Revue Italique

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Il Torrismondo, la Merope, il coro a Venere del Giraldi. Note di metodo sul commento e sull’osmosi fra linguaggio lirico e tragico

Vincenzo Guercio

* Le citazioni da Aminta sono tratte da: T. Tasso, Opere, ac.diB.T.Sozzi, Torino, Utet, 1974 (3), vol. II.
** Il saggio di Natale (M. Natale
, L’Amore, l’Odio, il terzo coro del “Torrismondo”, cit.), da noi consultato in forma dattiloscritta, è stato pubblicato quando il presente contributo era gia` stato consegnato. Perciò abbiamo potuto inserire i rimandi solo in seconda battuta, e non in tutti i casi.

Alle immense attenzioni / fortune critiche toccate, molto tempestivamente, in sorte all’Aminta, corrispondono altrettante sfortune, o fortune ‘minori’, o quantomeno ombre, cautele, ritardi, toccati all’altro grande testo teatrale del Tasso, il Torrismondo. Fatto, a parte i riverberi, anche a distanza, di giudizi ‘limitativi’ influenti, non immediatamente spiegabile. Visto che, all’interno della specifica storia dei rispettivi generi, all’eccellenza rivoluzionaria, (ri-)fondativa o meglio ‘costitutiva’, specie a livello di linguaggio, della pastorale, corrisponde, in sostanza, in senso altimetrico più che per forza esemplare, quella della tragedia: specie, di nuovo, a livello di linguaggio. Nell’Aminta Tasso ha (ri-)costituito, in pratica, il linguaggio pastorale, portandolo a livello di eleganza, efficacia, musicalità, ricchezza stilistico-retorica, prima del tutto sconosciuto. Trasferendo, in particolare, nella pastorale italiana, il gioco di sapienti ripetizioni e artifici verbali che trovava in Ovidio. Come Ovidio giocando sapientemente su figure di parola, specie ripetizione / collocazione, anadiplosi e epanadiplosi, reflexio, estendendole / applicandole a misura di dialogo (antanaclasi / redditio), ma anche paradossi, ossimori, acutezze: facendo acquistare, di colpo, alla langue pastorale, un livello di eleganza incomparabile alla goffaggine, più bassamente ‘funzionale’, dialogico-narrativa, dei Beccari o dei Lollio. Così, nella tragedia, Tasso, pur restando perlopiù ‘dentro’ il bagaglio strutturale, gli episodi / ingredienti/ momenti / tessere / stereotipi derivati dalla tradizione grecolatina e ormai già concretatisi, a partire dal Trissino, nel classicismo cinquecentesco, ha saputo elevare potentemente e con cifra sensibilmente individua, il linguaggio del genere, portandolo a livelli prima mai raggiunti, e, nella gran parte dei casi, nemmeno avvicinati. A fronte dei quali anche più limpidamente appare la goffaggine e ineleganza di quasi tutte le parti non corali della Sofonisba – non a caso il Tasso postillatore nota che i cori paiono scritti da un’altra mano ; ma anche, mutatis mutandis, degli altri tragediograficinquecentisti ormai insediatisi come sorta di canone, quali Rucellai, Giraldi specie, clamorosamente, extra-Orbecche, Speroni (che meriterebbe discorso a parte), Dolce. Non si parli nemmeno dell’imponderabile quantità di minori e minimi, in più casi non levantisi oltre il livello amatoriale. E discutiamo, qui, di “leggibilità”, non di eventuale efficacia scenicoteatrale. Non c’è un periodo della tragedia tassiana che non sia impreziosito da formidabile apparato di artifici stilistico-retorici, spesso combinati / intrecciati fra loro, che innalzano il dettato ben al di sopra di quella che, nei predecessori, appare piatta funzionalità narrativodialogica, o troppo evidentemente artificiosa, fredda, macchinosa ricerca di effetti ritenuti obbligatori per il genere. Ciò, consustanzialmente, nell’ordito sintattico, e, anche qui, nelle figure di parola e ripetizione (isocolie, parallelismi, chiasmi, serie anaforiche), nell’uso accortissimo di pluralità e accumulazioni, nella sempre vigile, calibrata ricerca dell’ottima collocazione, di equilibrio, orchestratura, armonizzazione. O, ancora, nella ricchezza di figure ‘di pensiero’, paradossi (466Divenir disleal per troppa fede), ossimori, ingegnosità, acutezze. A questa sapienza stilistica non sono affatto estranee, del resto, come solo parzialmente documentato dal pur ottimo e ricco commento Martignone, 1 l’esperienza lirica, del poema epico, della stessa pastorale, officina decisiva per l’elaborazione, appunto, di un linguaggio teatrale che non accusasse abbassamenti di livello. Pastorale, qualche volta, puntualmente ripresa, in luoghi particolarmente fausti e di speciale efficacia.2 Qualche volta riecheggiata, anche, più genericamente, in certo gioco di marcate ripetizioni (461-62 E se ragion mai violar si debbe, / Sol per l’amico violar si debbe), più spesso ‘continuata’ come maniera e, appunto, sapienza, efficacia, eleganza di linguaggio. Decisiva, tra gli infiniti apporti utili al raggiungimento del risultato, l’assimilazione, la capacità di trasfusione / osmosi, la sicura padronanza del linguaggio lirico. A tanta sapienza e altezza stilistico-linguistico-retorica, corrisponde appieno una affatto straordinaria, specie nella storia del genere, densità efficacia felice espressione del patetico, in senso proprio. Passioni ed affetti, cui si dà voce con efficacia / persuasività / autenticità, insomma arte non paragonabile alla precedente storia del genere, nel loro profondo, imponderabile, spesso mal o in-governabile, succedersi, alternarsi, intrecciarsi, contaminarsi, confliggere. Confluenti, infine, nel senso alto, altamente e propriamente ‘tragico’ appunto, della vanità degli spasmi. Consequenziale, proprio, largamente saggiato, anticipato, preparato in tanti affioramenti, il