Revue Italique

Varia

OJ-italique-439

Gomitoli letterari nel Mondo nuovo di Tommaso Stigliani

Carla Aloè

Quando Tommaso Stigliani cominciò a scrivere il suo poema epico intorno alla scoperta e alla successiva cristianizzazione dell’America, non poteva certo immaginare che quell’opera gli avrebbe portato più avversari e sofferenze di quanto avrebbe mai potuto attendersi. Il proliferare di Stiglianeidi e Staffilate scritte contro il Mondo nuovo, i roghi di copie del poema in una delle più crudeli censure laiche del tempo, i ricatti e le pressioni agli editori per impedire la ristampa dell’opera sono solo alcuni degli eventi che impediscono al Mondo nuovo di essere conosciuto ed apprezzato. Dubbio il fatto che tutto questo risentimento derivasse soltanto da quelle famose «ottave del pesciuomo» (XIV, 34-35) dietro le quali si nascondeva un comico riferimento al Marino. Era l’uomo Stigliani il problema, lui che, attirando su di sé l’odio di molti, aveva finito per condannare la sua stessa opera.

L’obiettivo del saggio è quello di dare una panoramica di quest’opera poco apprezzata dai contemporanei di Stigliani, ma che ha attirato negli ultimi anni l’attenzione di diversi studiosi. Nella prima parte – che segue a una breve introduzione del Mondo nuovo – si proporrà un riassunto dettagliato del poema, la cui trama si presenta lunga e complessa. Nella seconda parte si rivolgerà invece lo sguardo alle fonti letterarie utilizzate dal poeta nella delineazione della sua opera. Mentre diversi studiosi come Monica García Aguilar, Marco Arnaudo e Mary Watt hanno analizzato precisi passi del poema e delle sue fonti con una predilizione per l’influenza della Commedia dantesca sul Mondo nuovo, questa sezione vuole essere invece una rassegna delle principali opere letterarie considerate da Stigliani. Una sorta di ‘cartone preparatorio’ per un’eventuale edizione commentata del poema in cui le fonti non saranno citate in ordine cronologico, ma in base all’importanza che ricoprono nella trama stiglianesca.

L’idea di scrivere un poema epico sulla scoperta dell’America comincia a fare capolino nella mente di Stigliani negli ultimi anni del Cinquecento. Da Milano, Pirro Visconti Borromeo scrive una lettera al duca Vincenzo I Gonzaga per tentare di trovare un posto allo Stigliani alla corte mantovana. Il tentativo è vano, ma la lettera dimostra come fin dal 1600 il poeta avesse chiaro il suo progetto:

Essendo venuto in Lombardia e particolarm[en]te in Milano per haver modo di introdursi ai servigi di qualche Principe al fine di fare sotto la sua ombra un poema ch’egli disegna.1

Un poema, il Mondo nuovo, che Stigliani pubblicherà per la prima volta a Piacenza nel 1617 per i torchi di Alessandro Bazachi, e che dedicherà al duca di Parma e Piacenza Ranuccio I Farnese, del quale era al tempo segretario. Si tratta solo dei primi venti canti del poema. Per leggere l’opera completa bisognerà attendere il 1628, quando l’editore Giacomo Mascardi darà alla luce a Roma un’edizione più ampia e completamente rinnovata: ben trentaquattro canti dedicati al re di Spagna Filippo IV.2

Sebbene le edizioni di Piacenza e Roma siano le uniche a noi pervenute, da una lettera scritta da Stigliani a Domenico Molini nel 1630 si evince anche l’esistenza di una sconosciuta edizione torinese. Stigliani, lamentandosi con l’amico del fatto che il Mondo nuovo non sia ancora stato commercializzato, scrive:

Non è stato, dico, veduto: perché dopo le due imperfette edizioni di Piacenza, la prima compita e intera, la quale fu questa di Roma, s’è spacciata quasi tutta in Roma sola, rimanendo, come si dice, ‘‘in vicinato’’; e la seconda, la qual fu quella di Torino, s’è veduta in Torin solo ed in poco altro contorno; oltre che quella di Vinezia non si condusse a fine.3

Non ci era noto che a Piacenza fossero state stampate due edizioni: deve probabilmente trattarsi di una ristampa, se è vero che all’inizio il Mondo nuovo sembra avere un discreto successo in quanto le copie vengono vendute «a uno scudo l’uno e con grandissima furia».4 L’edizione incompiuta di Venezia deve essere quella iniziata da Giovan Battista Ciotti ma interrotta per colpa di Marino, che pare avesse minacciato l’editore di ritirare le proprie opere perché non voleva fossero «impresse da que’ medesimi caratteri che deono arricchire il nostro secolo d’un poema sì singolare».5 Ma la notizia più interessante è rappresentata da questa presunta seconda edizione completa di Torino, di cui non avevamo traccia né ci è giunta copia alcuna. Nel Veratro Angelico Aprosio scrive: «Il Mondo Nuovo s’è stampato in Roma, a spese vostre la prima volta il 1628 ed in anni XVII s’è contentato della prima edizione».6 I diciassette anni trascorsi dall’uscita del poema vanno calcolati considerando che il Veratro, pubblicato nel 1647, fu iniziato due anni prima della stampa. Sembra quindi che neppure i contemporanei di Stigliani fossero al corrente di questa misteriosa ristampa.

Sappiamo per certo, tuttavia, che Stigliani aveva continuato a rivedere il suo poema anche dopo l’edizione del 1628, come dimostra una copia del Mondo nuovo fittamente postillata dall’autore, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma.7 Ci restano, inoltre, varie lettere in cui Stigliani avverte che la nuova edizione alla quale sta lavorando è emendata rispetto alle precedenti. Così, per esempio, nella missiva del 1649 a Giovanni Angelo Maccafani, in cui il poeta scrive: «Si son da me fatti finalmente tanti miglioramenti, che non n’è rimaso privo foglio alcuno né facciata né forse stanza».8 Con la peste che nel 1649 aveva ridotto Roma alla stregua di un ampio lazzaretto aveva perso la vita il Manelfi, l’editore con il quale Stigliani aveva preso accordi per la ristampa. Le trattative erano continuate con il figlio del tipografo, erede della stamperia paterna, ma senza successo. Un lavoro in fieri, dunque, che dimostra come anche l’edizione del 1628, così rinnovata rispetto alla precedente, non rispecchi affatto l’ultima volontà dell’autore.

Riferendosi all’edizione piacentina, Leone Allacci riporta inoltre nelle Apes urbanae (1633) che il Mondo nuovo era stato tradotto in spagnolo: «Tandemque ‘‘Hispanica lingua prodijt’’ editurus est».9 Il solito Aprosio si dimostra però scettico e, sempre nel Veratro, afferma di non voler credere a queste voci se non vedrà l’opera in questione con i suoi occhi. La notizia della traduzione spagnola è confermata da Giuseppe Gattini e da Giuseppe Arricale,10 ma si tratta probabilmente di un fraintendimento favorito dal fatto che le copie del Mondo nuovo inviate a Madrid hanno sulla copertina un titolo spagnolo («El Mundo Nuebo de Tomas Stilliano»), pur contenendo i volumi il testo in italiano.11

La trama

Colombo, dopo essere stato attaccato da corsari inglesi e francesi, sbarca sull’isola della Gomera e qui riceve la visita di un angelo che gli svela quale dovrà essere la sua missione: scoprire un nuovo mondo. L’angelo dona a Colombo una verga incantata, grazie alla quale il Capitano potrà annullare ogni magia e ottenere l’obbedienza dei suoi uomini. Vengono presentate le varie truppe presenti sulle navi cristiane e in particolare Stigliani dedica un lungo excursus alla storia di Roselmina e Dulipante, due giovani promessi sposi che per varie vicissitudini non riescono ad avviare subito la loro storia d’amore. Roselmina, pur di seguire l’amato, si finge uomo e, presentandosi come Lelio, viene assoldata tra le truppe cristiane (I).

Il malvagio mago Licofronte scende negli Inferi, scortato dal demone Astarotte, per un viaggio dalle chiare reminiscenze dantesche. Licofronte incontra l’anima della cognata Olgrada che, per un inganno del mago, aveva finito con l’uccidere l’amato marito Morasto. Dopo essersi imbattuti in Nembrotte, Maometto, nel monaco Sergio e negli indovini, il mago e il suo accompagnatore giungono al cospetto del Re degli Inferi, che nomina Licofronte capitano dell’impresa per impedire a Colombo la cristianizzazione dell’America (II). Il mago si mette all’opera e scatena contro Colombo e i suoi uomini le creature dell’Oceano. Molti cristiani vengono uccisi, Licofronte viene fatto prigioniero ma riesce a fuggire grazie all’aiuto dello scaltro Astarotte (III). Dopo la battaglia, Colombo, sospettando dell’infedeltà dei suoi uomini Roldano e Pinzon, manda il figlio Diego sulla nave di quest’ultimo per controllarlo. Diego viene imprigionato e i disertori scendono su un’isoletta che in realtà è il dorso di una balena ricoperto di sabbia e fango. Quando viene acceso il fuoco, la balena, girandosi per il calore, fa affogare tutti i malvagi cristiani, mentre la nave con a bordo Diego va alla deriva. L’infido Roldano aggredisce Colombo che ritiene essere causa di tutte le loro disgrazie (IV).

Il nocchiero Rodrigo scorge finalmente l’isola di Aitì e Stigliani regala al lettore un lunga illustrazione geografica del Nuovo Mondo. I cristiani avvistano le case ma non gli indigeni, che, per paura dei nuovi arrivati, si sono nascosti. Roldano, sfuggito ai suoi compagni su un palischermo, giunge sull’isola e, catturato dagli indigeni, viene portato in dono al loro re Guarnesse (V). Intanto Colombo, con il famoso inganno dell’eclissi lunare, riesce a convincere gli indigeni a procurare cibo alle sue truppe, ma il Cemì, divinità indigena, rivela in sogno a re Canarì l’imbroglio di cui il suo popolo è stato vittima. Canarì chiede a Guarnesse aiuto per la guerra contro gli invasori e Roldano, conquistata la fiducia del sovrano, lo convince ad accettare (VI).

Le truppe indigene si riuniscono a Pasantro, dove sorge la reggia di Guarnesse, e Colombo manda prima Archinto, travestito da indigeno, a spiare la situazione nel campo nemico; poi un manipolo di soldati, guidati da Silvarte, a bloccare i rifornimenti degli indiani. Archinto viene scoperto e imprigionato in una torre, ma riesce a fuggire costruendosi un paio d’ali e volando via verso l’accampamento cristiano. Durante il volo l’ingegnoso condottiero scorge quei corsari inglesi e francesi contro cui i cristiani avevano combattuto prima dell’arrivo alle Canarie e apprende che sono alla ricerca della famosa fonte della giovinezza, che si trova a Valserena, sull’isola di Borchenne (VII).

