Revue Italique

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Dialoghi di primedonne. preliminari sulle contaminazioni cinquecentesche di poesia e epistolografia

Paolo Procaccioli

La produzione «épistolaire du XVIe siècle est énorme; d’où la nécessité de restreindre la recherche à certains types d’écrits. Au moins quatre types de lettres sont à dinstinguer: 1) l’épître néo-latine en vers; 2) l’épître vernaculaire en vers; 3) la lettre néo-latine en prose; 4) la lettre vernaculaire en prose»:1 così Luc Vaillancourt qualche anno fa, nel momento di aprire il resoconto di un’indagine condotta sulla lettera familiare del Cinquecento. Naturalmente non seguirò lo studioso canadese nello sviluppo della sua inchiesta, non è questo il luogo, sarà utile però prendere le mosse dalla sua partizione preliminare per ribadire, e per darla per acquisita una volta per tutte, la forte incidenza in quella stagione dell’oggetto lettera in versi. Che sarà sì da intendere come una delle variazioni-incarnazioni della forma lettera, ma alla quale sarà da guardare al tempo stesso come a un testo poetico che fa propri di proposito alcuni tratti specifici della scrittura epistolare per ammantarsi degli effetti di realtà e di immediatezza tipici di quest’ultima.

Che in ogni caso i generi letterari non abbiano mai disdegnato il dialogo e la contaminazione è cosa nota a chiunque sia capitato di frequentarli anche solo cursoriamente e ne abbia seguito i destini. E così come da sempre l’epica ha intrecciato il suo lessico e i suoi ritmi con quelli della lirica e anche con quelli della storiografia, altrettanto, per limitarsi a richiamare un caso notorio di dialogo soprattutto cinquecentesco, la novella non avrebbe disdegnato di riversarsi nelle ottave cavalleresche. In questi termini è senz’altro legittimo guardare al dialogo che ha legato la poesia e la lettera. Un dialogo antico, ricorrente di secolo in secolo ma che sembra farsi particolarmente fitto nel Cinquecento, quando le due tradizioni, che erano al centro delle attenzioni del lettore, si contendevano il primato sugli scaffali degli studioli e di riflesso sui banconi dei librai. Senza peraltro che vada dimenticata la lezione di Curtius, che ci ha ricordato per tempo come c’era stata un’epoca, il Medioevo, nella quale il confine tra prosa e poesia non era stato così netto come era stato prima e come sarebbe stato in seguito, e nella quale all’epistola erano aperti tanto i territori dell’una che quelli dell’altra.2

Al dialogo lettera-poesia sembrerebbe insomma di dover guardare come a un matrimonio scritto negli astri tra due modalità di scrittura altamente aggreganti. E per passare dalle linee generali ai testi basti ricordare come già la tradizione classica ne offrisse esempi prestigiosi: Orazio e Ovidio su tutti, ai quali si devono testi cardine come la lettera ai Pisoni – per tutti l’Ars poetica – e modelli fecondi come le Heroides. Un dialogo consegnato dalla classicità alle stagioni successive e fissato in pratiche di grande diffusione e in testi riconosciuti per tempo come canonici; così la fortunata tradizione della tenzone poetica delle varie letterature medievali, così le Epistolae metricae petrarchesche.

Qualche anno fa, a sottolineare come la lettera interferisce quasi naturaliter con altri generi, John McLelland aveva ribadito la sua prossimità al dialogo rinascimentale,3 e discorsi analoghi si potrebbero fare, sempre mantenendo il fuoco sulla civiltà letteraria del Cinquecento volgare e limitandosi a accennare ai nomi d’obbligo, a proposito della novella (Bandello), della trattatistica (il Sansovino delle Lettere sulle dieci giornate del Decameron), della narrativa (Parabosco), della storiografia (Sanudo, Ruscelli). 4

Si tratta soprattutto di commistioni di funzioni, ma col tempo, come sempre, tra funzioni e forme finiscono per stabilirsi delle connessioni privilegiate dovute al formarsi di consuetudini e al prestigio di testi che acquisiscono lo status di modello. In Italia fu soprattutto il capitolo in terzine che per la stagione del primo Rinascimento si rivelò il più adatto a veicolare quella doppia funzione. Le terzine si imposero come la forma più prossima a quella delle serie esametriche5 e in grazia di una loro evidente disponibilità insieme narrativa e antilirica. E questo a lungo, per tutto il Quattrocento,6 fino a quando nel corso del secolo successivo il dialogo tra i due generi, diventati nel frattempo egemoni come possono esserlo due specie infestanti, si fece ancora più stretto. Tanto da legittimare la conclusione che «insieme alla sonetteria di corrispondenza, la composizione in terza rima rappresenta nella tradizione italiana la forma principe dell’epistolografia lirica».7

Un dialogo quasi necessitato da quel loro ritrovarsi consacrati quali forme d’elezione di un confronto pieno che sembrava non conoscere confini, che era insieme pubblico e privato, letterario e civile. Dove la loro contaminazione arrivava a farsi anche, in qualche modo, figura piena della disponibilità che pervade la parola poetica. Una parola che proprio nell’assunzione della forma epistolare sperimentò una delle modalità più efficaci per superare i vincoli che in tempi di classicismo imperante sembravano ancorarla per statuto al tempo assoluto della tradizione e dei suoi modelli, il che le consentiva di entrare agevolmente in relazione diretta con l’oggi e con la storia. Un modo efficace per far dialogare il passato con il presente e stringere un nodo strettissimo tra un ‘io’ che era poi il ‘noi’ di una verticalità diacronica originaria e condivisa, e il ‘tu’ di concretissimi interlocutori incarnazione dell’orizzontalità sincronica. Un nodo nella cui realizzazione erano direttamente impegnati quanti a vario titolo prendevano parte al rito collettivo8 di uno scambio poetico che sembrava destinato a non esaurirsi mai. Dichiarato dalla serie interminabile delle proposte e delle risposte e confermato nel vivo dello scambio epistolare.9 E dove una fortuna editoriale clamorosa tanto sul versante lirico che su quello epistolare10 risultava la dimostrazione più piena del fatto che pressoché l’intera società italiana si riconosceva, e sarebbe stato così per tutto il secolo, nei dibattiti condotti secondo quelle forme.