senso di finale sconfitta, di sostanziale impotenza, di infrangimento contro il muro dell’ineluttabilità. È probabilmente, il Torrismondo, la sola tragedia del Cinquecento italiano in cui si dà voce adeguata all’inconscio, alla psiche profonda. Alle difficoltà incapacità di controllo, al comporsi / scatenarsi di forze di cui non è dato dominio. Che è poi l’essenza stessa del tragico. Nota, forse, ingenuamente impressionistica, che va letta, però, in stretta relazione con la ‘massiva’ storia del genere sino a quel momento: in cui tanta persuasività e ricchezza sono del tutto irreperibili. Se non impensabili. Al loro posto rigida stilizzazione, elazione orrorosa, amplificazione, artificiosità troppo scoperte. Anche, parentesi forse troppo attualizzante, ai fini di un qualsiasi patto di sospensione dell’incredulità; almeno, di una qualunque chance / opportunità di identificazione. In parole grosse: le tragedie del Cinquecento extra-Torrismondo sono bocconi per stomaci forti. E motivatissimi. La prosa, il teatro, il tragico dell’orrore; la messa in scena della passione invece della passione. Della sua misurata / calibrata credibilità (autenticità). Passi come il confronto fra Rosmonda e la Regina madre sul valore della bellezza restano pezzi unici nella storia cinquecentesca del genere. E anche ove la rivoluzione è più ‘dall’interno’, ove si ripercorrono sentieri noti o ci si inserisce in contenitori stereotipi, l’ese-cuzione tassiana è affatto individua, quanto ad altezza e qualità. Ormai ovvio, come struttura, il duetto iniziale di Alvida con la Nutrice, o quello seguente, a specchio, di Torrismondo con il Consigliero. Ma l’angoscia perplessa, impossibilitata a capire, le paure indistinte, gli incubi notturni, l’equivoco ineluttabile, fatale, di fronte ai repentini cambi d’umore dell’amato, il penoso oscillare fra ansie, angosce e pallide, passeggere speranze di Alvida. Lo strazio interiore di Torrismondo, dilaniato fra amore e amicizia, senso di colpa e desiderio incoercibile, le sue tensioni di fuga verso la morte e il suicidio, sola possibile via d’uscita: sono restituiti ad una altezza e profondità, con valentia stilistica, capacità di attingere e dar voce alla vita psichica, porre in dialettica / conflitto conscio e pre-o in-conscio, che non ha eguali nei moltissimi duetti fra omologhi già messi in scena dalla precedente storia del genere. Nonostante certe riserve critiche, il Torrismondo è, senz’altro, la più bella e profonda tragedia italiana del Cinquecento; probabilmente, non solo del Cinquecento. Tragedia che, nonostante tale qualità, profondità, densità, ha goduto di due soli commenti ‘seri’, di Bigazzi3 e, soprattutto, Martignone (questo secondo, in particolare, molto ricco, e frutto di attenta erudizione), a fronte dei molti che, sin dal XVII secolo, si sono accalcati ai piedi dell’Aminta. Da diversi anni, gli studi hanno in qualche misura modificato la rotta, e si sono moltiplicate / moltiplicano le attenzioni alla tragedia. Anche le novità emerse da alcuni di questi contributi renderebbero opportuna la revisione / integrazione di detti commenti, o la compilazione di un nuovo apparato di note (non v’è, del resto, commento al mondo che non sia passibile di integrazioni, revisioni, alleggerimenti, miglioramenti della più varia specie). Integrazioni, tra parentesi, che, in qualche caso, non necessitano di evincersi dalla recente bibliografia: a 706-708, per esempio, il «tempo» che, secondo Torrismondo, nel recare i beni è lento e zoppo, richiama da vicino Petrarca Rvf 212, 8: «caccio con un bue zoppo e ’nfermo et lento». Meno bene, a 193-194, Or vengo in parte / Ov[e] di Alvida può essere memoria automatica di langue dantesca (chiusa di Inf. IV «E vegno in parte ove»). Torniamo ai contributi forniti dalla bibliografia: il saggio, per esempio, di Massimo Natale L’Amore, l’Odio, il terzo coro del “ Torrismondo”, appena pubblicato sull’ultimo numero, LIX-LXI, anni 20112013, di «Studi tassiani», fornisce preziose indicazioni su fonti, riecheggiate nello specifico del coro dell’atto terzo, taciute nei commenti precedenti; su tutta una fitta rete di riecheggiamenti soggiacente, si può ipotizzare, al testo del Torrismondo, e parimenti inedita. Fonti liriche, come il Tansillo, meno persuasivamente il Pigna, inequivocabilmente il Bembo. 4 Oil Furioso ariosteo. 5 O vedi, ancora, la fitta tramatura di rimandi, a proposito delle antinomie Amore-Odio o Amore-Discordia, riesumata da Natale entro l’opera tassiana, compreso l’autocommento alle Rime (componimento 163edizione Basile); oil Manso, non solo sul rapporto Amore-Odio, ma anche Amore-Amicizia. O, in senso evolutivo, la prima stanza del Coro tragico viene utilmente confrontata all’esito del Mondo creato. 6 Notevoli, altresì, le indicazioni sullo spesso fondo filosofico possibilmente soggiacente al coro tragico tassiano. Sul rapporto Eros-Filìa, per esempio, da Empedocle, raggiunto attraverso Simplicio esegeta di Aristotele, postillato da Tasso, nell’edizione della Fisica voltata in latino da Lucillo Filalteo. 7 Empedocle che «poteva in qualche modo aiutare l’esordio del terzo coro [...] per la chiara ripresa dei due idola», Amore e Odio, e «per quel «mutuo [...] successu» secondo il quale “alternant”, si avvicendano i cicli cosmici in concordia e discordia, che [...] richiama subito il “giro alterno” con cui si affrontano gli stessi Amore e Odio nel coro»:

[...]
Et haec cum sese mutuo alternant successu numquam desunt
interdum amore cuncta in unum convenire,
interdum singula econtra seiuncta lis odio habet.