Roselmina-Lelio cade nelle mani del misterioso cavalier del Sogno, così chiamato per aver avuto la visione di una donna bellissima che cerca di ritrovare nel mondo reale. I due si imbattono nel cristiano Salazar e, dopo un primo scontro, il guerriero e il cavaliere trovano un accordo e giungono insieme a Biponte, dove Salazar battezza tutta la popolazione, compreso il signore del luogo Algazirre. Quando Salazar e il cavalier del Sogno giungono a Valserena, i servi della vergine guerriera Martidora raccontano loro come la padrona fosse affogata nella fonte della giovinezza, dopo aver combattuto contro un gigante guardiano. I due nuovi amici si dirigono alla fonte per vendicarsi, ma vengono a loro volta sconfitti dal gigante. Anche Lelio-Roselmina, pensando erroneamente che nella fonte fosse morto l’amato Dulipante, subisce la stessa sorte (VIII). Per porre rimedio a tutte queste perdite un angelo ordina in sogno a Colombo di recarsi a Valserena e il capitano, lasciato il resto dell’esercito a Diego, riesce a sconfiggere il gigante che altri non era che Licofronte. Il malvagio mago viene decapitato e Colombo libera tutti coloro che, caduti nella fonte, erano rimasti imprigionati in una sorta di giardino paradisiaco. Tra i prigionieri Colombo viene colpito da Artura, principessa giamaicana condannata da Licofronte a vivere in una tomba con anima viva e corpo deperito. Artura racconta di come suo padre fosse stato ucciso da Tarconte, pretendente di sua sorella Nicaona, e di come sua madre Misia avesse offerto la mano di Nicaona a colui che le avesse portato la testa di Tarconte. Artura si era innamorata di Califante, uno dei giovani pronti ad uccidere Tarconte, ed era giunta alla fonte sperando che anche il suo amato fosse passato prima o poi di lì. Colombo intercede per Artura e convince Califante, che era tra i prigionieri, a sposarla. Prima di uscire dal magico palazzo, i sopravvissuti si ritrovano in una sala piena di arazzi dove ammirano i ritratti dei loro discendenti, tutti personaggi illustri del tempo di Stigliani (IX). Ricongiuntisi al resto dell’esercito, Colombo chiede a Martidora e Polindo di recarsi nel campo nemico per cercare una pacificazione e Stigliani si sofferma a raccontare la storia dei due guerrieri. Martidora si era innamorata di Emilia quando pensava si trattasse di un uomo ed Emilia la ricambiava, credendo a sua volta che Martidora fosse un uomo. Quando avevano scoperto la verità, le due erano diventate amiche, ma Emilia era morta durante una tempesta e Martidora aveva fatto voto di castità. Polindo era innamorato di Radamista ma, a causa dei genitori di quest’ultima, i due erano stati costretti a dividersi e Radamista aveva abbandonato Soridano, il bambino avuto dall’amato. Una volta cresciuto, Soridano aveva ritrovato e fatto sposare i suoi genitorieitre si erano imbarcati insieme alla volta dell’America. Radamista, vedendo insieme Martidora e Polindo, si ingelosisce e, nello scontro con la vergine guerriera, viene uccisa. Anche Polindo muore nel tentativo di vendicare la moglie e Soridano invita Martidora a Borchenne per battersi con lui (X). A contrattare la pace con Roldano vengono infine inviati Paciléo e Dionigi, ma il guerriero non dà loro ascolto e propone una sfida tra lo stregone pagano Alferne e il sacerdote Dionigi. Quest’ultimo esorcizza le stregonerie di Alferne e Roldano, irritato, sfregia il volto di Paciléo e tenta di uccidere il sacerdote. Quando Colombo viene a conoscenza dell’accaduto, ordina alle sue truppe di prepararsi alla battaglia (XI) che viene vinta dai cristiani nonostante perdite importanti come quella di Oldibrando (XII ).

Tarconte si ammala di vaiolo e la malattia trasforma il suo volto, tanto da renderlo irriconoscibile. Il condottiero sfrutta la situazione e giunge, con il nome fittizio di Alaù, alla corte dell’amata Nicaona dove, per aver sconfitto l’impostore Martagone, conquista la fiducia della regina e diventa capitano della guardia reale. Nel frattempo Colombo dispone di dividere il campo in tre schiere: un gruppo tornerà con lui in Spagna per raccontare le scoperte e ingaggiare nuovi uomini; un secondo, guidato da Silvarte, esplorerà le altre terre fino al suo ritorno; un ultimo rimarrà nel forte, governato da Salazar. Roselmina-Lelio cade nelle mani dei cannibali che la portano con loro a Cuba e qui viene accolta da un gruppo di bifolchi con cui resta per alcuni mesi. Silvarte e il suo equipaggio arrivano fino in Patagonia (XIII) e durante il viaggio di ritorno salvano Dulipante, abbandonato dai suoi uomini dopo essere stato imprigionato da un gigante antropofago. Attraversando il fiume Paranà, i cristiani incontrano quel famoso pesciuomo che scatenerà l’ira dei marinisti. Dulipante, Silvarte, Brancaspe, il cavalier del Sogno e l’indio Cicimméco continuano via terra il viaggio e giungono a Tivichir, dove un’ostessa racconta loro che il Gran Duce Briuscai, dopo aver ucciso il legittimo sovrano, usa oltraggiare ogni ragazza che si trovi alla sua mercè. Silvarte si sostituisce a Clarinta, figlia dell’ostessa, uccide l’impostore e affida il regno al cavalier del Sogno, che ha riconosciuto in Clarinta la ragazza che gli era apparsa nella visione. I cristiani continuano il viaggio e giungono sull’isola di Fria, dove sorge una città completamente costruita sugli alberi governata da re Pacra. Qui ritrovano Martidora, fatta prigioniera dai cannibali, e accolgono sulla nave anche i principi indigeni Macusse e Licina, che raccontano come Alvidoro, re del Brasile e padre di Licina, volesse uccidere Macusse per bagnarsi del suo sangue reale e guarire da una malattia. I due innamorati, dopo essere fuggiti, si erano imbattuti negli stessi cannibali che avevano imprigionato Martidora. La città di Pacra, per i suoi costumi immorali e ripugnanti, viene completamente bruciata (XIV).

La guerra tra il Maragnon e il Brasile termina con il ritorno dei rispettivi principi Macusse e Licina, e i due regni vengono uniti dal loro matrimonio. Il re del Maragnon, Giaferre, consiglia a Silvarte di continuare la sua opera di evangelizzazione lungo le sponde del Rio delle Amazzoni, governato dal mitico El Dorado, e i cristiani, accettando il consiglio, giungono a Ripi, città governata dalle caribe. Silvarte e i suoi uomini vengono imbrogliati da queste amazzoni e per questo decidono di vendicarsi attaccando Pimpa, la capitale del regno (XV). Polinesta, regina delle caribe, propone a Silvarte di risolvere la questione con un duello tra loro: al vincitore andrà il dominio di Pimpa. Silvarte vince, ma i due finiscono con l’innamorarsi, e il guerriero, condotto nella città come finto prigioniero, sposa la regina. Intanto Colombo, in viaggio verso la Spagna, viene truffato da Rodrigo che, offeso per non aver ricevuto il compenso per essere stato il primo ad avvistare la nuova terra, fugge via con l’oro destinato ai sovrani ispanici (XVI). Durante l’inseguimento del ladro, Colombo incontra su un’isola gli spagnoli Sifante e Giselda e, dopo aver ascoltato le tante avventure vissute dai due, li accoglie sulla sua nave. I cristiani arrivano sull’isola di Santania e su quella dei pazzi di Brandana, per poi imbattersi nei pigmei intenti a combattere contro le gru con un’allusione alla saga della geranomachia. Solo dopo essere tornati alle Bermuda riescono ad imprigionare Rodrigoearecuperare il bottino (XVII).

Il tradimento di Polinesta viene scoperto: la regina e il marito Silvarte vengono uccisi e ciò scatena l’ira dell’esercito cristiano. Pimpa viene conquistata e la generosità di Dulipante nel risparmiare la vita alle caribe porta alla conversione di tutta la città. Martidora viene eletta nuova regina (XVIII), mentre il resto della ciurma, rimessasi in viaggio, si imbatte negli uomini di Dulipante che avevano abbandonato il principe nella terra dei giganti. Alonso racconta al comandante come, per mancanza di cibo e acqua, sia scoppiata una terribile pestilenza e, nonostante la visione della Vergine Maria avuta dalla piccola Agnese prima di morire, i cristiani siano arrivati a concepire l’idea del cannibalismo. I dispersi vengono tratti in salvo (XIX) e la spedizione raggiunge Cuba. Dulipante manda Clorimondo in avanscoperta e il guerriero, dopo essersi imbattuto in uno spaventoso serpente, uccide Galafar, pagano al servizio di re Guarnesse. Il re di Cuba Margalisse, sprezzante della religione cristiana, invita il campione degli europei a battersi contro di lui e Dulipante manda a chiamare Salazar, il più forte dei guerrieri cristiani. Intanto Roselmina incontra Dulipante e, pensando di essere in punto di morte, rivela al giovane la sua vera identità e il suo amore per lui. Dulipante si innamora all’istante della bella principessa, promette di sposarla e la porta nell’accampamento cristiano per curarla. Ma il loro sogno d’amore dura poco, perché durante la notte i cubani attaccano l’accampamento e i due innamorati vengono catturati e condannati a morte (XX).

Dopo essersi scontrato con il pagano Barnagasso, Salazar si reca nella grotta del Sole per rubare il magico frutto dell’Albero Gemmato, che dona ai condottieri l’immortalità. Questo è il regno della maga Tibrina, che trasforma in animali tutti coloro che entrano nella grotta, ma Salazar vince l’incantesimo ascoltando una canzone di Luigi Tansillo, poeta particolarmente amato dall’autore del Mondo nuovo.12 Tibrina fugge via e Salazar incontra il cavalier Calvo, figura dietro cui si nasconde lo stesso Stigliani e la cui descrizione è molto utile per individuare alcuni particolari biografici del materano.13 Il misterioso cavaliere elogia la grandezza dell’arte poetica su quella bellica, critica Falcidio (Marino) e rimanda alla lettura del suo Occhiale per quanto riguarda la polemica mariniana.14 Il cavaliere spiega a Salazar come è strutturato geograficamente il mondo e il guerriero, soddisfatto, coglie il pomo del magico albero (XXI) e raggiunge Cuba dove lo attende Dulipante. Salazar sconfigge Margalisse, libera i cristiani e nomina Dulipante nuovo sovrano dell’isola. Colombo riunisce la sua flotta con quella di Dulipante, ora comandata da Alonso e, tornato nell’accampamento cristiano di Porto Regio, scopre che i suoi uomini sono stati tutti uccisi (XXII).