Una cronologia molto stretta e il coinvolgimento diretto di alcuni professionisti della letteratura in tipografia impegnati nell’allestimento contemporaneo di sillogi epistolari e liriche sono fatti che sembrano suggellare plasticamente ai nostri occhi la confluenza in unum dei due filoni. Al punto di fare per quel secolo dell’epistolografia e della lirica l’alveo golenale dove poteva trovare la sua espansione naturale la piena, diventata nel frattempo inarrestabile, della scrittura volgare. E dove le raccolte – antologiche o no; d’autore, di curatore, di editore; di testi coevi o retrospettive – si rivelano alla fine come la forma d’elezione di quella produzione debordante. Cose tutte che parrebbero legittimare se non proprio la necessità almeno la sensatezza di una piccola inchiesta come quella della quale rende conto questo fascicolo di Italique.

Un’inchiesta che si propone di contribuire a richiamare l’attenzione sul fatto che in quella stagione proliferarono come mai prima testi poetici non solo scritti ‘come’ lettere, ma letti e diffusi con la doppia valenza e la doppia funzione di componimenti poetici e di lettere. Testi cioè che entravano materialmente nel circolo delle scritture di corrispondenza al punto di arrivare a legittimare l’intitolazione delle terze rime indifferentemente come “capitoli” o “lettere”.11

Potrà essere utile cominciare a guardare all’argomento dall’esterno, dalla materialità degli oggetti cui era affidata la parola poetica e quella epistolare. In questo senso, è evidente, non si tratta ancora di interferenze tra l’una e l’altra scrittura, semmai di analogia tra i loro destini editoriali e critici, e cioè di percezione della loro prossimità agli occhi di un lettore che veniva progressivamente educato alla codificazione dei generi della nuova letteratura e dei loro stili. Prossimità dichiarata dalla stessa strutturazione libraria: non sono rare sillogi epistolari cinquecentesche che ospitano al loro interno una piccola raccolta di rime e il cui effetto richiama quello del prosimetro. A cominciare dal volume che apre la serie, quello aretiniano del 1538, e poi in molti altri casi di «coabitazione di lettere e testi poetici», un fenomeno al quale ha dedicato pagine interessanti Silvia Longhi parlando della raccolta delle Facete assemblata da Dionigi Atanagi.12

Chi però partisse dalle parole che il Tasso nel 1585 indirizzava a Giovan Battista Licinio reclamando destinazioni autonome per le sue scritture («de le rime e de le lettere ancora me ne rimetterei, se voleste consolarmene: ma non mi piacciono queste mescolanze c’hanno fatte l’altre volte li stampatori»)13 potrebbe essere tratto in inganno. Ma sarebbe un inganno solo apparente. Se infatti gli stampatori indulgevano in quelle mescolanze non era certo per trascuratezza ma perché, al contrario, quello era il gusto dell’epoca. E per un Torquato che si appellava al rispetto della specificità dei due linguaggi c’erano folle di lettori che apprezzavano quella prossimità, di editori dispostissimi a assecondarla e di autori che trovavano stimolante sperimentare una tale giustapposizione. Al punto che, e rubando proprio la parola al Tasso teorico della scrittura epistolare, si potrebbe dire che così come «tutti i generi dell’Orazione si veggiono nell’Epistole»,14 altrettanto succedeva con quelli poetici, e che la giunzione dell’uno con l’altro ai più non sembrava penalizzante ma tale da consentire l’amplificazione massima dei loro effetti.

Credo non sia per caso che tra i frequentatori più assidui di quella scrittura accanto ai poligrafifigurino soprattutto i segretari, gli uni e gli altri legittimati nelle loro escursioni dalla titolarità di una molteplicità di competenze, a cominciare proprio da quelle in materia di epistolografia e lirica. Dei poligrafisi dirà subito; dei segretari ricordo per tutti Girolamo Muzio, che scrivendo a Ottonello Vida dichiarava la sua intenzione di far stampare «tre libri di lettere in prosa, et tre in rime sciolte»15 secondo un programma presto realizzato nella raccolta delle Rime diverse del Mutio Iustinopolitano.16

Quello di Muzio non era un frutto isolato. Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta il lettore di cose volgari poteva assistere a un’esplosione e insieme a una messa a fuoco progressiva del fenomeno delle raccolte epistolari e poetiche, liriche e no. Dove con gli autori cambiavano progressivamente anche le finalità e le competenze in ballo. Se inizialmente, tra il finire degli anni Trenta e i Quaranta, nelle mani di Aretino e dei suoi emuli Franco e Doni il libro di lettere era stato soprattutto funzionale alla dimostrazione delle doti di uno scrittore e, per Aretino almeno, del suo rilievo di personaggio pubblico; se Tolomei e Bernardo Tasso raccogliendo le loro lettere si proponevano di dare prova di carriere di successo; se Paolo Manuzio, Paolo Gherardo, Curzio Troiano di Navò, Giacomo Ruffinelli commissionando o allestendo direttamente quelle sillogi dimostravano di essere imprenditori aggiornati in grado di intercettare un argomento di grande interesse, le figure che avrebbero segnato la stagione successiva sarebbero state figure di tecnici della parola e del libro. Sarebbero stati professionisti del libro volgare del calibro di Lodovico Domenichi, che nel ’45 licenziò presso Giolito il primo della fortunata serie dei libri di rime e nel ’46, presso lo stesso editore, il terzo libro delle lettere aretiniane. Ma discorsi analoghi si potrebbero fare a proposito di Lodovico Dolce, di Girolamo Ruscelli, di Francesco Sansovino, di Dionigi Atanagi. Autori per i quali rime e lettere costituivano un’accoppiata d’obbligo, indispensabile per recuperare nella loro pienezza e insieme nella loro complessità i dibattiti in corso. E che non a caso, il tutto a ulteriore conferma della centralità di quelle scritture per quella stagione, si dedicheranno contemporaneamente e (sembrerebbe) indifferentemente alla raccolta e alla curatela dei materiali epistolari e di quelli poetici.