A questo proposito: anche le affermazioni del Natale possono forse essere, in qualche misura, integrate, come riviste dovranno essere le note del commento Guanda. Intanto: l’esordio del III coro, pur nel comune «richiamo al variare dei corpi celesti», ha ben poco a che fare, a nostro avviso, con il primo coro della Rosmunda del Rucellai, vv. 317ss, citato ad locum da Martignone. Coro che si riferisce a Dio motore de «Le volubili sfere e ciò che è in quelle», secondo topos usurato, e che è ben lontano, quanto a contesto, impostazione, struttura metrica, dalla canzone tassiana. Se si vuole restare nel recinto delle tragedie di canone, più vicino ci pare, allora, il coro a Venere, dunque, in definitiva, all’Amore, dell’Orbecche giraldiana, ove pure richiamo agli astri celesti: «[...] ma il sole anco e la luna / E quante nel ciel sono / Stelle fisse od erranti, ad una ad una / Del tuo poter for dono, / [...] / E quelle menti istesse / Che movono i celesti cerchi ogn’ora, / Nulla sarrebbon [...]» (vv. 355ss).8 Ed ove pure, attraverso la “formula famosa” di Orazio (Epist. I 12, 19 «concordia discors»), 9 affiora la teoria empedoclea citata dal Natale. Osservazione preliminare: per quanto l’accostamento delle stelle erranti e (o) fisse sia vulgato, e molto ricorrente nel Tasso, 10 la formula con cui, nel coro di Orbecche, si fa menzione degli astri («E quante nel ciel sono / Stelle fisse od erranti») è richiamata, come segnalato, opportunamente, nello stesso commento Martignone, da una battuta del Consigliero tassiano: «E tutte in ciel le stelle erranti e fisse». Anzi, probabilmente, il riscontro va oltre questo, rigorosamente, «solo v. 768», come indicato, invece, nel commento della Bembo. Il riferimento alle stelle è parte, nel Giraldi, di un elenco delle creature che devono la loro vita alla forza di Venere; nel Tasso, di quelle che sono soggette all’inderogabile imperio della Necessità. In entrambi i casi le stelle sono immediatamente precedute dal genere umano, e seguite da accenno ai cerchi celesti. 11 Il coro giraldiano, dunque, certo ben presente al Tasso del Torrismondo, è, si diceva, assai più vicino a quello dell’atto III tassiano che non il primo della Rosmunda del Rucellai. 12 Chiudendosi, analogamente, con congedo-preghiera ugualmente di tre versi, gli ultimi due a rima baciata, rimati yY, parimenti rivolto, con apostrofe diretta (tu), a Venere-Amore, affinché porti pace in terra. Il Tasso: «Amor, fa teco pace, / Perch’è vera amicizia amor verace». Con rima pace: verace che è già nel coro giraldiano, vv. 319ss:

O Dea, dal cui superno,
Almo valor ogni cosa mortale
Prende ristoro e
pace,
[...]
Né puote in terra o ’n cielo alcun verace
Contento esser giamai [...].13

Né sono queste le sole parole rima che ricorrono uguali nei due cori: nella prima stanza del Tasso, si dice che l’Amore pregia «Altre vittorie in regno almo e superno» (: giro alterno, ecc.; v. 1949). Parola rima, come si è visto, già nel Giraldi a Venere (: inferno). Torniamo al Torrismondo, sempre all’interno di un coro, ma questa volta quello dell’atto I, rivolto, anche qui con apostrofe diretta, anche qui con pari toni encomiastici, alla Sapienza: «Nulla s’aguaglia al tuo valor superno» (v. 834: Averno), con giuntura, si è visto, già nello stesso luogo giraldiano. Riscontro interessante, a questo punto, che dimostra inequivocabilmente come il Tasso si muova entro questo territorio ‘specialistico’ degli inni, invocazioni, preghiere a, riflessioni filosofiche su Amore, quello con l’Aminta. Ove il Coro chiude l’atto IV con una preghiera, appunto, ad Amore, parimenti in contrapposizione con altra entità (qui la Morte); ove pure è attestato, sempre in posizione di rima, lo stesso valor superno già del Giraldi. Ed ove ricorre, se può essere ulteriore spia indicativa, anche la pur vulgata rima terra: guerra che è già nel coro giraldiano (vv. 1827ss.):14

Ciò che morte rallenta, Amor, restringi,
amico tu di pace, ella di guerra
[...]
e mentre due bell’alme annodi e cingi,
così rendi sembiante al ciel la
terra,
che d’abitarla tu non fuggi o sdegni.
Non sono ire là su: gli umani ingegni
tu placidi ne rendi, e l’odio interno

sgombri, signor, da’ mansueti cori,
sgombri mille furori;
e quasi fai col tuo
valor superno
de le cose mortali un giro eterno.

Che coincide, poi, alla lettera, come rilevato già da Bruno Maier nel suo pur sbrigativo commento, 15 con la prima stanza della canzone per le nozze di Cesare d’Este e Virginia de’ Medici (n. 1263): altro, ovviamente, inno all’Amore e alla sua pacificante potenza, trasferito, pari pari, dall’officina lirica a quella teatrale.

