a cuore è testimoniato peraltro da una nobilissima lettera inviata alla duchessa Giulia nel tempo del noto dissidio con la cognata Isabella che aveva proprio nella tutela di Vespasiano uno dei principali oggetti del contendere. Per cercare di convincerla a una rappacificazione scrive Porrino:
Non vedete voi che questa vita che voi tenete vi ha fatto scordare la vostra benigna natura e vi tiene di continuo in preda a persone umilissime e venali? [...] E se fate professione amendue d’essere tenere madri del S. Vespasiano, come io sono certo che voi siete col cuore, perché non si pone ad effetto questo buon animo vostro a beneficio suo poi che tanto l’amate?8
Anche dopo l’abbandono del servizio presso Giulia Gonzaga e il passaggio alla corte del cardinal Alessandro Farnese il Porrino mantenne i legami con il giovane Vespasiano e i capitoli a lui inviati ne sono testimonianza: il terzo è certamente databile alla primavera del 1545 mentre si preparava il viaggio verso la Spagna dell’adolescente, i primi due dovrebbero risalire a una data di poco precedente. Benedetto Croce, il solo che nei secoli recenti vi abbia prestato qualche attenzione, nei capitoli andò alla ricerca soprattutto di spunti di cronaca, di qualche «notiziola storica» non ancora «nota agli eruditi», e poi di una verifica degli atteggiamenti ‘sentimentali’ del Porrino, restando colpito da due cose soprattutto: la perpetua «nostalgia» per «i begli anni di Fondi» e, nonostante la sua presenza accanto alla Gonzaga nella Napoli valdesiana, il fatto che egli rimanesse «non che indifferente, risolutamente avverso alle novità religiose», fino a prodursi in un’invettiva, ricca di «contumelie e calunnie contro l’uomo che aveva dato il primo impulso alla conversione religiosa della Gonzaga», ovvero Bernardino Ochino. La lettura crociana dei capitoli del Porrino, che fu certamente cursoria considerate talune inesattezze nel riferirne, dimostra ancora una volta la sagacia di Croce nel cogliere spunti essenziali puntando dritto al ‘sodo’ dei suoi interessi di storiografo. Una disamina più ponderata, o comunque orientata al tema proposto, l’epistolografia lirica, dovrebbe anche cogliere il tono precettistico, ma di un sermocinare affabile che desta subito simpatia: l’etica del Porrino è tutta improntata agli ammaestramenti del suo conterraneo padre Siceo, a quel breve momento felice che alla corte di Ippolito de’ Medici sembrò poter far risorgere la Roma rinascimentale degli anni di Leone X e che nel Molza appunto trovò la guida indiscussa per eleganza dello stile scrittorio, efficacia dell’eloquio e superiore altezza del sentimento.
Prima di addentrarci nel dettaglio dei capitoli porriniani è però il caso di fornire qualche ragguaglio sulla pubblicazione in cui sono stati editi, le Rime di Gandolfo Porrino, stampate a Venezia da Michele Tramezzino nel 1551 e dedicate al cardinale Alessandro Farnese. Si tratta di una raccolta di poesie che esula dal modello canonico del canzoniere petrarchista sia per la ridotta presenza di sonetti e canzoni a fronte di una ben più cospicua incidenza di componimenti di maggiore estensione (oltre ai capitoli di cui stiamo trattando, soprattutto stanze in ottava rima), sia per la struttura dell’opera che pare riprodurre in successione le occasioni legate ai vari periodi di servizio dell’autore. Si inizia infatti con l’opera sua più famosa, le Stanze per il ritratto di Giulia Gonzaga (cc. 1-9r) eseguito da Sebastiano del Piombo, composte su commissione del cardinale Ippolito de’ Medici e in competizione con l’amico Molza cui era stato assegnato il medesimo incarico. Seguono poi alcuni componimenti ancora dedicati alla Gonzaga (cc. 9r-11r) e poi le Pompe funerali (cc. 11v-30r), stanze in morte del fratello di lei e padre di Vespasiano, con una breve giunta di altri sonetti nuovamente legati alla figura di Luigi Gonzaga (cc. 30v-33r). Poi un altro componimento in ottave, le Stanze di lontananza (cc. 33v-35r) e una più ampia sezione di rime (cc. 35v-51r) per lo più legate alla figura di Ippolito de’ Medici o a personaggi gravitanti intorno alla sua corte; si passa poi agli anni trascorsi al servizio di Alessandro Farnese con le Stanze dedicate alla sua amante Livia Colonna (cc. 51v-69r) e una successiva serie di rime (cc. 69v-79r); einfine (finalmente, verrebbe da dire) i componimenti di ispirazione più personale, non commissionati, le Stanze in laude della bella Susanna romana, la donna della sua vita (cc. 79v-88r), e appunto i capitoli per Vespasiano Gonzaga (cc. 88v-100r).