Lo faranno proponendo gli uni e gli altri secondo criteri nuovi, nei quali al recupero materiale dei testi si sarebbe affiancata – svolta nelle rubriche, nelle tavole e nelle altre sezioni paratestuali – la loro analisi tematica e formale. Col risultato che alle raccolte si dovrà guardare oltre che come a una vetrinaeaun catalogo-campionario anche come a un’operazione di recupero e di sistematizzazione propriamente storicocritica e retorica di quei materiali. Dove i curatori si incaricavano di mettere a fuoco con la parola dell’autore anche la rispettiva poetica, tanto quella lirica che quella epistolare. Né è un caso che le due operazioni procedessero raccogliendo sì materiali ma anche individuando criteri di ordinamento. Che venivano immediatamente dichiarati, e che talvolta, così nel caso delle ‘raccolte di raccolte’, diventavano più importanti della proposta stessa del nuovo.17

E allora, è legittimo chiedersi, cos’è che nel corso del Cinquecento provoca un fenomeno come quello appena descritto? Di sicuro non è solo l’estensione della pratica della corrispondenza in versi o in prosa. E neanche una qualche novità degli esiti formali, che sappiamo tutti noti e sperimentati da tempo. Semmai parrebbe un portato di una loro progressiva e vistosa specializzazione, che nel caso della forma privilegiata di quell’ibridazione, il capitolo, è marcata soprattutto da un passaggio dal capitolo morale ‘giovenaliano’ e da quello amoroso a un capitolo satirico e ‘oraziano’.18 Il che ai nostri occhi finisce per produrre un effetto vero e proprio di novità da connettere alla fortuna di opere diventate subito esemplari come accadde con i capitoli di Berni e con le satire di Ariosto, prodotti effettivamente nuovi che se non condannarono del tutto all’oblio declassarono le prove dei vari Niccolò da Correggio o Antonio Vinciguerra, così come la lettera volgare dei moderni si propose come modello alternativo all’epistola dei classici e a quella degli umanisti. Senza trascurare il fatto che il nuovo aveva anche una esatta caratterizzazione locale (che naturalmente non vuol dire esclusività), che per la poesia satirica era la Firenze e la Roma medicea e la Ferrara estense e per la prosa epistolare ancora la Roma dei segretari. Naturale che quando di lì a un decennio a pratiche percepite come nuove e presto diffuse si venne a affiancare una fitta proposta editoriale altrettanto nuova (le raccolte di lettere, capitoli, rime) sia scattato quell’effetto moltiplicatore che da una parte legittimò ma dall’altra finì prima per fissare e poi per imporre come modelli esiti tanto celebrati. Il risultato fu l’affermazione progressiva di moduli che crearono una topica alla quale non era facile sottrarsi e che qui si cercherà di documentare attraverso il richiamo di momenti e di fenomeni che appaiono a vario titolo rappresentativi.

Da quanto detto si sarà compreso che qui si parlerà di terza rima in un senso molto particolare che prescinde del tutto da discussioni come quella sulla natura del ternario ariostesco e di quello bernesco, e dunque dalle più o meno sottili differenziazioni tra il versante satirico e quello burlesco. In ballo insomma più che tonalità e finalità degli stili saranno gli espedienti escogitati e le modalità dei loro innesti.

Nella prospettiva particolare del singolo autore il vario fluire della topica poetico-epistolare risulterà dai saggi che seguiranno nel volume e dagli approfondimenti lì proposti. Qui mi proverò a affrontarla in una chiave più generale seguendo le tracce di un dettaglio – l’attenzione a fornire una più o meno esatta determinazione cronologica – che insieme all’indicazione di un destinatario segna la funzione epistolare del capitolo ternario e acquisisce il valore di un vero e proprio marchio di genere. Premetto, e è costatazione facile, che i due dettagli non hanno la stessa incidenza. Mentre l’indicazione del destinatario è costante (per lo più è nominato espressamente già nel titolo o in avvio di componimento, o anche, quando taciuto, presupposto dal ‘tu’),19 e anzi parrebbe diventata d’obbligo, quella della data no. Poteva darsi o meno, e quando si dava poteva presentare oscillazioni ampie che andavano da richiami generici (all’anno o alla stagione o al giorno) a determinazioni cronotopiche complete. Con, in questo ultimo caso, un effetto di mimesi piena tra le due scritture.20

Premetto anche che il corpus testuale considerato per questa verifica parte da Berni e dall’Ariosto delle Satire per seguire la presenza o meno del motivo in alcune delle sillogi dedicate al genere o a singoli autori a partire dagli anni Trenta e Quaranta. Si tratta delle raccolte edite dal Navò nel ’37 e nel ’38 (i frontespizi dichiarano testi di Berni, Mauro, Della Casa, Bino «et d’altri») e ancora nel ’39 (di Molza, Varchi, Dolce «et d’altri»), dal Bindoni nel ’37 (i capitoli del Gherardo), la sine notis del ’40 (con capitoli di Aretino, Dolce, Sansovino «et di altri acutissimi ingegni»), da Comin da Trino nel ’46 e nel ’48 (capitoli di Nelli), dal Giunti nel ’48 (Il primo libro dell’opere burlesche: Berni, Della Casa, Varchi, Mauro, Bini, Molza, Dolce, Firenzuola) e nel ’55 (il secondo libro: Berni, Molza, Bini, Lodovico Martelli, Franzesi, Aretino «et di diversi Autori»).

Nessun dubbio comunque sull’origine, che per tutti sono i ternari di Ariosto e di Berni. In ciascuno dei quali la data è indicata solo due volte e sempre in avvio di componimento. In Ariosto apre la seconda e la quarta satira, in Berni i capitoli V e LI, quello del diluvio e quello dedicato al prete da Povigliano. Nell’uno e nell’altro si dà un riferimento determinato (Ariosto IV e Berni V) e uno lasciato invece indeterminato (Ariosto II e Berni LI). Può essere utile vederli più da vicino.

Nella prima occorrenza ariostesca il motivo ha uno svolgimento del tutto convenzionale; si limita a indicare genericamente la stagione dell’avvento e per di più lo fa con una successione di metafore che non disdegnano il ricorso finale alla mitologia:

   Perc’ho molto bisogno, più che voglia,
d’esser in Roma, or che li cardinali
a guisa de le serpi mutan spoglia;
   or che son men pericolosi i mali
a’ corpi, ancor che maggior peste a
ffliga
le travagliate menti de’ mortali:
   quando la ruota, che non pur castiga
Issïon rio, si volge in mezzo Roma
l’anime a crucïar con lunga briga.