Evidenti, a questo punto, le intersezioni, a più largo raggio, con tutta la prima stanza del coro III del Torrismondo, 16 nell’idea della natura e virtù ‘celeste’, ultraterrena di Amore, nella sua capacità, potenziale o in atto, di fugare inimicizie e spirito guerresco, di adaequare ‘cielo’ e ‘terra’, sul cui rapporto si gioca, in pratica, quasi tutto il brano (vv. 1941-54):

Amore, hai l’Odio incontra e seco giostri,
Seco guerreggi, Amore,
E con un
giro alterno
Questo distruggi, e nasce il mondo eterno.
Altro è, che non riluce a gli occhi nostri,
Più sereno splendore,

Altre forme più belle
Di sol lucente e di serene stelle.
Altre vittorie in regno alto e
superno,
Altre palme tu pregi,
Che spoglie sanguinose, o vinti regi,

Altra gloria, senza ira e senza scherno.
Amore invitto in
guerra,
Perché non vinci e non trionfi in terra?

Con la pure evidente variatio del giro eterno, cioè le alte sfere celesti, in cui Amore, in Aminta, è in grado di trasformare le miserie terrene, nel giro alterno con cui, nel Torrismondo, l’Amore riesce, con sorte incostante, ad avere la meglio sull’Odio.

Oltre alle puntuali osservazioni del Natale sulla fitta rete concettuale, ‘filosofica’, che lega diversi luoghi tassiani fra loro, ed essi ad un sostrato filosoficoeaunbagaglio lirico perlopiù ignoti ai commenti precedenti, l’attenzione va posta anche su quei ‘perni’ della reminiscenza intertestuale, dunque anche della costruzione delle canzoni tragiche, che sono le parole-rima. Da lì, attorno a quelle, si strutturano, spesso ‘preferenzialmente’, le riprese / memorie intertestuali. Quelle sono, spesso, il collante, il link che avvia o intorno a cui si materia il contatto. Il punto privilegiato che accende, o su cui posa, la reminiscenza / ripresa / variazione intertestuale.

Il commento della Bembo, insomma, lavoro ottimo, utilissimo, ricco ed encomiabile, andrebbe, a nostro avviso, integrato, rivisto, alleggerito di parecchi rimandi inessenziali. In particolare: in campo tragico, sembra partire da una tesi, da un’idea ‘a priori’, che ci pare essere che il Tasso tragico si sia largamente abbeverato / riferito ad alcuni (pochi) precedenti ‘di genere’, che sono citati, nelle note, con grande frequenza, ma non sempre con la medesima inoppugnabile pertinenza / attinenza: Sofonisba, Rosmunda, Oreste, Orbecche, Canace, Semiramis. Mentre i riscontri con la Sofonisba trissiniana sono, pressoché ovunque, calzanti, illuminanti, persuasivi, meno ciò si può dire (esièin parte già visto) di quelli con il Rucellai di Rosmunda17 e Oreste, 18 o con lo Speroni della Canace, 19 o, in particolare, con la troppo spesso evocata Semiramis di Muzio Manfredi.20 Se si voleva dare indicazione sul grado di vulgatezza, entro la tradizione tragica, di una determinata espressione, locuzione, forma, struttura, andava ogni volta, con la massima chiarezza, distinto il riscontro puntuale dalla semplice documentazione / esemplificazione di una maniera diffusa. Mentre il commento della Bembo talvolta indica rimandi non puntuali, troppo generici, senza questa necessaria, esplicita, la più chiara possibile distinzione. A livello più generale, e certo non pensando, in primo luogo, al caso del Torrismondo: funzione (edifficoltà) prima di un commento è proprio discernere riscontro puntuale da modo vulgato, testimoniando, dando informazione su l’uno e l’altro, con confini e separatezza i più chiari ed evidenti possibile. Tanto più ora, quando, con l’avvento dei repertori informatici, la disponibilità di luoghi paralleli (o non pienamente pertinenti) è in promptu. Ma la funzione / abilità del commentatore sta appunto nel saper togliere, eliminare, assai più che aggiungere, resistendo alle sirene delle affinità troppo generiche. O, appunto, volendo dare informazione anche su grado e coordinate di vulgatezza e diffusione di una espressione / tipo / struttura, distinguere con il massimo nitore, ripetiamo, riscontro specifico / puntuale da informazione su maniera diffusa.

Tracce, anche più vistose, di fertilità del coro dell’Orbecche, si ritrovano nella prima prova tragica di Pomponio Torelli, La Merope. Qui il Coro, interlocutore, dopo la ritualissima Nutrice e l’un po’ meno rituale Consigliero, della Regina, nella terza ‘scena’ del primo episodio della tragedia, già ben prima del primo stasimo (che ovviamente pronuncia) compare ‘in scena’ e, per sua prima battuta, canta due stanze di canzone che sono, di nuovo, una preghiera ad Amore. Stanze di quattordici versi ciascuna, come quelle del III coro del Torrismondo, rimate ABCcABdeeDFfGG. La prima:

Picciol dio, che gran possa
havesti sì, che su ’l voler discorde
stabilisti del mondo i fondamenti:
pria da le pure menti
non era ancor ruota celeste mossa,
ch’al suono suo fa nostre orecchie sorde
(confusi e terra e cielo
et aere et acqua e foco
eran tutti in un loco);
sorse l’ardor, fuggì nel centro il gelo,
preparar foco et acqua, cielo e terra
parean perpetua guerra:
tu col piacer legasti hor questo hor quello,
onde di tante forme il mondo è bello.
21

Irrinunciabile pare, ancora, la rima terra: guerra. E si torni, di nuovo, al Giraldi, vv. 316ss:

Venere, il cui poter la terra e ’l mare
[...]
Sente [...].
Tu sola, quando era ogni cosa oscura
E senza onor giacea,
[...]
La lite ingiusta e rea
Che ’n tenebroso orror teneva involto
Tutto il seme del mondo,
Col tuo lume fecondo
Levasti sì che quant’era ivi occolto
Apristi e ’nsieme le contrarie cose
Legasti ad un, con nodo sì secondo
Che, piene di
concordi e d’amorose
Voglie, rubelle unqua non furon poi
[...].
Onde
divisi for l’acqua e la terra
E ’l lieve aere e ’l fuoco,
La cui
concorde e discordevol guerra
Fece ch’a poco a poco
[il creato...] S’empiè [...] di quantunque vive
Qui sotto ’l ciel [...]
E quelle
menti istesse
Che
movono i celesti cerchi ogn’ora,
Nulla sarrebbon senza il tuo valore.
[...]
Tu sola fai ch’ei [Dio] con
perpetua legge
E providenza eterna il mondo regge.
22

Anche la rima in ACE (pace: verace), che abbiamo visto in questo stesso coro del Giraldi; e poi, soprattutto, chiudere, baciata, la preghiera del III coro tassiano, ricorre in questa ennesima, torelliana invocazione ad Amore. Che si chiude, appunto, con rima baciata face: pace:

mena [o Amore] il fratel, che senza biasmo suole
darci simil la prole;
cinto ei di persa il crin scuota la face,

e ne le guerre tue porti la pace.

Rima che, a parte le evidenti reminiscenza catulliane (LXI 6ss), è già sempre nel Tasso, ma delle Rime (201, 1ss), sempre a proposito di Amore, e anzi, ugualmente, dei fratelli Cupido e Imeneo: «De l’arboscel c’ha sì famoso nome / or s’ha fatta Imeneo la santa face, /edele verdi fronde orna le chiome, / Amor, con tuo dolore e con tua pace».

Si è visto come Tasso innesti tal quale, nel coro che chiude l’atto IV di Aminta, la prima stanza della canzone 1263. Mutatis mutandis: la stanza del coro torelliano sembra, in pratica, una variatio, una riscrittura, in extenso, della preghiera ad Amore, parimenti, contenuta nel sonetto Io vidi Amor, secondo testo della seconda parte delle sue Rime:23

Picciol dio, tu che i miseri e’ mendici
Arricchir sai; tu ch’animal silvestro
Giove puoi far; tu, che in deserto alpestro
Scacci quei che in ciel fur chiari e felici;
Tu che ’l ciel con la terra e gli elementi
Unist’ insieme, e su’l voler discorde
Stabilisti del mondo i fondamenti.

Anche tra laboratorio lirico e architettura tragica, dunque, è ben praticabile il trasferimento di interi ‘pezzi’. Le Rime torelliane, tra il molto altro, sono incunabolo e officina prima di un linguaggio di elevazione morale e religiosa che trova larghissima applicazione nelle tragedie, specie, di nuovo, nei cori. Parimenti sostanziato di temi / lessico come la caduta «d’un’in un’altra sfera» delle anime sulla terra, del corpo come, petrarchescamente, «carcere terreno» / «pregion terrestra», degli effetti nefasti, impedienti, gravanti dell’abitudine peccaminosa, o virtudiosi della Grazia, della gioia di vestire di ali l’anima per (ri-)salire al cielo, della pioggia di grazia, della contemplazione beatificante, della necessità di elevare la mente a Dio, di «ferma tener la vista» nella donnamadonna (Rime, Perché l’ingorda voglia) o « fiso il pensier, fermo il desio» ne «l’eterna Mente» (Polidoro, vv. 2581-2583) ;24 della fiducia nell’accoglimento da parte delle, pur petrarchesche, anime che «lassù son cittadine».25

Ma, nell’esercizio lirico, il Torelli ben sperimenta anche gli opposti motivi: l’affresco orrifico della perdizione, la pittura infernale, rappresentate, spesso, come nei cori tragici, da ridda / carola di personificazioni di peccati e mali dell’anima. Significativo che il Parmense inserisca, alla fine della prima parte del suo canzoniere e sul finire della seconda, lunghi componimenti in ottave, a forte vocazione dottrinale, morale, religiosa: Questa Phenice, e il poemetto / visione Sogno del Perduto. Ove l’applicazione di questo linguaggio moraleggiante, esemplario, devozionale, religioso, fitto di personificazioni, di truci rappresentazioni di Male, Peccato, Inferno, è anche più densa ed evidente che altrove. Nelle ottave Questa phenice la donna redentrice esorta il poeta ad abbandonare le cure ed amore terreni, per volgersi al pensiero del sommo bene. Per meglio convincerlo gli dipinge gli orrori dell’Ade (ott. X, p. 164):

Assiso stassi su la soglia oscura
L’Error, e di rie Colpe intorno ha un stuolo;
Dentro il Pianto, il Lamento e la Paura,
Il Tormento, il Martir, l’Angoscia e ’l Duolo,
E quella, ch’aspra è più se men s’affretta,
Con la Disperation sta la Vendetta.26

Tipo che si ritrova, a più riprese, nei cori tragici. Per esempio nella Vittoria, ove la corte, per l’imperare della Falsità, è dipinta come un inferno. 27 O nel Polidoro, ove il Coro descrive gli effetti ‘anticipatori’ dell’abitudine al peccato (vv. 1370-73):

e l’Angoscia, e la Noia ognor s’avanza,
e l’aspro Pentimento seco scherza,
e co ’l Duol, che lo sferza,
va la Desperazione ognor in danza.