Salazar viene imprigionato nel ventre della balena che era stata incantata tempo prima da Licofronte e qui incontra, tra i tanti, Soridano, Alastro, Partenio, i due amanti Gusmanno e Arsace e lo stolto Clodio. Di quest’ultimo viene raccontato come, quando si trovava ancora a Nizza, abbia creduto di essere morto guadagnandosi gli sberleffidi tutta la città. Grazie ad un laccio rimasto impigliato al piede di Salazar, i guerrieri riescono a trovare l’uscita e a tornare da Colombo a Porto Regio. Il cristiano Melchiorre scopre che Canarì è responsabile dello sterminio avvenuto nel forte e il sovrano indigeno viene imprigionato. Colombo fa costruire una città che viene chiamata Isabella in onore della regina spagnola e qui avviene la cattura di Gebra, indigena responsabile di un duplice omicidio e colpevole di aver avuto rapporti incestuosi con i suoi fratelli (XXIII).

Dopo aver fatto scalo alle Azzorre, Colombo giunge prima in Porto-gallo e poi in Spagna, dove viene accolto con grandi onori da tutta la popolazione. Il valente Maramonte recluta nuovi uomini disposti a partire per l’America e vince, sotto le sembianze di un cavaliere nero, il torneo indetto da re Ferdinando. Intanto il re del Portogallo Giovanni II rivendica il possesso delle nuove terre e Papa Alessandro VI dispone che al Portogallo vada il Brasile e alla Spagna tutto il resto.15 Colombo seleziona gli uomini migliori e quindici navi salpano alla volta del Nuovo Mondo (XXIV).

A questo punto Stigliani torna a raccontare le vicende di Nicaona e Tarconte-Alaù. La bella principessa ricambia i sentimenti del capitano delle guardie reali e anche quando l’amato le rivela di essere quel Tarconte che aveva ucciso suo padre, la giovane lo perdona e acconsente a sposarlo. Le nozze vengono però interrotte dall’arrivo di Barnagasso, pretendente di Nicaona, che obbliga Tarconte a lasciare la Giamaica e a rifugiarsi a Crucheria, dove il guerriero chiede aiuto ai cannibali per vendicarsi (XXV). A Crucheria giunge anche Colombo di ritorno dalla Spagna e subito i cristiani vengono attaccati dai cannibali guidati da Tarconte. Dopo una lunga lotta, Colombo e i suoi uomini riescono a conquistare la città di Arpi e con essa anche tutte le altre terre che si trovavano sotto la dominazione di questo popolo (XXVI).

I demoni Astarotte e Malcosa si recano sull’Olimpo e invitano la dea Superbia a raggiungere Aitì per invogliare gli indigeni a ribellarsi. A Pasantro gli esattori incaricati di riscuotere il tributo da versare ad Isabella vengono uccisi e il sacerdote Dionigi, che si trovava nella capitale pagana, riesce a fuggire dalla città in subbuglio grazie all’aiuto di un albergatore. Dopo essere sfuggito varie volte al pagano Ortega detto il Manco, che cercava di ucciderlo, Dionigi viene legato a due alberi e squartato. Colombo manda i suoi uomini in tutti i regni conquistati a cercare nuovi combattenti da assoldare tra le sue truppe in vista della grande battaglia contro Guarnesse (XXVII).

Ugo, custode della Rocca d’Oro, avverte Colombo che il forte è stato attaccato dagli uomini del re Cunabò e l’Ammiraglio invia subito Salazar a sedare il conflitto. Intanto Tarconte giunge a Pasantro dove re Guarnesse prega lui e Barnagasso di mettere da parte l’antico rancore e di combattere insieme contro i cristiani. La maga Tibrina, assetata di vendetta per la distruzione della grotta del Sole, incanta una statua di sale e profetizza che fino a quando questa statua rimarrà nel tempio di Pasantro la città non sarà conquistata (XXVIII). In un primo scontro tra i due eserciti il pagano Gilulfo si traveste da Tarconte e conquista così l’attenzione prima di Clorimondo e poi di Brancaspe, che sperava di ucciderlo per ottenere Nicaona in sposa. L’intervento di Brancaspe irrita molto Clorimondo, che si scaglia contro il suo stesso compagno dando così luogo ad un cruento combattimento tra tre guerrieri. Brancaspe finisce con il tagliare la testa ad entrambi gli avversari e, quando Colombo scopre che è stato il guerriero cristiano ad uccidere Clorimondo, ordina subito di imprigionarlo (XXIX).

Tarconte conduce a Pasantro le schiere di Gilulfo e Cunabò, mentre nel campo cristiano arrivano i condottieri mandati a chiamare da Colombo, tranne Dulipante, trattenuto da una disperata Roselmina. Barnagasso, prima di affrontare Salazar in duello, sviene per aver bevuto della coiba al posto del vino e lo scontro viene rimandato. Martidora riesce con l’ingegno a liberarsi dei suoi pretendenti, Clodio e Innico di Marra, mettendoli l’uno contro l’altro: vedendo ciò, anche gli altri spasimanti si arrendono alla volontà della regina di rimanere da sola (XXX). Argiso, dopo aver convinto la regina Misia a combattere a favore dei cristiani, incontra una spia assoldata da Roldano per uccidere Colombo. La spia racconta come Tarconte lo abbia spinto a compiere l’omicidio facendogli credere di avere in bocca una sorta di pietra dell’invisibilità. Ma si trattava di una bugia: la spia è stata catturata e poi sotterrata, lasciando fuori solo la testa, su cui inciampa Argiso. Grazie all’intercessione del fratello, Brancaspe viene liberato e corre in Giamaica a consegnare a Nicaona quella che credeva essere la testa di Tarconte. La principessa si dispera piangendo sul volto dell’amato, senza sapere che in realtà si tratta della testa di Gilulfo. Intanto i fratelli cristiani Ormanno e Gisippo si introducono a Pasantro e rubano la statua di sale che rappresentava il Palladio della città. Colombo decide di dividere in due il suo grande esercito: gli europei, da lui comandati, attaccheranno Tarconte accampato poco lontano; gli indigeni cristiani, guidati da Martidora, entreranno a Pasantro facendosi scambiare per gli uomini di Tarconte. Il piano riesce, Pasantro viene conquistata e i pagani si arrendono ai conquistatori. La regina Fenisba, moglie di Guarnesse, chiede a Colombo di poter portar via ciò che di più caro lei e le altre donne hanno nelle loro case, e quando l’Ammiraglio le vede portare via fratelli, mariti, figli e genitori, si commuove e permette a tutti di rimanere a Pasantro, stipulando la pace con Guarnesse (XXXI).

Colombo invia suo fratello Baccio e il prode Argiso a liberare Brancaspe in Giamaica, e Baccio, innamorato di Nicaona, ottiene che la fanciulla segua il drappello cristiano nel ritorno ad Aitì. Intanto Colombo fa costruire una potente flotta in vista della battaglia navale contro Roldano, mentre quest’ultimo fa torturare e uccidere il cristiano Algazirre, che non aveva voluto rivelargli la posizione del genovese. Colombo ordina a Baccio di ricondurre a Porto Regio le truppe che si trovano ad Isabella ma questi, troppo preso dall’amore per Nicaona, rifiuta di eseguire qualsiasi ordine, scatenando l’ira del fratello. Colombo insulta Nicaona e la principessa, offesa, decide di vendicarsi uccidendo l’ammiraglio. La serva Lampedusa sbaglia però il destinatario della vivanda mortale, ed è Baccio a morire. Nicaona, disperata per il tragico errore, mangia il resto del cibo avvelenato (XXXII).

La Vergine Maria, preoccupata per il destino dei cristiani, chiede a Gesù di salvare Colombo, e il Salvatore la rassicura profetizzando una vittoria finale cristiana. La lotta è molto cruenta e i pagani, sentendosi traditi da Roldano, finiscono con il combattere anche tra loro. Brancaspe salva Salazar da Tarconte che cerca di affogarlo e il guerriero pagano viene fatto prigioniero; Colombo uccide Guarnesse e con la sua morte gli altri sovrani indigeni si arrendono ai conquistatori (XXXIII). Colombo decide di graziare Roldano, ma, quando quest’ultimo tenta di uccidere Diego, i cristiani, accecati dall’ira, fanno a pezzi il suo corpo. Il vescovo Algabro consacra suore Fenisba e Cupra, moglie di Margalisse; poi battezza Tarconte e lo unisce in matrimonio con Nicaona: la principessa è infatti ancora viva, come anche Baccio, grazie alle cure di Tibrina. I condottieri tornano ai loro regni e in particolare è Dulipante a correre subito a riabbracciare la sua Roselmina (XXXIV).

I fili del ricamo

Come si può intuire leggendo il sunto dell’opera, Stigliani attinge a piene mani da tutta la letteratura precedente e spesso opera nel suo poema una sorta di parodia del materiale a sua disposizione. La descrizione della discesa agli Inferi di Licofronte, modellata sull’Inferno dantesco, contiene, ad esempio, tutte le principali categorie parodico-letterarie individuate da Alberto Camerotto.16

La programmaticità dello scarto. La parodia deve andare oltre l’opera originaria, e nella connessione che si può creare tra le figure di Olgrada-Morasto-Licofronte e quelle di Francesca-Paolo-Gianciotto, Marco Arnaudo tiene a precisare che «l’episodio di Stigliani (e qui sta l’interessante) si segnala per le differenze con la Commedia non meno che per le somiglianze».17 Il tutto si potrebbe riassumere nella storia di un’anima dannata che si avvicina a due visitatori dell’Inferno, un vivo e la sua guida, ed è invitata a raccontare la sua triste storia d’amore. Ma il triangolo amoroso dantesco viene scombinato nei suoi legami più stretti poiché, pur trattandosi ugualmente di due fratelli innamorati di una stessa donna che è moglie di uno dei due, nel Mondo nuovo la coppia innamorata è quella ufficiale degli sposi Olgrada e Morasto. E non sarebbe potuto essere altrimenti: mai l’intransigente Stigliani avrebbe potuto spingere i suoi lettori a provare pietà per una donna infedele al proprio marito.

Il comico. Questa componente scaturisce nel momento in cui vengono deluse le aspettative dell’ipotesto. Nel Mondo nuovo Astarotte, seppure ben assimilabile con il Virgilio dantesco, non è in grado di spiegare a Licofronte chi siano coloro «che petto l’omero gli fea» (II, 97), mentre Virgilio è invece sempre in grado di dare spiegazioni al suo curioso discepolo.

Il pastiche. Stigliani è maestro nel restringere tutta la cantica infernale di Dante in un solo canto del Mondo nuovo, ambientando l’intera azione su di un piano orizzontale rispetto ad un Inferno verticale come quello dantesco.

