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L’angelo del Tasso
Il carteggio epistolare e poetico che, tra il Tasso e il giovane benedettino cassinese Angelo Grillo, intercorse con particolare intensità soprattutto nel 1584 e fino al 1586 (per il poeta recluso l’anno della liberazione), è già stato oggetto di studio. A partire dalla fondamentale ricostruzione biografica del Solerti o in parallelo con essa, non mancano indagini dedicate ai rapporti sia pratici, sia letterari e intellettuali intrattenuti dall’autore della Liberata con la Congregazione.1 E, più di recente, la vicenda è stata ricostruita anche nella prospettiva del meno celebre tra i due corrispondenti, intorno al quale è venuto negli ultimi anni progressivamente crescendo l’interesse critico.2 Nel presente contributo mi propongo di esaminare la corrispondenza in versi (mai sottoposta finora a sistematica analisi)3 , lasciando sullo sfondo le lettere, che pure nel periodo indicato costituiscono una delle sezioni più nutrite e significative del ricco epistolario tassiano. Al centro del mio discorso saranno dunque i testi: da parte del Tasso, sei sonetti responsivi più uno di proposta (senza contare i due in lode dell’ordine benedettino, nel primo dei quali don Angelo è direttamente chiamato in causa; e dal computo escludo anche Rime 1303, un sonetto che le stampe qualificano di risposta al Grillo, quantunque – come il Solerti rileva nella sua edizione – tra le rime di questi non si rinvenga traccia della proposta; nonché Rime 1428, ove Torquato, appena tornatovi nel dicembre 1588, saluta Roma: sonetto al quale il monaco si affrettò a rispondere in vece della città eterna); contro ben undici proposte e una risposta del Grillo (più innumerevoli altri componimenti che, pur rivolti ad altri corrispondenti, lodano o evocano l’illustre e ammirato poeta). Occorre constatare che nulla di paragonabile a questo fitto scambio, neppure all’indirizzo di letterati assai più prestigiosi, si registra nella pur vastissima silloge delle Rime tassiane: dove certo non difettano i componimenti di corrispondenza, ma nessun interlocutore, nel sollecitare il poeta, poté vantare successo o tenacia pari a quelli dell’ancora ignoto religioso.
Discostandomi non di rado dalle conclusioni, comunemente accettate, cui pervenne il Solerti, cercherò per prima cosa di ricostruire l’ordine secondo il quale i sonetti si succedettero (elemento decisivo al fine di una loro più consapevole interpretazione). Mostrerò quindi come il Tasso in quello che potrebbe apparire a prima vista un serrato dialogo, tocchi spesso allusivamente temi tutt’altro che convenzionali, restando perlopiù incompreso. Interrogati con la necessaria pazienza i testi si riveleranno capaci di serbare qualche sorpresa.
Cominciamo dal principio. Nel suo caratteristico stile che intreccia artificio e ‘‘affetto’’, il Grillo si presenta per lettera – siamo nel marzo del 1584–con la trepida devozione dell’ammiratore fervente e di lunga data («La rara virtù di Vostra Signoria, che molto prima mi aveva legato il cuore e l’anima nell’amor suo, ora mi scioglie la lingua e i piedi dell’ardimento in questa lettera»). Subito suona, il suo, come il linguaggio di un innamorato che nel dichiararsi non esita a profondere tutte le risorse del concettismo petrarchista. Antitesi temporali (molto primaora) e concettuali (mi aveva legato-mi scioglie); coppie parallele (il cuore e l’anima-la lingua ed i piedi); arditezze metaforiche della più alacre mobilità (i piedi dell’ardimento) e lo stesso zeugma (mi scioglie la lingua ed i piedi), tutto procede per effetto di quella rara virtù dalla quale – passivo come ogni amante petrarchesco – lo scrivente si proclama totalmente soggiogato. La missiva, oggettivata dal deittico (questa lettera), si carica così quasi insensibilmente di una fisica corporeità. Cuore e anima, lingua e piedi, essa rappresenta l’amante nella sua vivente totalità. Veicolo non meno che dei sentimenti, del concreto essere, è il mittente in persona, mosso dall’irrefrenabile impulso che lo sforza, a esservi contenuto, in uno scambio di funzioni:
Nella quale vengo ora io a ritrovarla, e ad offerirmele per un di coloro, che non potendo più lungamente soffrire la soave tirannide de’ suoi nobilissimi scritti, vien sforzato a parlare ed a palesarsi.
Un simile esclusivo innamoramento intellettuale – effetto di una ossimorica soave tirannide – anela naturalmente alla sottomissione e al servizio («Conoscami dunque Vostra Signoria per tale, e me ne dia segno col comandarmi, se non per bisogno suo, almeno per necessità mia»). A ricordarci che a parlare è un monaco ventisettenne sta a malapena la benedicente frase di commiato. Anche questa però non suona affatto genericamente devozionale:
E la grazia di Dio, ch’è suo merito singolare in questo mondo, le sia nell’altro sempiterna mercede.4
Poeta cristiano, il cantore di Gerusalemme liberata già in questo mondo ha acquisito un merito incomparabile e unico al servizio della fede, tale da porlo in grazia di Dio e da promettergli nell’altro – tale l’augurio del religioso – vita eterna. Siamo nell’alveo dell’ortodossia tridentina: per mezzo delle opere, incluse quelle letterarie (purché, come in questo caso, eccezionalmente benemerite), si giunge a salvazione. Eppure quella frase serba un margine di ambiguità forse inconsapevole, se applicata alla poesia che il Grillo coltiva con tanto trasporto. Chi ha ricevuto un dono poetico pari a quello del Tasso, appare, agli occhi dell’entusiasta ammiratore, investito della grazia che imperscrutabilmente lo ha eletto e ne sancisce i meriti. Già qui e ora il poeta ha raggiunto l’immortalità concessa dal nome che più dura e più onora. Non è un caso che in un successivo sonetto del fitto scambio di versi che con questa lettera prende avvio, il Grillo torni proprio sul tema del merto:
Tu mi precorri con spedito merto,
Mentr’ io ti seguo con veraci lodi,
E mentre cerco d’honorarti, i modi
Ritrovo scarsi, e lo stil meno esperto.
Tu, che d’orme novelle il sentier’ erto
Di virtù segni, com’a pien si lodi
Moderno pregio talché non si frodi,
Mostrami Tasso, e ’l novo modo incerto:
Che s’altri di sé scrisse, e gloria n’hebbe,
Non ti sarà disnor ch’altri il concento
Ne l’arte tua de’ tuoi gran vanti esprima.
Che degna è sol d’alzar ciò ch’in te crebbe
L’alta eloquenza, ch’al tuo nome prima
Diè l’ali che l’età le piume al mento.5
Agli occhi dell’aspirante elogiasta il grande elogiato appare, in una sorta di inseguimento non solo generazionale, nel tempo, ma spaziale e proteso a una meta comune, come l’inarrivabile maestro che va schiudendo di continuo nuove vie all’espressione poetica, e alacremente precede ogni altro con spedito merto. La singolare iunctura conferisce al sostantivo un significato intensamente dinamico e progressivo, spiritualmente festinante. La instancabile ricerca espressiva e stilistica, elevata alla dignità di vera ascesi, sembra coincidere con un arduo cammino di perfezionamento morale. La guida non cessa di imprimere d’orme novelle il sentier’erto / Di virtù: si è inoltrata sulla via nuova della poesia sacra di ispirazione cristiana. La rara virtù dalla quale nella lettera il monaco si proclama soggiogato, consiste appunto nella capacità unica da parte del Tasso di porre una suprema arte retorica, il cui moderno pregio si esplica in una efficacia senza precedenti nella mozione degli affetti, al servizio della fede post-tridentina. Di qui il proponimento dell’adepto di farsene celebratore con veraci lodi edi mettersi alla scuola del maestro per acquisirne i segreti tecnici. L’ultima involuta terzina dichiara appunto che soltanto l’alta eloquenza dello stile magnifico e grave riportato in auge dal Tasso è degna di esaltarne le opere (il cui vertice supremo è rappresentato dal poema eroico): quell’eloquenza che, proprio come è detto nella lettera, si rivelò precocemente quale gratuito dono e segno di indiscutibile elezione.
L’ammirazione anela dunque a farsi discepolato. Anche se dalla missiva di presentazione – sottoposta a revisione al momento di pubblicarla – ciò non emerge, sappiamo dalla replica del Tasso che essa era accompagnata da due sonetti.
Accogliendo tacitamente un suggerimento del Guasti, il Solerti ne individuò le proposte collegandole ai testi responsivi che nella sua edizione figurano ordinati come Rime 937-938.6 Postulò cioè, e diede per scontata, da parte dell’illustre destinatario, una paritaria e molto lusinghiera simmetria nelle repliche. Faccio però notare che la frase del Tasso («Fra tanto le mando la risposta a’ due sonetti co’ quali m’ha onorato»)7 autorizza piuttosto a pensare a un unico componimento in risposta ai due del Grillo, evidentemente legati da precise corrispondenze tematiche, così da costituire una sorta di dittico.
Nelle Rime morali del benedettino presentano appunto tali caratteristiche i sonetti CCXXIIII (c. 88v) e CCXXXII (c. 90v). La metafora della pianta traslata che attecchisce, vigoreggia, si espande e fruttifica rigogliosa li accomuna. Anzi, tra i due mi pare sussistere una evidente continuità o meglio una sorta di sviluppo o dilatazione della stessa metafora, rappresentando essi per emblemi rispettivamente il poeta e le sue opere. Ecco i due testi:
Questo c’hor spiega al Ciel l’eccelse cime
Tasso, e maturò frutti anchor su ’l fiore,
Di Parnaso in su ’l giogo alto e sublime
Traspiantò Febo, e ne fui poi coltore.
Questo sovra mill’altre antiche e prime
Piante s’inalza verdeggiante fuore,
E salde sì le sue radici imprime
Che no ’l può crollar d’Austro empio furore.
Sotto i suoi rami ombrosi in lieto choro
Cantan le Muse, e de le sacre fronde
Si fan corona in compagnia del Sole.
E serban dolci frutti a quei ch’asconde
L’età futura, e ’l trionfale alloro
Men degna Apollo, a par del Tasso, e cole.
Quegli aurei semi ond’il terren fecondo,
Tasso, spargesti del tuo chiaro ingegno,
Hor sono eccelse piante, e ogn’alto segno
Passando, ingombran con lor rami il mondo:
E sono al soffiar d’Austro immobil pondo
Le lor perpetue frondi, e ’l frutto è degno
Ch’a le future età si serbi in pegno,
Che nullo hebbe più il Sole e ’l Ciel secondo:
Onde diranno poi quei che verranno
De gli avi antichi a rinovare il nome,
Ammirando di te l’alte memorie:
Felici voi, che tra mortali some
Vedeste il Tasso, le cui carte danno
Norma a chi stringe carmi e spiega istorie.
Come è lecito attendersi da un seguace tanto zelante, il primo imita un giovanile sonetto del Tasso etereo (Poi che ’n vostro terren vil Tasso alberga: Rime 515). Arnaldo Di Benedetto ha potuto congetturare sul fondamento di convincenti concordanze linguistiche che al medesimo componimento si fosse già ispirato poco prima (tra la fine del 1582 e l’inizio del 1583) un altro corrispondente del poeta, Giorgio Corno.8 Alla proposta di costui (Qual s’in fertil terren ferme radici) Torquato aveva risposto con il bellissimo sonetto Fertil pianta che svelta è da radici (Rime 797): una ragione in più per non ripetersi ora e per concentrare tutti i temi evocati dai due componimenti del Grillo nell’unica, comprensiva risposta per le rime al secondo. Non pago di credenziali epigoniche esibite tanto vistosamente già nell’inventio (il tema della pianta traslata), il benedettino si presenta riecheggiando inoltre fin dall’incipit della prima proposta uno stilema e una movenza caratteristici e molto frequenti negli esordi del Tasso lirico (agg. dimostrativo in funzione deittica + sost. – che il Grillo disgiunge e inarca, con artificioso e pesante iperbato, nell’intento di porre in rilievo l’interpretatio nominis – seguito da relativa).9
Dominato dall’enfasi celebrativa, don Angelo rovescia però il motivo del giovanile sonetto etereo. Se là il giovane Torquato presentava emblematicamente sé stesso alla stregua di vil Tasso (v. 1), negletta ed umil verga (v. 5), speranzoso di aver trovato nell’Accademia padovana, e segnatamente nel suo patrono, Scipione Gonzaga, un terreno e le cure propizie a farlo crescere tra i lauri (Tosto avverrà ch’al ciel pregiato s’erga 8); qui egli appare ormai al monaco cresciuto in sembianza di albero maestoso che espande le sue fronde. Dotato di prodigiosa e precocissima fecondità fin da quando era il Tassino, fu il dio stesso della poesia a trapiantarlo10 in Parnaso e a coltivarlo amorosamente, in segno di elezione. Ecco allora, nella seconda quartina, il vittorioso svettare al di sopra di ogni altro poeta (motivo iperbolico che l’elogiasta riprenderà nel son. CCXXIX, c. 89v); e il simmetrico e opposto profondare le radici11 nella terra. L’emblematico Tasso si erge in tal modo saldamente incrollabile di contro all’empio furore del tempestoso Austro. E il v. 8 –unica discretissima e prudente allusione alle sventure del poeta – sembra voler esorcizzare proprio l’immagine di squallida rovina che questi aveva trasmesso di sé nel citato son. Fertil pianta che svelta è da radici (Rime 797). Nelle terzine, poi, la solitaria eminenza della pianta sacra diventa addirittura il centro di un consolatorio idillio. Sotto la volta protettrice dei suoi rami ombrosi le Muse e Apollo (il Sole 11) celebrano il culto sereno della poesia. E l’ultimo terzetto vorrebbe dissipare definitivamente l’angoscioso fantasma della pianta sterpata con sinistri auspici (in Rime 797, 12-14 il Tasso si domandava appunto: «Verdeggerò translato e darò mai / Frutti a’ digiuni? O pur ombre e ristori / A chi sia stanco per gravose cure?»).
La poesia del Tasso è destinata, ribatte l’ammiratore, a dominare il futuro e a nutrire le generazioni a venire.
Di più: essa costituisce il nuovo paradigma di ogni dire poetico, sostituendosi al trionfale alloro. La mitologica arguzia finale stabilisce addirittura una iperbolica coincidenza tra l’emblema arboreo e l’arte: nel Tasso si incarna la stessa realtà vivente della poesia.
Continuando con maldestra artificiosità la metafora vegetale, il secondo sonetto si appella al poeta-Tasso (il vocativo inarcato a inizio del v. 2 occupa l’identica posizione del nome-emblema in CCXXIIII, 2), che disseminò il fecondo terreno del proprio ingegno di quegli aurei semi ora cresciuti a loro volta fino alla proporzione di eccelse piante, allegoria delle opere. Manifesto anche qui l’implicito intento consolatorio. Il grande poeta alligna in una condizione di astratta autosufficienza, di mitica fecondità estranea alla storia: dalla sua eccezionale individualità creatrice (la pianta-uomo) nascono i semi che attecchiscono nel fertile ingegno. Tale rara e portentosa virtù vanifica i condizionamenti dell’ambiente. Dalla solitudine dell’albero-padre (il poeta lodato nel testo precedente) è rampollata una rigogliosa foresta di alberifigli: immagine dell’ergersi vittorioso e trionfale dell’opera tassiana nell’ambito di ogni genere poetico, e dell’universale, incontrastato dispiegarsi della sua influenza, di cui torna a farsi emblema l’ombra dominatrice cui nessuno può ormai sottrarsi (vv. 1-4). Come incrollabile appariva, nel primo sonetto, il venerando e inestirpabile capostipite, così ora la fitta selva dei rampolli, immarcescibili nelle lor perpetue frondi (variante più matura rispetto a un precedente i lor fioriti rami), oppone immobil pondo alle maligne raffiche australi. A questa idea di salda resistenza al tempo e alla fortuna (garanzia di immortalità attraverso le opere, cui alludeva l’ambiguo dettato della lettera) si accompagna le perenne vitalità del frutto – biologica finalità di ogni pianta, e trasparente allegoria del contenuto morale – degno di essere serbato e tramandato, pegno prezioso e nutriente, a le future età. Per il Grillo nessun poeta godette quanto il Tasso – autore dell’epos cristiano – dei favori di una geniale ispirazione poetica dettata ex alto da una celeste Musa (vv. 5-8). Le terzine adottano la prospettiva postrema delle future età, testimoni di una gloria imperitura. Il Tasso vivrà, immortale: ma ai contemporanei sarà invidiato il privilegio di aver visto tra mortali some colui che, spogliato della sua proiezione emblematica, torna ad essere infine un nome proprio (ripetuto al v. 13 per artificiosa simmetria con CCXXIIII, 14). Così come le metaforiche eccelse piante si rivelano da ultimo carte vergate con tanta sapienza da costituire ormai la regola inviolabile e imprescindibile di ogni poesia lirica e epica. Vertice della poesia di ogni tempo, il Tasso, è per il Grillo innanzitutto una presenza vivente, cui si può non solo scrivere una lettera e indirizzare sonetti (magari sperandone risposta), ma che si può incontrare, sentendosi onorati di condividerne i giorni. Direi che in questa genuina emozione, quasi di postero più che di epigono, sia dato riconoscere il tratto più simpatico e vivo del sonetto. Del resto sono proprio l’oltranza e il calore degli affetti – espressi nella lettera più ancora che nei sonetti – a colpire il sensibilissimo prigioniero di Sant’Anna e a indurlo a una risposta non convenzionale (e assai più spontanea di quella dell’ammiratore):
Io ho conosciuta Vostra Paternità reverendissima ne la sua cortesissima lettera, quasi in una viva imagine de l’amor suo; e benché ogni parte mi sia grandemente piacciuta, l’affezione, nondimeno, che mostra di portarmi, oltra tutte l’altre m’è stata cara. Però non contento di questa prima cognizione, desidero di conoscerla ancora di presenza; e la prego che supplichi il Signore Iddio con tutto il cuore, che tosto ce ne conceda l’occasione. Fra tanto le mando la risposta a’ due sonetti co’ quali m’ha onorato.12
Torquato prega l’interlocutore di ricordarlo ad alcuni benedettini di sua conoscenza e a tutti i padri della Congregazione, rievocando anche un caro ricordo della propria fanciullezza: «l’antica ed intrinseca dimestichezza» avuta con molti di loro «nel monastero de la Cava». Istituisce o rinnova così una reciprocità e corrispondenza di sentimenti affettuosi con l’Ordine che sottintende una richiesta di aiuto e protezione. Perché ciò che la lettera del Grillo rimuoveva del tutto e i suoi versi celebrativi velavano pudicamente era proprio la dolente e disperata condizione del detenuto. Tutto il non detto, tutto il rimosso precipita nella stridente tensione drammatica, nella risentita amarezza della risposta per le rime al secondo sonetto: una risposta, nella dialettica tra autore e opere, inglobante anche il primo.
Io sparsi ed altri miete; io pur inondo
Pianta gentil, cultor non forse indegno,
Ed altri i frutti coglie: e me ’n disdegno,
Ma per timore il duol nel petto ascondo.