Lo stesso valga per l’altra modalità di pittura infernale, quella più ‘ovvia’ dei mostri già classici e danteschi, Cerbero e Furie, 28 Tantalo e/o l’idropico. 29 Il trapianto di pezzi già elaborati in ambito lirico nella sede ‘deputata’, ‘privilegiata’, in pectore, dei cori canzoni tragiche, pezzi lirici, mutatis mutandis, interludianti l’ordito tragico , può apparire ‘piano’ e naturale. Ma il fenomeno trascende, di molto, quell’ambito predestinato, si espande anche nel dialogato tragico. Partendo dai casi più vicini, da una zona più ‘ibrida’: il medesimo Coro, ma in dialogo con la Regina Merope, recita la sua consolatio, per certa parte di matrice oraziana, 30 ma anche sulla scorta di pesticciato stereotipo tragico: «Ma non sempre sotterra / stan Febo o sua sorella: / cedono le pruine e ’l pigro gelo / a’ più graditi fiori; / dopo gli ardenti soli / s’orna Pomona il crine / de’ più graditi frutti» (La Merope, vv. 461-67). Motivo già esperito, nelle Rime, dal sonetto Non sempre è il giorno nubiloso e breve (num. 110).31 Travasi che assumono forma di innesto, perlopiù, dal lirico al tragico, di ‘pezzi d’obbligo’ del repertorio del primo, sorta di esercitazioni su tema. Per esempio, la (già, notoriamente, petrarchesca) ‘celebrazione di primavera’.32 O il motivo, per più versi limitrofo o di larga intersezione con il precedente, della celebrazione di gioia collettiva, di gaudio corale, cui partecipano, in un sorriso, di nuovo, primaverile, gli elementi del creato: per il ritorno dell’amata (Rime), o l’avvento di un principe giusto (tragedie: Il Polidoro).33 Altrettanto dicasi per il motivo opposto e complementare: il ‘lutto’, la ‘conquestio collettiva’, la partecipazione del paesaggio al dolore per la partenza / lontananza / scomparsa di persona amata. 34