Porrino è a Roma, al servizio del cardinal Farnese presso la corte papale, Vespasiano a Napoli, ma la notizia dei progressi della sua educazione, della sua «mirabil riuscita», giunge fino alle mura vaticane così che a quello che, evidentemente, è noto essere il suo vecchio precettore si chiedono ragguagli sul suo pupillo:
Ogni dì mi convien render ragione
De’ fatti vostri, et io sempre rispondo
Che voi sète come or di paragone,
Che pieno avete di speranza il mondo,
Ch’ad ogni alta virtù per voi s’aspira,
E a voi primo è lontan chi v’è secondo.
(I, 7-12)
Quel di cui più si compiace Gandolfo è «che per tutto s’ode / Che de’ poeti sète partigiano», nonché della fama del buon carattere che l’adolescente va mostrando, e qui si coglie lo spunto per introdurre il tono precettistico, ma privilegiando una ‘virtù’ che non era certamente la più canonica nella istituzione di un principe, ovvero la bonomia, la disposizione alla mansuetudine: «Certo al mondo non è maggior pazzia / Che star sempre in cagnesco e pien di sdegno,/Eognora in capo aver la bizzaria» (I, 22-24); e si raccomanda di non dubitare «ch’umiltà v’abbassi», anzi, esplicitamente si insiste: «Vorrei ch’oltra gli studi, oltra gli spassi, / Di giovar a ciascun faceste ogn’opra». E tale atteggiamento, la bonaria disponibilità verso il prossimo, diventa non soltanto principio di ammaestramento per Vespasiano, ma propria bussola per orientarsi nelle scelte della vita: «Assai più bella è una donna amorosa, / Allegra, un poco pazzarella ancora, / Che una severa, strana, e dispettosa» (I, 37-39); quand’anche fosse bella come «Venere o Flora», una donna «che borbottasse sempre in casa e fuore» Gandolfo non la vorrebbe nemmeno «un’ora». E qui, nella piena consuetudine del genere del capitolo, parte la novelletta esemplificativa, del perché l’Humore9 «fe’ divorzio», ovvero appunto «perch’aveva una moglie spiritata», sempre adirata, sempre in guerra con tutti, tanto che un giorno dando alla fantesca «la caccia» finì per cadere nel pozzo: «Non si ruppe però gambe né braccia, / Né si poté affogar la cattivella, / Perché la tenne a galla la guarnaccia» (I, 49-51). Il racconto è stato udito dalla viva voce del protagonista, «a Fondi», e in quella occasione l’Humore «la signora Zia fe’ rider tanto», e il ricordo di tale circostanza riporta alla memoria del Porrino quei giorni felici, «la vera età de l’oro», un mondo al cui centro era la bellissima Giulia, una meraviglia di natura, come per ben sei terzine il poeta tenta di descrivere.10 Ma poi torna di botto all’argomento: «Nulla è ch’agguaglia l’esser buon compagno», che è precetto davvero curioso se lo si considera impartito a un futuro principe e richiama inevitabilmente alla memoria quanto i contemporanei riferivano, non senza scandalo, della corte del cardinal Ippolito de’ Medici, che era solito desinare alla stessa tavola con i propri servitori e trattare con essi piuttosto come pari e sodali che non come sottoposti.