(Ariosto II 1-9)

Nella seconda, che riguarda avvenimenti successivi di sei anni, il riferimento è diretto per quanto riguarda giorno e mese ma l’anno rimane imprecisato (imprecisato per il lettore, naturalmente, non per il destinatario, Sigismondo Malaguzzi):

   Il vigesimo giorno di febraio
chiude oggi l’anno che da questi monti,
che dànno a’ Toschi il vento di rovaio,
   qui scesi [...].

(Ariosto IV 1-4)

Due, si diceva, anche le occorrenze in Berni. La prima è non solo completa ma dilatata e sovrabbondante:

   Nel mille cinquecento anni vent’uno,
del mese di settembre a’ ventidue,
una mattina a buon’otta, a digiuno,
   venne nel mondo un diluvio che fue
sì ruinoso che da Noè in là
a un bisogno non ne furon due.

(Berni V 1-6)

Vi si succedono, nell’ordine, oltre all’indicazione canonica di anno, mese e giorno anche quella supplementare della parte del giorno («una mattina a buon’otta») con in più la precisazione ulteriore «a digiuno», il tutto allo scopo di dettagliare al possibile un riferimento cronologico che la terzina successiva avrebbe invece dilatato al massimo, ma questa volta in senso spaziale: «venne nel mondo». L’altra si limita a ricordare giorno e mese, come nell’Ariosto della quarta satira:

   Udite, Fracastoro, un caso strano,
degno di riso e di compassione,
che l’altr’ier m’intravenne a Povigliano.
   
Monsignor vostro amico e mio padrone
era ito quivi acompagnar un frate
con un branco di bestie e di persone.
   Fu a’ sedici d’agosto, id est di state,
e non bastavan tutte a tanta gente,
se ben tutte le stanze erano agiate.

(Berni LI 1-9)

Accomuna i quattro riferimenti il fatto di figurare tutti in apertura di componimento. Completi o meno che siano nella loro proposta di datazione, contribuiscono a ricondurre immediatamente la narrazioneevocazione a un contesto presentato come reale o almeno plausibile. Mentre però per il terzo, quello del diluvio, è subito evidente la prossimità a una topica precisa che è quella dei canterini, per i primi due e per l’ultimo il discorso sembra destinato a rimanere nel vago. Non sembra però ci siano le condizioni perché li si possa ricondurre altrettanto pacificamente a un modello determinato come quello della scrittura epistolare. E questo a dire che non basta che si dia una data – anche se completa e enfatizzata dalla più solenne delle collocazioni – perché si possa parlare di ripresa di quel particolare modello. Così come non basta la condivisione di tutte o di gran parte delle componenti fondamentali dell’impianto epistolare, che sono le indicazioni del mittente, del destinatario, del luogo e del tempo.

Di per sé infatti una determinazione cronologica anche completa non rimandava necessariamente alla convenzione epistolare e poteva essere ugualmente autorizzata da luoghi capitali della tradizione poetica vol-gare. Nel caso del dantesco «Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta, / mille dugento con sessanta sei / anni compié» (Inf. 21, 112-14) o del petrarchesco «Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto intrai» (Rvf 211, 12-14) non c’era niente che rinviasse alla convenzione delle artes dictaminis o dell’epistola ciceroniana e i due riferimenti cronologici potevano essere funzionali tanto alla scrittura epica che a quella lirica. Insieme alla presenza o meno di quel particolare dettaglio e all’evocazione di un interlocutore conta infatti, e anzi è determinante perché scatti l’effettivo accostamento dei generi, la sua collocazione. Che nel Cinquecento, come già nell’antichità e nel Medioevo e come per molto tempo ancora, voleva la datatio in chiusura di lettera. Il che vuol dire che il momento di massima prossimità tra epistolografia e scrittura poetica si raggiunse nei capitoli che in avvio nominavano il destinatario e nel congedo richiamavano esplicitamente o anche solo per allusione il formulario della salutatio e la data.

A traguardarle secondo quest’ottica, le maggiori raccolte cinquecentesche di capitoli confermano l’esistenza di una serie ampia di testi nei quali convive una pluralità di esiti oscillanti tra la forma base del componimento di corrispondenza, quello con la sola indicazione iniziale del destinatario, e quella che fa suo l’impianto epistolare con nominatio iniziale del destinatario e in chiusura datazione cronotopica e firma.

Con, in mezzo, tutta un’ampia gamma di combinazioni. Naturalmente quelli del primo tipo sono la maggior parte, e qui è inutile procedere alla loro elencazione e del tutto superfluo anche solo tentare una qualche esemplificazione. Più significativo richiamare gli altri casi e provarsi in una rapida tipologizzazione (va da sé, senza nessuna pretesa di completezza). A partire dai testi marcati dalle indicazioni più generiche, reali o di fantasia che siano. Come la cadenza anniversaria ricordata da Quinto Gherardi nell’avvio della sua Lettera a ser Pietro da Sezza:

   Sezza che già fa l’anno de le prime
File, et del mezzo e de l’ultime foste
Nel passar d’Alpi le nevose cime.
21

O quella stagionale di Lodovico Dolce del capitolo A mons. Gri[mani]:

   Qual sia lo studio mio mi dimandate
Signor mio caro, e quale vita io tegno
In questi tempi caldi de la estate.
22

Altrettanto generici i riferimenti alla festa veneziana della Sensa che aprono e chiudono il capitolo dello stesso Dolce Al Magnifico M. Francesco Giorgio del Clariss. M. Antonio.23 Altrove i riferimenti sembrano richiami puntuali di un giorno prossimo, ma lasciati come sono senza nessun’altra determinazione finiscono per risultare non meno generici dei precedenti. Così nell’incipit del Capitolo della fava del Mauro:

Diman sarò con voi si come io soglio,
Infra l’hora di cena, e di merenda;
24

così nel primo capitolo Del naso del Dolce:

L’altrier leggendo una scrittura a caso,

e in due di Tansillo, tutti e due Al Veceré di Napoli:

   L’altrier passando il golfo, onde si passa
quando uom col timon dritto da Palermo
per venirsene a Napoli si lassa,
   giaceasi il mar nel letto suo sì fermo,
ch’io non temea d’aver quella giornata
da desiar la luce di Santo Ermo

e

   Chi lascia il sentier vecchio e il nuovo piglia,
dice il proverbio, se talor ritrova
quel che ei non cerca, non è meraviglia.
   L’altrier vols’io, signor, far cosa nova
e l’usanza cangiar degli anni addietro,
e questa novità poco mi giova.
25