La mixis. Come nella Commedia, anche nel poema di Stigliani vengono utilizzati diversi registri linguistici, così che il testo è portato ad «oscillare ora in alto ora in basso».18 L’Inferno di Stigliani è caratterizzato da un tono comico-realistico e da un linguaggio aderente all’oggetto.

La memoria. È importante che l’ipotesto sia ben presente al lettore, ed infatti Stigliani parodizza episodi molto noti come quello di Paolo e Francesca, o quello di Farinata. Il poeta conosceva molto bene il materiale da cui effettuava i prelievi e arriva anche a spiegare alcuni punti controversi della Commedia, come nella lettera del 4 settembre 1643 indirizzata al cardinale Orsini, dove interpreta il verso «che vendetta di Dio non teme suppe» (Purg. 33, 36), o in quella al duca Paolo Giordani Orsini, dove analizza l’aspetto del volto di Forese Donati (Purg. 23, 43-60).19

Ma non è solo la Commedia ad essere parodiata. Nell’arrivo dei cristiani alle Canarie non sarà difficile ritrovare un comico parallelismo con lo sbarco virgiliano dei Troiani in terra africana (Aen. I, 170 ss.). L’idea di questi superstiti che, come «caute formiche» (I, 12) si ingegnano a trovare qualcosa da mangiare è, secondo Marzio Pieri, disastrosa: «Pensate a quella gente che, famelica e, come dice lo Stigliani del Colombo, ‘‘stanca e battuta’’, appena messo piede a terra si sparpaglia alla cerca di ‘‘qualche caccia’’; bella figura ci fa ‘‘il buon Capitano’’».20 Ma forse è proprio questo l’obiettivo di Stigliani: far ridere, o almeno sorridere, il proprio lettore. Non è un caso, infatti, che Colombo scambi per un uccello l’angelo inviatogli da Dio (I, 14), cercando addirittura di abbatterlo nell’edizione piacentina. E ancora pensiamo all’immagine di Dulipante intrappolato nella spelonca del gigante: è ripresa evidentemente dall’Odissea, ma mentre Ulisse aveva dovuto utilizzare tutta la sua astuzia per salvarsi da Polifemo, e Norandino, nel Furioso, aveva tanto patito la prigionia nella tana dell’Orco (Orl. fur. XVII, 26-69), a Dulipante basta affacciarsi ad una fessura della grotta per chiamare in aiuto i suoi compagni e farsi trarre in salvo (XIV, 15).21

Per quanto riguarda le fonti usate da Stigliani, la Commedia è sicuramente l’opera con la quale il Mondo nuovo non smette mai di confrontarsi, e non mancano riferimenti danteschi che esulano dal contenuto dell’ipotesto, come quando Stigliani attribuisce a Satana occhi «di viva bragia torvi» (II, 107) appartenenti a Caronte (Inf. 3, 109) o mette in bocca a Nicaona le stesse parole di Francesca (XV, 98; XXV, 12). A volte i personaggi introdotti, inventati dal poeta, sono modellati su quelli danteschi, come nel caso di Olgrada, novella Francesca; in altri casi il personaggio, già noto ai lettori della Commedia, viene ripreso ma con le caratteristiche appartenenti ad un altro: pensiamo a Maometto che, pur presente nel poema di Dante, nel Mondo nuovo recita la parte di Farinata. Se l’Inferno è la cantica che sta a base del II canto, il Paradiso lo sostituisce all’inizio del canto XXXIII, quando Stigliani ne ricalca in parte la struttura, ma ampliando la descrizione dantesca. Il Purgatorio viene invece accorpato all’Inferno in quanto i peccatori del Mondo nuovo sono divisi in otto cerchi: il primo è quello del limbo, gli altri sono i cerchi dei sette vizi capitali, dall’accidia fino alla superbia, che riprendono esattamente le cornici dantesche del Purgatorio.

Boccaccio e Giraldi vengono imitati soprattutto per quanto riguarda la costruzione degli episodi romanzeschi del poema: dal Decameron è tratta la beffa che i tre provenzali ordiscono ai danni del ‘‘semplice’’ Clodio (XXIII, 47-61), costruita in maniera molto simile a quella preparata da Bruno, Buffalmacco e Nello per Calandrino (Dec. IX, 3); mentre lo stratagemma trovato da Martidora per liberarsi dei due spasimanti Innico e Clodio (XXX, 117-41) riprende quello tramato da Francesca de’ Lazzari ai danni di Rinuccio Palermini e Alessandro Chiarmontesi (Dec. IX, 1). E ancora, la pietra dell’invisibilità affidata al servo che doveva uccidere Colombo (XXXI, 15) è l’elitropia che Calandrino pensava di aver trovato nel Mugnone (Dec. VIII, 3); i pianti e i baci dati da Nicaona a quella che crede la testa di Tarconte (XXXI, 52) sono gli stessi dati da Lisabetta da Messina all’amato Lorenzo (Dec. IV, 5).

Tuttavia sono soprattutto gli Ecatommiti a costituire una solida base per il Mondo nuovo perché a volte Stigliani riprende dal Giraldi non solo le trame, ma le stesse parole. L’imbroglio e la tortura subita da Olgrada da parte di Licofronte (II, 46-76) è la stessa riservata da Riccio Lagnio a Modesta (Ecat.V, 10); la storia di Ardelia e Roldano, raccontata da quest’ultimo a Re Guarnesse (VI, 76-99), è identica a quella di Cleofilo, che cerca in tutti i modi di preservare la moglie dai voleri di Afrodisio (Ecat. IV, 9); le avventure di Polindo, Radamista e Soridano (X, 17-34) rimandano a quelle vissute dalla famiglia di Lippa (Ecat. I, 1) come notato già alla fine dell’Ottocento da Mario Menghini.22 Le vicende di Tarconte e Nicaona si modellano su quelle di Diego e Caritea (Ecat. II, 1). Così Diego parla all’amata rivelandole la sua vera identità:

Ma se la mia sorte volesse pure, che vi teneste offesadame,eche ne voleste fare la vendetta, son contento che lasciato ogni altro rispetto, facciate di me quello che più vi piace, e che mi togliate insieme colla vita quella testa che tanto avete desiderata.23

Forte è l’eco nelle parole di Tarconte a Nicaona:

E questa è quella testa, e quella fronte,
ch’avete voi tanta stagion bramato.
Se volete reciderla, potete,
se perdonarle, anco poter n’avete.
(XXV, 51)

Facendo riferimento a questo stesso episodio, lo scontro tra Tarconte e Barnagasso rimanda a quello tra Diego e Pompeo per ottenere la donna amata; il travestimento di Diego sotto il falso nome di Pirro d’Aragona precede quello di Tarconte, nascosto sotto le sembianze di Alaù; Caritea è difesa da Diego contro il re del Portogallo così come Nicaona è difesa da Tarconte contro Martigone.

Continuando con l’analisi delle fonti del Mondo nuovo, un ruolo molto importante è ricoperto da Ariosto e Tasso che, rappresentati sugli arazzi del palazzo di Valserena tra «gli uomini chiari, e in alta fama, / o per armi, o per lettere levati» (IX, 121), vengono così descritti da Stigliani:

Sommi poeti della tromba tosca
de’ quai come nel mondo in dubbio stassi
chi sia il maggiore, e mal par si conosca,
così chiaro si scorge, e certo sassi,
che l’eccellenza d’ambi ogn’altra offosca
e che dettati mai non furon carmi
ch’abbiano meglio cantato impresa d’armi.
(IX, 132)

Il riferimento è al dibattito letterario nato tra i sostenitori di Ariosto e quelli di Tasso dopo la pubblicazione, nel 1584, del Carrafa, ovvero dell’epica poesia di Camillo Pellegrino. Oggetto della contesa era la superiorità della Gerusalemme liberata o dell’Orlando furioso, e Stigliani, sia pure a distanza di decenni, aveva preso attivamente parte al dibattito con la sua Censura in versi sciolti sopra il Furioso dell’Ariosto, dettata in istil rimesso, quale si conviene alle materie dottrinali, scritta sui vivagni di un esemplare del Canzoniero del 1623.24 Nella lettera ad Aquilino Coppini pubblicata in calce all’edizione piacentina del Mondo nuovo, Stigliani si era proposto come degno erede dei due grandi predecessori, volendo occupare quel secondo grado di altezza che era rimasto vacante:

Essendo il Goffredo composto nel primo grado dell’altezza, e ’l Furioso nel terzo, e veggendo io nella nostra lingua disoccupato il secondo, il quale senza dubbio è il migliore (perché per esser nel mezzo può meglio che gli altri due schifar gli eccessi e participar le perfezioni), l’ho occupato, non solo per poter schifar l’oscurità del Goffredo e la bassezza del Furioso, ma per poter ancora participar la gravità dell’uno e la chiarezza dell’altro.25

Stigliani aveva probabilmente conosciuto Tasso nel 1592 alla corte di Matteo di Capua, principe di Conca, e, secondo Angelo Colombo, la rivalità tra il materano e Marino era data proprio dalla competizione «nella quale era posta in gioco la sussistenza stessa di uno solo dei duellanti come erede di Tasso nell’agone dell’eroico».26 Nel Mondo nuovo Cristoforo Colombo è specchio del pio Goffredo e la conquista dell’America è una nuova presa di Gerusalemme. Spesso Stigliani riprende in maniera evidente il Tasso: le pietre preziose incastonate nelle pareti durante la discesa agli inferi di Licofronte (II, 24) sono uguali a quelle osservate da Carlo e Ubaldo durante il viaggio verso il palazzo del Veglio d’Ascalona (Gerusalemme liberata XIV, 39), così come la scena del concilio infernale è perfettamente modellata su quella tassiana:

Vennevi l’aspra Scilla, e l’Idra fiera,
l’una co’ suoi furor, l’altra co’ foschi,
la varia sfinge, e l’orrida Chimera,
e l’Arpie colorate, e i Piton foschi,
e de’ Centauri la biforme schiera,
e gli Arghi occhiuti, ed i Ciclopi loschi
ed altri, ed altri, ch’a nomar non tolgo,
della plebe d’Inferno, e basso volgo.
(II, 115)

Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e S
fingi e pallide Gorgoni,
molte e molte latrar voraci Scille
e
fischiar Idre e sibilar Pitoni,
e vomitar Chimere atre faville,
e Polifemi orrendi e Gerioni;
e in novi mostri, e non piú intesi o visti,
diversi aspetti in un confusi e misti.
(Gerusalemme liberata IV, 5)

Il viaggio intrapreso da Licofronte ed Astarotte per raggiungere la flotta cristiana (III, 10-11) corrisponde all’ultima parte di quello intrapreso da Carlo e Ubaldo sulla navicella della Fortuna e vengono, infatti, citate le stesse località incontrate: Burgia, (III, 8; Gerusalemme liberata XV, 21), Orano e Tingitana (oggi Tangeri) (III, 10; Gerusalemme liberata XV, 21), Abila e Calpe (le attuali Ceuta e Gibilterra) (III, 10; Gerusalemme liberata XV, 22).