Io porto il peso; io solco il mar profondo,
Altri n’ha la mercè: chi giusto regno
Così governa? O chi sarà sostegno
S’in terra caggio o tra gli scogli affondo?
E mentre pur m’attempo e d’anno
in anno Sento le forze in me più stanche e dome,
Non sono eguali al dolor mio le glorie,
Né verdeggia in Parnaso a queste chiome
Sacrato lauro: e, perché arroge al danno,
Son tromba muta a mille altrui vittorie.13
Ogni serenità idillica è spazzata via dal sarcasmo. Alla spontanea, naturale esuberanza, alla fecondità benedetta e felice degli aurei semi diffusi dall’albero e germinanti senza sforzo nel selvoso rigoglio delle opere, si sostituiscono la dura fatica del seminatore defraudato del raccolto, la cura delicata e incessante profusa dal cultor, di cui la litote del v. 2 vela di modestia l’orgogliosa coscienza artistica. Rifiutando la consolante metafora-emblema della pianta inesauribilmente feconda propostagli con ostentata imitazione dal monaco (e a lui tanto cara), Torquato si identifica questa volta con l’agricoltore frustrato.14 Il gesto presente, attuale del mietitore, che dovrebbe essere il naturale compenso di laboriose fatiche passate (e postula pertanto un unico soggetto, come in Rvf 186, 5 L’esca fu il seme ch’egli sparge e miete), viene usurpato nel modo più iniquo e si trasforma in un beffardo oltraggio. Non impossibile un ricordo di Io 4, 37-38 («alius est qui seminat, et alius est qui metit. Ego misi vos metere, quod vos non laborastis; alii laboraverunt, et vos in labores eorum introistis»), ridotto però dal coinvolgimento personale a schernevole proverbialità negativa, senza la consolazione di provvidenziali disegni trascendenti. La prima quartina è infatti scandita e bipartita con esasperata energia dall’anadiplosi dell’io cui corrisponde l’antitesi più conflittuale (ed altri 1; 3). L’opposizione si estende ai verbi, alle azioni che si moltiplicano. La secca, tesa brachilogia del primo emistichio trova variazione e sviluppo nella seconda, parallela frase integrata dai complementi oggetti (il primo affettuosamente rilevato dall’inarcatura) e dall’apposizione del v. 2, frase che si distende fino al primo emistichio del v. 3. L’insostenibile iniquità produce un sentimento di ribellione (che nel riflessivo e me’n disdegno chiama ancora una volta in causa il pronome oggetto di prima persona). Ma l’amara sofferenza per il torto patito deve essere repressa per timore: la violenta coercizione esercitata sul corpo del prigioniero si estende a sentimenti ed emozioni. Il grido di dolore deve essere soffocato nel petto. Il presunto ‘‘forsennato’’ è costretto a padroneggiarsi esercitando su di sé uno spietato dominio. La sua condizione assume l’esemplarità di una disperante parabola del mysterium iniquitatis (il seminatore richiama quello di Mt 13, 1-8; il cultor, l’uomo che piantò e curò la vigna vedendosene poi negare i frutti dai mali agricolae di Mt 21, 33-46).15
In un crescendo ossessivo l’identico schema si riproduce nella seconda quartina. Il v. 5 e il primo emistichio del v. 6, nel condensare con essenzialità asindetica il motivo dei vv. 1-3, lo dilatano e lo proiettano in uno spazio più vasto, teatro di fatiche titaniche. La terra e l’acqua, chiamate in causa dai gesti del cultor che seminò (sparsi 1) e seguita a irrigare (inondo 1), evocano ora lo sforzo, la tensione e i rischi di altre azioni ben più eroicamente dinamiche e avventurose. Colui che si sobbarca con strenua dedizione – il dono della poesia non è gratuito – , l’io tenace e audace, deve tornare a constatare, lapidario, che Altri n’ha la mercé. La fortissima cesura del v. 6, segnata con asprezza quasi brutale dal troncamento in un endecasillabo a maiore, dà luogo a due domande che sono quelle, eterne e senza risposta, di Giobbe sulla polvere e sulla cenere. Quel pronome interrogativo (chi ... o chi ...?) due volte ripetuto – al pari di io, al pari di altri – introduce un terzo enigmatico personaggio nel conflitto. Il Tasso non dimentica che sta rivolgendosi a un religioso. Dov’è la giustizia, dov’è Dio, si chiede con amaro sarcasmo, lasciando che siano i fatti a dare la risposta, in essi del resto già implicita (chi giusto regno / Così governa?). Il mondo appare dominato da un cieco caso, se non da un maligno destino.16 Se è così, al giusto offeso non resta speranza. La seconda domanda si ripiega pateticamente sulla sorte dell’individuo, derelitto baiulo schiantato dal peso, o naufrago agitato e quasi absorto tra gli scogli. Questo secondo motivo è sviluppato nel dolente bilancio esistenziale delle terzine, che intonano la mesta elegia del declino fisico, della spossatezza di forze interiori sempre più stanche e dome, consumate dall’accumularsi degli anni, in un processo inesorabile il cui solido retaggio di dolore profondo e inconsolabile non è compensato, né può essere confortato, dalle glorie: parvenze che quel volatile plurale rende ancor più labili e inconsistenti (la iniziale struttura torna ora non più espressa nell’esasperata energia dell’io soggettivamente proteso all’azione esterna, bensì malinconicamente oggettivata e ripiegata nella interiore percezione di sé: m’attempo 9; Sento le forze in me 10; Non sono eguali al dolor mio 11).
L’ultima terzina, poi, sembra richiamarsi alla prima delle due proposte. Né verdeggia in Parnaso 12 riprende l’immagine del Tasso-albero che s’inalza verdeggiante fuore (CCXXIIII, 6), trapiantato da Febo sul vertice di Parnaso (CCXXIIII, 1-4). Il motivo delle Muse che, all’ombra del Tasso, de le sacre fronde / Si fan corona in compagnia del Sole (CCXXIIII, 9-11) riecheggia nel rifiuto opposto da Torquato a ogni illusione e in particolare alla chimerica consolazione derivante da un riconoscimento puramente virtuale (Né verdeggia in Parnaso a queste chiome / Sacrato lauro 12-13). Il duro linguaggio della verità sfronda gli allori, spoglia i travesti-menti mitologici (particolarmente leziosi in bocca a un ecclesiastico). Il componimento si chiude nel segno di una amara sconfitta e del silenzio. Sia il Maier, sia il Basile sembrano intendere il secondo emistichio del v. 13 (e, perché arroge al danno) alla stregua di una finale e arroge come un congiuntivo impersonale intransitivo (il primo chiosa: «aumenti il»; il secondo: «s’intensifichi», facendo entrambi del danno il soggetto). Ma il Tasso sta citando in clausola Rvf 50, 53 («et duolmi ch’ogni giorno arroge al danno»), dove arroge, voce del lessico giuridico-mercantile, ha un soggetto espresso e un oggetto sottinteso ed è presente indicativo (come del resto nella canz. Amor, i’ piango del Casa, Rime XLV, 56-60, dove il verbo oltre al soggetto regge anche un oggetto). Mi pare dunque si possa intendere: e perché ciò (il fatto che non verdeggi per me in Parnaso la laurea poetica: vale a dire, il mancato coronamento del poema eroico, rimasto imperfetto secondo il giudizio assoluto dell’arte – il Parnaso – ,senon nell’apprezzamento corrivo del pubblico, cui anche il Grillo mostra di indulgere nella seconda proposta; e insieme l’inaridirsi della linfa poetica a causa della prigionia, che impone una forzata interruzione del processo creativo) aggiunge (qualcosa) al danno (alla sistematica spogliazione, al saccheggio prematuro – denunciato ai vv. 1-4 –dei frutti ottenuti dal paziente lavoro del cultor), sono ridotto (in conseguenza di tutto questo) ad assistere in un silenzio impotente – ammutolito strumento dell’epos – a mille successi altrui. E così, alle opposte estremità dell’iperbolica sproporzione (a mille), rilevata fonicamente dall’allitterazione e bilicata al centro dell’ultimo verso, si riaffaccia, ormai su una nota di spenta amarezza, di constatazione rassegnata della sconfitta, quella stessa lancinante antitesi io-altri, intonata in principio a un superstite spirito di ribellione. L’attività instancabile, benché frustrata, che all’inizio connotava l’io si ribalta ora in una condizione di forzata passività e inerzia (Son tromba muta): la resa di un vinto contrapposta agli innumerevoli, incontrastati squilli delle altrui vittorie.
Il Grillo, che come si è visto aveva iniziato la corrispondenza poetica nel registro della lode più rasserenante, esteriormente celebrativa e letteraria, è di colpo costretto a mutare (per quanto gli è possibile) tono di fronte all’amarezza disperata del malinconico prigioniero che bruscamente lo riporta alla realtà di un dolore inconsolabile. Dalla lettera del Tasso del 13 maggio 1584 deduciamo che Torquato aveva ricevuto altri due sonetti dal padre, al primo dei quali si affrettava a rispondere, mentre rinviava sine die la risposta al secondo (la stessa strategia che abbiamo supposto impiegatain precedenza perarginare la debordantefacondiadell’ammiratore). Accogliendo ancora una volta l’ipotesi del Guasti, il Solerti individua la risposta in Rime 939 e la proposta in Rime morali CCXXXIIII (c. 91r). Si spinge poi a congetturare che la seconda risposta (cui peraltro nessuna lettera fa più riferimento) fosse «inviata di certo poco dopo la precedente». Infelicemente la identifica con Rime 940, sonetto responsivo a Rime morali CCXXXV (c. 91r). Faccio però notare che, a differenza di Rime 937, 938, 939 e 942 –tutti sonetti inclusi nella Parte Quarta delle Rime et Prose del Tasso (In Venezia, 1586, Appresso Giulio Vasalini) – Rime 940 compare soltanto nella Quinta e Sesta Parte (In Venezia, ad instanza di Giulio Vasalini [...], 1587). Ma, soprattutto, un attento esame di quest’ultimo sonetto e della relativa proposta rivela che argomento di entrambi non è la appena avviata corrispondenza poetica della primavera del 1584, bensì una raccolta di rime tassiane d’occasione e autobiografiche (forse l’Aggiunta alle Rime, Et Prose, Venezia, 1585, Presso Aldo; o la Parte Terza del Vasalini, risalente allo stesso anno; o più probabilmente la silloge manoscritta affidata dal Tasso al reverendo Licino;vi torneremo).
Ritengo assai più probabile quindi che la prima proposta, cui il Tasso dichiara di aver soddisfatto tempestivamente nella citata lettera del 13 maggio, sia identificabile con Rime morali CCXXXIII (c. 90v): vale a dire con il sonetto che immediatamente consegue nella definitiva edizione Ciotti 1599 a Quegli aurei semi (CCXXXII, c. 90v). L’ipotesi del Solerti che essi, nati a un parto, corrispondessero a quelli di cui il Tasso accusa ricevuta nella prima lettera del 25 marzo (rispondendo subito a entrambi, come abbiamo visto supporre un poco incautamente allo studioso, con Rime 938 e 939), mi pare smentita da precisi elementi interni. Il sonetto CCXXXIII presuppone infatti nel modo più evidente che il Grillo avesse preso atto dei noiosi pensier che impiagavano il cuore del Tasso: che avesse cioè letto il primo e unico, amarissimo, sonetto responsivo con cui il detenuto aveva cumulativamente risposto ai suoidue di smaccato encomio. Basta leggerlo per convincersene:
Benché l’invida dea co ’l duro strale
Di noiosi pensier t’impiaghi il core,
Non però la di te parte migliore
Langue, ma spiega al cielo invitta l’ale;
E intenta a contemplar cosa immortale,
Onde mai sempre il tuo nome s’onore,
Rende sovente a te men liete l’ore
Enefa[lez. precedente: rende] egro il tuo stato mortale.
Ma se d’huom che procuri eterna fama
Con sì rare eccellenze è solo oggetto
L’alta immortalità de’ suoi desiri,
Quanto puoi, Tasso, i tuoi gravi martiri
Chiamar felici, or che sì nobil brama
Adempi, e di tua stella anco il difetto.
La concessiva che apre il componimento (vv. 1-2) prende atto della perturbante domanda posta dal Tasso (chi giusto regno / Così governa?) e vi risponde con un’implicita teodicea: non un dio ingiusto, ma la fortuna, questa più capricciosamente, femmineamente volubile immagine del caso (o di ciò che a noi pare tale, sottintende l’uomo di chiesa). Invida dea, essa non pare tuttavia bersagliare la propria vittima dall’esterno, con i dardi di sventure oggettive, in una persecuzione incessante (secondo il mito esemplarmente elaborato da Torquato nella canzone O del grand’Apennino; o nel sonetto al Cato Quella che nome aver di dèa non merta, di cui alla n. 16: a quest’ultimo il Grillo allude fin dall’incipit; e ne richiama espressamente i vv. 5-8 «Onde perch’aspramente io già sofferta / Abbia più d’una piaga di suo strale, / La spero amica, e s’anco io non l’ho tale / L’anima ho contra lei d’arme coperta»; per non dire delle terzine, il cui ansioso dubbio circa la possibilità di riprendere il volo poetico rimettendo mano alla Liberata viene dato dall’imitatore in vena di consolazione per già superato nella trionfante attualità dell’opera perfetta). Al contrario, la fortuna agisce dall’interno e sulla psiche: le sue armi sono i noiosi pensier che trafiggono e tormentano l’anima del malinconico. (Non per nulla nel Messaggiero la malattia viene assimilata all’Idra, «perch’a pena il malinconico ha tronco un pensiero che due ne sono subito nati in quella vece, da’ quali con mortiferi morsi è trafitto e lacerato»). La fortuna ostile al poeta non è dunque altro che un portato e una proiezione della sua malattia. Prima ancora di averlo conosciuto di persona, il Grillo si rivela già preda del pregiudizio che scorge nel «povero Tasso» un caso psichiatrico e una vittima di sé stesso. Subito egli avvalora la consueta scissione, fonte di perpetuo stupore per i contemporanei. Benché quando parla di sé e denuncia la propria infelicità Torquato sia l’uomo affetto dall’umor nero (sua fortuna e nemesi); non per questo langue (altro verbo dalle risonanze medico-fisiologiche), proclama incoraggiante il religioso, la di te parte migliore, vale a dire il genio poetico che, nonostante tutto, si libra invitto nei cieli della poesia.
La seconda quartina contiene una sorta di diagnosi: quanto più si sublima la parte libera e invitta dell’intelletto nella contemplazione di pure forme trascendentali del bello (cosa immortale), contemplazione che si traduce in opere altrettanto immortali e di conseguenza procura gloria; tanto più, quasi per contraccolpo, lo stato mortale dell’individuo, il suo corpo negletto e consumato, cade preda della malattia che lo contrista (ma la litote attenua la disperazione fino a privarla di ogni tragicità e grandezza: Rende sovente a te men liete l’ore 7).
La sublime dismisura della tensione creativa, vero stupefacente dell’anima che schiude le porte di paradisi artificiali, sembra avere per inevitabile contropartita la depressione, una volta rientrata nei limiti angusti di una individualità senziente e pensante.
Le terzine invitano ad accettare serenamente tale dicotomia.17 Se l’artista che s’adopera a eternarsi per mezzo di un capolavoro di tanto rara e eccelsa qualità quale la Gerusalemme liberata ha come unico fine nell’esistenza che le sue più alte aspirazioni trovino il loro supremo coronamento nell’alta immortalità dell’opera; se, in altre parole, la vita del poeta acquista senso dal sacrificio ascetico e dalla abnegazione con cui tende a un ideale spirituale e religioso d’arte; allora il Tasso, vera espressione di un tormento creativo dal valore quasi penitenziale ed esemplare, può – in una siffatta prospettiva cristiana – accettare, proclamandoli addirittura felici, i suoi gravi martiri: solo attraverso quella sorta di via crucis che comporta la rinuncia e la mortificazione di una parte di sé è stato possibile godere ora, per compenso, del pieno adempimento nell’opera (adempi, verbo dalla forte risonanza religiosa, indica insieme il compimento del sacrificio – consummatum est – e la pienezza che ne è il frutto) di una sì nobil brama che è, attraverso la parola, salvifica tensione al divino. Da quella pienezza, raggiunta per sempre, viene colmato e riscattato anche il difetto, la tara della malinconia sotto il cui astro saturnino la sorte o la fortuna – invida dea – hanno voluto che il poeta nascesse: per il suo bene, dunque: perché tutto, alla fine, trova giustificazione in tale implicita prospettiva provvidenziale.
Siamo esattamente agli antipodi rispetto ai concetti espressi nei primi due sonetti con le loro metafore di rigogliosa e spontanea fecondità vegetale. E se nel primo di quelli venivano evocati il Parnaso, Apollo e le Muse, ora nel secondo testo è proprio l’epos cristiano – cosa immortale, come abbiamo visto, anzi garanzia suprema di salvezza, per le rare eccellenze formali e ancor più per la sublimità della tensione salvifica che lo anima e in cui l’artefice espresse l’alta immortalità de’ suoi desiri – a essere espressamente nominato. Perché, se non m’inganno, a far coppia con CCXXXIII, corroborandone gli argomenti consolatori, è Rime morali CCXXIX (c. 89v):
Tra i simulacri de la mente eterni,
Alte memorie di gran Cigni illustri,
Veggio il tuo spirar vivo, in cui t’illustri
Non pur, ma sovra gli altri anco t’eterni:
Che vinti i prischi a’ color tuoi moderni
Cedono, e a l’arte nova i vecchi industri,
E chi verrà dopo girar di lustri
N’ammirerà gli spirti divi interni.
E sacrerà de la tua fama al tempio
II cor, mentre tu in Ciel cinto di stelle
Havrai trionfo al pio Goffredo a canto:
Che s’ei tolse da genti a Dio rubelle
Gierusalem, tu co ’l sublime canto
Togliesti ambo a l’oblio rapace, ed empio.18
Ancora spirante e vivo, il Tasso ha conquistato un posto nel Pantheon dei grandi poeti epici: vi si è anzi eternato sovra gli altri. Se l’ultima terzina del sonetto responsivo di Torquato (Rime 937) si chiudeva su un’immagine di sconfitta (Son tromba muta a mille altrui vittorie), essa viene qui ribaltata in una trionfale immagine di vittoria, di vita perenne nell’ammirazione dei posteri, quasi a ribadire il motivo sul quale si chiude Rime morali CCXXXII. Soltanto che ora agli emblemi di una poesia profana si sostituisce l’immagine di una poesia sacra e cristiana. Non siamo più sul giogo di Parnaso, sotto gli ombrosi rami del bosco sacro ad Apollo e alle Muse dove si celebrano riti pagani. Siamo sotto la volta di un tempio cristiano, dove il devoto – il Grillo stesso e altri infiniti dopo di lui – potrà consacrare il proprio cuore, senza peccare contro la fede, al simulacro votivo che perpetua il nome del cantore della Crociata; mentre Torquato, in Ciel cinto di stelle, potrà finalmente godere (secondo l’auspicio già formulato nella lettera) della sempiterna mercede procuratagli dal suo merito singolare di poeta cristiano, trionfando al pio Goffredo a canto (vv. 9-11). Il merito del sublime canto del Tasso non è, a ben vedere, diverso da quello di un ispirato agiografo (o di un predicatore) che abbia saputo riportare Gierusalem al centro dell’ispirazione poetica, sottraendola all’oblio rapace ed empio in virtù di moderni colores retorici e di una scaltrita nova arte. Non a torto il Ferretti ha potuto discorrere, per il Grillo e per altri benedettini, di una «poetica della conversione»19 (sempre che il termine venga spogliato di ogni intima e interiore valenza autenticamente spirituale per designare soltanto un rivolgimento tematico, una riconsacrazione della retorica dal profano al sacro).