Dello stesso tipo anche i richiami di un particolare momento della giornata:

   Gia era il Sole all’orizzonte giunto,
Quand’io di Pisa venni qui stamani;
Hor si truova al merigge di bel punto.
26

Altre volte la determinazione cronologica fa sponda su un fatto d’attualità, come nel caso del Bini e del suo Capitolo del horto:

   Hor che Tunizi è preso, e Barbarossa
Se ne va tutto quanto ispennacchiato,
Con un piede nel mar, l’altro in la fossa;
   Pregovi ch’io vi sia raccomandato,
Et c’hoggimai mi mandiate le piante
De melaranci, c’ho tanto aspettato.
27

Né mancano casi nei quali il gioco è condotto tra una esattezza apparente e una incompletezza sostanziale. Come nell’incipit del già richiamato capitolo dolciano Al Magnifico M. Francesco Giorgio del Clariss. M. Antonio, dove a fronte di quella del giorno e dell’anno manca la determinazione del mese:

   Salva la verita, fra i Deci nove
O fosse a venti del passato mese
Del Mille cinquecento trentanove.
28

Naturalmente per quello che qui interessa sono tanto più significativi – cioè più rappresentativi del rapporto strettissimo, ai limiti dell’immedesimazione, perseguito tra testo poetico e testo epistolare – i componimenti che collocano il riferimento cronologico in chiusura. Tra i primi riscontri di questa traduzione piena e consapevole del lessico e del formulario della lettera nelle terzine di congedo mi pare siano da annoverare due testi di Giovanni Mauro. Il primo è il Capitolo a Messer Carlo da Fano et Gandolfo:

   Questo in staffetta vi mando stamane
Ch’io cominciai quando fornia Novembre.
Cosi ve ’l getto come un osso a un cane,
   Hoggi fornito al cominciar Dicembre.
29

Il secondo è quello A Messer Uberto Strozzi recuperato di recente da Francesca Jossa:

   Voi state san, fin ch’a Mantüa state.
In Roma, alli venti otto dì di giugno,
Nel trentatré, sul caldo della state,
   Questo vi scrive Maur di suo pugno.
30

E poi, qualche lustro dopo, il Tansillo di uno dei capitoli Al Veceré di Napoli (chiusa; ca. 1545):

   E perché dove gratia non si mostra
il meglio che si faccia è
finir tosto,
io bascio il piè de l’Eccellentia Vostra.
   
Da Galipoli a dì venti di agosto.31

O anche il Domenichi del Capitolo a Mastro Iacopo di Nei, Cirusico et barbiere:

   A questi versi ho posto ultima mano
L’anno cinquantaquattro il sezzo giorno
Del mese di Novembre horrido et strano,
   Se in altro luogo, in questo humil soggiorno.
32

E del Capitolo in lode della zuppa a Filippo Giunti:

   Filippo intanto non habbiate a vile
Questi pochi versacci, c’ho
finito
Sul cominciar del mese dopo Aprile,
   Et mi scusate, s’io v’ho mal servito.
33

Senza dimenticare, ce lo ricorda Johnny Bertolio nel saggio qui dedicato a Lattanzio Benucci, la chiusa del capitolo Dell’amicitia del senese:

Nel cinquant’otto, là verso la sera,
da Roma, il dì ch’ogn’uno afferra Agosto.

C’è però nella serie considerata un caso che si distingue su tutti e in cui il rapporto tra scrittura poetica e epistolografia si fa connessione strettissima e dichiara tutta la sua intenzionalità. È il caso dei capitoli aretiniani. Si tratta di un piccolo corpus allestito nel 1540 in parte almeno per iniziativa di Dolce e che raccoglie testi del 1539. Che non doveva essere un anno qualsiasi né per Aretino né per il suo lettore. Era infatti quello immediatamente a ridosso della pubblicazione del primo libro di lettere. La coincidenza forse non era casuale, di certo non è priva di implicazioni. Nello specifico dei capitoli va detto che si tratta di testi di indubbio rilievo politico nei quali lo scrittore, impegnato a consolidare il suo ruolo dopo la breve ma pericolosissima crisi che nel ’38 lo aveva indotto alla scelta prudenziale di lasciare Venezia, mirava a riprendere i suoi rapporti e a verificarne la tenuta. Destinatari sono infatti alcuni dei suoi sostenitori più autorevoli: il duca di Firenze, il re di Francia, il principe di Salerno. Il quarto capitolo è indirizzato a Giovanni Alberto Albicante, un personaggio minore della scena milanese dietro il quale però andrà visto un interlocutore di peso come era il marchese del Vasto, cioè il governatore di Milano, e con sullo sfondo lo stesso Carlo V. Si aggiunga, sempre del ’39, il capitolo all’imperatore «nella morte del duca d’Urbino» e si avrà un vero dossier politico. Se per il poeta il primo rischio da evitare era che la sua parola finisse in burla allora si capirà come fosse la stessa materia a richiedere per i versi precisi ancoraggi cronologici. Che non mancarono, espliciti e sistematici come in nessun altro prima di allora, e collocati nel luogo topico, la chiusa:

Non altro, state sano. Di Vinegia
   Nel trenta nove, il dì doppo san Biagio.

(Aretino, Capitolo all’Albicante, 183-84)34

   Di Vinetia rifugio d’ogni gente
nel mese di Novembre a’ giorni doi,
l’anno a
ffamato tropo bestialmente,
   Pietro Aretino servo de i servi di voi.

(Aretino, Capitolo al duca di Fiorenza, 211-14)

   Non altro. Pietro che gitta il danaio,
con riverenza a scrivervi si move;
di Venetia l’ottavo di gennaio
   nel Mille Cinquecento Trentanove.

(Aretino, Capitolo al Principe di Salerno, 80-82)

   Non altro, state san, bene valete.
Di Vinegia il decembre a i non so quanti,
nel XXXIX, ch’ha fame e non sete
   Pietro Aretino che aspetta i contanti.

(Aretino, Capitolo al Re di Francia, 238-41)

   Intanto a Cesar sempre Augusto chiaro
bascia il piè l’Aretin servo suo buono.
Di Vinezia alma al mezzo di genaro,
   ne l’anno Mille Trentesimo Nono.