Il capitolo si avvia poi alla conclusione verso una chiusa propriamente epistolografica: la richiesta di notizie sulle giornate partenopee del giovane interlocutore e l’auspicio «che Roman sarete un giorno, / E potrò in Santo Apostolo godervi, / Parlarvi ognora, e far con voi soggiorno» (I, 127-29). E qui prende l’avvio l’elencazione delle opportunità che il soggiorno romano offrirebbe al giovane: possibilità di aprire nuovi orizzonti di studio («Oltra Greco e Latino, anco in Ebreo / Alcun vi mostrerà leggi e scritture, / Scienzie et arti in Arabo e in Caldeo», I 139-41); la consultazione di «astrologhi e indovin» che a Roma «vanno a squadre» e tanti ce ne sono «Perché se ne diletta il Santo Padre»; e ancora l’occasione di spettacoli musicali, nonché l’agevole frequentazione di artisti e architetti, «d’oratori, e d’istorici, e poeti»; ma, quel che in realtà più doveva interessare al Gonzaga, l’agio di «imparar di guerra l’arte» giacché Roma è davvero «la città di Marte». E tuttavia tutte queste favorevoli occasioni non costituiscono ancora il vero pregio della vita romana, il motivo che rende la città unica, tanto che al confronto «tutto ’l mondo» può parere «nulla o zero»: ovvero la sfilata «un Venerdì di Marzo a Santo Piero» delle giovani fedeli: «Questa di Leda vi sembra la figlia, / Quella la moglie par di Collatino, / L’altra l’Aurora candida e vermiglia» (I, 166-68). Proprio a questo punto, un punto che dà bene la misura della tepidezza religiosa del buon Porrino, la stoccata contro l’Ochino:
Se quella bestia di fra Bernardino
Non voleva esser Cardinal sì tosto,
Sarìa di tutte il babbo e ’l cagnolino;
Ben ch’io lo scuso, perché altro che mosto
In lui bolliva: e ’n fatto è cosa strana
A dar la fuga a un Senese d’Agosto.
Il pazzo se n’andò ne l’ora ispana
Sul lago di Genevra o di Gostanza,
E là si gode una moglie puttana.
(I, 169-78)
Il secondo capitolo pare presupporre un’interlocuzione al primo: delle meraviglie di Roma illustrate dal Porrino l’adolescente Vespasiano è forse rimasto soprattutto colpito dal riferimento al proliferare di astrologhi e indovini nella Roma di Paolo III Farnese e così il buon Gandolfo ne ha fatto consulto, con il responso di avere per certo «che di voi son le stelle innamorate». Del presunto pronostico si tornerà a parlare più oltre, ora lo spunto delle profezie serve al Porrino per mettere in scena una serie di quadretti su quanti «in banchi» millantano predizioni in materia politica o spacciano notizie inventate di sana pianta:
Chi ti legge una lettera intercetta,
Chi narra quel ch’è fatto in la dieta,
Chi dice adesso è giunta una staffetta;
E come fosse qualche gran profeta,
Va sziferando favole e chimere
Da spaventar ogni divin poeta.
(II, 31-36)
Ciò avviene a Roma ove partito filofrancese e partito imperiale hanno eguale libertà di parola, non così a Napoli, «che costà libertà non ha mai loco» in seguito alla presenza degli Spagnoli. Ed ecco l’aneddoto: un «pover frate di Savoia», secondo l’uso francese a «capo d’anno» nell’orazione di rito fece gli auguri «per lo Roy come i Francesi fanno», provocando quasi un linciaggio e il rischio di finire «in mano al boia». Ma non sono certo queste le colpe che andrebbero punite, commenta Porrino, quel che non si può tollerare sono coloro i quali «si sforzan parer quel che non sono», e di nuovo il riferimento è ai movimenti evangelici, a chi «vuol parer buono oltre misura», ma «sempre difforme a le parole è l’opra». Per il Porrino il vero nemico della virtù è la «ippocresia falsa»,11 celata dietro la «voce fioca», i «manti bisunti» di quanti seminano «scandalo, eresia, / E poi si chiaman padri spirituali»: comportamenti che in Inghilterra o in Germania potranno essere considerati «santità [...] e virtù rade / Ma in l’alma Roma è truffae barreria». L’avversione allo spiritualismo evangelico non è tuttavia motivata soltanto da una sorta di rivalsa nazionalistica, è soprattutto rifiuto del fanatismo: «Di quella setta alcun non è cristiano, / Ma nimico a la legge di Natura, / Né creda anco la Bibia o l’Alcorano» (II, 76-78). È una terzina ben significativa, anche al di là delle intenzioni; un vero segno dello spirito rinascimentale: il rispetto della «legge di Natura» vale più della fede nei libri sacri della religione rivelata. Letta così, isolata, la terzina quasi ci trasporterebbe avanti di secoli, in un’aura voltairiana, ma il seguito ci riporta all’ambiente frequentato dall’autore, all’amico Molza, al Caro e subito fa intendere quale «legge di Natura» è più cara al Porrino:
Ne la leggenda di Santa Nafissa
Trovo che quella donna pellegrina
Mai non fe’ con alcun contesa o rissa,
Ma per l’amor di Dio sera e mattina
Il suo buratto prestava a ciascuno
Da poter burattar la sua farina.