Tali i «conforti spirituali» piamente dispensati al detenuto dal monaco. In ragione dei quali il Caretti ritenne addirittura di poter individuare nel 1585 il termine post quem Torquato inaugura la frequentazione della lirica sacra e coltiva gli interessi teologici tanto decisivi per la sua poesia ultima. Cercherò di dimostrare come questa prospettiva, ancora condivisa da alcuni studiosi delle Rime sacre tassiane (cui si ascrivono gran parte dei sonetti composti su sollecitazione del Grillo), vada riconsiderata e corretta.20 Mi pare intanto che solo tenendo presente il dittico testè esaminato nei suoi due momenti (nel primo, la dicotomia tra la di te parte migliore, capace di sublimarsi e contemplar cosa immortale, da un lato; e, dall’altro l’aegritudo derelitta del tuo stato mortale, da accettarsi con pazienza e addirittura con letizia, quasi come inevitabile scotto per il sovrabbondare della grazia; nel secondo, la canonizzazione dell’opera, espressione della parte sublimata – nella quale soltanto l’autore vive, remoto dalle miserie terrestri – intesa come preludio e promessa di beatitudine), e ancor più nei suoi sottintesi, la risposta del Tasso divenga pienamente comprensibile.
La mente in questo grave incarco e frale
Non ha spedito volo o certo onore,
E nel suo regno ch’è sì pien d’errore
Serve la mia fortuna omai fatale.
Tu mi sciogli dal fato, a cui non vale
L’alma a sottrarsi, e tu mi dà valore
Mentre, come ape va di fiore in fiore,
La tua di luce in luce ascende e sale.
E dove ombra di ben la sù non s’ama,
Tu dimostra il sentiero, ANGELO eletto,
Da volar sovra il sole e gli altri giri;
E quando avien ch’a falsa gloria aspiri,
Tu d’alto pur mi scorgi e mi richiama,
Ch’omai di vero lume un raggio aspetto.21
Torquato rifiuta per prima cosa di scindere la mente dal corpo. Riafferma così fin dal primo verso la propria tormentata condizione insieme fisica, psichica e intellettuale di prigioniero di un corpo materiale opprimente e malato, inerte e debole e perituro. Come può fare solo chi abbia un sentimento tragico della vita, pronuncia, per due volte in versi contigui, la parola proibita: fato. Nega anche subito, in conseguenza di ciò, la facile consolazione proposta dal corrispondente (un’altra ne va cercando, come vedremo, di liberazione interiore). La sua mente turbata non si libra, pronta e lieve, in volo; non ha raggiunto, contemplando, alcuna certezza di un trascendente compenso, che non sia la fama transitoria decretata dagli uomini, bensì certo onore 8 (e il sintagma in clausola del v. 2 mi pare alludere al trionfo in cielo preconizzato da Rime morali CCXXIX, 9-11).
L’intelletto, il νοῦς, la parte divina e immortale dell’anima, il nostro io autentico a cui la natura ha dato la possibilità di dominare le passioni (τὸ ἡγεμουιϰόυ),22 nel suo regno ch’è sì pien d’errore, esercitando sulla individualità psichica del soggetto un potere offuscato e incerto, ha perduto coscienza di sé e non sa più dirigere la turbolenta e passionale anima inferiore. Perciò esso, «la virtù che non ha padrone» (Platone, Repubblica X, 617 E 4-6), si trova asservito.
Dubito che don Angelo comprendesse davvero ciò che qui il Tasso sta dicendo. Egli allude alla dottrina psicologica dei Platonici. Nel Timeo (69 C 3-D 6) Platone discorre delle terribili e necessarie passioni che incatenano quaggiù, nel mondo del divenire, la «seconda anima», l’anima sensitiva e passionale che forma un composto con il corpo ed è, come esso, mortale: in primo luogo il piacere, causa di male grandissima; e inoltre i dolori che mettono in fuga i beni; e l’audacia e il timore, consiglieri senza senno, e la collera implacabile; e la speranza che si lascia facilmente sedurre. Nel mito platonico furono «gli dèi creati» – gli astri con i loro influssi – a porre nella seconda specie di anima, da loro costruita dentro il corpo e mortale, le passioni che hanno il potere di farla soggetta al fato. In Enneadi II, 3, 9 Plotino richiama questo testo e gli affianca il mito di Er (Repubblica X 616 c 4 e 617 C1–D1). Il fuso che le Moire filano – dice dunque Plotino – per Platone è allegoria del fuso dei pianeti e delle stelle fisse nella loro rotazione. Le Moire e la loro madre, la Necessità, lo girano e, filando, ne traggono il destino di ciascuno al momento della nascita. Dagli astri – come abbiamo visto – gli uomini ricevono il corpo e «l’anima seconda». Anche i caratteri derivano dagli astri, e le azioni che ne conseguono, nonché le passioni da cui ogni carattere è affetto. «Ma, allora, a noi stessi cosa rimane?», si domanda Plotino. Rimane il nostro io autentico, la mente, immortale virtù che non ha padrone e ci è stata concessa da Dio. Per non dimenticarsi di questo sé superiore, per non ridursi a un semplice composto, corpo dotato di un’anima in cui prevale la natura corporea e che dell’anima serba solo qualche traccia, si deve fuggire da qui e separarsi da quello che è in sovrappiù. L’elevazione alla dimensione del bello e del divino che non ha padroni è compito di un’altra anima estranea al corpo (l’intelletto, il νοῦς θύραθευ dei Peripatetici) la quale, una volta che ha ripreso coscienza della propria natura ontologicamente separata dal sensibile, si adopera per immedesimarsi con il divino e vivere in conformità con esso, ritirandosi dal mondo. In caso contrario, senza quest’anima o serbandone solo una coscienza offuscata, un uomo vivrebbe in balia del destino: ridotto a composto materiale in cui prevale il grave incarco e frale non potrebbe che servire la sua fortuna omai fatale (v. 4)23 . Proprio in quanto Angelo dunque (e qui il Tasso gioca con esoterica impreveduta sottigliezza su una interpretatio nominis altrimenti banalizzata nel modo più stucchevole da tutti coloro che lodarono in rima il monaco letterato) il corrispondente può scioglierlo dal fato (di qui la supplice esortazione: «Tu mi sciogli dal fato, a cui non vale / L’alma a sottrarsi» 5-6).
Tutti i testi cui ho fatto riferimento, ben noti al Tasso, sono da lui esemplarmente condensati in un passo del Cataneo overo de le conclusioni amorose nel quale è Torquato in persona a prendere la parola per confutare dialetticamente il determinismo astrologico dell’altro principale interlocutore Paulo Sanminiato (il quale, per inciso, lo aveva appena prudentemente esortato a lasciare «le questioni de’ nostri teologi da parte, perché fra noi è contesa academica anzi che no»):
T. T. Come vi pare; ma io posso dire con gli Academici e co’ Platonici che, quantunque fosse il fato, l’anima non è soggetta al fato, o non ogni anima è soggetta: perché l’anime, divenute intellettuali, sono liberate da la soggezione del fato, e s’alcuna ve n’ha che sia legata ne la necessità fatale quasi con nodi adamantini, se ne può discioglier, perch’è operazione degli angeli il discioglierla, come de’ demoni il ligarla. Anzi l’anima per se stessa, sì come colei ch’è creata da Dio, è superiore al fato ne l’ordine de le cose e ha maggior forza; e quantunque s’avolga nel fato quando discende nel corpo o quando incappa ne’ lacciuoli de le nostre cupidità, nondimeno, separandosi da le passioni corporee, libera se medesima da la servitù del fato e diviene quasi collega de l’anime celesti. Così rispondo co’ Platonici e co’ Peripatetici; che se fosse alcuna necessità nel fato, vano sarebbe il consigliarsi e il deliberare, vani i giudìci, ingiuste le leggi, inique e crudeli le pene proposte a’ malfattori. Ma con Tolomeo medesimo potrei rispondere che le cose procedono da Dio ne’ corpi celesti necessariamente, ma da corpi celesti negli inferiori non con egual necessità: perché la materia de le cose inferiori non è capace d’ordine certo e necessario, com’è quella de’ cieli, e ’l savio secondo il medesimo autore signoreggia a le stelle.24
Occorre precisare – la cosa è sfuggita finora a quanti si sono occupati del dialogo – che questa formulazione è debitrice (in particolare per il ruolo svolto da angeli e demoni) all’esegesi del Ficino.25 L’intervento dell’angelo restituisce dunque all’intelletto la propria libertà:26 o per meglio dire, restituendogli la smarrita coscienza di sé, della propria essenza immortale e divina, lo orienta alla contemplazione della verità trascendente sciogliendolo dai nodi adamantini con cui la necessità fatale lo aveva avvinto al mondo illusorio del divenire, fino a produrre in lui l’errore (v. 3) di identificarsi con l’«anima seconda»: l’alma che soggiace al fato, psiche imprigionata in questo grave incarco e frale, persuasa di essere una cosa sola con il composto, condannata a condividerne il destino di morte.
Mi pare che soltanto così possa chiarirsi quell’apparente ambiguità tra la mente (v. 1) – che per quanto asservita e dimentica di sé resta il Sé divino, l’intelletto agente dei filosofio lo Spirito -, e l’alma caduta nella materia, giunta a identificarsi con il proprio corpo e con il proprio destino e perciò impotente a sottrarvisi. Si tratta di due stati di coscienza. (Ogni uomo è duplice – afferma ancora Plotino – perché è sé stesso e il composto, Spirito e corpo: tra i due, l’anima, che può risalire all’origine o sprofondare allontanandosene). La condizione della mente come è rappresentata nella prima quartina appare segnata da un regresso inesorabile, da una perdita o caduta. Abdicando all’originario suo privilegio di natura intellettuale e attiva dalla illimitata libertà spirituale, la mente si rinchiude nella prigione di una condizione psichica. Diventa l’alma, e così facendo sprofonda nella inerte passività della materia, dominata dal fato. All’opposto, la seconda quartina è incentrata in un simmetrico e opposto percorso ascendente, sostenuto e accompagnato dalla liberatrice potenza (valore 6 che, formando una figura etimologica, riscatta non vale 5, ugualmente in rima), dalla virtù attiva dell’angelo. Questa opera attraverso l’esempio. Mostra la via della contemplazione e si rivela capace di ricondurre la mente, degradatasi a alma, a sé stessa. Il paragone (come ape va di fiore in fiore 7) richiama la alacrità perduta dello spedito volo, evocando insieme il movimento incessante, discendente e ascendente, delle schiere angeliche lungo le foglie della mistica Rosa in Par. 31, 7-9 («sì come schiera d’ape che s’infiora / una fiata e una si ritorna / là dove suo lavoro s’insapora»). La meta è un trascendente iperuranio. Il sentiero che vi conduce si leva tanto alto, oltre tempo e spazio, al di sopra della necessità fatale rappresentata dal fuso delle Parche – sovra il sole e gli altri giri – , che per paradosso solo con le ali di un’anima che, rifatta leggera, abbia ritrovato il suo volo vi si può ritornare fuggendo. È la patria donde venimmo, e là dobbiamo ritornare, dirà il Tasso (sempre sulla scorta di Plotino) nel Minturno overo de la bellezza: lassù si trova il regno del vero bene, lo splendore di una pura bellezza irradiata dalla verità. Questo dove non è un luogo ma la mente divina, e il Tasso lo definisce apofaticamente per viam negationis. Per raggiungerlo occorre ritrovare lo spedito volo (v. 2), lo slancio liberatore di un’amorosa contemplazione intellettuale orientata verso l’alto: un movimento e una direzione opposti all’imprigionarsi della mente appesantita in questo grave incarco e frale, asservita sempre più inestricabilmente al fato e alla materia nel suo regno ch’è sì pien d’errore (v. 3). All’opposto, ritornando intellettuale, il suo amore non più è proteso alle fallaci parvenze, alle labili ombre del bene conosciuto qua giù: immagini false che essa inseguiva illusa dalla loro irrealtà.
Sul piano stilistico la prima terzina reca evidentissima l’impronta dello stile magnifico, costituendo un esempio estremo di perturbazione dell’ordine naturale sintattico e logico, dominata com’è dalla figura dell’anastrofe. Nel v. 9 la prolessi si incrocia con la rapportatio affinché il senso stia «largamente sospeso» e sia «cagione di grandezza» (come teorizza il Tasso nei Discorsi del poema eroico): l’avverbio dove è anteposto a là su, da cui dipende logicamente; ma allo stesso modo l’oggetto ombra di ben precede il verbo non s’ama in un complesso parallelismo. L’ordine determinato dalla figura si intreccia con l’effetto ritmico e fonico prodotto dall’accumulo al centro dell’endecasillabo a maiore di cinque monosillabi (di ben là su non). Itre centrali, ossitoni, si innalzano con gli ictus ribaditi in una sorta di vertice, di acme squillante tenuta per tre battute. Quella svettante chiarità (cui concorre anche l’allitterazione) emerge dall’ombra e la rinnega. Anche la sintassi della terzina è fortemente improntata dalla prolessi. Il v. 9 anticipa la meta, creando un effetto di chiaroscuro e insieme segnando un’identità nel movimento ascendente con il v. 8, epilogo dalla temporale in cui l’alma del monaco come ape va di fiore in fiore (ombra di ben 9 sta in antitesi con di luce in luce 8, mentre là su esprime il punto culminante del movimento che ascende e sale).Alv. 10 si trova la principale con il soggetto, ribadito dal vocativo, e l’azione che esso è chiamato a compiere. Tu dimostra riprende Tu mi sciogli dal fato 5 (così come nella seconda terzina il v. 13 corrisponde a e tu mi dà valore 6). Si potrebbe osservare anzi che, forse non casualmente, all’insistita struttura dell’io ripetuto in una sorta di drammatica protesta per quattro volte in Rime 937, ne succede qui una simmetrica del tu: figura anaforica dell’urgenza che detta invocazione e preghiera. Nel vocativo Angelo eletto l’epiteto non è puramente esornativo. Allude invece alla missione liberatrice di cui è investito il celeste messaggero: mostrare il paradossale sentiero che è la via della fuga da quaggiù a là su, dal sensibile all’intellegibile. L’infinito retto da da (Da volar sovra il sole e gli altri giri 11) non designa il fine o lo scopo ultimo, ma esprime l’atto che rende possibile o il percorso e insieme lo strumento attraverso il quale approda alla sua meta lo slancio dell’anima.27 Il dove che precede ogni cosa – lo abbiamo visto – è la luce ferma, luce intellettual piena d’amore, di là su (v. 9).
Nel già ricordato celebre luogo del Minturno overo de la bellezza, ancora traducendo Plotino (Enn. I, 6, 8), il Tasso ne rivendica appunto la natura puramente intellettuale, sdegnosa di tutti gli argomenti umani. Solo lo spedito volo della mente può colmare una simile distanza:
Qual sarà dunque la fuga? Qual l’armata che ci conduca? Già non si può fuggire a piè, perché i piè portano in una altra terra assai lontana: né per questa cagione debbiamo apprestarci cavalli da cavalcare o navi da navigare; ma tutte queste cose a dietro si debbono tralasciare, anzi non si dee pur riguardarle, ma fuggir con gli occhi del corpo, usando in quella vece gli occhi de la mente, i quali hanno tutti, ma da pochi sono usati.28
Con l’ultima terzina, dalla metafisica trascendenza di un non-luogo sottratto al tempo torniamo alla dimensione temporale contingente: all’esperienza, all’accadimento sempre possibile dell’errore (E quando avvien ‘e ogniqualvolta accada’ 12, corrisponde e si oppone a E dove 10: luogo dove l’errore è negato e impossibile). L’aspirazione a falsa gloria è una di quelle ombre, di quei vani simulacri riflessi nell’acqua dai quali l’anima non deve lasciarsi sedurre se non vuole scomparire, come Narciso, nella corrente. All’Angelo eletto che domina al di sopra dell’errore (d’alto 13) spetta il compito incessante (pur) di guidare e ridestare l’anima errante richiamandola a sé. Perché quell’anima che si oscura in una sua prigione aspetta ormai, impaziente e nostalgica, l’illuminazione ex alto di un raggio della verità che rende liberi.
Certo, il sonetto è passibile anche di una lettura che, tralasciandone la significazione esoterica (l’occulta matrice filosofica, non so quanto ortodossa), si appunti soltanto sulla lettera: la concreta richiesta di aiuto e di conforto rivolta da un detenuto al membro di un potente ordine monastico. Un singolare monaco-letterato (non mi attenterei a dire: poeta) che in Rime morali CCXXXIV, 9-11 tentava di consolarlo vantando e celebrando proprio i desiri d’alta immortalità e d’eterna fama che il Tasso aveva visto adempiersi: ombra e fumo. E aveva poi subito ribadito il concetto, nella sua florida esuberanza, con l’altro componimento che proietta il grande poeta vivente nel pantheon della fama, Tra i simulacri de la mente eterni (CCXXIX). Nel rispondergli per le rime il Tasso mostra quanto più intensamente spirituale (e intendo l’abusato aggettivo in un significato il più possibile remoto dalla convenzionalità che il termine assume nella letteratura controriformistica), quanto più memore della bellezza di là su fosse la sua anima sofferente.
Qualche mese più tardi, presa una più domestica confidenza con don Angelo dopo il loro primo incontro avvenuto alla fine di ottobre e ai primi di novembre del 1584, si confessa, forse non senza una punta di ironia, con il religioso del quale aveva ormai penetrato l’indole e con cui intratteneva un dialogo terrestre:
percioché io confesso d’esser amatore di gloria: il quale amore, sì come il morso de la vipera, non suol manifestarsi se non a coloro che parimente ne sono accesi; e poiché Vostra Paternità mi scrive ch’è di quelli, posso di lei fidarmi sicuramente, e non temerne riprensione: ma peraventura, in guisa di buon medico che va diligentemente investigando il male de gl’infermi, ha voluto saperlo con questo artificio per risanarmene. Ma io non mi son mostrato mai troppo difficile a’ medici: e quantunque il male sia vecchio, tuttavolta da l’età, da gli studi di filosofia, o da l’esperienza de le cose del mondo è mitigato; e la grazia del Signor Iddio può solamente guarirlo. Fra tanto, come infermo, spero trovar pietà non che perdono, ove sia chi per alcuna prova conosca questo affetto proprio de gli uomini gentili e magnanimi, come senza fallo credo che sia quello del signor Paolo suo fratello: però con lui n’avrei ragionato con vergogna e con rispetto minore, come suole alcune volte l’uno con l’altro infermo; ma il medico de gli animi è stato troppo artificioso. E s’io non m’inganno, vorrà curarlo con l’eccesso de le cose contrarie; perché doppo tanti biasimi, doppo tante riprensioni, doppo tanti scorni fattimi in così nuove e così diverse maniere niun’altra cosa par che possa rendermi la sanità, che la soverchia lode e ’l soverchio onore e la soverchia gloria; de la quale io sarei volentieri liberale, se potessi farne parte ad alcuno.29
Di siffatte terapeutiche lodi il buon padre non fu mai scarso. Non di rado iperboliche, esse attestano invariabilmente l’ammirata devozione del discepolo che tenta di carpire al maestro i segreti della sua arte. L’incontro con il Tasso rappresenta per lui soprattutto l’occasione preziosa di portare a compimento un apprendistato retorico e letterario che resta però sostanzialmente estraneo, proiettato com’è verso l’esteriorità formale, alle intime ragioni della poesia,30 e – aggiungerei all’inquietudine dell’anima. Al Grillo preme di impadronirsi con sicurezza del novo modo incerto – una tecnica retorica – che apre la via all’alta eloquenza.