(Aretino, All’imperatore nella morte del duca di Urbino, 178-81)35

Naturalmente né per i capitoli di Aretino né per quelli di nessun altro degli autori ricordati interessa qui stabilire se quella cronologia sia reale o invece fittizia e quindi se e quanto la datazione sia rispondente ai fatti richiamati e congruente coll’atto della scrittura. Quello che va rilevato ai nostri fini è l’intento, presente in tutti, di conferire al discorso quell’effetto di immediatezza e di realtà che, si è detto in avvio, era garantito dal travestimento epistolare. Anche, come il Nelli nei due esempi che seguono, rendendo la datazione un pretesto per una parvenza di sceneggiatura.

Nel primo caso facendo dell’arrivo del mulattiere l’occasione per descrivere, scandendola nella sua cronologia («hieri»-«hoggi»), l’arrivo della lettera e la partenza della risposta:

   Il trenta para par che ci si metta
Ch’io non v’habbia a goder dui giorni interi
Signor mio, sempre vi parlo a sta
ffetta.
   
E per non perder l’usanza, apponto hieri
Su le ventidue hore hebbi un ricordo
Di voi, per man del vostro mulattieri.
   E hoggi si vuol partir, dunque io m’accordo
Col tempo, e voi v’accordarete altresi,
S’io v’uso qualche scriver da balordo.
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Nel secondo soffermandosi sulla narrazione della motivazione e della genesi della lettera:

   Sempre, Arrigo, vi tenni huomo d’ingegno
Per
fin’hier, quando vi doleste tanto
Dell’haver a portar gamba di legno
   Ma quell’udirvi far d’Orlando il pianto,
Quel rinnegar la fé dell’esser zoppo,
Fu cagion ch’io non vi do più quel vanto
   Hor per mostrar che vi dolete troppo,
Questa penna s’ha tolto hoggi l’assunto
Voler a zoppi dar qualche siloppo.
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Talora la rappresentazione dell’arrivo della lettera e della stesura della risposta, e cioè dei momenti contigui della lettura e della scrittura, si fa così insistita e dettagliata che si arriva a perseguire la messa in scena dell’actio epistolaris:

   Non vi mandai fra quei due giorni il resto
Di quei terzetti, com’era il dovere,
A parlar per il giusto e per l’onesto.
   A’ ventitré di maggio per corriere
Di Bologna ebbi lettre dal Casali,
Che mi fecer cangiar loco e pensiere,
   E questi quattro versi senza occhiali
Ho scritto in fretta, per che non vorria
Che dicessivo mal del Caporali.
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Il tutto, parrebbe, allo scopo di ribadire l’identificazione delle due scritture, il che autorizzerebbe l’appello all’assunto bronziniano «la penna in vece d’occhi e lingua sia»:

   Poi che l’infermità vostra, e la mia
N’impedisce il vedersi, e ’l ragionare,
la penna in vece d’occhi e lingua sia.
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Che era un modo per prendere atto di quello che proclamavano insieme la storia e l’esperienza. Sia che parlassero per bocca di un protagonista contemporaneo di queste vicende come Lodovico Dolce, che confessava a Silvio di Gaeta che non si dà «cosa veruna più in uso de gli huomini di quello ch’è lo scriver l’uno all’altro, né più necessaria né di maggior commodo»,40 sia che lo facessero, e con ben altra autorevolezza, per bocca dei teorici antichi, che avevano riconosciuto il proprium della parola epistolare nella sua possibilità di realizzare «amicorum colloquia absentium» (Cic., Phil., II, 7). O anche, e questa volta a parlare era Poliziano, «pars altera dialogi».

Naturalmente la materia non è tale da esigere e neanche da consentire bilanci. Per cui è del tutto fuori luogo chiedersi se la scrittura epistolare abbia prevalso su quella poetica o viceversa. Più che di una lotta, si è visto, si è trattato di passi di danza ora più ora meno ravvicinati che hanno coronato la marcia – per molti aspetti una marcia trionfale – dell’una e dell’altra convenzione. Ne è risultata la legittimazione di funzioni e di forme che hanno sacrificato la nitidezza originaria della lettera e del verso per valorizzarli in una stagione nella quale proprio la corrispondenza volgare, poetica e no, godeva della centralità di cui si è detto, che se non era nuova di certo appariva – e appare a noi – rinnovata. È stato proprio attraverso la commistione della funzione epistolare nelle forme della poesia, in particolare nel lessico e nel ritmo del capitolo ternario, che Berni e Ariosto e sulle loro orme i segretari e i poligrafihanno compreso di poter rispondere a una delle esigenze profonde della stagione. Così nei ‘berneschi’ della prima ora come il Mauro e in quelli a venire; così in Bentivoglio, Caccia, Nelli; così in Aretino; così in Tansillo, in Dolce, giù giù fino a Caporali, e questo per non valicare il limes del secolo. La soluzione divinata magari non era sempre e in tutti felice, ma non si può negare che fosse seducente e spesso efficace.

Lo era senz’altro nel caso dei tre capitoli indirizzati da Gandolfo Porrino a Vespasiano Gonzaga analizzati in questa circostanza da Domenico Chiodo. Capitoli che all’occhio del loro lettore si rivelano un «tipo di ‘lettera’ che [...] se a tutta prima parrebbe ascrivibile al genere del capitolo bernesco, a una considerazione ulteriore si apparenta piuttosto, e sia pure in tono scherzoso, al tipo della lettera di istituzione, una sorta di Lettere a Lucilio in versi».

Le dinamiche testuali e tematiche messe in atto dalla corrispondenza possono essere spie preziose di penetrazione quando la lettura è condotta a livelli ravvicinati e la verifica può procedere su un numero limitato di testi. Così nel caso dei versi di Molza analizzati da Franco Pignatti, che a partire da un sonetto indirizzato a Varchi (Mentre che lieto vi godete a l’ombra) ricostruisce un dialogo complesso e però tutto consegnato all’implicito.

Ma anche a guardare le cose in una prospettiva più allargata l’analisi può risultare illuminante. E infatti è proprio nel modificarsi in termini quantitativi e qualitativi del flusso della corrispondenza poetica che nella sua lettura dei Sonetti di Varchi Vanni Bramanti coglie oltre che il modificarsi della scansione interna anche la diversa ratio dei momenti della raccolta, quelli affidati alle due stampe del 1555 e del 1557. E può mettere a fuoco alcune delle tematiche ricorrenti in un arco cronologico che si dipana per più di trent’anni e che coinvolge varie centinaia di corrispondenti.