Anche il Torelli, dunque, incastona nell’ordito drammaturgico ‘pezzi’ già sperimentati, come a sé stanti, nella produzione lirica. Ma il precedente lirico, l’osmosi con il vasto e generoso serbatoio, è fondamentale, nella costituzione di un linguaggio tragico alto, ben oltre questo ‘trasferimento’, previa eventuale più o meno massiccia rielaborazione, di ‘pezzi’ canonici. Il caso del Torelli è, per così dire, da manuale. Il Conte di Montechiarugiolo arriva alla tragedia dopo aver prodotto un canzoniere di Rime amorose (Parma, Seth Viotti, 1575), poi in edizione rivista e con aggiunta di numerosi componimenti, ivi, Erasmo Viotti, 1586. È evidente come quell’esercizio, pratica, precedente, vada a sostanziare, in modi e quantità decisive, la costituzione stessa del linguaggio tragico, data la sua amplissima permeabilità a quello lirico. Sarebbe, anzi, interessante uno studio ‘sistematico’ delle tipologie di curriculum, di ‘carriera’, di un letterato cinquecentesco, per indagare se esistano, e quanto siano percentualmente diffuse, eventuali sequenze ‘cano-niche’ o più o meno di prassi. Se l’esercizio lirico venisse percepito, magari, e in che misura e forme, come una palestra preliminare ad altri generi di struttura, ampiezza, campata necessariamente più vaste e complesse. Le Rime torelliane, nel loro corpo principale, difficilmente perdono il sapore dell’esercitazione poetica, dell’ingresso in un sistema, ovvio, del tutto consolidato. È in questa prova ed acquisto di una maniera, in questa disciplina dell’esercizio che Torelli si costruisce una consuetudine di linguaggio, sostanzialmente, formulare, ad altissimo tasso di ripetitività:35 citazioni, procedimenti di rielaborazione e variazione, un parco lessicale rigorosamente selezionato ed autorizzato, dittologie e juncturae sempre uguali o con variazioni minime e spesso in rima fra loro, 36 un repertorio di riferimenti mitologici, metafore, figure, immagini, paragoni: tutto sostanzialmente fisso e stabile dalle prime Rime all’ultima tragedia. In questo saggio di avviata consuetudine linguistica, trova la sua radice quella sorta di automatismo, di quasi meccanica ripetitività del lessico, che tanto evidentemente / prepotentemente si osserva nelle tragedie. Il segmento di maniera, che nello spazio dell’omaggio diretto, dell’innesto ‘proprio’, nel tronco della tradizione lirica, trova la sua prima e più diretta occasione, diviene una sorta di langue, di calcina linguistica, di materia prima di pronto utilizzo, di repertorio di lingua letteraria per un sistema pur diversamente strutturato come quello tragico. Le Rime sono momento fondamentale (in senso proprio), costitutivo, nell’allestimento di un patrimonio di lingua letteraria su cui poggeranno e a cui attingeranno le situazioni, i contesti dialogici più vari e diversi. Cominciando dalle note più banali: è già nelle Rime che gli aggettivi si dispongono in pluralità bimembri ‘fisse’ come accorto e saggio, più benigno e più cortese, pronto e spedito, nato e nodrito, dolce e leggero, arsa e distrutta; coppie che si ritrovano, in più vasta messe di esempi, dalla prima all’ultima tragedia, Il Polidoro, del 1605. Lo stesso per coppie di sostantivi come scorta e duce, sterpi e dumi, o espressioni di maniera come l’onde d’argento. Il fenomeno è ancor più evidente nelle giunture aggettivosostantivo: le lucid’onde, la tigre che, naturalmente, dai classici latini, è sempre ircana, la fortuna ingiuriosa, il ferro acuto, la larga vena, il duro sasso, la fiorita sponda, l’aquila altiera, la perigliosa guerra, il frettoloso passo, la fede candida, e, di volta in volta, bella, o illesa... Lo stesso per incipit formulari come E veggio or ben o Poco era...? Spesso, come si vede, l’esercizio lirico significa inaugurare un rapporto poi molto stabile, ‘matrimoniale’, con alcune fonti primarie, imprescindibili, ‘basiche’: una sorta di florilegio, di repertorio fisso di citazioni e riscontri. Prima, ovviamente, Petrarca: Petrarca già triturato, sminuzzato, digerito, metabolizzato, formularizzato, in una grande quantità di tessere / imprestiti, ricorrenti e seriali, nelle Rime: lessico, langue poetica, quantità di tessere formulari, che tali restano, persino più formularizzati, nelle tragedie. Coppie come sterpi e sassi, speranza e desio, Scizia o Numidia, ambrosia e nettare, inessorabile e superba, ecc. Giunture parimenti vulgate, come alpestra vena, fere selvagge, agre rampogne, cor profondo, morte acerba, fredda tema. Incipit formulari (Così potess’io...). Espressioni come il fiume che «rende suo dritto al mar». Paragoni: «come sta tra’ fiori ascoso l’angue» (Tu pur a’ monti?, vv. 22-24; Sogno del Perduto, LV, 7-8; Il Polidoro, v. 1439). In numerosi casi, le Rime sono filtro, rielaborazione, passo ‘di avvicinamento’ utile alla tragedie: significano una variatio, un riadattamento, una ricontestualizzazione poi raccolta / messa a frutto nelle tragedie. Assunta e metabolizzata la langue petrarchistica, si finisce a tornare sulla propria appropriazione / rimasticazione, a riutilizzare la propria riassunzione / reinterpretazione, prima che, direttamente, l’archetipo. Il mietere «co la falce adunca» (Rvf 161, 8) è riutilizzato, guarda caso, a proposito della Morte, prima nelle Rime (canz. Ite, rime dolenti, vv. 75-76; Tu pur a’ monti?, vv. 16-17), poi nelle tragedie (per es. Galatea, v. 1907 ;37 Polidoro, vv. 1346-47). L’imma-gine dell’instabil ruota era dal Petrarca riferita ad Amore (T. C. III, 178); nelle Rime del Torelli, son. Può ben temprar (vv. 10-11) è riferita alla Fortuna, come nel Polidoro, vv. 2584-85. I versi 5ss del madrigale Se ’l fuggir sol n’aita: «Un sol colpo che scocchi / [...] / Potria romper lo stame / Di nostre vite corte», sono più vicini a Polidoro, v. 353 «romper sforzata il glorioso stame», che non la matrice petrarchesca (Rvf 296, 5-7). «E tu felice ove più viver brami» (Rime, Tu pur a’ monti?, v. 59) è una specie di passaggio intermedio fra «i’ cadrei morto, ove più viver bramo» (Rvf 85, 14) e «Vivi pur lieta ove più star t’aggrada» (Polidoro, v. 2285). L’intreccio tra i petrarcheschi «via più che morte, et di più pene amare» (Rvf 262, 8) e «parer la morte amara più ch’assenzio» (T. M. II, 45) è già nelle ottave Questa phenice, ch’a me trasse a forza, VII 1 «Vedrai com’è via più ch’assentio amara»; e si ritrova nel Polidoro, v. 1396: «via più ch’assentio [...] amara». Incrocio sull’asse della co-occorrenza del lemma amara (-e), che, come molti altri luoghi simili delle tragedie del Torelli, fa pensare al riuso della langue petrarchesca sulla base di concordanze: di singoli lemmi, immagini, figure, metafore, concetti simili o uguali. Fenomeno largamente documentato, del resto, nei commenti a Merope e Polidoro.

Ancora: anche in ambito di petrarchismo, il passaggio dalla lirica alla tragedia mostra bene come, spesso, un patrimonio di lingua lirico amorosa, riutilizzato nelle Rime iuxta propria principia, sia decontestualizzato, ‘concretizzato’, nelle diverse necessità comunicative delle tragedie. Fra i molti esempi: il sintagma «presumptuosa lingua» è coniato dal Petrarca a proposito dell’ardire del poeta che osa, forse muovendo lo sdegno di un dio, descrivere le celesti bellezze dell’amata (Rvf 5, 12-14).

Dal Torelli lirico è ripreso, sempre relativamente all’ybris del poeta, in un costrutto che è tutto un calco petrarchesco («E parmi che Giove odi, erefiute, / Ch’a parlar de le sue più divin’opre / Presuntuosa lingua invan s’adopre»). Il sintagma si ritrova, nel Polidoro, sulle labbra del tiranno Polinestore, che biasima l’eccesivo ardire dei sudditi.38 Credenza vana, tanto nei Rvf che nelle Rime del Torelli, dichiara l’illusorietà delle speranze amorose, destinate ad essere deluse (Rvf 329, 6-7; Rime, son. Leggiadra nimpha, vv. 7-8). Lo stesso usa il Capitano del Polidoro per allontanare, assai più concretamente, gli infondati timori del suo re (vv. 1804-1805). Il petrarchesco «Amor m’a` posto come segno a strale» (Rvf 133, 1) torna nella canzone torelliana Ite, rime dolenti, sempre in contesto e con accezione amorosa (vv. 56-57). Nel Polidoro è la Regina che avverte il fratello dei più che tangibili pericoli di morte cui è esposto (vv. 2047-48).