Ritirato nella sua cella, sicura se non confortevole nicchia che lo pone al riparo dal mondo, può appagare la propria passione letteraria, trovando anche il modo di conciliarla con la devozione. Il destino non mise alla prova la sua quieta esistenza. Mai dovette sentirsi prigioniero, e mai dovette sperimentare quell’impulso disperato e quel salvifico anelito alla fuga che le sventure e il dolore talvolta ridestano nella nostra coscienza assopita. Al non compreso sonetto del Tasso si riallacciò testimoniando, in una nuova proposta, quanto caldamente pregasse per lui
Pietoso i voti al mio Signore io scioglio
La notte e ’l giorno a’ suon di sacre squille,
E n’offro anche per te ben mille e mille
Per sottrarti del Fato a l’empio orgoglio;
Né a la mensa di Dio sacrar mai soglio
Santo holocausto in lagrimose stille
Ch’io non preghi che ’l Ciel ore tranquille
Ti renda, e toglia il tuo grave cordoglio.
Per compiacerlo, e vincendo una comprensibile ripugnanza, si spinse addirittura a nominare quell’avverso nume – il Fato – tanto empio e superbo (quasi una bestemmia, se non fosse consapevolmente scagliata contro un vano nome senza soggetto: chi volesse infatti conoscere il suo vero pensiero veda a c. 4 delle Rime morali il sonetto in cui Mostra la vanità del fato, della fortuna e del destino, e tutto doversi referire alla Providenza Divina: «Questo del prisco secolo rimaso / Nome a noi, Nume a lui falso et immondo, / Voce è di Dio con cui favella al mondo, / Fato mal noto in questo cieco occaso»). Ostentò infine fidente quanto incoraggiante certezza (già parmi veder) che quella invitta / Fede con la quale Torquato mostrava di avere catafratto il proprio cuore, congiunta a quella ardente / carità che me stesso in te trasforma, fossero già esaudite, e, alternamente, confortassero la mente afflitta del poeta sì ch’in te di dolor non resti un’orma (Rime morali CCXXXIIII, c. 91r).
Forse proprio ricordando tali profferte, reiterate in rima e in prosa, il detenuto tentava di rinfocolare, appena qualche mese più tardi, l’intiepidirsi di tanto zelo caritatevole. Più che conforti spirituali, Torquato, sempre pronto a illudersi, attendeva, con tormento crescente, la libertà («percioché è più di male ne l’aspettare che nel patire, come scrive Euripide»). Certo, considerando la «professione, l’abito, la modestia, la vita solitaria e lontana da’ negozi del mondo» del religioso, era in primo luogo la discrezione a sconsigliare di imporre al volonteroso amico alcun peso che non gli fosse o non gli paresse conveniente. Ma subito soggiungeva, rammentandogli evangelicamente la natura ardente della carità:
Faccia, dunque, per me quel che dee; che di quel ch’ella dee sarò tanto contento, quanto di quel che può: e questo m’insegna l’amor ch’io le porto, accompagnato da molta osservanza e da molta riverenza. Ma questo amore istesso ragiona, da l’altra parte, in questa maniera: Tutte le cose lecite si debbono dimandar per <gli> amici con grandissima instanza, né può ritrovarsi improntitudine dov’è bisogno, né importunità dov’è carità; la qual, com’ella sa, non consiste in alcuna mediocrità, ma in molta abondanza di amore. Questa, dunque, fa lecito e debito tutto quello che si può fare per la mia salute: laonde, facendo quel ch’ella dee, credo che farà tutto ciò che si possa: e questo ancora m’insegna l’affezione ch’io le porto; la quale non mi porge manco di ardore che di riverenza. La prego dunque caldissimamente, anzi ardentissimamente; ma insieme con tutto quel rispetto che si conviene a la sua virtù ed a la sua religione. E le bacio le mani. Da le mie stanze di Ferrara, il 18 gennaio 1585. 31
Lo zelo del Grillo seguitò infatti a manifestarsi, prima e dopo l’incontro diretto atteso con impazienza dal Tasso ma differito fino agli ultimi di ottobre e ai primi di novembre del 1584, soprattutto con la consueta esuberanza versificatoria. Deliziato dalla prestigiosa investitura che un simile scambio poetico con il suo nume letterario gli procurava, suo principale intento era di protrarlo, sollecitarlo con ogni mezzo e, se possibile, intensificarlo. A ogni risposta del Tasso corrispondeva pertanto, inesorabile, l’invio di una nuova coppia di sonetti. La regola binaria non patisce eccezioni neppure in questo terzo tempo del dialogo poetico. Ne è una conferma ciò che Torquato scrive il 2 luglio 1584, replicando al padre che, con citazione salmistica, doveva averlo sollecitato a non rinviare la risposta per le rime in attesa della visita tanto sospirata ma non imminente:
Io non dubito che la Vostra paternità debba mancarmi de la sua parola, però la prego che non voglia lasciarmi più lungamente in questa sospensione d’animo, dico de la sua venuta, ne la quale dilatabo os meum, per seguire il consiglio che Vostra paternità mi diede. Fra tanto sia certa, ch’io non solo penso di rispondere a’ suoi sonetti, ma a tutte quelle cose che possono maggiormente confermare la nostra amicizia. E le bacio le mani.32
Assai più proclive del Tasso a dilatare os suum, don Angelo doveva con ogni probabilità aver allegato al sonetto con il quale assicurava le proprie preci, anche Rime morali CCLXI (c. 92v). Si tratta in effetti di un testo che costituisce, ancor più scopertamente del precedente, una diretta risposta alla risposta tassiana (Rime 938). Questa è incentrata, come si è visto, oltre che nel tema del fato (non per nulla richiamato dal Grillo nel testo citato supra), in quella anfibologica invocazione all’angelo, di cui il destinatario non penetrò i reconditi significati. Attenendosi perciò solo a quelli più esteriormente elogiativi e letterali, il monaco se ne sentì chiamato a esibirsi, nella seconda proposta, in un pio esercizio di contrizione: mortificare in sé ogni superbia per evitare di cadere, sotto il peso della lode, «in un baratro di propria estimazione», come confida a un confratello proprio a proposito dei lusinghieri apprezzamenti contenuti nelle lettere del Tasso, rivolti, in vero, più al religioso che al poeta. (In questa stessa pagina provvede del resto egli stesso a mettersi in guardia – quanto opportunamente! – contro «una certa libidine o prurito di lingua così nel lodare, come nel vituperare, nel quale èdifficile che abiti la verità»).33 Trapela nondimeno da questo secondo sonetto il compiacimento di vedere il proprio poetico e angelico simulacro eternato da tanto scoltor canoro (il Tasso). L’immagine di sublime e ideale bellezza che quel divin scalpello ha saputo cavare dal grezzo blocco non corrisponde, ammette l’interessato, alle forme impure del modello. Se vuole ritrarlo nel suo vero sembiante, l’artefice deve distogliere lo sguardo dall’iperuranio regno delle idee per affisarlo in valle oscura e ria (evidente nelle terzine la ripresa e il rovesciamento dell’antitesi tassiana tra là su e qua giù). Cito il testo intervenendo sull’interpunzione e correggendo un errore della stampa che lo rendono incomprensibile:
Nel tempio eterno de la fama spira
Il simulacro mio, scoltor canoro,
Del tuo divin scalpello almo lavoro,
Ch’i sacri marmi d’Elicona inspira.
Ma chi distinta ogni sua parte mira,
Fabro celeste ha di celeste choro
Angel finto, dirà, co ’l bel thesoro
Onde spirto sovran qua giù s’ammira.
Dal ciel del ciel34 la mente alta richiama
A forme impure, in valle oscura e ria,
Se di formar l’imagin mia sei vago:
Ciò c’ha di men pregiato, e men di vago
Nostra natura, fuor che ardente brama
Di virtù, fingi, e mia figura fia.
Nulla potrebbe essere più eloquente di questa coppia di sonetti per dimostrare quale abisso invalicabile – non dico poetico, ma speculativo, filosofico, spirituale – separasse i due corrispondenti. Il monaco letterato non poteva essere, e non fu, l’angelo del Tasso, il liberatore venuto a scioglierlo dal suo destino ormai fatale. Ciascuno salva sé stesso. Il Tasso filosofo era il primo a saperlo. E non credo neppure che si illudesse troppo di essere compreso (non è raro che persino nei suoi versi d’occasione rivolti a religiosi – il sonetto in morte dell’inquisitore Constabili ne è un esempio preclaro – si nascondano messaggi esoterici che paiono attendere il lettore capace di intenderli). L’angelo necessario era per lui, in primo luogo e fin da principio, un’ipostasi del νοῦς θύραθευ dei Neoplatonici e di Alessandro di Afrodisia. Messaggero di un’altra dimensione, la sua epifania avviene in interiore homine: esso abita nel pensiero interno. Il prigioniero ne è cosciente fino al punto di lasciare affiorare il proprio intimo sentire con la massima chiarezza consentita nel sonetto nel quale Loda i padri di San Benedetto che si ragunavano a capitolo e li prega che gli mandino il padre don Angelo Grillo. Si badi a quell’ultima terzina, sulla quale aleggia l’ombra malinconica di un dubbio inespresso e segreto, diffuso e quasi inavvertitamente protratto dall’intonazione interrogativa che accomuna e satura tutte le precedenti sezioni del testo e si ripete, da ultimo, ma intimamente smorzata, sussurrata quasi al confessionale del cuore, solus ad solum:
Servi di Christo hor nel suo nome accolti,
Onde treman le forze empie e nimiche
E le tartaree porte; alme pudiche,
Spirti d’ogni vil cura in terra sciolti,
Sublimi ingegni a l’honor suo rivolti,
Sonore lingue a la sua gloria amiche;
Deh, quando fia che de le colpe antiche
Altri mi purghi e con pietà m’ascolti?
Chi m’illustra non pur con lume eterno,
Ma fa perfetto? E chi dissolve e sgombra
Dal cor la tema e fuor l’horride larve?
Angelo vero è questo, e mai ne l’ombra
D’oscura notte più lucente apparve,
O pur l’ho dentro al mio pensiero interno?35
Si illuse però certamente, il poeta – e il disinganno dovette essere atroce – , che quel monaco a lui devoto, quell’adepto fervente della religione delle lettere che non di rado conclude le proprie missive con la formula icastica: «E le bacio la famosa penna», potesse almeno cavarlo di prigione e porlo sotto la protezione dell’ordine benedettino, in un porto riparato dalle tempeste di fortuna dove dedicarsi, finalmente affrancato dalla servitù della rimeria cortigiana, ai prediletti studi36 (cioè alla contemplazione che ridesta il ricordo di là su). Le cose andarono altrimenti. La vicenda di cui qui ho preso in esame l’avvio, raggiunta ben presto l’acme, era destinata a consumarsi malinconicamente in poco più di un biennio. Verosimilmente il Tasso rispose entro la fine di giugno del 1584 a Rime morali CCXXXIIII (Pietoso i voti al mio Signore io scioglio) con Rime 939 (Le amare notti in ch’io m’affliggo e doglio). Ma ormai non riusciva a tenere il passo. Dalle lettere indirizzate al Grillo il 2 e il 7 luglio si deduce che l’instancabile monaco era tornato a farsi vivo con un nuovo componimento (che potrebbe essere Rime morali CCXIX, il già citato sonetto Tu mi precorri con spedito merto). Da questo momento il Tasso dà però l’impressione di centellinare i propri ambiti versi. Sembra anzi subordinarli in modo espresso a una duplice contropartita: da un lato una sollecita visita del religioso, da lui attesa con impazienza (e non certo per riceverne conforti spirituali: umani e pratici, semmai); dall’altro il sospirato conferimento della «lettera graziosa», un documento ufficiale – promessogli fin dall’inizio dello scambio epistolare – che consentiva a un laico di essere affiliato all’ordine benedettino partecipando così dei beni spirituali concessi ai monaci. La sua strategia mira scopertamente all’obbiettivo primario di recuperare la libertà, magari anche sotto la tutela monastica.37 Fa capire che ormai per il Grillo è venuto il momento di derivare le lodi che con tanta abbondanza gli veniva rivolgendo da quel fonte – la conoscenza diretta – dal quale deve derivare ogni salda persuasione che voglia sottrarsi alla volubile natura dell’opinione (o peggio dell’illusoria infatuazione):
Ora raccogliendo l’altre [scil. cose] sotto poche parole, dico che Vostra Paternità reverendissima <non> ha derivate le mie lodi da quel fonte, dal quale doveva derivar le sue persuasioni. E quantunque io mi conosca più bisognoso di queste, che meritevole di quelle; nondimeno, poich’a la sua cortesia così è piaciuto, le ricevo assai volentieri; e cercherò ch’elle facciano in me l’effetto de l’une e de l’altre, in modo ch’ella non debba pentirsi d’avermi prima lodato che conosciuto. E percioché le sue laudi si stendono ancora a le mie composizioni, ne la qual parte con minor vergogna io sostegno che mi siano date, le avrei mandati que’ cinque libri de le mie Rime, acciocch’ella temprasse, se non l’abondanza de l’affezione che mi dimostra (ch’in questa non ci vorrei temperamento), almeno quella de le parole e de le scritture, le quali mi pongono addosso maggiore obligo di quello ch’io peraventura sia atto a sostenere. Ma non ho giudicato convenevole che Vostra Reverenza prenda per me tanta fatica: e se per altra cagione le piacerà di vederle, n’averà commodità ne la sua venuta. Fra tanto si contenti di non dare ad alcuno stampatore que’ pochi sonetti i quali ha de’ miei, perché potrebbe facilmente avvenire che si vedessero migliorati.38
Per quanto garbato, risulta esplicito l’invito a temperare «l’abondanza [...] de le parole e de le scritture», se non quella dell’affezione. E chiaro appare ancora l’intento di allettare don Angelo proprio con quei condimenti letterari dei quali il religioso si mostrava tanto goloso, facendogli balenare la possibilità di diventare un lettore privilegiato, ammesso nell’officina del poeta. L’esortazione poi a essere avveduto custode dei «pochi sonetti» di cui era destinatario (almeno cinque, come abbiamo visto: Rime 937-939, più i due diretti all’Ordine), gli ricordavano la responsabilità conseguente allo status raggiunto e testimoniavano nel contempo il carattere non puramente occasionale di quei testi (sui quali il Tasso si riprometteva di tornare). Non pare che tali esortazioni sortissero molto effetto se meno di un mese più tardi Torquato era costretto a ribadirle, avendo ricevuto un nuovo sonetto, che questa volta non era rivolto direttamente a lui, bensì par-lava di lui (credo potrebbe trattarsi di Rime morali CCII Al Tasso illustre il cui poema altero, che, come suggerisce il Guastavini, fu indirizzato a Paolo Foglietta e riprende gli stessi motivi di Rime morali CCXIX (vedi la n. 30):
Vostra Paternità, scrivendo a me o di me, quasi egualmente m’obliga la risposta; e s’io non rispondo a’ versi come a le sue lettere, non avviene perch’io non conosca l’obligo, ma perché non posso così facilmente pagarlo. Laonde io la ringrazio che mi conceda questo spazio: e più la ringrazierei, s’in tutto me ne sciogliesse, o se almeno fosse contenta ch’io facessi quel che fu lecito a pastori di Virgilio; l’uno de’ quali non rispose al dubbio proposto, ma ne propose uno di nuovo, come colui al quale era parso più difficile il trovare la soluzione che l’argomento. Benché, s’io debbo palesare il vero, non considero quel che sia malagevole, ma quel che sia conveniente; e so ch’a voi non convengono se non rime elette: però mi sforzerò di farle tali.39
Il riferimento virgiliano (non individuato dal Guasti) richiama maliziosamente il canto amebeo di Egl. III, 104-107, dove all’enigma proposto da Dameta («Dic, quibus in terris – et eris mihi magnus Apollo – / tris pateat caeli spatium non amplius ulnas»), Menalca risponde a sua volta con un enigma («Dic, quibus in terris inscripti nomina regum / nascantur flores: et Phyllida solus habeto»). Ma credo che con arguta ironia il Tasso volesse soprattutto evocare, a chi avesse orecchi per intendere, il verso che suggella il finale giudizio di parità pronunciato dall’arbitro Palemone: «claudete iam rivos pueri: sat prata biberunt» (v. 111). Di fatto proprio dell’arcadica licenza qui prefigurata egli si valse finalmente dopo aver differito per mesi, pagatore moroso, il saldo di un debito poetico che cominciava a divenirgli molesto.40 Cercò di chiudere i conti non rispondendo ai troppi mediocri sonetti del corrispondente che si erano venuti accumulando e ne postulavano una, bensì inviando a sua volta (probabilmente verso la fine di dicembre 1584: cfr. n. 40) una proposta. Egli, il farnetico e prigione, il laico alla ricerca di protezione da madre Chiesa, tentò per la seconda volta, come già aveva fatto, di innalzare la corrispondenza ai temi che gli stavano a cuore: quelli, veramente spirituali, che riguardano la nostra anima. Ne uscì il sonetto Qual cristallo talor di macchie asperso (Rime 941):
Qual cristallo talor, di macchie asperso,
Non riceve le formeeivari aspetti,
Così torbido ingegno i veri oggetti
Non apprende, s’al cielo è mai converso,
E ’l cor, nel sonno e ’n alto oblio sommerso,
Fervido e vago <è> pur d’altri diletti;
Né par ch’indi s’illustri o i raggi aspetti,
Se no ’l mi rendi tu lucido e terso.
Tu questi errori e questi inganni ed ombre,
ANGELO mio terren, disperdi e scaccia,
Per cui tanto vaneggio, e parte agogno;
Né da l’Inferno a me volando ingombre
La stanca mente, ov’io riposi e giaccia,
Ma da la porta d’orïente, il sogno.