Affrontando da vicino le interferenze tra il corpus epistolare e quello lirico di Lodovico Dolce, cioè di uno tra i protagonisti della stagione più gloriosa dell’editoria veneziana, Paolo Marini può concludere che «il passaggio dal medium poetico a quello epistolare è osservato come sbocco naturale nell’evoluzione del dialogo fra due letterati di pieno Rinascimento». Nello specifico si riferiva allo scambio epistolare tra Dolce e Giacomo Marmitta, ma la considerazione sulla ‘naturalezza’ di quello sbocco si può estendere senz’altro a una parte significativa degli autori del secolo.

Che il dialogo dei due generi fosse proficuo e non prevedesse preclusioni tematiche lo dimostra l’attraversamento delle rime di un autore ancora in gran parte da esplorare come Lattanzio Benucci. Johnny Bertolio, che da qualche tempo si è accinto all’impresa, ne dà conto censendo nei numerosi capitoli del senese, per lo più inediti, i temi canonici della scrittura di corrispondenza, puntualmente recuperati al nuovo contesto. Il quadro non cambia con il progredire del secolo. Le sperimentazioni avviate nella seconda metà del Cinquecento confermano la vitalità della pratica a ogni livello. Roberto Gigliucci si è esercitato sulla produzione epistolare di Giovanni Battista Leoni, un letterato veneziano sul quale finalmente si comincia a fare un po’ di luce, e la riflessione che ne è scaturita («la storia della lirica di ogni tempo andrebbe sempre integrata con le eventuali situazioni epistolografiche in cui i componimenti si trovino incastonati»), e che parrebbe discendere direttamente dalle notazioni sparse da Dionigi Atanagi nella Tavola delle sue Rime di diversi nobili poeti toscani (1565), mi pare possa rappresentare un’acquisizione insieme critica e metodologica.

A Paolo Luparia dobbiamo una lettura acuta e circostanziata della corrispondenza poetica scambiata tra Tasso e Angelo Grillo. Una corrispondenza scandita nella successione delle proposte e delle risposte, e nella quale il numero dei componimenti è, come era inevitabile, inversamente proporzionale alla loro qualità. Ma anche una corrispondenza sbilanciata nelle sue implicazioni di fondo, nella quale l’adesione ai rituali epistolari vela ma non nasconde il contrasto sottile in atto tra il gioco degli elogi condotto dal monaco cassinese e le richieste tassiane che nascondono sensi profondi ora finalmente svelati.

Data l’incidenza della pratica lungo tutto il secolo, quando si devono registrare casi di afonia la stessa scarsa affezione diventa a suo modo significativa. È quello che ipotizza Barbara Spaggiari a proposito di un autore per altri versi generosamente prolifico come Luigi Groto, nella cui scarsa corrispondenza in versi «la sua vena poetica di solito fluente, e a tratti debordante, sembra inaridirsi in una serie di stucchevoli elogi e di banalità d’occasione». A riprova di una mancata adesione di natura retorico-poetica.

Sembrerebbe conclusione in minore, e da un certo punto di vista lo è senz’altro, ma è anche la conferma del fatto che la scrittura qui considerata non era riducibile a una topica riversabile meccanicamente in versi d’occasione. Era al contrario un banco di prova vero e proprio che esigeva il possesso pieno dell’uno e dell’altro linguaggio. Gli esiti, quelli considerati nelle analisi appena annunciate e i moltissimi altri adducibili, parrebbero confermare puntualmente l’assunto.

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1 L. Vaillancourt, La lettre familière au XVIesiècle. Rhétorique humaniste de l’épistolaire, Paris, Champion, 2003, p. 24.

2 Il riferimento è naturalmente a E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino [1948], a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992 , pp. 87-90, 168-74.

3 J. McClelland, Dialogue et rhétorique à la Renaissance, in Le dialogue, Études réunies par P. R. Léon et P. Perron, Ottawa, Didier, 1985 , pp. 157-64.

4 Alludo al Ruscelli della lettera a Filippo II, si legge ora in Girolamo Ruscelli, Lettere, a cura di C. Gizzi e P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2010, pp. 137-64.

5 Dettaglio cui è dato il giusto risalto in C. Dionisotti, I capitoli di Machiavelli,in Id., Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980 , pp. 61-99,ap. 93.

6 Lungo un itinerario ripercorso nel secondo Novecento in occasione di una riflessione sui capitoli machiavelliani che vide coinvolti M. Martelli, I “Ghiribizzi” a Giovan Battista Soderini, in «Rinascimento», XX, 1969 , pp. 147-80, e Dionisotti, I capitoli di Machiavelli, cit., pp. 61-99, e che è stata richiamata successivamente da S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco del Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, cap. VI Una lettera in capitoli , pp. 182-209,ap. 182.

7 Così Domenico Chiodo nella sua lettura dei capitoli di Gandolfo Porrino.

8 Collettivo e, è stato detto molto opportunamente, «rassicurante»: R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, p. 63.

9 «Gli epistolari dei lirici petrarcheschi» sono «zeppi di vicendevoli richieste d’aiuto, di meditate risposte ad invii poetici, di generosi suggerimenti lessicali o, addirittura, strutturali» (ivi).

10 A comprovarlo bastino pochissimi rinvii: alle Carte messaggiere e al repertorio della Basso per l’epistolografia, al censimento di Pantani e al catalogo della fondazione Barbier-Mueller per i libri di rime: Le “carte messaggiere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981; J. Basso, Le genre épistolaire en langue italienne (1538-1662). Répertoire chronologique et analytique, Roma-Nancy, Bulzoni-Presses Universitaires de Nancy, 1990; Biblia. Biblioteca del libro italiano antico, diretta da . Quondam, 1. Libri di poesia, a cura di I. Pantani, Milano, Bibliografica, 1996; De Dante à Chiabrera. Poètes italiens de la Renaissance dans la bibliothèque de la Fondation Barbier-Mueller, catalogue établi par J. Balsamo avec la collaboration de F. Tomasi, préface de C. Ossola, Genève, Droz, 2007.