Tasso aveva accennato all’America proprio con la predizione fatta dalla Fortuna ai due cavalieri cristiani (Gerusalemme liberata XV, 30-32) e non era indifferente alle nuove scoperte geografiche.27 In alcune edizioni iniziali del poema che Luigi Poma aveva identificato come la fase ‘alfa’ della Liberata,28 la dimora di Armida non si trova nelle Isole Fortunate, come vuole la vulgata, ma nell’Oceano Pacifico, che i due crociati raggiungono dopo aver attraversato lo stretto di Magellano.29 Stigliani potrebbe essersi rifatto proprio a questa prima stesura dell’opera tassiana. Quando i marinai non vedono più la stella polare perché si trovano ormai nell’emisfero australe, Colombo suggerisce infatti di cercare qualche altra stella di riferimento: «mirando per quel Ciel vide lontano / cinque lucide stelle in croce messe» (III, 96). Si tratta della costellazione della Croce del Sud, celebrata anche in una delle ottave soppresse della Liberata:

Miran quasi duo nuvoli di molte
luci in un congregate, e ’n mezzo a quelle
girar con angustissime rivolte
due pigre e brune e picciolette stelle;
e sovra lor, di croce in forma accolte
quattro più
grandi luminose e belle: –
Eccovi i lumi opposti al freddo Plaustro
che qui segnano – disse – polo d’Austro.
30

Stigliani cerca anche di rispettare nel suo poema la verosimiglianza tanto cara al Tasso e annovera tra le sue fonti opere storiche quali il Sommario dell’istoria dell’Indie occidentali di Pietro Martire d’Anghiera, Della naturale e generale istoria dell’Indie di Gonzalo Fernández de Oviedo e la Relazione del primo viaggio attorno al mondo di Antonio Pigafetta, che ebbe la possibilità di leggere nella raccolta Delle navigationi et viaggi (1550-1559) di Giovan Battista Ramusio.31 Si tratta di opere storico-geografiche che conservano, però, tratti leggendari e magici, che erano percepiti come realistici nel XVII secolo. La descrizione di un albero della pioggia come quello in cui si imbattono Sandro e Archinto sull’isola del Ferro (I, 39-40) è riportata per esempio in tutte le narrazioni storiche più importanti del tempo. Alessandro Tassoni scrive infatti nel 1618 ad Agazio Di Somma, autore di un’America, che «contrasti e macchine di demoni», «incontri di mostri» e «incanti di maghi» affrontati durante l’avventura colombiana «furono in parte cose vere».32 A dimostrazione che il tentativo di Stigliani di attenersi ai precetti tassiani descritti nei Discorsi del poema eroico (1594), può in alcuni casi essere evidente anche nel delineamento di episodi apparentemente fantasiosi. È da notare, tuttavia, che il poeta non manca di qualche ‘‘inverosomiglianza’’ nel suo lavoro. Descrivendo, ad esempio, la misteriosa ragazza amata dal cavalier del Sogno, scrive: «Parsa saria nelle sue membra intatte / d’alabastro una statua, over di latte. / Ondeggiavano al vento i suoi capelli, / capelli no, ma cari stami d’oro» (VIII, 52-53). Ebbene, il cavaliere ritrova questa bellezza tipicamente classica nell’indigena Clarinta, così come anche la principessa giamaicana Nicaona è detta «candida tutta, infuor ch’un dolce foco / la guancia ornava» (XIII, 48). Una mancanza di realismo che non sfugge alla critica penna di Tassoni: «Ognuno sa parimente che le donne ritrovate dal Colombo erano brune e andavano anch’esse ignude. Però è diverso fingere in loro bellezze diverse dal colore e dal costume di quelle parti».33 In Stigliani non vi è neanche una spiegazione di questa anomalia, come invece l’aveva data Tasso nel caso di Clorinda: principessa etiope ma nata bianca per via della rappresentazione di San Giorgio davanti alla quale la madre si fermava sempre a pregare.

Dell’Orlando furioso troviamo tracce nella lotta tra Colombo e Licofronte (IX, 43), che ricorda quella tra Bradamante e Atlante (Orlando furioso III, 69); nella presentazione dei discendenti illustri (IX, 121-32), che riprende quella dei componenti di Casa d’Este fatta dalla maga Melissa a Bradamante (Orlando furioso III, 20-62); nell’elogio di Roselmina (XXI, 1), che rimanda a quello di Olimpia (Orlando furioso X, 1-2). Senza dimenticare la balena, simile ad un’isola, incantata da Licofronte che, collegata alla leggenda dello Zaratan, vede la sua più recente antenata nella balena-isola che rapisce Astolfo per volontà di Alcina (Orlando furioso VI, 37). Inoltre nei Cinque canti stesi probabilmente da Ariosto tra il 1518 e il 1519,ma mai inseriti nel Furioso, Ruggero e Astolfo finiscono nel ventre della balena, anticipando la prigionia di Salazar e degli altri condottieri. Possiamo trovare altri riferimenti nella descrizione delle Amazzoni brasiliane (XV, XVI, XVIII), che ricordano le femine omicide in cui si imbattono Marfisa, Sansonetto, Astolfo e gli altri guerrieri (Orlando furioso XIX, XX), e nel duello tra Radamista e Marti-dora (X, 62-83), che rimanda a quello tra Bradamante e Marfisa (Orlando furioso XXXVI, 11-23; 43-50): Radamista e Brada-mante, gelose di Polindo e Ruggiero, si scatenano contro quella che credono la loro rivale amorosa arrivando a combattere, in entrambi i casi, contro il loro stesso amato.

L’inamoramento de Orlando di Boiardo34 viene preso a modello da Stigliani soprattutto nella storia di Gebra (XXIII, 125-181), che in molti punti ricalca perfettamente quella di Leodila (Inamoramento I, XX-XXII ). Gebra, innamorata di Labino, è costretta dal padre a sposare il vecchio Baracchi. Lo sposo la rinchiude in una torre ma Labino, acquistato un palazzo davanti alla prigione dell’amata, scava un passaggio sotterraneo, così da poter andare a trovarla a suo piacimento. Per tentare la fuga senza essere inseguiti, Labino fa credere a Baracchi di voler sposare la sorella gemella di Gebra, e invita il vecchio a conoscere la futura sposa. Gebra, giunta nel palazzo di Labino attraverso la galleria segreta, si fa passare per la gemella e Baracchi, dopo un iniziale momento di esitazione, crede alla farsa, fino ad arrivare ad aiutare i due innamorati a fuggire. Anche Leodila è innamorata del biondo Ordauro, ma è costretta a sposare il vecchio Folderico ed è da questi rinchiusa nel castello di Altamura. Quando Ordauro compra «un palagio in quel confino» (Inamoramento I, XXII, 19), il ragazzo trova lo stesso stratagemma di Labino per incontrare la donna amata: scavare un passaggio che lo porti nelle stanze di Leodila. L’inganno della sorella gemella trova riscontro in entrambi i poemi, e molte sono le ottave in cui Stigliani utilizza quasi le stesse parole del Boiardo:

Non mi mancava là delizia alcuna:
io gemme, io vi teneva oro, ed argento,
io ricchi arnesi, e da regal fortuna,
io di cibi, e bevande ampio alimento.
Io tutte cose alfin, salvo quell’una,
a cui più mi traeva il mio talento
Dico il dolce piacer, per cui si nasce,
che quasi m’aggradì fin dalle fasce.
(XXIII, 134)

De zoglie e de oro e de ogni altro dileto
Era io fornita tropo a dismisura,
Fuor de il piacer che si prende nel leto,
De il qual avìa più brama e magior cura.
(Inamoramento I, XXII, 16)

Menghini fa notare come anche la IV novella del Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara «racconta di un ricchissimo ed esperto leguleio, che sposa una fanciulla amante di un giovane, e fugge con questo per mezzo di una sottilissima astuzia»,35 e Aprosio mette in luce come al Mambriano possiamo anche ricondurre la storia di Macusse e Licina (XIV, 137-61; XV, 1-68) e quella di Sifante e Giselda (XVII, 2-83).36 Quest’ultima era anche connessa alle vicende di Orio e Policastro narrate nelle Novelle di Celio Malespini (I, 56) e Filomena Liberatori individua come la storia dei due innamorati, «sea por el medio ambiente (Barcelona, Burgos, el cautiverio en Egipto, de nuevo la Ciudad Condal, el naufragio,...) sea por el peregrinaje a Santiago [...], presenta analogías con la novela morisca».37 Al Morgante di Pulci va ricondotta la figura di Astarotte, che riprende il nome e i connotati del diavolo che ha da Malagigi l’ordine di ricondurre Rinaldo a Roncisvalle. Come nel Morgante Astarotte illustra a Rinaldo la struttura dell’Inferno (Morgante XXV, 207), così nel Mondo nuovo il demone diventa vera e propria guida per Licofronte nel viaggio infernale. Anche il mago viene trasportato sulla schiena da Astarotte (II, 16) sebbene nel Morgante il diavolo prenda le sembianze del cavallo Baiardo per trasportare Rinaldo (Morgante XXV, 133).