Il paragone si carica di una valenza filosofica di autocoscienza ‘‘speculativa’’ d’una estrema profondità. Ne sono illuminate a un tempo la condizione psichica perturbata del poeta e il suo anelito alla limpida quiete contemplativa. Lo specchio non è soltanto il simbolo misterioso della relazione tra il sensibile e l’intelligibile, tra l’oggetto riflesso e l’attività noetica del soggetto riflettente che in sé lo riceve (v. 2), lo apprende (v. 4). Soltanto per suo tramite, per speculum, la mente, in un atto di illuminazione speculativa, può conoscere sé stessa come intelligenza – come Dio – rammentandosi così dei veri oggetti, la realtà trascendente di lassù. Ma il cristallo di macchie asperso, figura dell’ingegno intorbidato, dell’anima obnubilata e contaminata dall’illusione peccaminosa del mondo sensibile, perde – s’al cielo è mai converso – la facoltà di riflettere il mondo che sta in alto. L’io giunge in tal modo a identificarsi con la parte concupiscibile e irascibile di sé. Anzi, il cor (sede, appunto, per Platone, della più nobile parte, quella irascibile, dell’anima ‘‘seconda’’), nel sonno e ’n alto oblio sommerso (v. 5), abdica alla propria funzione di generoso guerriero interno e, cedendo all’Idra, alla belua multorum capitum delle disordinate passioni inferiori,41 si mostra, in una inesorabile discesa verso la materia, fervido e vago soltanto di diletti altri, opposti e irriducibili alla pura speculazione contemplativa.
Ai vv. 4-6 intervengo sulla punteggiatura del testo Solerti e integro una lacuna di tutti i testimoni: solo così diviene comprensibile il nesso tra la prima e la seconda quartina, e la stessa struttura sintattica che, dopo necessaria pausa forte, riprende con Né par 7 (in correlazione con Non apprende 4). Infatti, senza il necessario ed economico restauro del verbo è, diventa impossibile ravvisare nella frase che occupa i vv. 5-6 una coordinata complessa alla condizionale s’al cielo è mai converso 4. Una identica struttura del periodo viene ripetuta del resto, in forma più concisa, nei vv. 7-8: soggetto torna ad essere il torbido ingegno. Non solo esso perde la capacità di rispecchiare. Fatto opaco come il retro dello specchio (figura per i mistici della carne cieca), non pare che più sussista, per lui, la possibilità – o dovrei dire la fiducia – di manifestarsi a sé stesso in un atto di autoconoscenza, illustrato dalla luce ex alto (indi vale appunto ‘dal cielo’): perduta, insieme con l’attesa del salvifico raggio illuminante, la speranza dell’altezza. Solo l’avverarsi di una condizione, il soccorso angelico del tu (che, contrapponendovisi, mette a nudo l’io celato dietro il torbido ingegno), vero missus dominicus di quella parte del sé che non si è mai separata di lassù, vale a restituire con atto gratuito la tersa purezza originaria. L’attiva potenza spirituale del tu domina la prima terzina. L’illuminazione deve essere preceduta da una purificazione. A essere invocato è un intervento liberatore, quasi esorcistico nella sua risolutezza militante (disperdi e scaccia 10),42 capace di dissolvere gli angosciosi fantasmi che si agitano nell’offuscata opacità della mente. Per causa loro, in balia del loro potere, la coscienza dell’io si smarrisce, perduta in un vaneggiamento senza più limite, e intanto (parte)43 patisce e fa patire all’anima impressioni dolorose cui non sa cohibere assensum.44 Cosa il Tasso intenda con quel duplice deittico che le addita quasi cosa salda (questi errori e questi inganni ed ombre 9), può immaginarlo chi rammenti alcune impressionanti testimonianze di quegli anni, come quella famosa contenuta nella lettera a Maurizio Cataneo del 30 dicembre 1585, dove sono enumerati gli «spaventi notturni» (espressione che Leopardi riprese) da cui era tormentato:
Sappia dunque, c’oltre que’ miracoli del folletto, i quali si potrebbono numerare per trattenimenti in altra occasione, ci sono molti spaventi notturni; perché, essendo io desto, mi è paruto di vedere alcune fiammette ne l’aria: ed alcuna volta gli occhi mi sono scintillati in modo ch’io ho temuto di perder la vista; e me ne sono uscite faville visibilmente. Ho veduto ancora nel mezzo de lo sparviero ombre de’ topi, che per ragione naturale non potevano farsi in quel luogo; ho udito strepiti spaventosi; e spesso ne gli orecchi ho sentito fischi, titinni, campanelle, e romore quasi d’orologi da corda; e spesso è battuta un’ora, e dormendo m’è paruto che mi si butti un cavallo addosso; e mi son poi sentito alquanto dirotto: ho dubitato del mal caduco, de la gocciola, de la vista; ho avuto dolori di testa, ma non eccessivi; d’intestino, di fianco, di cosce, di gambe, ma piccioli: sono stato indebolito da vomiti, da flusso di sangue, da febbre. E fra tanti terrori e tanti dolori, m’apparve in aria l’imagine de la gloriosa Vergine, co ’l figlio in braccio, in un mezzo cerchio di colori e di vapori: laonde io non debbo disperar de la sua grazia E benché potesse facilmente essere una fantasia, perch’io sono frenetico, e quasi sempre perturbato da vari fantasmi, e pieno di maninconia infinita; nondimeno, per la grazia d’ Iddio, posso cohibere assensum alcuna volta: la qual operazione è del savio, come piace a Cicerone; laonde più tosto devrei credere che quello fosse un miracolo de la Vergine.45
Il frenetico dubitò della verità di questa apparizione (φάντασμα secondo la classificazione tecnica di Macrobio, che, come vedremo, è la fonte cui alludono le terzine del sonetto), accomunandola agli altri incubi.46 È il disordine della stanca mente (v. 13) «perturbata da vari fantasmi» a lasciarlo sospeso nell’incertezza. Sempre da Macrobio ha appreso che i sogni veridici e divinatorî – nelle specie di oraculum, visum, somnium – sono il privilegio concesso a una mente tersa e serena: specchio capace di riflettere per simboli ed enigmi la verità di lassù. Diventa chiaro, a questo punto, quale occulto nesso tematico colleghi nel sonetto le quartine alle terzine, l’ultima delle quali si chiude con la parola sogno, il soggetto posto in rilievo da una anastrofe e da un iperbato che sospendono, in una attesa protratta fino al limite estremo (elementi ritardanti ne dilatano il tempo come lo spazio), la liberatrice epifania onirica. L’ἄγγελος è il sogno. Mentre nell’arco della terzina se ne dispiega il volo, esso muta, assecondando l’auspicio, provenienza, natura, effetto, significato. Non dalla profondità oscura, regno delle selvagge passioni, deve risalire aduggiando la stanca mente, l’oggetto del contendere posto al centro della terzina, in cui il tema del cristallo macchiato, del torbido ingegno acquista una sofferta vibrazione umana. L’io imprigionato nel corpo e abbandonato nell’incoscienza del sonno (la temporale ov’io riposi e giaccia, si pone, con quella coppia, in sottile e parziale antitesi con la stanca mente, che proprio mentre è peregrina dalla carne trova posa e quiete, già separata dalla pesante inerzia di quella) attende la visitazione del barlume aurorale, del raggio illuminante che lo raggiunge da un varco trascendente e lo libera.
La simbolica porta d’orïente non va confusa con la porta eburnea per la quale Anchise fa uscire Enea e la Sibilla («Sunt geminae Somni portae; quarum altera fertur / cornea, qua veris facilis datur exitus umbris, / altera candenti perfecta nitens elephanto, / sed falsa ad caelum mittunt insomnia manes»: Aen. VI, 893-96). Rimandando a Rime 454, 5-6 («Allor che ’l sogno da l’eburnee porte/Ame volò, del mio languir pietoso»), un sonetto amoroso composto a istanza di Matteo di Capua e legato al presente solo da una generica consonanza tematica, il Maier (e con lui il Basile) fuorvia il lettore. Sulla scorta di Macrobio (Commentarii in Somnium Scipionis I, 3, 1-20), del quale rielabora creativamente l’esegesi allegorica, il Tasso opera una personale mitopoiesi. Soltanto più tardi, nel Giudicio, egli ne svelerà il significato illustrando il sogno – o la visione – di Goffredo, così come si legge riscritto nella Conquistata (XX):
Esce nondimeno Enea da l’Inferno per la porta d’avolio, ch’è la più ornata, per cui sogliono uscir le false visioni: perché le menzogne alcune volte s’adornano più de la verità; ma il mio Goffredo entra ne la città divina per una porta di zaffiro, come si legge in que’ versi:
Non lunge a l’aurea porta ond’esce il sole,
È porta di zaffiro in Oriente,
E sol per grazia avanti aprir si sole,
Che si diserri l’uscio al dì nascente.
Di questa escono i sogni onde Dio vuole
Le tenebre illustrar di nostra mente.
Ed ora quel ch’al pio signor descende,
L’ali dorate in verso lui distende.
Ela figura a me pare convenevole oltre ciascuna altra, così per la trasparenza del zaffiro e per la similitudine ch’egli ha con gli occhi, come perché le figure che ci dimostrano la verità de le cose celesti e divine deono esser lucidissime e splendidissime molto; e perché due sono le porte da’ Platonici figurate nel cielo – come si legge nel Sogno di Scipione interpretato da Macrobio e ne la sposizione di Filopono sovra le Meteore – , l’una nel Cancro, per la quale descendono l’anime nel corpo, l’altra nel Capricorno, per cui l’anime son credute ritornare al cielo, entra Goffredo nella celeste Gierusalemme per la porta del Capricorno, e si trova nel Circolo lacteo. Sin qui ho filosofato poetando, ad emulazione de’ poeti gentili, ma non senza grande autorità de’ cristiani teologi.47
L’ali dorate del sogno che illumina la mente (destinate a grande fortuna fino ai libretti d’opera ottocenteschi) ne confermano appunto, e incontrovertibilmente, la natura di messo angelico. Ma il rapporto tra il sonetto e quel capitale luogo della Conquistata non si esaurisce con questo. Anche nel poema la visione di Goffredo non solo ha luogo nel sonno ma si configura nei modi della catottromanzia, l’arte divinatoria che scorge eventi futuri o realtà intellegibili come riflessi in uno specchio, per speculum et in aenigmate (secondo l’espressione paolina che il Tasso tiene certo presente):
Nulla mai visïon nel sonno offerse
Imagini del ver lucenti e belle,
Più di questa, ch’a lui dormendo aperse
I secreti del cielo e de le stelle,
Anzi i divini; e quasi in speglio ei scerse
Misteri d’opre antiche e di novelle.
E ’nsieme gli apparì la terra e ’l cielo,
Quasi in teatro a cui si squarci il velo.48
Non per nulla il Tasso la fa precedere da una invocazione al Sommo Sol fonte di ogni illuminazione (XX, 4) e da una virgiliana e dantesca apostrofe a chi non si è purificato e reso degno di vedere, immerso com’è nella tenebra del mondo falso («Lunge siate, o profani, e voi che adugge / L’ombra di morte e ’l cieco orror d’inferno»: XX, 5).
L’opposizione che nelle quartine del sonetto sussiste tra lo specchio intorbidato dell’anima e quello restituito alla sua natura lucida e tersa dall’intervento angelico, nelle terzina si correla, in un rapporto complesso, con la opposta qualità, demonica o divina, dei sogni (o delle visioni) che vi si riflettono, o addirittura con la loro divergente origine e provenienza: da l’inferno o da la porta d’orïente. Ciò che qui diventa una opposizione ontologica tra basso e alto, materia e spirito, oscurità e luce, nell’ipotesto che occultamente ispira il motivo simbolico era una differenza di natura qualitativa e di densità materiale del velo, più o meno diafano, che ci separa dal mondo invisibile. Si tratta ancora di Macrobio:
si quis forte quaerere uelit cur porta ex ebore falsis et e cornu veris sit deputata, instruetur auctore Porphyrio, qui in commentariis suis haec in eundem locum dicit ab Homero sub eadem diuisione descriptum: «Latet, inquit, omne ueruM. Hoc tamen anima, cum ab officiis corporis somno eius paululum libera est, interdum aspicit, nonnumquam tendit aciem nec tamen peruenit, et, cum aspicit, tamen non libero et directo lumine uidet, sed interiecto uelamine, quod nexus naturae caligantis obducit.» Et hoc in natura esse idem Vergilius asserit, dicens:
aspice – namque omnem quae nunc obducta tuenti
mortales hebetat uisus tibi et humida circum
caligat nubem eripiam...
Hoc uelamen, cum in quiete ad uerum usque aciem animae introspicientis admittit, de cornu creditur, cuius ista natura est ut tenuatum uisui peruium sit; cum autem a uero hebetat ac repellit obtutum, ebur putatur, cuius corpus ita natura densatum est ut ad quamuis extremitatem tenuitatis erasum nulla uisu ad ulteriora tendente penetretur.49
Il sonetto al Grillo anticipa dunque non pochi motivi che troveranno sviluppo nella poetica dell’ultimo Tasso, così ansiosa di penetrare il velo che separa il visibile dall’invisibile, il falso dal vero. Anche il grande topos dell’anima-specchio trova d’altra parte nel libro XIV della Conquistata la sua espressione definitiva. Ciò avviene nelle ott. 3 (vv. 5-8)-4, dove Pier l’Eremita, esortando Goffredo a compiere una processione espiatoria prima dell’assalto alle mura, esclama di aver già visto in sogno le anime dei Crociati che vi avrebbero preso parte, purificate dal sacramento della comunione, in forma di lucidi spegli. Vi torna addirittura la catena di rime terso: asperso: converso. Ma soprattutto l’autoesegesi che il Tasso ne offre nel Giudicio costituisce il commento più autorevole e autorizzato al sonetto:
Or passiamo a l’altre cose, né tralasciamo gli specchi, de’ quali si fa menzione nel canto quartodecimo:
O quanti n’apparian lucidi spegli
Cinti d’or fino in cui lo sol risplenda,
E come bella era la viva luce
In cui rifulge il glorioso duce!
L’anima è qual cristallo e puro e terso,
In cui fiammeggia il sol tremante e vago,
Ma s’è di macchie tenebrose asperso,
Non riceve dal ciel la chiara imago:
Tergasi, e ’l suo pensiero a Dio converso
Sarà quasi divin, quasi presago,
Ma quel ch’a l’alma peccatrice apparve
È falso inganno di mentite larve.
L’anima è assomigliata a lo specchio da S. Basilio perché, sì come lo specchio puro e lucido rende l’imagine somigliante al vero, così l’anima purgata da’ peccati agevolmente suole essere illustrata da la grazia d’Iddio ed antiveder le cose future; e ciò si dice, o si predice, avendo riguardo a la visione che doveva apparire a Goffredo, la qual non si può paragonare co’ sogni demonici e particolarmente con quello mandato da Giove a Agamennone, se non in quel modo che de’ contrari sogliamo far paragone, accioché l’uno meglio si conosca per l’altro: percioch’in quello Agamennone è ingannato, in questo Goffredo fatto sicuro de la vittoria. Però in questa parte <è> assai simigliante a quel di Scipione interpretato da Macrobio.50
Maria Teresa Girardi ha individuato la fonte in una lettera di Basilio (Ep. CXX, 6 PG 32, 778) nella quale, discorrendo dei propalatori di pravae doctrinae, si dice che essi (cito la versione latina):
si saperent, nosse oportebat, intaminatis et ab omni macula expurgatis mentibus propheticum donum illucere. Neque enim speculo sordido possunt imaginum excipi species; neque anima saecularibus praeoccupata curis, et cui carnalis sensus affectio tenebras offundit, illustrationem Spiritus sancti recipere potest.51
È lo stesso motivo che nel sonetto acquista un accento drammatico e patetico di sofferta esperienza autobiografica. E si potrebbe aggiungere – se il discorso non fosse già troppo lungo – che esso è presente in altri testi della patristica greca (da Atanasio a Gregorio Nisseno). Vi confluiscono e vi si confondono – il Tasso mostra di averlo compreso benissimo – la tradizione biblica culminante in II Cor 3, 12-18 (il tema di Mosé che dopo la visione vela il proprio volto: «Cum autem conversus fuerit ad Dominum, auferetur velamen [Ex. 34, 34] Dominus autem Spiritus est. Ubi autem spiritus Domini, ibi libertas. Nos vero omnes revelata facie gloriam Domini speculantes [κατοπτιζὀμευοι], in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem, tamquam a Domini Spiritu») e il pensiero metafisicoteologico tardo antico di Macrobio, di Porfirio e soprattutto di Plotino.52
Riflesso nello specchio interiore si cerca il volto misterioso della Presenza divina (quello stesso volto che il poeta, nel Mondo creato, non si stancherà di inseguire nel suo enigmatico rispecchiarsi, per simboli molteplici sulla superficie delle acque, emblema della flussile natura materiale in perpetuo divenire, fino a cercarlo, a trovarlo forse, in sé stesso).53
Se i lettori ecclesiastici avessero sospettato sotto la levigata e tersa superficie del testo la presenza di un simile gorgo sincretistico che equipara il sacro e il profano, le virtù rivelate e quelle intuite dall’intelletto, quali barbagli di un’unica verità splendente e rivelatrice – ubi autem Spiritus Domini, ibi libertas – , se ne sarebbero ritratti con qualche sgomento. Nulla potrebbe essere più remoto dallo spirito controriformistico, così ben incarnato nei lamentevoli inchiostri che don Angelo avrebbe profuso senza risparmio nei Pietosi affetti. In questa incomprensione si manifesta l’equivoco di un presunto ‘‘tassismo spirituale’’. Frati e monaci, predicatori e cultori della poesia sacra, tutti – dal Panigarola al Grillo – furono sedotti dalla presa emotiva che la poesia del Tasso nella sua prima e più felice stagione seppe esercitare su un vastissimo pubblico. La loro ammirazione non disinteressata andava a un magistero retorico senza uguali nel movere, di cui si studiavano di carpire i segreti con ogni mezzo. Confidavano di poterlo convertire ai fini della parenesi edificante e dell’agiografia. Ma la profondità del Tasso, poeta veramente spirituale della vita e dei tormenti dell’anima, restava loro inaccessibile al pari della sua autentica poesia. Ne è una riprova evidente la sostanziale freddezza con la quale proprio i lettori devoti accolsero l’oscura poesia sacra dell’ultimo Tasso, fino all’esito esemplare del Mondo creato. Una freddezza – aggiungo – per lungo tempo condivisa anche da molti fini lettori e critici di matrice cattolica (da Donadoni, a Getto, a Petrocchi). Un laico che si avventura spericolatamente nel campo minato della teologia – ossia del dogma – suscita sempre diffidenza se non apprensione nei cultori professionali dell’argomento. Soprattutto quando, come ormai non avveniva dal tempo della Commedia, mostra di saperne fare oggetto di un pensiero poetante che sia vivente ricerca della verità.