Le donne d’oggi più strane che ’l pruno
Non lo voglion fidar se non col pegno,
Sì fatto è ’l mondo di pietà digiuno.
(II, 112-20)
In ogni caso della vita tuttavia «una buona parola è un gran ristoro» e così anche la donna che «quel che domandi non vuol dare» va apprezzata se «non ti scaccia però colma di sdegno». A illustrare il motto un nuovo aneddoto che tanto piacque a Benedetto Croce: protagonista Isabella d’Este, «quell’antica Duchessa d’Urbino», che, corteggiata dall’Unico Aretino, così avrebbe risposto alle sue avances:
‘Sapete ch’a le donne poverelle
Comanda ogni marito o buono o rio,
E che del suo voler fa legge a quelle;
Ditene una parola al Duca mio,
S’egli se ne contenta, come io spero,
Adempito sarà vostro desio’.
(II, 145-50)
Nel seguito del capitolo il Porrino torna a celiare sui pronostici astrologici che predicono a Vespasiano «vita alta e preclara», accompagnando alle profezie le consuete raccomandazioni: un vero Principe si riconosce dalla composizione della sua corte, non «gente da tinello» ma virtuosi conosciuti «per nome e per prova»; al proprio servizio si devono avere uomini ben scelti, «dotto o forte, illustre o bello», e non «A la mensa buffon, puttane in letto». La chiusa abbandona il tono precettistico e descrive, con autoironia, la conclusione della giornata dell’autore, «ormai presso che stanco» avendo condotto a termine la sua letteraria fatica: una passeggiata «D’Antonin e Traian fra le colonne», e poi ancora a Piazza Navona, «lento lento / Come i soldati quando fan la mostra», sempre con la speranza di poter lustrare la vista col «fior de l’altre donne»:
E a cena tornerò tutto contento,
Ma ridendo di me so che direte:
Quante speranze se ne porta il vento,
E che sta mal il vagheggiar a un prete,12
Ma che poss’io se carità mi lega,
E m’ha l’amor del prossimo in la rete.
(II, 220-25)
Ed è proprio, senza più ironia, quanto i contemporanei pensavano di lui, come testimoniano alcune chiose anonime conservate in un esemplare delle sue Rime, ove della sua morte è detto che «dolse a me et a ogn’huomo virtuoso et a tutta Roma, perché era, oltre alla sua virtù, ben creato, piacevole, ofizioso et cortese con gli amici et con ciaschuno huomo da bene».13 Non pare invece veritiera l’affermazione che subito segue nel capitolo, «con la lussuria ho fatto tregua, / Mercé del tempo», dal momento che le stesse chiose appena citate e, a conferma, una lettera di Camillo Capilupi attribuiscono la causa del suo decesso al «troppo star con donne», alle «dolcezze veneree» che, pur «essendo alquanto attempato», non rinunciava a godere, «per amore della sua Susanna». Il terzo capitolo, più breve dei precedenti, è mosso da un fatto concreto, la notizia giunta al Porrino della decisione di programmare per Vespasiano un viaggio in Spagna, quasi una sorta di investitura per il giovane rampollo di una delle principali famiglie di fede imperiale in Italia. Nelle prime battute il Porrino, che sappiamo per più riscontri tutt’altro che incline alle simpatie per la parte imperiale, si premura di dichiarare la propria indisponibilità al viaggio: «s’io fossi anco tra l’aprile e ’l maggio, / Come presso a novembre omai son giunto, / Senza me non fareste quel viaggio» (III, 7-9). Affermazione sulla quale credo lecito nutrire qualche dubbio, mentre più consona è la rappresentazione di come sostituirà, alla partenza di lui, il mancato dialogo col suo pupillo: «O lungo il Tebro o sovra il Palatino / Favoleggiando andrò, per consolarme, / Di Saturno, d’Evandro, e di Quirino» (III, 13-15). Il capitolo è poi tutto speso nelle raccomandazioni per il viaggio, i consueti