11 Fenomeno che esemplifico richiamando alcuni dei capitoli di Mattio Franzesi (Lettera a Lorenzo Scala, Lettera a Messer Iacopo Sellaio), o i capitoli II, III e XIX di Luigi Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T. R. Toscano, Roma, Bulzoni, 2010, o il Dolce della chiusa del capitolo al Grimani: «io v’ho [sic] qui haver la lettera fornita. / Vivetevi, e bramate ch’io non moia, / che tale è per adesso la mia vita», Capitoli del S. Pietro Aretino, di M. Lodovico Dolce, di M. Francesco Sansovino, et di altri acutissimi ingegni, Venezia, Navò, 1540, c. 47r (d’ora in avanti Capitoli Navò 1540).

12 Nell’Introduzione alla ristampa anastatica, a sua cura, delle Lettere facete e piacevoli di diversi grandi uomini e chiari ingegni, Sala Bolognese, Forni, 1991, pp. XX-XXII.

13 Lett. 451, a Giovan Battista Licinio, [1585] in Torquato Tasso, Le lettere, disposte per ordine di tempo ed illustrate da C. Guasti, II, Firenze, Le Monnier, 1854, p. 471.

14 Torquato Tasso, Il secretario,in Lettere di grave argomento ed altre prose di Torquato Tasso, scelte per cura di G. I. Montanari, II, Parma, Fiaccadori, 1847 , pp. 414-15.

15 Lettere del Mutio Iustinopolitano, Firenze, Sermartelli, 1590, p. 100, rist. anast., a cura di L. Borsetto, Sala Bolognese, Forni, 1985; la lettera è del 3 giugno 1545. A riprova della familiarità dell’autore con quella scrittura si aggiunga A. Zenatti, Un’epistola in versi di Girolamo Muzio, in «Archeografo triestino», VII, 1881, 1, pp. 1-17.

16 Che nel frontespizio della giolitina del 1551 dichiaravano Tre libri di Arte poetica. Tre libri di lettere.

17 Sul fenomeno delle raccolte si è accumulata una bibliografia relativamente ampia dalla quale mi limito a richiamare alcuni lavori di Franco Tomasi, in particolare l’Introduzione all’edizione della giolitina delle Rime diverse di molti eccellentissimi autori, San Mauro Torinese, Res, 2001, con Paolo Zala, e Alcuni aspetti delle antologie liriche del Cinquecento,in I più vaghi e i più leggiadri fiori, a cura di M. Bianco e E. Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001 , pp. 77-111, poi in F. Tommasi, Studi sulla lirica rinascimentale (1540-1570), Roma-Padova, Antenore, 2012 , pp. 25-94.

18 Una storia ripercorsa e illustrata qualche anno fa da P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988.

19 È un tratto rilevato e studiato da tempo, e per Ariosto in particolare da C. Segre, Struttura dialogica delle Satire ariostesche,in Ariosto 1974 in America, Atti del Congresso Ariostesco, Dicembre 1974, Casa Italiana della Columbia University, a cura di A. Scaglione, Ravenna, Longo, 1976 , pp. 41-54, poi in Id., Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979 , pp. 117-30.

20 Sulla data richiamava già l’attenzione S. Longhi, Lusus, cit., pp. 195-97.

21 Il secondo libro dell’opere burlesche, Firenze, Giunti, 1555, c. 88r.

22 In Capitoli Navò 1540, c. 46r.

23 In Capitoli Navò 1540, cc. 16r-20r.

24 Il primo libro dell’opere burlesche [...]. Ammendato, e ricorretto, e con somma diligenza ristampato, Firenze, Giunti, 1552, c. 103v. 

25 Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, rispettivamente i capitoli XVIII e XXIV, quest’ultimo datato 30 settembre 1551.

26 Nel Secondo libro dell’opere burlesche, c. 130r.

27 Nell’ed. 1552 del Primo libro dell’opere burlesche, c. 171r, vv. 1-6.

28 Nei Capitoli Navò 1540, c. 16r.

29 Anche questo nell’ed. 1552 del Primo libro dell’opere burlesche,ac. 149v. 

30 Giovanni Mauro d’Arcano, Terze rime, Edizione critica e commento a cura di F. Jossa, Manziana, Vecchiarelli, 2016, p. 398.

31 È il XIII (vv. 190-93) di quelli compresi in Tansillo, Capitoli giocosi e satirici.

32 Altrettanto significativo, mi pare, il fatto che nella risposta il poeta milanese non manchi di replicare il topos: «Vi lascio in pace, et vostro come ’l vento. / Data qui da Milan nell’hore bone / Del trentanove mille cinquecento, // Due giorni dopo fatta la Passione», Apologia del Bestiale Albicante contra il Divino Aretino, vv. 205-208; i due capitoli si leggono ora in Giovanni Alberto Albicante, Occasioni aretiniane. Vita di Pietro Aretino del Berna, Abbattimento, Nuova contentione, testi proposti da P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 1999, pp. 100-109 (dell’Aretino) e pp. 111-19 (dell’Albicante).

33 Per gli ultimi quattro rinvio a Pietro Aretino, Poesie varie, I, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, Roma, Salerno Editrice, 1992, rispettivamente alle pp. 147, 150, 157, 131.

34 Giustiniano Nelli, Le satire alla carlona di Messer Andrea da Bergamo, Venezia, Paolo Gherardo, 1546, c. 3r A Messer Giustiniano Nelli,vv. 1-9.

35 Commodità de’ zoppi a Arrigo Picciuoli, in Giustiniano Nelli, Il secondo libro delle satire alla carlona di Messer Andrea da Bergamo, Venezia, Comin da Trino, 1548, sat. XX, c. 79r.

36 Cesare Caporali, Il pedante. Parte seconda,vv. 1-9, in Id., Capitoli. Colle osservazioni di Carlo Caporali suo nipote, nuovamente messi in luce per cura di mastro Stoppino filologo maccheronico [Danilo Romei], [Raleigh], Lulu, 2015, p. 67.

37 Secondo quanto proclamato nella terzina iniziale del Capitolo de romori a Messer Luca Martini, compreso nel Secondo libro dell’opere burlesche, c. 150r.

38 Come si legge nella dedica di Lodovico Dolce a Silvio di Gaeta delle Lettere di diversi 1554,in Lodovico Dolce, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di D. Donzelli, Manziana, Vecchiarelli, in stampa.