Anche se Torquato stesso, per ragioni non voglio dire opportunistiche (dato che si trattava di sopravvivenza), bensì di opportunità, si guardò bene dal disingannarli, le sue ultime opere procurano – salvo qualche inevitabile concessione – che non si avverasse l’auspicio formulato dal ‘‘Poetino’’ Antoniano revisore della Liberata: «che ’l poema fosse letto non tanto da cavalieri, quanto da religiosi e monache».54 Proprio mentre il successo del capolavoro si mostrava capace di operare quell’inaspettata ‘‘conversione’’, o passibile di subire una consimile appropriazione, nelle quali il Ferretti bene dimostra quale ruolo avessero – pur con le debite cautele – i benedettini, il poeta solitario, ubbidendo all’imperativo del suo δαίμων (etimologicamente, chi attribuisce un destino) o dell’angelo interiore, cercava altri orizzonti. Tramontato il principio edonistico del diletto, e con esso la naturale destinazione cortigiana, a sostituirlo provvide una strenua tensione verso l’assoluto e il mistero perseguita per vie diverse. Proprio tale inesausta ricerca offerta a tutti i cercatori del vero, ideali lettori, a me sembra ciò che ancora rende vivi i suoi ultimi, imperfetti capolavori e li pone al riparo dalla consunzione del monacale tedio, per citare Carducci. Anche se si concluse all’ombra del Vaticano, la via del Tasso resta fino all’ultimo essenzialmente solitaria.
Al di fuori delle ragioni pratiche che lo avevano alimentato, il presunto dialogo con l’Angelo terren benedettino si rivela impossibile.
Nulla, ancora una volta, potrebbe essere più eloquente in proposito della risposta a un sonetto per il quale, non senza motivo, Torquato aveva evocato gli enigmi pastorali virgiliani. Il poeta ne accusa laconicamente ricevuta il 31 gennaio 1585 («Ebbi la risposta»).55 Prendeva atto che a chi non capisce l’allusione è inutile fornire la spiegazione.
Si tratta, in effetti, di un convenzionale testo in chiave di automortificazione penitenziale. All’inquieto e tormentato corrispondente viene raccomandato, se vuole dissipare ogni angoscia notturna, di fare le proprie divozioni prima di coricarsi:
Dal fango mio mortal non pure asperso,
Ma carco e grave, a’ bei celesti aspetti
Non ergo i lumi, e ne’ terreni oggetti
Spesso gli fiso, a’ danni miei converso.
Ond’adivien, ch’in me stesso sommerso,
Me non iscorga, e i rai santi e diletti
Da le tenebre mie invano aspetti,
Che sol nel tuo bel stil son chiaro e terso.
E se nel sonno horride larve od ombre
T’annoian, tu le spegni e tu le scaccia
Con l’alto lume tuo, ch’io tanto agogno.
Né fia che da l’Inferno unqua l’ingombre
Spirito, se pria che tu riposi o giaccia
L’offri a chi scorge al ciel l’alme nel sogno.
Da uno specchio noetico che evoca gli abissi e le illuminazioni della Wesenmystik (il Tasso neoplatonico non avrebbe avuto difficoltà a intendere il pensiero di Meister Eckhart) siamo passati a uno speculum verae penitentiae. (E del resto, come bene argomenta il Ferretti sulla scorta di studi precedenti, il Grillo dei Pietosi affetti aderirà, dando libero corso a una emotività troppo arguta per essere autentica, all’opposta corrente della Brautmistyk, mistica del sentimento o nuziale: anche in questo incompatibile con l’incompreso nume di un tempo).56 Per paradosso proprio il tratto più spontaneo e simpatico del componimento, l’umiltà – piuttosto inconsueta in un chierico – con la quale l’autore confessa la propria inferiorità e inadeguatezza a farsi guida spirituale di un laico (uno spirito che potrebbe essergli maestro non solo nella poesia), divenne ben presto fonte di imbarazzo. Non saprei attribuire ad altra causa il fatto, altrimenti inspiegabile, che nell’edizione definitiva (1599) delle Rime morali, dalla quale veniamo citando, proposta e risposta appaiano – ormai scomparso il Tasso – in due carte contigue (cc. 177v-178r) di un’apposita sezione del libro adibita ad accogliere appunto le sollecitazioni ricevute dal Grillo, ma inserite all’interno di un abbastanza nutrito scambio poetico con un confratello benedettino cassinese, il napoletano Felice Passero (1556-1626), al quale viene di conseguenza attribuito il sonetto tassiano Qual cristallo talor (la didascalia è esplicita: Del medesimo [Felice Passero] all’Autore). Di più: il testo è interpolato da un catastrofico conciero che tenta di sanare l’incomprensibilità della prima quartina banalizzando i vv. 5-6 (A ’l cor nel sonno, e ’n alto oblio sommerso, / Fervido, e vago pur d’altri diletti:).57 Chi è istituzionalmente preposto a dispensare rai santi e diletti deve andare cauto nel manifestare dubbi sulle proprie facoltà illuminanti nei confronti di qualsivoglia laico, per non dire di un farnetico, per quanto provvisto di «lettera graziosa».
Le elitre perennemente tremule e trillanti del terrestre Grillo non ristettero del tutto neppure dopo questo primo anno di intensa corrispondenza. Ma da questo momento in poi le proposte si fecero occasionali e quasi esclusivamente incentrate in temi letterarî. È il caso del sonetto Voci son di sospir (Rime morali CCXXXV, c. 91r) che ritengo ascrivibile al 1585. Fu verosimilmente composto dopo la lettura di rime inedite del Tasso, forse quelle che il poeta aveva affidato al Licino.
Voci son di sospir vive e sonanti
Le tue querele in meste [ed. 1589 queste] note sparte;
E par che versin tue dogliose carte
Occulte lagrimette e muti pianti:
Ben le leggo ed ammiro, e de’ bei tanti
Modi stupisco e de la novell’arte
Onde natura è vinta, e in ogni parte
Scorgo nova materia [1589 cagion] a’ tuoi gran vanti.
Ma sì s’imprime di pietosi affetti
Questo mio cor, ch’è tuo vivace tempio
E simulacro del tuo duolo interno,
Ch’io non formo pensier che non mi detti:
O di rara virtù più raro esempio
Avrà mai fine il tuo noioso verno?
Emerge la consueta lettura in chiave patetico rugiadosa del Tasso lirico (sospiri; querele; meste note; dogliose carte fino a quel diminutivo – Occolte lagrimette – che non potrebbe essere più grillesco, soprattutto in leziosa correlazione con muti pianti). Essa non è però disgiunta dalla altrettanto consueta delibazione retorica e stilistica de’ bei tanti / Modi e de la novell’arte che deliziano e riempiono d’intenerita ammirazione l’apprendista nonché elogiasta. Nelle terzine la retorica del pathos sortisce i suoi infallibili effetti agendo sul cor: l’organo appunto di cui predicatori e cultori del genere lacrimistico o agiografico miravano a insignorirsi per i loro fini. Il sintagma pietosi affetti, che anticipa il titolo della più celebre raccolta del benedettino, è qui declinato a parte subiecti nel senso di una intensa immedesimazione emotiva e compassionevole. Riprende, però al plurale, un’espressione coniata dal Tasso medesimo in un celebre sonetto a proposito della Liberata. Torquato vi rammentava quali emozioni sconvolgenti sapesse suscitare l’ascolto della sua parola poetica, fino a ripercuotersi con fisica evidenza nello scolorire dei volti («Non so s’i vaghi spirti al ciel rapiva, / Ma ben sovente di pietoso affetto / Si colorò chi le mie note udiva»). Ma tale catartica intensità, capace di suscitare negli animi, dinnanzi all’aspra tragedia dello stato umano, la compassione, sentimento umano per eccellenza, non si raggiunge per via retorica. Necessita – egli aggiunge – di quella misteriosa ispirazione ex alto che è prerogativa delle grandi anime («Me talor rapì certo, ed alcun detto / Dal ciel spirommi o musa od altra diva; / Deh, spiri or sempre e di sé m’empia il petto»).58
Nella sua risposta al Grillo Torquato compie, in nome del vero, una sorta di palinodia delle insidiose dolcezze della lirica erotica:
Scrissi e dettai fra sospirosi amanti,
E, se dietro le voci allor cosparte
Mai li rivolsi a perigliosa parte,
Me ’n pento e già ritraggo i passi erranti:
Né meraviglia scorgo ond’io mi vanti,
Né sua dolcezza me dal ver diparte;
Ma te, cui tanta grazia il ciel comparte,
Seguir vorrei dove m’inviti e canti.
Tu vedi i miei desiri e i miei difetti
Che non appago ancora e non adempio,
Ed io nel tuo pensier quasi m’interno:
E la pietà, che ne’ sonori detti
Sfavilla, dentro al core omai contempio
Che devoto sacrasti al Padre eterno.
Intende far comprendere al proponente che la sua poetica si è nel frattempo rivolta in un’altra direzione (e già ritraggo i passi erranti 4): gran parte della corrispondenza in versi con il Grillo ne è – lo abbiamo visto – riprova e insieme anticipazione, proiettata com’è verso temi e modi caratteristici dell’ultima stagione tassiana. Di qui l’abiura e il proponimento di farla ormai coincidere con il sentiero stretto, ascendente e ascetico, sul quale don Angelo – così almeno Torquato affetta di credere – lo precede e lo guida (il rovesciamento dei ruoli assegnati e più volte ribaditi dal monaco in ambito retorico e poetico non potrebbe essere più speculare) alla conquista di una poesia che si identifichi con la ricerca della verità (vv. 7-8). Si trattava di un’illusione, perché al Grillo interessavano proprio gli affetti (l’uso parenetico che se ne poteva fare) e non il loro superamento nella visione intuitiva e mentale, per speculum et in aenigmate, del mondo intellegibile.
Ma nelle terzine trova ugualmente espressione il sogno di una perfetta reciprocità, quasi di una fusione con l’interlocutore in una cristallina trasparenza di relazioni che non ammette ostacoli. Il tu vede senza schermi – prerogativa divina – i desiri inappagati e i difetti inadempiuti che si agitano nel cuore dell’io; il quale, a sua volta, si innalza quasi internandosi nel tuo pensier, e può così contemplare (contempio 13: atto intellettuale), nel cuore sacro rivolto all’origine, cui è devoto, non dei molteplici, contrastanti, terreni pietosi affetti, bensì la pietà, idea assoluta e «presenza amata di Dio nell’uomo» di cui la parola reca il sigillo di luce e di fiamma (sfavilla 13). Anche in questo caso il Tasso sembra voler scorgere nell’Angelo terren, nella concreta persona del religioso cui si rivolge e dal quale spera salvezza e libertà, una prefigurazione e un’ombra del proprio angelo interiore. Ma lo splendore di quell’idea non poteva incarnarsi nella misera concretezza della realtà storica (testimoniata nella sua quotidianità pratica dalle Lettere). Con don Angelo lo scambio di versi si chiuse nel 1585(meglio che nel 1586, come ritiene il Solerti) con il sonetto Non pugna l’arte e la natura a prova (Rime 1302, risposta a Rime morali CCXI, c. 83v in cui il Grillo offriva la propria solidarietà e ribadiva una incondizionata ammirazione per la Liberata mentre ormai imperversavano le velenose polemiche dei cruscanti). La relazione, estesasi nel frattempo a numerosi altri membri della facoltosa famiglia genovese (fratelli, cognate: zie, persino, in odore di santità), veniva intanto assumendo sempre più l’aspetto di una delle tante prezzolate «servitù» che il Tasso, per vivere, era costretto a intrattenere con i suoi committenti, esercitandosi nella poesia encomiastica.
L’angelo terreno non fu capace – dicevamo – di restituire la libertà al prigioniero di Sant’Anna, e forse anche del proprio destino. Ma è certo che le speranze più segrete dell’uomo di pena, fin da allora, fossero riposte nel misterioso visitatore della mente, nell’angelico νοῦς θύραθευ alla potenza liberatrice del quale fino all’ultimo egli levò la propria preghiera di uomo irretito nella tela di ragno tessuta dagli inganni e ombre del mondo:
O piaccia a lui che ne distringe e lega
Come a lui piace, e talor solve e snoda
I lacci del peccato e i duri nodi
Onde il fato qua giù tien l’alme avinte;
O piaccia (dico) a lui, cui tanto aggrada
Il libero voler, celeste dono,
Anzi divino e non soggetto al cielo,
Di squarciar de’ contestib antiqui inganni
La fragil tela; e peso aggiunga a detto
Liberator degl’infelici ingegni.59
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1 A. Solerti, Vita di T. Tasso, Torino, Loescher, 1595 III voll.; L. Tosti, Torquato Tasso e i benedettini cassinesi, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 18862. Più recente (e un poco enfatico, fin dal titolo) M. Novelli, Il benedettino Angelo Grillo liberatore del Tasso, Roma, istituto editoriale del Mediterraneo, 1969. Siveda anche il vasto quadro storico tracciato da M. Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 2003 (in particolare t. II, parte II: La congregazione benedettina cassinese nel Cinquecento , pp. 686-87).
2 All’origine di tale ripresa di interesse sta il fortunato volume di E. Durante e Martellotti, Don Angelo Grillo O.S.B. alias Livio Celiano poeta per musica del secolo decimosesto, Firenze, SPES, 1989 (per i rapporti con il Tasso si vedano le pp. 111-42). Per una bibliografia completa rimando al recente F. Ferretti, Le Muse del calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettini cassinesi, Bologna, Il Mulino (Fondazione Michele Pellegrino. Studi fonti documenti di storia e letteratura religiosa), 2013. Il libro ricostruisce con encomiabile accuratezza il percorso creativo del monaco-letterato sullo sfondo del «tassismo spirituale», fenomeno ancora poco esplorato ma di vastissima portata nell’ambito della poesia sacra del Seicento (cfr. in particolare pp. 79-120; pp. 174-81). Innegabile sul piano della storia letteraria, come comprova la straordinaria celebrità dei Pietosi affetti (imitati persino dal Marino ma poi sprofondati nell’oblio), l’importanza del Grillo non ne fa però in alcun modo un poeta.
3 A parte un regesto puramente informativo sui sonetti indirizzati al Grillo (nel quale peraltro è incluso abusivamente Rime 1692 , pp. 102-105), nel vol. di G. Santarelli, Studi sulle Rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro Tassiano, 1974 si trova un unico, evasivo cenno ai componimenti, definiti «moraleggianti» (p. 44). Ribadisce il giudizio, parlando di liriche «celebrative», ove sarebbe «minima la valenza dottrinale, e vaga l’istanza di religiosità, per lo più sfumata a vantaggio di una dimensione ora moraleggiante ora più dichiaratamente autobiografica», il recente A. A. Piatti, «Su nel sereno de’ celesti giri». Le «Rime» sacre di T. Tasso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, p. 46.
4 Cfr. Lettere del Reverendissimo P. D. ANGELO GRILLO, Abbate di S. Benedetto e presidente generale della Congregazione Cassinese; nuovamente raccolte dal Signor Pietro Petracci2. In Venezia, MDCXII, appresso Bernardo Giunti e G.B. Ciotti e Compagni, p. 459. (Questo vol. I delle Lettere contiene le missive fino al 1608; altre due edizioni delle Lettere erano già apparse presso il Ciotti nel 1602 e 1604, e poi nuovamente nel 1616; la prima ed. Giunti-Ciotti è del 1608). La lettera, non datata (come di regola), reca soltanto l’indicazione «Di Mantova», ma è quella che apre il carteggio (il Tasso risponderà con una missiva datata «Da le mie stanze di Ferrara, 25 di marzo 1584» e indirizzata però a Brescia, dove effettivamente in quegli anni il giovane monaco risiedeva nel monastero di Santa Giustina: vedi infra). La lettera vuole essere un esempio di bello stile epistolare, rimaneggiata com’è a posteriori secondo i moduli dell’ars dictandi in voga nel tardo Cinquecento. Il contrasto con le lettere del Tasso, scritte di getto e così aderenti alle esigenze della vita pratica (di cui il Grillo epistolografo si studia invece di cancellare quasi ogni traccia), non potrebbe essere più stridente.
5 Rime del molto reveren.doPadre D. Angelo Grillo, cioè le Morali & le Pompe di Morte, dedicate all’illustrissimo et reverendissimo Sig. Cardinal S Giorgio Cintio Aldobrandini, Stampate in Bergamo, & hora ristampate in Venetia [...]. Presso Gio. Battista Ciotti Senese. 1599 [d’ora innanzi Rime morali], CCXIX, c. 87r. Gran parte dei sonetti indirizzati dal Grillo al Tasso (ma non le risposte) figura già nel vol. Rime di Diversi Celebri Poeti dell’età nostra (Bergamo, Ventura, 1587). Il monaco pubblicò proposte e risposte (con altri testi non indirizzati al Tasso ma concernenti il poeta le sue opere) in Parte Prima [e Seconda] Delle Rime del Sig. Don Angelo Grillo (Bergamo, Ventura, 1589). Gli stessi testi ricompaiono in Nuova Scielta delle Rime Morali del R. Signor D. Angelo Grillo presso il medesimo stampatore nel 1592 «Con gli Argomenti et Annotationi» di Giulio Guastavini.
6 Le rime di Torquato Tasso, edizione critica su i mss. e le antiche stampe a cura di A. Solerti, Bologna, Romagnoli-Dell’Acqua, 1898-1902, 4 voll. (d’ora innanzi Rime con il numero d’ordine interno dei componimenti), vol. III, pp. 488-89 (per la parte rimasta inedita di questa ed. nonché per il commento, cito da Torquato Tasso, Le Rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, 2 voll.). L’editore espone i propri argomenti nella seconda fascia d’apparato. Il Guasti annotava (n. 1) «Le risposte cominciano: / Io sparsi ed altri miete: io pur inondo. / La mente in questo grave incarco, e frale».
7 Le lettere di TORQUATO TASSO disposte per ordine di tempo ed illustrate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1854-1855, 5 voll., II, n. 274, p. 265 (25 marzo 1584).
8 A. Di Benedetto, Con e intorno a Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1996 , pp. 89-93.
9 Basti rammentare, restando nell’ambito delle metafore arboree correlate al nome del destinatario, l’attacco del madrigale per le nozze di Laura Peperara («Questa pianta odorata e verginella / Che secura dal fulmine e dal gelo / Cresce», Tasso, Rime 200); o anche il sonetto nel quale Sono assomigliate le sue speranze a gli alberi che si piantano il primo di maggio («Quest’arbor ch’è traslato al novo maggio / Lasciando i larghi campi e l’alte rive / Frondeggia a voi su l’alba; e pur non vive, / Ma consola il morir col vostro raggio», Tasso, Rime 170). Se è poco probabile che il fervente adepto del culto tassiano conoscesse quest’ultimo testo, apparso a stampa soltanto nella Osanna del 1591, certamente gli era noto l’altro, risalente al dicembre 1581 e composto a istanza di Curzio Ardizio, appena approdato alla corte di Mantova, nel quale il Tasso onorava l’amico senza partirsi dalla similitudine di una pianta («Ecco, io somiglio pur translata pianta / Che ’n asciutto terren dianzi fioriva, / Or che verdeggio del bel Mincio in riva / Che degli antichi pregi ancor si vanta», Tasso, Rime 790 1-4; e per il motivo, parimenti ripreso dal Grillo, dei doni offerti dall’albero – fiori, fronde, ombre, dolci frutti – ,si veda l’ultima terzina: «Tal che insieme fior, fronde, ombre novelle / il signor nostro non indarno aspetti / E dolci frutti di saper maturo»).
10 Si noti che il benedettino sostituisce al participio translato – forte latinismo di matrice classica e parola-chiave del tema autobiografico dell’albero – il perfetto traspiantò, che può essere reminiscenza del latino di Gerolamo: Ier 17, 8 «et erit [vir qui confidat in Domino] quasi lignum quod transplantatur super aquas, quod ad humorem mittit radices suas et non timebit cum venerit aestus, et erit folium eius viridem et in tempore siccitatis non erit sollicitum nec aliquando desinet facere fructum» (e cfr. anche Ps 1, 3).