Tanti sono, inoltre, i riferimenti e gli esempi tratti da opere classiche, come le Storie di Erodoto, le Metamorfosi di Ovidio, le Vite parallele egli Opuscoli di Plutarco, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, la Storia vera di Luciano di Samosata. Quest’ultima opera viene citata direttamente da Stigliani in una postilla riferita all’isola di Brandana: «una simile isola detta Febona in forma di città edificata [...] si legge in Luciano, De Ver. Nar. Lib. 2», con riferimento alla versione latina De Veris Narrationibus.38 García Aguilar individua anche altri riferimenti letterari contenuti nelle postille

como la Carta de Alejandro Magno a Quinto Curzio, en donde apunta la existencia de ‘‘uno altro paese nell’India Orientale ove gli uomini son pelosi’’, iguales a los que aparecen en el canto XIII (131, 4) del Mondo Nuovo. A esta misma Carta alude en otra ocasión cuando describe los padecimientos de algunos marinos que, sedientos, terminan por beber la sangre de algunos peces e incluso su propia orina (XIX, 69-70). Del mismo modo, en el canto II, (113, 8), nuestro poeta recurre a la obra de Apuleyo, el Asno de Oro, para aclarar que si Licofronte llegara a ser demonio sería porque ya en esta obra latina ‘‘Cupidine fusse creduto dalla sola Psiche quando con le promesse di volerle deificare il fanciullo in corpo pur ch’ella taccia i suoi segreti’’.39

Molti personaggi del Mondo nuovo sono esemplati su modelli precedenti, ma nascono anche dalla sintesi di caratteristiche appartenenti a diversi soggetti. È il caso di Tibrina, che riprende dalla maga Circe l’abitudine di trasformare in animali gli sventurati che in lei si imbattono (XXI, 64), da Alcina l’aspetto orrendo che solo la magia è in grado di camuffare (XXI, 90) e da Armida la capacità di sedurre i cavalieri e farli cadere nella sua rete (XXI, 12). Allo stesso modo Dulipante è forgiato sullo stampo di Ulisse fino a quando la sua storia non si intreccia con quella di Achemenide, il compagno di Ulisse dimenticato sull’isola dei Ciclopi e salvato da Enea (Aen. III, 927-1074). Anche Dulipante («o per la mia tardanza fosse, / o per la fretta altrui», XIV, 20) viene abbandonato dalla sua ciurma e, come Achemenide, viene ritrovato «smorto, affumicato, e scarno, e brutto» (XIV, 3), dopo essersi cibato solo di bacche. Roselmina è specchio di Erminia quando nasconde il suo corpo in un’armatura per stare vicino all’amato (I, 99) e quando viene accolta da un gruppo di pastori come l’eroina tassiana. I giovani amati da entrambe sono lontani: Dulipante «schifo d’Amore», Tancredi «inerme, e supplichevole e tremante» (Gerusalemme liberata III, 25) per Clorinda. Roselmina ed Erminia devono adattarsi alla nuova vita e, così come la prima viene introdotta alle «fatiche della rustica arte» (XIII, 111), la seconda «guida la greggia a i paschi e la riduce / con la povera verga al chiuso ovile,/eda l’irsute mamme il latte preme/e’ngiro accolto poi lo stringe insieme» (Gerusalemme liberata VII, 18). Martidora è la novella Clorinda, la vergine guerriera «egualmente oltraggiosa ad ambo i sessi» (I, 109), ma alla principessa etiope si ricollegano anche Polinesta, il cui scontro con Silvarte rimanda a quello tra Clorinda e Tancredi, e Nicaona, bianca come lei sebbene entrambe abbiano origini esotiche. Martidora ha anche debiti nei confronti della bella Brada-mante, allorché Emilia, scambiandola per un uomo, si innamora di lei (X, 7-15), così come era successo a Fiordispina per la figlia di Amone (Orlando furioso XXV, 25-70). Ismeno influenza con i suoi inganni le figure di Licofronte e Roldano; Giselda, come Penelope, attende il ritorno del marito e, quando questi riappare, non lo riconosce (XVII, 66); Tarconte riprende il suo nome da quello dell’eroe etrusco che si alleò con Enea durante la guerra contro Mezenzio e Turno (Aen. VIII, 506, 603; X, 153, 290; XI, 727, 746).

Tanti nomi, tante storie, tanti spunti in un intrecciarsi vorticoso di riferimenti. Dalla Bibbia Stigliani attinge gran parte delle sue metafore: dal libro dell’ Esodo a quello di Giosuè, dai Giudici a Samuele. Ma anche episodi, come nel caso di Silvarte che, travestito da donna, decapita l’ubriaco Briuscai dopo avergli prospettato un incontro amoroso (XIV, 64) come aveva fatto Giuditta con Oloferne (Giuditta, XIII ). Il Mondo nuovo ha bisogno di solide basi per aspirare ad essere il poema ufficiale della Chiesa postridentina come sperato da Stigliani. Padre Niccolò Riccardi aveva elogiato il lavoro perché «ripieno di dottrine morali, e d’esempi, che possono esser giovevoli a formar l’animo di chi legge»,40 sebbene il poeta accorpi spessissimo esempi biblici ad esempi mitologici, in un continuo scivolare dal sacro al profano. Nonostante l’apparente sobrietà, anche il Mondo nuovo, tuttavia, subisce la rigida censura dell’epoca, e la scena d’amore tra Roselmina e Dulipante nell’accampamento cristiano viene eliminata per essere sostituita con un semplice «Qui manca una stanza» (XX, 159). Stigliani non lascia, però, insoddisfatta la nostra curiosità e nella copia del Mondo nuovo da lui postillata leggiamo, scritta di suo pugno, l’ottava incriminata:

Amore avea lo stral già fuori tratto
de la faretra, e su la corda posto
e ’l tenea dritto, e di ferir in atto
forse bramando insaguinarlo tosto.
Si dispone il guerrier rompere il patto,
anzi se n’era insin da pria disposto.
Mal s’adempie in amor ciò che si giura,
che spergiurii d’amanti il Ciel non cura.
41

Infine, un’altra opera con cui il poema di Stigliani sembra essere in debito è Il Mondo nuovo di Giovanni Giorgini, edito nel 1596.42 Si tratta dell’unico poema colombiano completo scritto in italiano prima del Mondo nuovo stiglianesco e Carlo Steiner si è occupato di verificare tutti i motivi comuni che ricorrevano nei due lavori, sebbene Giorgini avesse dato più rilievo alla figura del re Ferdinando di Spagna che a quella di Colombo, ridotto a semplice ministro.43 Ovviamente molti episodi risultano simili perché derivati dalle medesime fonti storicogeografiche, ma si possono individuare anche elementi che difficilmente possono essere stati introdotti per caso in entrambi i poemi, «avendo dovuto gli autori cercarli fuori dal campo delle fonti comuni».44 Èil caso di Silvarte, che si innamora della regina delle Amazzoni brasiliane dopo un duello (XVI, 44-54) così come nel Mondo nuovo di Giorgini aveva fatto Salazar (XVII), o dell’isola di Brandana, presente in entrambe le opere. E ancora pensiamo a Nugno che, trasportando su una barca la salma del padre Lope, si rivolge a Caronte (XIX, 65) con le stesse parole con cui, nel poema di Giorgini, un marinaio si era rivolto a Colombo credendolo il traghettatore infernale (II, 40).

Tutti questi confronti dimostrano quanto Stigliani abbia avuto a cuore il fatto di sentirsi parte di una tradizione, senza ricercare particolari linee innovative per definire in maniera più personale il suo poema. Sia nel tema della scoperta dell’America che nella caratterizzazione dei personaggi sembra che Stigliani abbia guardato al secolo precedente, influenzato dalla moda, che negli anni del poeta si andava sviluppando, di riprendere stilemi e leit-motiv soprattutto per scombinarli e parodiarli. Certo, il Mondo nuovo non presenta chiare allusioni parodiche tanto da poterlo paragonare ad un poema come la Secchia rapita di Tassoni, capostipite del genere eroicomico, ma sicuramente se ne possono rintracciare ottimi spunti.45

____________

1 A. Morandotti, Pirro I Visconti Borromeo di Brebbia: mecenate nella Milano del tardo Cinquecento, in «Archivio storico lombardo», 6 (1981), pp. 115-62 , pp. 156-57. Ringrazio i professori Eraldo Bellini e Clizia Carminati per i consigli nella stesura di questo saggio.

2 Del Mondo Nuovo del Cavalier Tomaso Stigliani venti primi canti. Co i sommarii dell’istesso autore dietro a ciaschedun d’essi, e con una lettera del medesimo in fine, la qual discorre d’alcuni ricevuti avvertimenti intorno a tutta l’opera, Piacenza, Alessandro Bazachi, 1617; Il Mondo Nuovo. Del Cavalier fra’ Tomaso Stigliani. Diviso in trentaquattro canti. Cogli argomenti dell’istesso autore, Roma, Giacomo Mascardi, 1628. Tutte le citazioni e i riferimenti presenti nel saggio provengono da questa seconda edizione. Per la biografia di Tommaso Stigliani si vedano M. Menghini, Tommaso Stigliani. Contributo alla storia letteraria del secolo XVII, Genova, Tipografia dell’istituto sordo-muti, 1890 e F. Santoro, Del cavalier Stigliani, Napoli, Tipografia Sannitica Rocco e Bevilacqua, 1908. Per il Mondo nuovo si rinvia al lavoro fondamentale di M. García Aguilar, La épica colonial en la literatura barroca italiana: estudio y edición crítica de ‘‘Il Mondo Nuovo de Tommaso Stigliani’’, tesi di dottorato, Granada, Universidad de Granada, 2003 e inoltre R. D’Agostino, Tassoni contro Stigliani: le ‘‘bellezze’’ del Mondo Nuovo, Napoli, Loffredo editore, 1983; G. Caserta, Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana. Il Seicento fra angoscia e avventura: Padre Serafino da Salandra e Tommaso Stigliani, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», 6 (1985), 10-11 , pp. 32-46; G. Fiori, Tommaso Stigliani e Piacenza: un documento inedito, in «Bollettino Storico Piacentino», 73 (1988), pp. 229-33; T. Cirillo, La scoperta dell’America nei letterati meridionali tra Cinque e Seicento, in G. B. De Cesare, Il Nuovo Mondo tra storia e invenzione: l’Italia e Napoli, Roma, Bulzoni, 1990 , pp. 203-33; F. Liberatori, Cristóbal Colón de descubridor a conquistador en el «Mondo Nuovo» de Tommaso Stigliani, in G. B. De Cesare, Il Nuovo Mondo tra storia e invenzione: l’Italia e Napoli, Roma, Bulzoni, 1990 , pp. 53-72; G. Caserta, Tommaso Stigliani e la scoperta dell’America, in «Insieme», 8 (1992), 11, p. 3; M. Padula, Cantami o diva, del genovese. «Il Mondo Nuovo», poema eroicomico di Tommaso Stigliano, in «Città domani», 425 (1992), p. 15; M. Cataudella, Il Mondo nuovo di Tommaso Stigliani, in «Esperienze letterarie», 1 (1993), pp. 3-13; M. García Aguilar, El Infierno épico de Tommaso Stigliani, in V. González Martín, La filología italiana ante el nuevo milenio, Salamanca, Aquilafuente editor, 2003 , pp. 211-20; M. Arnaudo, Un inferno barocco: Dante, Stigliani, Marino e l’intertestualità, in «Studi secenteschi», 47 (2006), pp. 89-104; M. García Aguilar, Viajes épico-caballerescos en la poesía italiana del descubrimiento, in R. López Carrillo e M. Montoro Araque, Nuevos Mundos, Nuevas Palabras, Granada, Comares, 2007 , pp. 37-60;F.Schaffenrath, Ubertino Carrara und Tommaso Stigliani. Lateinische und italienische Columbus-Epik im Vergleich, in M. Föcking e G. M. Müller, Abgrenzung und Synthese. Lateinische Dichtung und volkssprachliche Traditionen in Renaissance und Barock, Heidelberg, 2007 , pp. 71-85; M. A. Watt, Cosmopoiesis: Dante, Columbus and Spiritual Imperialism in Stigliani’s Mondo nuovo, in «Modern Language Notes» (2012), 127 , pp. 245-56; N. Hester, Failed New World epics in Baroque Italy, in A. J. Cascardi e L. Middlebrook, Poiesis and modernity in the Old and New Worlds, Nashville, Vanderbilt University Press, 2012, pp. 201-24; C. Aloè, Wellington 2013Ippolita rinascimentale: le Amazzoni americane nell’epica italiana, «altrelettere» (2014), DOI: 10.5903/al-uzh-19; M. García Aguilar, Il viaggio letterario di Tommaso Stigliani. Fra storia e finzione epica,in R. Gigliucci, Epica e oceano, Roma, Bulzoni, 2014 , pp. 63-77; E. Russo, Colombo in prosa e in versi. Note sul Mondo nuovo di Stigliani, in R. Gigliucci, Epica e oceano, cit., pp. 79-98. Per i fondamentali articoli di Marzio Pieri sul Mondo nuovo si veda la nota 20.