consigli di prudenza, perché «Di Spagna a torno va di strana gente», consigli che talvolta si fanno talmente criptici che lo stesso autore deve affrettarsi a precisare: «Non tenete i miei detti per sentenza / S’io non v’accordo la chiosa col testo, / Pur ch’io vi parli innanzi la partenza» (III, 70-72). In un solo caso la prudenza nei comportamenti è fuori luogo: «Se vi trovate nei regni d’Amore, / Allor date pur dentro, ogn’arme è buona / In quelle tresche a un generoso core» (III, 82-84). Anzi, l’auspicio è di vederlo «ornato» di vesti nuziali «innanzi il fin dell’anno, / E tosto propagar le vostre gesta». Il capitolo infine si chiude con una reminiscenza ariostesca a ribadire l’indisponibilità a fare da scorta nel viaggio: «E poi sul mappamondo e su Strabone, / O alberghi il Sole in Sagittario o in Tauro, / Vi seguirò senza oprar vela o sprone / Dal Borea a l’Austro, e dal mar Indo al Mauro» (III, 160-63).
In quest’ultimo capitolo gli ammaestramenti rivolti al giovane non sembrano gran che significativi, ma per lo più generici consigli su come affrontare il viaggio e il soggiorno in terra straniera; e laddove gli avvertimenti si fanno più personali probabilmente sottendono l’avversione del Porrino nei confronti del partito imperiale e specificamente degli Spagnoli, la stessa avversione condivisa con il vecchio amico Molza e con il vecchio patrono, il cardinale de’ Medici, ma un’avversione celata qui dietro allusioni talmente oscure da risultare incomprensibili senza la viva voce dell’autore che accordi «la chiosa col testo». Nei due precedenti invece i precetti impartiti al Gonzaga hanno a fondamento un atteggiamento che, ancora a metà del secolo, reagisce al fanatismo evangelico della Riforma, da lì a poco affiancato dal fanatismo controriformista, con una sorta di continuo richiamo all’oraziana mediocritas e alla necessità della mansuetudine come virtù da praticarsi anche da parte di chi nella società è destinato ad occupare luoghi elevati e a ricoprire posti di comando. Come spesso avviene, l’efficacia degli insegnamenti si rivelò assai scarsa: tanto insistette Porrino sul tributo che nell’esistenza si deve a Eros che quasi si potrebbe tradurre il suo ammaestramento nello slogan sessantottesco ‘fate l’amore, non fate la guerra’ ed invece Vespasiano fu uomo d’arme molto più a suo agio nelle occupazioni marziali che non in quelle amorose. Agli onori conquistati sul campo di battaglia in terra di Fiandra al servizio degli Spagnoli fanno da contraltare le disonorevoli prove dei suoi fallimentari matrimoni: di esito tragico il primo, con la bellissima nobile napoletana Diana Cardona, prima da lui a lungo trascurata e poi da lui stesso uccisa, avendone scoperta l’infedeltà; notoriamente infelici i due successivi. Di quanto il Porrino sperava da lui la vocazione al mecenatismo fu la sola promessa mantenuta: Sabbioneta si deve anche in parte all’amore per l’arte e per i poeti instillato in Vespasiano dall’autore di questi capitoli, che per sé auspicava che, venuto «a prova», il suo pupillo avrebbe riconosciuto la validità dei suoi consigli e di conseguenza avrebbe potuto ricordare, «Questo mi disse il mio Gandolfo vecchio».
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1 In proposito si veda A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, a cura di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1976 , pp. 303-313; ma soprattutto R. Sodano, «Dir presumpsi di te quel che non era ...». Le «Cancion» del Cosmico o la dialettica del desiderio nella servitù d’amore, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXXI (2004), pp. 54-85.