11 Alv. 7 (E salde sì le sue radici imprime) imprime (‘affonda, conficca’) suona, in tale accezione e con tale oggetto, alquanto improprio (e risulta infatti privo di esempi). Il verbo, che comporta l’idea di una forza che calca e pinge e segna fino a lasciare parte della forma del corpo imprimente, può tutt’al più essere usato per una punto o una lama. All’orecchio del Tasso dovette suonare infelice anche l’uso di spiega al v. 1 (s. al ciel l’eccelse cime), che evoca l’ampiezza della chioma più che la procerità del vertice di una singola pianta (si pensi per esempio all’araldica quercia roveresca irrigata dal Metauro nella celebre canzone tassiana, ond’ella spiega / I rami sì ch’i monti e i mari ingombra: il Grillo sembra rammentarsene nel secondo sonetto: cfr. CCXXXII, 3-4).
12 Torquato Tasso, Lettere II, n. 274 , pp. 265-66. A conferma dell’ipotesi formulata per l’identificazione dei primi due sonetti del Grillo, faccio notare che il Tasso accenna a due sonetti celebrativi («co’ quali m’ha onorato»). Non è tale la proposta (Rime morali CCXXXIII, c. 91v) cui il Tasso risponderà in seguito con Rime 938.
13 Tasso, Rime 937.
14 La metafora dei semi e del cultore compare anche nel son. Que’ semi che già sparse in me natura (Rime 855), indirizzato all’inizio di dicembre 1581 a Paolo Leoni, vescovo di Ferrara (cfr. in particolare i vv. 5-8 «Ragion cultrice faticosa e dura / Suda ne l’opre e ne’ pensier sovente, / Ma se tepidi raggi anco non sente / E spirti almi del ciel, che val coltura?»). Vi torna anche il motivo della feconda pianta che in una temperie sfavorevole non produce frutti (vv. 9-11), e l’auspicio di essere scaldato dal vero sole (vv. 12-14). Con risonanze evangeliche e in chiave penitenziale il motivo torna in Rime 1676.
15 Due citazioni di questo vangelo nel testo della vulgata (nell’ordine, Mt 6, 33 e 11, 30) ricorrono nella lettera al Grillo del 17 aprile 1584 (Lettere II, n. 278, pp. 267-69). Non è improbabile che il Tasso lo stesse rileggendo.
16 Torquato Tasso, Il Cataneo overo de le conclusioni amorose,in Dialoghi, edizione critica a cura di E. Raimondi, vol. II, t. II, p. 826,§§ 90-91: «Non si può ancora non attribuire al corso de le stelle che l’innocente sia condennato, il colpevole co’ premi onorato, che l’industria de’ molti, l’avedimento, la prudenza, la dottrina vada a guisa di mendico limosinando, e la sciocchezza e la malizia e l’ignoranza de gli altri sia arrichita: il corsaro, bruttatosi del sangue altrui tra mille pericoli del mare e de la terra, al fine muore fra’ suoi domestici in una quieta e placida vecchiezza, un uomo giustissimo e mansueto è spesso ucciso da’ ladroni. Quanti sono i miracoli e quasi i portenti de l’ingegno, quanti <i> mostri de la natura, che sono testimonî d’una necessità quasi fatale? Queste sono le cose, de le quali essendo ripiena la vita de’ mortali, persuadono a molti queste vicissitudine di beni e di mali, meritate e non meritate, con tanta violenza de le stelle che non quasi è possibile che la forza o l’avedimento degli uomini possa in alcun modo ripugnarvi». Subito dopo (pp. 828-30,§§ 98-103) la discussione perviene a distinguere tra fortuna (regnante nell’infima regione del mondo, dove è lasciato luogo alle cose contingenti); fato (il cui regno è nei cerchi celesti con il loro ordine necessario); e providenza (che «più su regna [...] ne le cose divine e intellegibili, come parve a’ Platonici, non perché sia ne l’universo alcuna parte non governata da la providenza, ma perch’ella per loro opinione avrà voluto lasciare qualche parte a la necessità del fato e a l’incostanza de la natura»). Prima che nel Cataneo (datato dal Raimondi al 1590-91, ma certamente da anticipare, fors’anche d’un lustro), il Tasso aveva già meditato su questi temi, centrali nei sonetti al Grillo, nel Sonetto del Sig. T. Tasso al cavalier E. Cato con la interpretazione e comento del medesimo autore (cfr. Prose diverse, a cura di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1875, vol. II, pp. 151-65). Il son. corrisponde a Rime 776 (del settembre 1581, data cui sembra risalire anche l’autoesegesi, poi a stampa nell’ Aggiunta aldina del 1585).
17 Il religioso esorta implicitamente a scorgervi non una persecuzione del fato, bensì l’intervento ispirato a giustizia distributiva della provvidenza: di qui l’invito ad accettare la prova del dolore con rassegnata pazienza. Cfr. Angelo Grillo, Lettere, p. 478: «Siete misero, signor Tasso, perché siete uomo, non perché siate indegno. Siete più misero de gli altri uomini, siavi conceduto; ma perché siete più uomo de gli altri uomini. Che se una manifesta miseria non vi distinguesse da gli uomini, a l’opere del divino intelletto sareste tenuto cosa divina. Il che Dio non vuole in questo mondo, perché possiate esserlo veramente ne l’altro. Appagatevi».
18 Come sempre, fittissima l’intertestualità tassiana. La metafora dei colores retorici e il topos dell’ut pictura presente in CCXXIX, 5-8, ricorrono, applicati alla Liberata,in Rime 764 (la cui ultima terzina viene anche riusata in CCXXXIII, 3-6). L’emulazione con i grandi epici antichi (nonché con i duo Toschi) e la coscienza di aver percorso vie nuove nella ricerca dello stile, accingendosi alla grande impresa epica (rimasta però, a giudizio del Tasso, incompiuta), sono espressi in Rime 832. La consapevolezza dell’intensità patetica della propria parola e della sua ispirazione ex alto,affiorano in Rime 833. Mentre le terzine di CCXXIX, con l’assunzione trionfale in cielo, sembrano una rassicurante risposta al dubbio manifestato in Rime 834, 12-14 dal cantor dell’armi per Giesù vittrici. Si noti che sono tutti sonetti responsivi. Torquato avrebbe potuto ripetere o variare con il Grillo la risposta già resa a Giulio Ottonelli (Rime 838). Scelse invece, come vedremo, un’altra via.
19 Ferretti, Le Muse, cit., pp. 79-82; 256-62 (e passim). Sono però in disaccordo con lo studioso quando parla (p. 258), per il Grillo e altri, di un programma «di conformità post-tridentina complementare a quello che anche il Tasso intraprende convertendo la Gerusalemme terrena in Gerusalemme celeste». Nel presente contributo cercherò di mostrare come la presunta complementarità sia più apparente che reale.
20 L. Caretti, Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1981, p. 118. Anche il Piatti, «Su nel sereno..., p. 12-13 en. 25 parla di «punto di svolta nelle vicende biografiche del poeta» (più cauto il Santarelli, Studi cit., pp. 32-45, che giustamente ridimensiona l’importanza dell’incontro). Cfr. inoltre Ferretti, Le Muse, cit., p. 115-120.
21 Tasso, Rime 938.
22 Si veda in proposito l’autoesegesi del Tasso alla propria canzone allegorica Quel generoso mio nemico interno (Rime 113, vv. 1-13 e passim). Fonte dichiarata del motivo è la Repubblica di Platone. Cfr. anche Il Cataneo overo de le conclusioni amorose, pp. 807-8, §§ 29-31.
23 L’epiteto fatale ha significato pregnante, e va inteso in rapporto alle distinzioni filosofiche di cui alla n. 16.
24 Tasso, Il Cataneo,in Dialoghi, vol. II, t. II, pp. 830-31,§§ 104-106. Documenta utilmente la conoscenza dei testi plotiniani da parte del Tasso sul tema capitale del fato, citandone le postille e i segni di lettura, E. Ardissino, Tasso, Plotino, Ficino. In margine a un postillato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003. In particolare, nel capitolo «Quali ombre antiche o segni». Astri e libero arbitrio (pp. 73-92), l’autrice ripercorre le occorrenze del tema nel Torrismondo in alcuni celebri sonetti del tempo della prigionia (Rime 68; 776 a E. Cato con L’interpretazione e il commento autoesegetici di cui il Tasso lo correda), nel Cataneo e nel Mondo creato. Stranamente non si sofferma però sul passo decisivo appena citato. Aggiungo che le interpretazioni dei testi appaiono talvolta discutibili.
25 Marsilio Ficino, In PlotinuM. In lib. Enneadis II comment. III, Quomodo anima rationalis non subest fato, irrationalis uero subest: quomodo uita corporis nostri propria dependet a uita caelestium, & ab anima nostra. Item in omnibus coelestibus animas esse geminas. Item de daemonibus, & unde mala contingant. Cap. IX: «Superioribus uero quibus asseritur stellas non omnia nobis efficere quamuis multa significare possint, obijceret forte quispiam uerba Platonis in Repu(blica) praesertim atque Timaeo. Ait enim in Rep. Sub fatalibus necessitatis deae filiarumque eius Parcarum reuolutionibus animas in corpora proficisci. Ait & in Timaeo. Vitam nobis corpoream a stellis infundi: quibus in uerbis uidetur nos coelo subijcere. Respondetur ad prima animas [le anime immortali] quondam uitam hanc uiuendique formam elegisse sponte, priusquam in corpus uenirent, sub reuolutione fatali, ideoque pristinam uirtutem suique rectricem autoritatem non tam amisisse, quam ad tempus intermisissent: quam denique cum partim ipsae decreuerint, partim fuerint adiutae diuinitus, partim admonitae legibus recipere possint. Respondetur etiam ad secunda, sicut in Timaeo. Vita nobis corporea datur a stellis, ex qua perturbationibus exoriuntur: sic ab intellectu diuino intellectualem animum procreari huius uitae rectorem, qui sicut dum nimium uitam hanc amat in hoc mundo, seipsum una cum hac perdit in fato: Sic eandem amando quam minime, interim super fatum in aeternitate se recipit. Posse uero animam rationalem fato se mancipare atque uicissim emancipare, docet Zoroastris sententia ita praecipiens: Ne tu augeas fatuM. Vbi Plotinus ait: nos, id est ipsum hominem, esse animum ipsum rationalem, qui naturali iure praesideat animali; subiunxit, cauendum esse, ne forte nos efficiamur hoc animal . [...] Memento uero quae Plotinus de geminis disserit animabus [ogni uomo è duplice perché è sé stesso e il composto] confirmari a Iamblicho ex mente Mercurij, ubi addit superiorem in nobis animam quoniam a summo intelligibili fiat, habere in mundana uim opificiam, ac uim qua mundum transgrediatur, & a fato se soluat. & sua, praesertim dijs adiutam, atque hanc solutionem quatenus fatalem ordinem uidetur transgredi, eatenus in ordine prouidentiae contineri. Proinde ut Plotinus animam alteram distinguit ab altera, inquit: Quaecumque sunt ab inferioris animae ministeria esse corporea, quoniam omnes huius affectiones, & motiones incitantur e corpore, corpori seruiunt, motionem corporis comitantur, atque uicissim: officium uero animae alterius, quae extrinsecus extat, esse seipsam altius eleuare. Hoc tu in loco animaduerte Plotinum legitimo sensu Aristotelicum illud interpretari: Intellectus uenit forinsecus: Intellectus, id est, superior anima, non intellectus interpretatione Auerrois unicus, sed unaquaeque intellectus anima. Forinsecus item, id est, non a seminali spiritu, uel calore, non a uita hac intima mundi: sed a mente diuina, quae quasi esterior, id est, non coniuncta uelut forma, omnibus dominatur. Hinc efficitur, ut intellectualis anima tum cogitatione, tum etiam uoluntate possit, quae supra corpus, & naturam, & corpoream uitam sunt, pro arbitrio petere, atque corpus, naturam, fatum quotiens omnino decreuerit superare. Qua-tenus enim a temporaneis segregatur, eatenus aeternis coniuncta, una cum his quodammodo temporaneis dominantur. Vtrumque uero fit, tum cogitatione, tum maxime uoluntate. [...] Angeli rursum ad incorporea, daemones ad corporea uergunt plurimum, animasque alliciunt. Ideoque angeli a fato soluunt animas: daemones autem eas fato deuinciunt» (in Opera omnia, Basilea, Froben, 1576, vol. II pp. 1629-31). Da questo luogo (e dai testi evocati in precedenza) dipende anche un oscuro passo del Mondo creato (II, 737-746), finora non compreso dagli interpreti, sul quale tornerò.
26 Cfr. Tasso, Rime 1236 (Loda la signora Vittoria Cybo Bentivoglio), vv. 35-40 «Felice sposo, e di concordi voglie, / Cui non vi diè Fortuna, / O cielo o sole o luna, / Ov’altri lega al fato e l’alma scioglie, /Ma chi lo fece; e qui se mai v’esalto / Temo, donna gentil, d’alzarmi in alto». Nell’autocommento il Tasso così postilla il v. 38: «Come l’anima si scioglia dal fato si legge in Plotino»; e il riferimento è ancora a Enn. II, 3, 9, sempre attraverso la mediazione del Ficino. Anche questo luogo è stato completamente frainteso. Si intenda: felice lo sposo, Ferrante Bentivoglio, al quale Vittoria non fu assegnata dalla Fortuna o dal Fato nel suo aspetto di necessità astrale (O cielo o sole o luna 379: quell’allegorico fuso delle Parche appunto «per cui è inteso il circuito de’ cieli» (Il Cataneo, p. 829,§ 99), ove (sotto il cui dominio) altri (il demone) lega al fato e altri (l’angelo, sottinteso) scioglie l’anima da quei vincoli, ma dalla stessa provvidenza del Dio creatore che fece il cielo, macchina astrale del destino. (Intervengo sul testo stabilito dal Solerti con due indispensabile emendamenti segnati dal corsivo; l’editore legge, con mss. e stampe, ai vv. 38-39 Ov’altri lega il fato [...] / Ma chi la fece; è qui se mai v’esalto).
27 Di questo costrutto forse si ricordò Leopardi nel Canto notturno, vv. 133-34 «Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi».
28 Torquato Tasso, Il Minturno, in Dialoghi, vol. II, t. II, pp. 938-39,§ 75. Intervengo sulla lez. si debbiano dell’autografo napoletano N conservato dal Raimondi. Essa non dà senso (debbiano non può essere III sing. del cong., come pensa l’editore: Introduzione, vol. I, p. 265,§ 108). È verosimile che il ms. testimoni l’imperfetto passaggio (così frequente nelle scritture del Tasso) da una primitiva lezione a dietro ci debbiamo lasciare alla definitiva a dietro si debbono tralasciare. Aggiungo che anche il § 74 («sciocco è senza fallo il giudicio di coloro i quali cercano la bellezza in queste membra terrene. E mi paiono simili a quelli che rimirano l’imagini e l’ombre ne l’acque, come si favoleggia di Narciso, e, mentre abbracciano l’onde e i fuggitivi simolacri, restano sommersi senza avedersene»), dipendente dallo stesso luogo di Plotino, va ricollegato per contrasto al v. 9 del sonetto. Plotino afferma infatti che chi vede il bello dei corpi non deve rincorrerlo, ma ormai, sapendo che è solo un’immagine, un’impronta e un’ombra (ombra di ben), lo deve fuggire per dirigersi a ciò di cui è immagine: bellezza e verità intelligibili che si trovano Dove ombra di ben là su non s’ama. Chi imitasse Narciso – prosegue il filosofo – cadrebbe come lui, ma questa volta con l’Anima, nella notte fonda e impenetrabile dell’Intelligenza, dove si troverà cieco nell’Ade (la condizione delineata dal Tasso nella prima quartina del sonetto).
29 Tasso, Lettere II, n. 31 , pp. 324-25 («Di Ferrara, il 22 febraio 1585»).
30 Si vedano per esempio le quartine di Rime morali CCII (c. 80r), un brutto sonetto indirizzato a Paolo Foglietta: «Al Tasso illustre, il cui poema altero / Hoggi l’ottava maraviglia parmi / Del mondo; le cui prose e varii carmi / Sovra le menti han sì soave impero: / Per questo faticoso erto sentiero / Io dietro corro pur; ma d’appressarmi / Non spero: e s’a lui sembro io d’aguagliarmi, / Troppo è lontan da le sembianze il vero». Nelle terzine, poi, si paragonano le lodi ricevute dal Foglietta (che non si peritava di giudicare degni del Tasso alcuni versi del Grillo) ai bocconi con cui i cacciatori, premiandoli, addestrano i veltri a seguir le fere in boschi, ed in arbusti. Questo inseguimento trafelato (a parte l’infelice paragone cinegetico) è quello stesso che già avevamo messo in luce nel son. Tu mi precorri con spedito merto (Rime morali CCXIX). Invece nel sonetto in lode del letterato bresciano Antonio Beffa-Negrini (Rime morali CCX, c. 83v), il quale evidentemente soggiornava in quel momento a Ferrara (come prova anche la breve missiva indirizzatagli dal Tasso in Lettere II, n. 537, senza data ma probabilmente del gennaio-febbraio 1585), l’assente, non pago delle effusioni epistolari già rivolte in astratto alla «famosa penna» del suo idolo, trova il modo di manifestargli, per interposta persona, ma con enfasi e platealità paternalisticamente curiali, i propri irrefrenabili affetti. Lo fa mentre nelle terzine esprime invidia per il condiscepolo che, godendo del privilegio di frequentare il maestro (suo, del Grillo: si noti la sfilza di gelosi possessivi), progrediva più rapidamente nell’arte: «Né meraviglia, hor che vicino sete / Al mio Tasso, al mio Apollo, al Monte, al Fonte / Di più degno Parnaso ed Elicona. / Deh, mentre altier da la sua bocca pendete / Dite: il Grillo dov’è? Poi quella fronte / Per me baciate, a se stessa corona».
31 Tasso, Lettere, II, n. 323 , pp. 310-11.
32 Tasso, Lettere, II, n. 292 , pp. 288-89.
33 Grillo, Lettere, p. 112 (al P. Don Basilio Zaniboni). Ritengo che l’«ultima lettera» elogiativa da parte del Tasso alla quale si fa riferimento nel testo possa essere quella del 17 aprile 1584 (cfr. n. 31).
34 Ciel del ciel è espressione scritturistica (ricalcata sul superlativo ebraico) per designare il cielo supremo, l’empireo. La lezione Dal ciel dal ciel della stampa non dà senso.