3 Giovanbattista Marino, Epistolario, seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, 2 voll., a cura di A. Borzelli e F. Nicolini, Bari, Laterza, 1912, II, pp. 330-31: lettera del 15 settembre 1630 (LXV).

4 C. Delcorno, Un avversario del Marino: Ferrante Carli, in «Studi Secenteschi», 16 (1975), pp. 69-155.

5 Marino, Epistolario, II, CXC, p. 4.

6 Angelico Aprosio, Del Veratro apologia di Sapricio Saprici per risposta alla seconda censura dell’Adone del cavalier Marino, fatta dal cavalier Tommaso Stigliani, Venezia, Matteo Leni, 1647.

7 Come indicato da García Aguilar sul frontespizio si legge: «Questi è il testo corretto e migliorato da ristamparsi, copiandosi in un altro stampato, perché sia leggibile al revisore». García Aguilar, La épica colonial, cit., p. 201. L’esemplare ha segnatura 71.2.A.13 e manca delle prime 36 carte, sostituite da un autografo dello Stigliani.

8 Marino, Epistolario, II, CXXII, p. 380.

9 Leone Allacci, Apes Urbanae sive De viris illustribus qui ab anno MDCXXX per totum MDCXXXII, Roma, Ludovico Grignani, 1633 (a cura di M. P. Lerner, Lecce, Conte Editore, 1998, p. 245).

10 G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1882, p. 431; G. Arricale, Il Seicento e Tommaso Stigliani, Matera, Tipografia B. Conti, 1921, p. 40.

11 Con titolo spagnolo troviamo ancora oggi una copia del Mondo nuovo nella Biblioteca Nacional de España, nella sede di Recoletos, con segnatura 3/48149.

12 Si veda Marino, Epistolario, p. 342, dove Stigliani definisce il Tansillo superiore al Petrarca. Stigliani riporta nel Mondo nuovo, con qualche piccola variante, l’ottava XXXII del Vendemmiatore di Tansillo: «Lasciate l’ombre, ed abbracciate il vero, / non cangiate il presente col futuro. / Anch’io d’andar’in Ciel non mi dispero: / ma per viver più lieto, e più sicuro / godo il presente, e del futuro spero. / Così doppia dolcezza mi procuro, / ch’a guisa non farei d’uom saggio, e scaltro, / perdere un ben per acquistarne un altro» (XXI, 87).

13 Stigliani scrive di essere nato povero (XXI, 99-100) e di avere «l’una, e l’altra tempia incanutita: / ancorché di molt’anni io non sia carco, / de’ quali il nono lustro appena varco» (XXI, 115). Il poeta aveva appena compiuto 45 anni e, tenendo buona la data di nascita al 1573, già nel 1618 era dunque al lavoro per completare il suo poema. I suoi trent’anni di carriera, di cui parla in un’ottava precedente (XXI, 112), iniziano, dunque, nel 1588, quando, quindicenne, venne mandato a Napoli dal padre dalla nativa Matera. Che Stigliani sia nato proprio nel 1573 è questione irrisolta perché, sebbene così si deduca dalla lettera del 20 aprile 1650 a Flavio La Monaca, principe di Castellaneta (Tomaso Stigliani, Lettere del cavaliere fra Tomaso Stigliani dedicate al sig. principe di Gallicano, Roma, Domenico Manelfi, 1651 , pp. 263-64), la data non coincide con quella che si evince dalla lettera a Francisco de Borja y Aragón, principe di Squillace, risalente al 2 febbraio 1632, dove si legge: «Mi trovo esser divenuto vecchio di più di sessanta anni» (Stigliani, Lettere , pp. 255-56). Nel 1632 lo Stigliani dovrebbe avere 59 anni e non più di 60. Nella Greggia del Mare, idillio marinaresco riportato mutilo nel Canzoniero edito nel 1623, l’autore afferma inoltre di avere un lustro, dunque cinque anni, meno del Marino (il riferimento è in Tommaso Stigliani, La Greggia del Mare, Napoli, Biblioteca Nazionale di Napoli, ms. Sc.XIII.D.60; ma non appare in Tommaso Stigliani, Il Canzoniero del signor caualier fra’ Tomaso Stigliani. Dato in luce da Francesco Balducci. Distinto in otto libri, cioè: amori civili, pastorali, marinareschi, funebri, giocosi, Soggetti eroici, morali, famigliari. Purgato, accresciuto e riformato dall’autore istesso,in Roma, per l’erede di Bartolomeo Zannetti, a’ istanza di Giovanni Manelfi, 1623, pp. 189-202: a pag. 198 è infatti segnalato che manca una digressione di seicento versi). Considerando che il napoletano nasce nel 1569 la data di nascita dello Stigliani andrebbe a spostarsi al 1574 e ciò non fa che acuire i nostri dubbi.

14 Tommaso Stigliani, Dello Occhiale, opera difensiva del cavalier fr. Tomaso Stigliani, scritta in risposta al cavalier Giovan Battista Marini, Venezia, Pietro Carampello, 1627. Il riferimento all’Occhiale dimostra come Stigliani continui a lavorare al Mondo nuovo fino a poco prima della ripubblicazione avvenuta nel 1628. I marinisti non perdoneranno mai al materano di aver dato alla luce quest’opera contro l’Adone dopo la morte di Marino. Tra i marinisti che prendono parte alla disputa ricordiamo: Agostino Lampugnani con l’Antiocchiale (uscito probabilmente subito dopo l’Occhiale e che sappiamo con certezza essere nelle mani di Agostino Mascardi nel 1632); Scipione Errico con L’Occhiale Appannato (1629); Girolamo Aleandri con la Difesa dell’Adone (1629-1630) a cui Stigliani risponde con la sua Replica; Giovan Pietro d’Alessandro nella Risposta alla Prima e alla Seconda Censura dell’Occhiale (1629); Andrea Barbazza con lo pseudonimo di Robusto Pogommega nelle Strigliate (1629); Nicola Villani con lo pseudonimo di Vincenzo Foresi nell’Uccellatura (1630) e con quello di Messer Fagiano nelle Considerazioni (1631); Giovanni Capponi nascosto sotto lo pseudonimo di Scipione Bastone nelle Staffilate (1637); Michelangelo Torcigliani nell’Occhio comico (1639); Angelico Aprosio, che alla polemica dedicò ben tre opere: L’ Occhiale stritolato sotto il nome di Scipio Glareano (1641), La Sferza poetica (1643)e Il Veratro (1647) entrambe firmate con lo pseudonimo di Sapricio Saprici. Grazie ad alcune annotazioni dello stesso Aprosio, sappiamo di autori che hanno scritto ma non stampato contro L’Occhiale, come Teofilo Gallacini nelle Considerazioni sopra l’Occhiale e Gauges de’ Gozze da Pesaro in Il Vaglio Etrusco. Si veda in particolare P. Frare, La ‘‘nuova critica’’ della meravigliosa acutezza,in Storia della critica letteraria in Italia, a cura di G. Baroni, Torino, Utet, 1997 , pp. 223-77; F. Guardiani, Le polemiche secentesche intorno all’‘‘Adone’’ del Marino,in I capricci di Proteo: percorsi e linguaggi del Barocco, Atti del Convegno Internazionale di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, pp. 177-97; C. Cicotti, Introduzione, in G. P. D’Alessandro, Difesa dell’Adone, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2003; M. García Aguilar, Alessandro Tassoni y Angelico Aprosio: lectura crítica del Mondo Nuovo de Tommaso Stigliani, in «Revista electrónica de estudios filológicos», 14 (2007), p. 6 e n. http://www.um.es/tonosdigital/znum14/secciones/estudios-10-MondoNouvo.htm

15 Papa Alessandro VI aveva storicamente emanato nel maggio 1493 la bolla Inter Caetera in cui, come riportato da Stigliani, «Finse una linea, e quella al dritto pose / da polo a polo sovra i salsi umori, / mille miglia di là dalle famose / terre di Capo Verde, e degli Astori: / colla qual partì il mondo e in duo dispose, / per quetar de’ duo populi i rancori, / che la parte di qua diè a’ Lusitani, / a l’altra ver ponente a’ Castigliani» (XXIV, 143).

16 A. Camerotto, Le metamorfosi della parola, Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, 1998.

17 Arnaudo, Un inferno barocco, cit., p. 93. Per lo studio dell’inferno di Stigliani si veda anche García Aguilar, El Infierno épico de Tommaso Stigliani; Watt, Cosmopoiesis: Dante, Columbus and Spiritual Imperialism in Stigliani’s Mondo nuovo.

18 Camerotto, Le metamorfosi della parola, cit., p. 135. Per uno studio della lingua e dello stile del Mondo nuovo si veda García Aguilar, La épica colonial, cit., pp. 131-66.

19 Marino, Epistolario, II, pp. 360-64.

20 M. Pieri, Per Marino, Padova, Liviana, 1976 , pp. 181-82. Marzio Pieri tentò nel 1987 di ristampare il Mondo nuovo (nella doppia versione piacentina e romana) all’interno del progetto dell’ «Archivio barocco» da lui fondato e diretto, ma il progetto non andò in porto. Degli studi condotti da Pieri sul Mondo nuovo si vedano: Stigliani a Parma, in «Paragone», 29 (1978), 344 , pp. 19-29; Colombo in mare barocco, una metafora abortita,in Columbeis I, atti dei seminari filologici di ricerche colombiane, Genova, 1986; Una ricusata ‘‘Parma nuova’’ nel poema farnesiano di Tommaso Stigliani, in «Archivi per la storia», 1 (1988), pp. 275-341 dove viene riprodotto per intero il primo canto dell’edizione romana e posto a confronto con i primi due canti di quella piacentina (pp. 282-341); Les Indes farnesiennes: sul poema colombiano di Tommaso Stigliani, in «Annali d’italianistica», 10 (1992), pp. 180-89; Il Barocco, Marino e la poesia del Seicento, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995. La maggior parte di questi studi è basata sull’edizione del 1617.