2 Sull’argomento D. Chiodo, L’idillio barocco e altre bagatelle, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000; in particolare le pp. 170-77; e ora L. Geri, L’epistola eroica in volgare: stratigrafie di un genere seicentesco. Da Giovan Battista Marino ad Antonio Bruni, in Miscellanea seicentesca, a cura di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2011 , pp. 79-156.
3 Cfr. Bernardo Tasso, Rime, I, a cura di D. Chiodo, Torino, Res, 1995, pp. 288-302.
4 Cfr. in proposito L’elegia nella tradizione poetica italiana, a cura di A. Comboni e Di Ricco, Trento, Università degli Studi di Trento, 2003.
5 Il solo ad accennarne, se non erro, è stato B. Croce, Gandolfo Porrino,in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1945,I , pp. 290-301.
6 Girolamo Tiraboschi, Biblioteca modenese, Modena, presso la Società Tipografica, 1781-86, 4 voll., IV, pp. 223-25.
7 Oltre allo scritto già citato del Croce si vedano R. Sodano, da Gandolfo Porrino Rime, in «Lo Stracciafoglio», 4 (2001), pp. 15-24 (www.edres.it) e D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle «Rime» di Gandolfo Porrino custodito nel Fondo Cian, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXX (2003), pp. 86-101.
8 La lettera si legge in un volume di Lettere di diversi del 1564 ed è stata riproposta in B. Amante, Giulia Gonzaga Contessa di Fondi e il movimento religioso femminile nel secolo XVI, Bologna, Zanichelli, 1896 , pp. 154-56.
9 Croce lo definisce «buffone molto noto in Italia», allegando a prova le citazioni che lo riguardano nelle Facetie del Domenichi; tuttavia la frase stessa del Porrino, «quei giorni l’Humor parve il Gonnella» pare smentire tale affermazione: essendo il Gonnella effettivamente un famoso buffone di corte, che senso avrebbe la frase se tale fosse anche l’Humore? Nell’opera del Domenichi peraltro non è affatto detto che «Humore da Bologna» fosse un buffone di corte, anzi lo si definisce «huomo di poche cerimonie». Croce avrà fantasticato avendo a mente il Rigoletto verdiano su questa frase del Domenichi: «usava d’essere molto libero e satirico nel suo favellare, tanto che bene spesso pungeva altrui sul vivo, et perciò n’acquistava l’odio delle persone»; ma altrove è descritto partecipare come «molto libero e domestico» in casa di Tullia d’Aragona a una conversazione tra «alcuni gentil’huomini virtuosi» avente per oggetto il Petrarca e il suo rapporto con la poesia dei «rimatori antichi Provenzali et Toscani». Pur senza sapere chi si possa celare dietro l’eloquente pseudonimo, sia per i suoi sentimenti antispagnoli ben documentati dalle Facetie del Domenichi, sia per la familiarità con la casa della Tullia e con la corte di Fondi possiamo senz’altro ritenere il suo profilo quello tipico di un gentiluomo gravitante intorno alla corte di Ippolito de’ Medici, magari in essa arruolato all’epoca del soggiorno bolognese del Cardinale, nel 1532.
10 Nelle quali, tra l’altro, cita anche il celebre ritratto di Sebastiano del Piombo come ancora visibile «in camera di Dio», ovvero negli appartamenti di Paolo III.
11 Per quanto nella Roma farnesiana «l’ipocrito» per antonomasia (Aretino docet) fosse il cardinal Carafa, non credo che in questo luogo il Porrino si riferisca ai Teatini, sia perché non risulta che fossero particolarmente in simpatia in Inghilterra e Germania, sia perché i «manti bisunti» erano piuttosto attribuiti agli ordini mendicanti, domenicani e francescani. Si aggiunga ancora che di questi ‘ipocriti’ si dice che «rinegan le mitre e i pastorali / perché non sono a i sommi onori assunti» e il Carafa invece all’epoca aveva già da tempo conseguito il porporato; bersaglio è sempre l’Ochino e chi con lui simpatizza.
12 Non si ha altrimenti notizia della condizione di ecclesiastico del Porrino; è probabile che essa fosse divenuta indispensabile al momento dell’assunzione al servizio del cardinal Alessandro Farnese.
13 Le chiose si leggono nell’articolo citato alla nota 7.