35 Torquato Tasso, Rime. Terza Parte, edizione critica a cura di F. Gavazzeni e V. Martignone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006 (E.N. IV, III), p. 209, CXCVI. Il sonetto fu inviato con lettera al Grillo del 17 aprile 1584 (Lettere II, n. 278, pp. 267-69). Condivido la scelta degli editori di ripristinare al v. 8 la genuina lezione m’ascolti di contro a l’ascolti del testo Solerti (Rime III, n. 943, p. 495): in numerose lettere di questo periodo Torquato lamenta le difficoltà che venivano frapposte al suo desiderio di confessarsi. E soprattutto di non tenere conto del conciero Tu (in luogo di Chi 9), che in una successiva lettera al Grillo (II, n. 279) il Tasso prega il corrispondente di introdurre. Non di una lezione erronea si tratta tuttavia – come ritengono gli editori – , semmai di un poco meditato ed estemporaneo tentativo di captatio benevolentiae che vorrebbe rendere esplicito il ruolo assunto da don Angelo. Dal restauro consegue la necessità di estendere l’intonazione interrogativa che percorre tutto il componimento anche all’ultima terzina (che il Solerti terminava con punto fermo). Per quanto in apparenza avallato dall’autore medesimo (teste l’apografo V), non mi convince invece il troncamento pensier in fine del v. 14. Così esteriormente squillante nella sua sonorità cantabile, fa rimpiangere a chiunque abbia senso di poesia la sommessa gravità di quell’incontro di vocali – pensiero interno – attestato dalla tradizione concorde. (Tanto più che non si tratta neppure, in questo caso, di infelice variante d’autore – come quella attestata dalla lettera – , bensì di trascrizione di un copista alla cui acribia facciamo credito soltanto perché garantita dalla vigilanza del committente, il benemerito collezionista e editore seicentesco di testi tassiani Vincenzo Foppa).
36 È questo il tema del secondo sonetto inviato con lettera al Grillo del 29 aprile 1584 (Lettere II, n. 279, p. 269). Il Tasso vi Loda la comunità e la religione di San Benedetto (Rime 944). Cito il testo da Tasso, Rime. Terza parte, p. 198, CLXXXV: «Nobil porto del mondo e di fortuna, / Di sacri e dolci studi alta quiete, / Silenzii amici, e vaghe chiostre e liete / Là dove è l’ora e l’ombra occulta e bruna; / Templi, ove a suon di squilla altri s’aduna / Degno via più d’archi e teatri e mete, / In cui talor si sparge, e ’n cui si miete / Quel che ne può nudrir l’alma digiuna: / Uscì di voi chi fra gli acuti scogli / De la nave di Pietro antica e carca / Tenne l’alto governo in gran tempesta;/Avoi, deposte l’arme e i feri orgogli, / Venner gli Augusti, e ’n voi s’ha pace onesta, / Non pur sicura, e quinci al Ciel si varca». Emendo però al v. 6 la lezione Degni della tradizione concorde che riferita a Templi non dà senso soddisfacente: è invece la umbratile vita claustrale, l’eroica ascesi del monaco (altri 5) a essere, ben più di ogni altra mondana esistenza, proclamata degna di archi trionfali, della celebrazione di folle plaudenti (teatri), delle colonne (mete) consacrate alla fama dei vincitori (idea ribadita nelle terzine dagli esempi dei Pontefici e degli Augusti, distinti da un opposto movimento: Uscì di voi ... A voi... /...Venner). Ai vv. 7-8 la coppia di azioni (talor si sparge-si miete) ripropone, in una opposta ed evangelica prospettiva di armoniosa operosità comunitaria, di serena certezza d’una messe spirituale, di fertilità e abbondanza che equamente compensano lo sforzo, lo stridente, iniquo contrasto Io sparsi ed altri miete con cui si apriva il primo sonetto del Tasso al Grillo (Rime 937). Il frutto non sono questa volta successo, onori, proventi, bensì il pane degli angeli: Quel che ne può nudrir l’alma digiuna 8. Aggiungo che il richiamo agli Augusti dell’ultima terzina (cui gli esegeti non dedicano chiose) si riferisce all’abdicazione di Carlo V ritiratosi nel convento di S. Giusto nel 1556. In un sonetto successivo (Rime 1394) il Tasso celebrò le Lagrime penitenziali di Carlo V del camaldolese Germano de’ Vecchi.
37 Si veda l’esplicita richiesta rivolta a don Lattanzio Facio, abate del monastero di San Benedetto a Mantova (Lettere II, n. 304, p. 298). Il Tasso la ripeterà più volte. Ho cercato di dimostrare che nelle lucida strategia perseguita dal poeta, a lungo escluso dai sacramenti come pazzo, anche la dura lotta per essere riammesso alla comunione, oltre che un conforto, rappresentò la conquista di un autorevole, per quanto implicito, referto di sanità mentale e dunque una approssimazione alla libertà (P. Luparia, Un sonetto eucaristico del Tasso (Rime 1659), in Per le vie del mondo, Torino, Trauben, 2009 , pp. 263-72).
38 Tasso, Lettere, II, n. 293, p. 289 (7 luglio 1584). Reintegro nel testo Guasti la negazione non caduta, senza la quale la frase risulta incomprensibile.
39 Tasso, Lettere, II, n. 296, p. 292 (1 agosto 1584).
40 Lungo prometter con l’attender corto sarà ormai la strategia messa in atto per allettare il corrispondente e tenerlo a bada. Le lettere bene la documentano in tutte le varianti. Il 16 novembre 1584 Tasso suggella la missiva al Grillo con la solenne promessa: «A la sua risposta le manderò i sonetti, e s’altro desidera a me». Poiché nel frattempo avevano avuto modo di conoscersi, e l’incontro aveva naturalmente ispirato a don Angelo Rime morali CCXXXVI Cigno sublime a la prigion famosa (c. 91v) – un sonetto che ai vv. 5-6 contiene un inequivocabile riferimento autoptico («Ivi, qual ti vid’io tra la noiosa / Schiera de’ pensier tuoi colmo di duolo») e si chiude con le consuete smaccate lodi che, Grillo notturno (poi stridente), il proponente osa levare a colui che viene apostrofato O mostro, o lume / di nostra età, e anche o mio terrestre nume – , il Tasso allude senza dubbio alla sua risposta per le rime Qui, dove l’alma in te s’affida ed osa (Rime 942). Ma prima di questa (esclusa significativamente dalla Vasalini del 1586), allude al sonetto ‘‘spirituale’’ Qual cristallo talor di macchie asperso (Rime 941), che invece nella stampa del 1586 è compreso. La promessa è perentoriamente ribadita nella lettera del 24 novembre 1584 («Risponderò a’ sonetti», Tasso, Lettere, II, n. 311, p. 303). E poi, mentre il negozio della libertà entrava nel vivo e il monaco veniva adoperandosi come poteva per il suo terrestre nume, verso la metà di dicembre, con variante vagamente ricattatoria: «Aspetto dunque sue lettere di nuovo, e non risponderò a’ sonetti sin ch’io non l’abbia ricevute, e ch’io non sappia ch’ella sia arrivata in Brescia» (ivi, n. 565, p. 587).
41 Cfr. la già citata canz. Quel generoso mio guerriero interno (Rime 113, 19-22). Come dimostra l’autocommento, il riferimento è sempre alla Repubblica (IX, 588 b-c): «Platone figura ne l’animo l’imagine de l’Idra, ch’altro non significa che la cupidità la quale ha infiniti capi, perché infiniti sono i desideri i quali germogliano l’uno da l’altro».
42 «Vostra Signoria dee sapere ch’io fui ammalato, né fui risanato; e forse ho maggior bisogno de l’essorcista che del medico, perch’il male è per arte magica» (a M. Cataneo, 25 dicembre 1585,inTasso, Lettere, II, n. 454, p. 474). Si noti che il vocativo Angelo mio terren prende atto delle proteste di modestia di quella che abbiamo congetturato essere la seconda proposta (Rime morali CCLXI).
43 Il Maier (seguito dal Basile) spiega parte agogno 11 «almeno in parte, s’intende, desidero liberarmene»: ma qui l’idea, assai più drammatica, è, secondo l’etimo, quella dell’agonia, dell’angosciosa e mortale lotta. L’arcaismo parte, con valore di avverbio di tempo (‘intanto’), è frequentissimo nel Tasso.
44 Cfr. Torquato Tasso, Il messaggiero,in Dialoghi, vol. II, t. I, pp. 254-55,§ 11: «E se tu ti recherai a mente alcun sogno passato [...], t’avederai di leggieri di non sognare; perché l’assenso che presta colui che dorme al sogno è molto debile: dubita, vacilla, e alcuna volta s’accorge di sognare e sognando dice: io sogno» (al § 12 si parla dei sogni degli infermi «i quali sono turbidi e confusi e per la stemperata agitazione de gli umori [...] rendono l’imagini distorte e perturbate»).
45 Tasso, Lettere, II, n. 456 , pp. 479-80. Subito dopo Torquato attribuisce la causa «de la frenesia» a «alcune confezioni ch’io mangiai tre anni sono». Non sta delirando: è probabile che l’elleboro gli venisse somministrato furtivamente nelle confetture di cui era goloso. Di qui ciò che scrive al Grillo nell’unica lettera al monaco dalla quale trapelino segni di squilibrio. Vi afferma che non mangerà delle «scatole» che gli erano state mandate «per non dar pretesto ad esso messer Agostino [il Mosti, priore di Sant’Anna], che i cibi che mi vengono fuor di casa, sian quelli che m’offendano: percioché dee sapere ch’io sono stato ammaliato; ed egli ha tenuto mano co’ maghi, com’io dirò al serenissimo signor duca di Ferrara, s’io potrò parlare» (Tasso, Lettere, II, n. 288, p. 277 del 16 giugno 1584; vedi inoltre ivi, n. 190 , pp. 161-62;n. 244 , pp. 237-38). L’alterazione degli equilibri fisiologici indotta farmacologicamente intorbidava il cristallo della mente. Non condivisibile pertanto la proposta del Santarelli (Studi, cit., pp. 109-10) di ascrivere il son. Qual cristallo talor alla fine del 1585 sul solo fondamento della lettera al Cataneo: tale era la situazione del poeta che circostanze analoghe potevano benissimo essersi già verificate nel dicembre del 1584, come nel giugno, se stiamo a quanto egli scrive al Grillo. Non è impossibile infatti che trattamenti contro la malinconia gli venissero inflitti con cadenza semestrale (e talvolta sbagliando i dosaggi).
46 Come è noto, l’apparizione mariana ispirò il son. Egro io languiva (Rime 1656). Concepito secondo i moduli iconografici di una vera e propria pala votiva (non di rado le visioni seguono schemi figurativi familiari), non appare senza significato per il nostro discorso la presenza dei santi che in tale visione contornano la Mater misericordiosa: «E Benedetto fra’ que’ raggi e lampi / Vidi a la destra tua; nel sacro velo / Scolastica splendea da l’altra parte». Non credo invece che a questa occasione sia ascrivibile il madrigale Non potea la natura (Rime 1679), dove si parla di una intercessione che scampa il poeta da una pericolosa malattia, non di una visione. Di diversa opinione Santarelli, Studi, cit., pp. 112-13; 259-61.
47 47.Torquato Tasso, Giudicio sovra la «Gerusalemme» riformata, a cura di C. Gigante, Roma, Salerno, 2000 , pp. 86-87,§§ 196-98. Preciso che i §§ 194-98 costituiscono una compendiosa parafrasi del luogo di Macrobio citato sopra. Il Gigante nel suo commento rimanda soltanto a Commentarii I, 12, 1-2 per l’altro motivo simbolico neoplatonico delle due porte celesti del Cancro e del Capricorno. Gli sfugge così la fusione mitopoietica che il Tasso opera tra i due temi.
48 Torquato Tasso, Gerusalemme conquistata XX, 6 (cito il testo a cura di L. Bonfigli, Bari, Laterza, 1934).
49 Macrobio, Commentarii in Somnium Scipionis I, 3, 17-20 (cito l’ed. a cura di M. Neri, Milano, Bompiani, 2007, p. 254). Il rinvio omerico è a Odissea XIX, 562-567 (archetipo del motivo). La citazione di Porfirio – attestata solo qui – deriva verosimilmente dalle perdute Questioni omeriche.
50 Tasso, Giudicio,I, 165-167 , pp. 74-75. Anche questo passo dipende da Macrobio, Commentarii cit., I, 3, 14-16, in particolare per quanto riguarda il valore generale [...] et publicum, nonché l’autorità dei sogni che visitano re e duci. L’esempio è appunto quello del θειός [...] ἐνύπτιον avuto da Agamennone (Il. II, 1-40: il Tasso però lo giudica demonico e ingannevole, contrapponendogli quello divinatorio di Goffredo). Aggiungo poi che già in G. C. XI, 96, 1-4 l’Eremita si era prodotto in un infiammato sermone che vorrebbe sortire un effetto catartico: «Così dicea, perché d’oscuro e tetro / error in molti incontra al vero un callo / l’alma non faccia, anzi qual chiaro vetro / il sol riceva, o lucido cristallo» (con citazione petrarchesca).
51 M. T. Girardi, Tasso e la nuova «Gerusalemme». Studio sulla ‘Conquistata’ e sul ‘Giudicio’, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, p. 44 e nn. 35-36; p. 270. Vale la pena di osservare che il nome del padre cappadoce ricorre almeno una volta nel carteggio con il Grillo: si tratta di un fatto eccezionale, perché il Tasso non vi tocca mai questioni teologiche (non si dice per chiedere lumi, ma neppure per illuminare il corrispondente con qualche suggerimento esegetico in merito agli ardui testi che gli inviava; la circostanza non sfugge all’attento Santarelli, Studi, cit., pp. 44-45). Nella lettera del 15 febbraio 1585 a don Angelo, Torquato fa invece un vero e proprio elogio di Basilio. Benché lo citi in un contesto scherzoso e occasionale, ne esibisce tuttavia una conoscenza a tal punto capillare da risultare – immagino – intimidente per l’interlocutore. Tanto più che facendo questi professione di teologia – e, «voi teologi», dice infatti con affettazione di reverenza, da laico, Torquato, includendolo nella categoria – , si dà per scontato, non senza una punta di maliziosa e socratica ironia, che il luminare di Cappadocia (già occultamente chiamato in causa, con tutta la tradizione filosofica greca che ne alimenta il pensiero, nel sonetto Qual cristallo) figuri tra le abituali letture del monaco: «Ho risposto al sonetto, come vedrà; ché sarà chiusa la risposta nella lettera [allude forse a Rime 940 o, meno probabilmente, a 942]. In quella ch’io scrivo al signor Paolo suo fratello, dico queste parole, o simiglianti: ‘‘ma essendo egli per se medesimo grande’’; le quali alcun di nuovo uscito da le scuole peripatetiche, o di nuovo entratovi, potrebbe biasimare; peroché la grandezza è nel predicamento de la relazione: ma voi teologi con l’autorità di Basilio le potete difendere agevolmente; il quale dice, che il grande è non solo ad aliquid,maè detto con intenzione assoluta. Ed a chi debbiam credere del grande, se non a’ grandi? E chi fu maggiore ne la dottrina di Basilio? O ne l’eloquenza, o ne la santità?» (Tasso, Lettere, II, n. 338, p. 323). Il riferimento è a Basilio, Hexaëmeron VI, 9, 1-4. Un passo – guarda caso – che ricalca da vicino Plotino, Enn. VI, 3, 11. Il tema sarà ripreso nel Mondo creato IV, 304-24, con tanto di postilla marginale: Plotino / S. Basilio (ne discuto, ad versus, nella seconda fascia d’apparato della mia edizione: Il mondo creato. Corredo al testo critico, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, vol. I, t. II, pp. 191-95). Per disingannare subito gli incauti assertori di una composizione anticipata dell’ultimo capolavoro del Tasso, preciso che tale precoce familiarità con Basilio conferma soltanto la lunga gestazione del progetto. Circa il quale il Tasso osserva un riserbo particolarmente impenetrabile soprattutto con i chierici.
52 In Enn. IV, 3, 11 Plotino afferma che i sapienti di un tempo, volendo garantire la presenza degli dèi tra loro grazie alla costruzione di templi e statue, si convinsero che la natura dell’Anima (la grande Anima mundi) poteva facilmente essere richiamata dovunque e che la sua ricezione sarebbe stata soprattutto agevolata dalla costruzione di un oggetto simpatetico: che avesse cioè la facoltà di imitare, come uno specchio che ha la proprietà di catturare una data forma; e ha pertanto la capacità di accogliere una certa parte dell’Anima. Si tratta di un’operazione magica, e il Reale nota che tali idee verranno portate alle estreme conseguenze nell’Arte ieratica di Proclo. Ma, in particolare, il paragone patristico dello specchio imperfetto deriva da Enn. V. C’è lo specchio e si forma un’immagine. Se non c’è, o se non è immobile, l’oggetto che potrebbe riflettervisi non è per questo meno attuale. Lo stesso – dice il filosofo – accade nell’anima. Se questa parte di noi, in cui compaiono i riflessi della ragione e del νοῦς, non è agitata, tali riflessi sono in essa visibili. Ma se questo specchio è in pezzi a causa di un turbamento sopravvenuto nell’armonia del corpo, la ragione e il νοῦς, agiscono senza riflettervisi e si ha allora un pensiero senza immagini (o che alle immagini dell’alto sostituisce, come nel sonetto, gli incubi del basso). Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di G. Reale, tr. di R. Radice, Milano, Mondadori, 2002. Il motivo dell’animo che, se potesse rispecchiarsi, ci apparirebbe ater maculosusque et aestuans et distortus et tumidus, è tema diatribico che compare in Seneca, De ira II, 36, 1-3, dal quale lo riprende Agostino, Conf. VIII,VII, 16 (cfr. P. Courcelle, Connais-toi toi même. De Socrate à saint Bernard, Paris, Éditions du Cerf, 1974, p. 135 en. 97). I due motivi non sono assimilabili. Al secondo si ispirerà la risposta del Grillo.
53 Non per nulla il simbolo dello specchio dell’anima trova la sua espressione culminante proprio nel Mondo creato, in rapporto alla conoscenza di sé (del divino in noi). Sull’argomento mi sono soffermato nel contributo «Uom, conosci te stesso». Lettura di «Mondo creato» VI, 1558-1639(di prossima pubblicazione in un volume collettaneo dedicato al Tasso sacro per le Edizioni di Storia e Letteratura).
54 Torquato Tasso, Lettere poetiche, a cura di C. Molinari, Parma, Fondazione P. Bembo / U. Guanda Editore, 1995, n. LIV, pp. 426-27,§ 19.
55 Tasso, Lettere, II, n. 328, p. 317.
56 Cfr. Ferretti, Le Muse, cit., pp. 149-63.
57 In entrambe le edizioni precedenti (Bergamo, Comino Ventura, 1589 e 1592) il sonetto appare senza interpolazioni e attribuito al Tasso.
58 Tasso, Rime 833.
59 Torquato Tasso, Il mondo creato, testo critico a cura di P. Luparia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, Giorno Secondo, 737-746. Parlando de la sua donna (figura della Sapienza, dell’Intelletto), nel Cataneo overo de le conclusioni amorose il Tasso dice enigmaticamente che ama meglio di vederla libera: «Ma s’ella fosse libera e liberatrice ancora, potrebbe liberare i miseri amanti da la tirannide amorosa e da qual altra si sia: e sarebbe in ciò somigliante a quel divino amore [lo Spirito] il qual non è nostra passione, ma divina sostanza» (p. 819,§ 69).