21 Stigliani aveva dedicato al famoso ciclope odissiaco un poemetto pastorale intitolato proprio Il Polifemo, ispirato all’XI Idillio di Teocrito: Tomaso Stigliani, Il Polifemo, stanze pastorali di Tomaso Stigliani, allo Ill.mo et Ecc.mo Sig. D. Ferrante Gonzaga Principe di Molfetta ecc., in Milano, nella stampa del quondam Pacifico Pontio, Impressione Archiepiscopale, ad istanza dell’herede di Simon Tini, et Gio. Francesco Besozzo, 1600. Sul Polifemo si vedano M. C. Cabani, L’Occhio di Polifemo, studi su Pulci, Tasso e Marino, Pisa, ETS, 2005; G. P. Maragoni, Stigliani «ne varietur». Appunti sulla riscrittura del «Polifemo», in «Lettere Italiane», 41 (1989), pp. 90-98; M. D. Valencia Mirón, Trasmissione e rielaborazione del mito letterario di Polifemo nella lirica italiana del Seicento: Le Stanze pastorali di Tommaso Stigliani, in «Quaderni d’italianistica», 21 (2000), 2 , pp. 59-75.

22 Menghini, Tommaso Stigliani, cit., pp. 130-38.

23 Giovan Battista Giraldi Cinzio, Gli Ecatommiti ovvero cento novelle, Torino, Pomba, 1853, II, p. 247

24 Lo scritto è riportato in O. Besomi, Esplorazioni secentesche, Padova, Antenore, 1975 , pp. 247-53. L’esemplare del Canzoniero postillato dall’autore è oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma con segnatura 71.2.A.11.

25 Stigliani, Del Mondo Nuovo, p. 689. La lettera è da datarsi 2 marzo 1616 e non 1617, come veniva indicato nel post scriptum della lettera di Stigliani a Ferrante Carli del 15 giugno 1617. Per la questione si veda C. Delcorno, Un avversario del Marino: Ferrante Carli, p. 145. La lettera è stata riportata interamente da Marzio Pieri in Per Marino, cit., pp. 389-411

26 A. Colombo, Appunti sulla ‘‘Gierusalemme distrutta’’, in «Studi Secenteschi», 33 (1992), p. 112.

27 Si veda B. Basile, Spazio geografico e spazio fantastico. «L’Universal Fabrica del Mondo» di Giovanni di Anania postillata da Torquato Tasso, in G. Papagno e Quondam, La corte e lo spazio: Ferrara estense, Roma, Bulzoni, 1982; M. Gori, La geografia dell’epica tassiana, in «Giornale storico della letteratura italiana», 167 (1990), pp. 161-204; J. Tylus, Reasoning away colonialism: Tasso and the production of the Gerusalemme Liberata, in «South Central Review», 10 (1993), 2 , pp. 100-14; A. Caracciolo Arricò, Da Cortés a Colombo, da Ariosto a Tasso,in Il letterato tra miti e realtà nel Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l’Italia, Roma, Bulzoni, 1994 , pp. 131-40; S. Zatti, Tasso e il nuovo mondo, in «Italianistica», 24 (1995), 2-3 , pp. 501-21; S. Zatti, Nuove terre, nuova scienza, nuova poesia: la profezia epica delle scoperte, in L’ombra del Tasso: epica e romanzo nel Cinquecento, Milano, Bruno Mondadori, 1996 , pp. 146-207.

28 L. Poma, Il vero codice Gonzaga (e prime note sul testo della «Liberata»), in «Studi di filologia italiana», 40 (1982), pp. 193-216.

29 Sulle ottave americane presenti nella prima stesura della Liberata si veda A. Gerbi, La disputa del Nuovo mondo: storia di una polemica, 1750-1900, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955; G. H. Blanke, Amerika im englischen Schrifttum des 16 und 17 Jahrhunderts, Bochum-Langendreer, Heinrich Pöppinghaus, 1962 , pp. 227-28; T. J. Cachey, Tasso’s Navigazione del Mondo Nuovo and the origins of the Columbus encomium (GL, XV, 31-32), in «Italica», 69 (1992), 3 , pp. 326-344; P. Brandi, La prima redazione del viaggio di Carlo e Ubaldo nella «Liberata», in «Studi tassiani», 42 (1994), pp. 27-41; T. J. Cachey, Le Isole Fortunate: appunti di storia letteraria italiana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1995 , pp. 223-62; L. Bocca, La scoperta dell’America nell’epica italiana de Tasso a Stigliani, in A. Beniscelli et alii, La letteratura degli italiani. Rotte, confini, passaggi, Genova, Diras, 2012.

30 Cachey, Tasso’s Navigazione del Mondo Nuovo, p. 331. Anche nei Lusiadi di Camões, edito nel 1572, compare un esplicito riferimento alla Croce del Sud (Os Lusíadas,V, 14) e Marzio Pieri sostiene che anche questo poema portoghese potrebbe annoverarsi tra le fonti del Mondo nuovo: Pieri, Les Indes farnesiennes, cit., p. 184.

31 García Aguilar, Il viaggio letterario di Tommaso Stigliani, cit., pp. 71-72; Russo, Colombo in prosa e in versi, cit., pp. 85-86.

32 Alessandro Tassoni, Lettera scritta ad un amico sopra la materia del ‘‘Mondo Nuovo’’,in Lettere, a cura di P. Puliatti, Bari, Laterza, 1978 , pp. 388-89. I poemi epici italiani di argomento americano furono divisi da Giuseppe Bianchini in tre categorie principali: poemi, frammenti di poemi ed episodi colombiani. Nella prima categoria troviamo i poemi interamente dedicati al tema americano come l’ Historia della Inventione delle diese isole di Canaria indiane di Giuliano Dati (1493), il Mondo nuovo di Giovanni Giorgini (1596), il Mondo nuovo di Tommaso Stigliani (1617, 1628)el’America di Girolamo Bartolomei (1650). Nella seconda categoria abbiamo i poemi non completi o che ci sono pervenuti in forma frammentaria come il Colombo di Giovanni Villifranchi (1604), l’America di Raffaele Gualterotti (1611), il Mondo nuovo di Guidubaldo Benamati (1622), l’Oceano di Alessandro Tassoni (1622)e I due primi canti dell’America di Agazio di Somma (1624). Nell’ultima categoria troviamo invece i poemi in cui il tema del Mondo nuovo è trattato solo in poche ottave o canti come l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1516, 1521, 1532), il Syphilis sive morbus gallicus di Girolamo Fracastoro (1530), la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581), la Nautica di Bernardino Baldi (1590), il Tancredi di Ascanio Grandi (1632) e il Conquisto di Granata di Girolamo Graziani (1650). G. Bianchini, Cristoforo Colombo nella poesia italiana, Venezia, Tipografia già Cordella, 1892. A questa lista proposta da Bianchini possiamo aggiungere il Libro dell’Universo di Matteo Fortini (c. 1514) di cui tre canti (VII-IX) sono una riscrittura in versi della lettera scritta da Vespucci a Pier Soderini nel 1504,il primo canto dell’America, poema eroico in lode di Amerigo Vespucci di Giovan Battista Strozzi il Giovane (c. 1590) e il Mondo nuovo di Giovanni Maria Vanti (c. 1617). Ricordiamo anche i due poemi neo-latini composti da italiani: il De navigazione Christophori Columbi di Lorenzo Gambara (1581),ei Columbeidos libri priores duo di Giulio Cesare Stella (1585, 1589).

33 Tassoni, Lettera scritta ad un amico sopra la materia del ‘‘Mondo Nuovo’’, p. 388.

34 Matteo Maria Boiardo, L’inamoramento de Orlando, 2 voll., a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Montagnani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999.

35 Menghini, Tommaso Stigliani, cit., p. 136.

36 Angelico Aprosio, Il vaglio critico di Masoto Galistoni da Terama, sopra il Mondo Nuovo del cavalier Tomaso Stigliani da Matera, Rostock, Willermo Wallop, [Treviso, Girolamo Righettini], 1637 , pp. 60-61.

37 Liberatori, Cristóbal Colón, cit., p. 71.

38 Il riferimento è nella copia del Mondo nuovo postillata da Stigliani. Cfr. nota 7

39 García Aguilar, La épica colonial, cit., p. 130 n.

40 Stigliani, Il Mondo Nuovo, p. 5. Riccardi era reggente del collegio della Minerva ed aveva appoggiato alla fine del 1622 l’edizione purgata del Canzoniero e, nel 1623,il Saggiatore di Galileo. Alla fine del 1626 aveva invece rifiutato l’Adone di Marino, che sarebbe stato condannato definitivamente l’anno dopo. Era stato ribattezzato da Filippo III il «Padre Mostro» per la sua intelligenza e aveva avuto ordine di analizzare il poema stiglianesco da Niccolò Ridolfi, all’epoca Maestro del Sacro Palazzo. L’imprimatur è firmato a Roma il 15 febbraio 1628 ed è riportato nell’edizione romana dopo l’Avviso del Balducci. Ulteriori approfondimenti in C. Carminati, Giovan Battista Marino tra inquisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008.

41 Si veda García Aguilar, La épica colonial, cit., p. 854.

42 Il Nuovo Mondo del sig. Giovanni Giorgini da Iesi con gli argomenti in ottava rima del sig. Gio. Pietro Colini, & in prosa del sig. Girolamo Ghisilieri, Iesi, Pietro Farri, 1596.Si veda M. Perrotta, Il Mondo nuovo di Giovanni Giorgini,in Atti del III Convegno internazionale di studi colombiani, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1979, pp. 633-40; A. N. Mancini, Ideologia e struttura nel Mondo nuovo di Giovanni Giorgini,in «Annali d’italianistica», 10 (1992), pp. 150-78; S. Baldoncini, Da Granada al Nuovo Mondo: l’epopea ispanoamericana di Giovanni Giorgini e Girolamo Graziani, in «Quaderni di filologia e lingue romanze», 7 (1992), pp. 141-54; S. Baldoncini, L’‘‘Epopea Americana’’ del sec. XVI: Il Mondo nuovo di Giovanni Giorgini, in «Biblioteca Aperta», 4 (1993), 4 , pp. 11-14.

43 Steiner, Cristoforo Colombo e la poesia epica italiana, Voghera, Gatti, 1891.

44 Steiner, Cristoforo Colombo e la poesia epica italiana, cit., p. 50.

45 Alessandro Tassoni, La secchia rapita, poema eroicomico, e ’l primo canto dell’Oceano, Parigi, Tussan du Bray, 1622.