Nell’immenso, sfruttatissimo, pesticciatissimo orto petrarchesco, poi, è ben possibile individuare alcune direttrici ‘privilegiate’, alcune zone di intersezione specialmente fertili e più sistematicamente, massicciamente e solidalmente impiegate: il Petrarca politico, specie della 53 e, soprattutto, della 128 ;39 o quello ‘morale’, ascetico, religioso, spirituale: il Petrarca del corpo come «carcer terrestro», della vita come «pregione oscura», della Morte come «sospir breve» o «porto de le miserie et fin del pianto», dello sprezzo di «quanto ’l mondo brama», dell’aldiqua` come «fango».40 Petrarca, questo, con cui si stabilisce una solidarietà specialissima, che è insieme linguistica e contenutistica, anzi etica, ideologica, religiosa, politica: Petrarca ‘adattato’, piegato, ‘rimodulato’, magari, in chiave più schiettamente controriformistica.

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1 TORQUATO TASSO, Il Re Torrismondo, a cura di V. Martignone, Parma, Guanda (Fondazione Bembo), 1993. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione.

2 Per es. v. 92 «E prima quasi fui, che sposa, amante»; e cfr. Martignone ad locum (Aminta 437-38: «Così fui prima amante ch’intendessi / che cosa fosse Amore»). Ma i contatti fra pastorale vanno oltre quanto dichiarato, magari per motivi di spazio, dal commento citato. Tra i vari esempi: Torrismondo 578 «Né mai da’ miei furori o pace o tregua / Ritrovar posso» e la chiusa della pastorale: «risse e guerre a cui segua, / reintegrando i cori, o pace o tregua». In simile contesto ottativo, ma con curioso spostamento semantico del verbo, Torrismondo 1611-13: «qui cominci, / O pur si stabilisca, e si rintegri, / La pace e l’union di questi regni». E vedi sotto.

3 In La tragedia del Cinquecento, a cura di M. Ariani, vol. II, Torino, Einaudi, 1977.

4 Per esempio: TASSO, Torrismondo 1998, “Amor, fa teco pace”: che riprende un luogo del Tansillo citato, guarda caso, nel Manso: «Amor, tu pria farai con l’odio pace».

5 In contesti significativamente affini, cioè uno scontro di personificazioni di entità astratte, tra cui la Discordia (cfr. Torrismondo 1983), il Tasso, di Amore: «Deh, non s’agguagli a te nemico indegno [l’Odio] / [...] / Già non adegua il tuo valor sublime» (vv. 1969-76). E Ariosto, O. F. XXIV 114 (cfr. M. Natale, L’Amore, l’Odio, cit., pp. 159-160). Utile, altresì, l’indicazione della traduzione latina delle Tragoediae Sophoclis Georgio Ratallero interprete, Anversa 1570, come quella verosimilmente usata dal Tasso, comunque presente, come noto da studi precedenti, sul suo scrittoio, impiegata per identificare eventuali spie di contatto con il testo sofocleo oltre a quanto significato dal commento Guanda (ivi, p. 161).

6 «Altri, via più vicino a’ primi tempi / de’ suoi quattro princípi, in sé diversi, / alternando le volte, il face e guasta, / ma come vuol Discordia o vuole Amore. / E se Discordia è vincitrice in guerra, / ma vinto Amor, nasce il sensibil mondo; / e s’a l’incontro la Discordia è vinta, / Amor vittorioso il suo riforma/agli intelletti, e ’n lui trionfa e regna».

7 Venitiis, Apud Hieronymum Scotum, MDLVIII.

8 In Teatro del Cinquecento, I, La tragedia, a cura di Renzo Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988. Che rimanda già a Lucrezio, De rerum natura I 2 «caeli subter labentia signa».

9 Cfr. la nota ad loc. di Cremante in Teatro del Cinquecento, I, La tragedia, cit. p. 314.

10 Per es. G. L. IV 20, Rime 397, 10-11, Rime 927, 12, Rime 1311, 3, Rime 1316, 4, Rime 1481, 66, Rime 1538, 20.

11 Giraldi: «E per le fiamme tue [...] / Incominciò [...] / A propagarsi in terra il mortal seme. / Né questo pur, ma il sole anco e la luna / E quante nel ciel sono / Stelle fisse od erranti, ad una ad una / Del tuo poter fur dono [...] / E quelle menti istesse / Che movono i celesti cerchi ogn’ora» (vv. 352ss). Tasso: «Ch’a lei soggetti son gli egri mortali, / E tutte in ciel le stelle erranti e fisse, / Tutti i lor cerchi» (vv. 767ss).

12 Quelle di Giraldi e Tasso sono canzoni rispettivamente di quattro o cinque stanze, di tredici o quattordici versi ciascuna, tutte rivolte direttamente a Venere o Amore. Lo stasimo del Rucellai è composto di sole tre stanze, senza tornata, la prima nemmeno rivolta alla «mente divina» destinataria della preghiera.

13 Massimo Natale, nel saggio citato, p. 172, in relazione all’amor verace di Torrismondo 1999, rimanda alla canzone terza, commentata dal Tasso delle Considerazioni, di Giovan Battista Pigna: Se l’un per l’altro incendio avampa o sorge:» Amor verace, luminoso e grande / per cui l’error si fugge, e pria si scorge». Ove «amor verace», commenta il Tasso, è «l’amor celeste». Pigna da cui, sempre secondo Natale, il III coro del Torrismondo trarrebbe spunto anche per la tessera al v. 1989 Te scacci; e per amico in chiusa del v. 1997, cfr. G.B. PIGNA, Gli amori, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1991, CLXXXVI: «né però l’odio amor da sé discaccia, /esìmi bolle il petto / che allora a chi più mi si mostra amico» (: nimico). Va detto, però, che amor verace è giuntura vulgata e già dantesca. Lo scacci del Tasso potrebbe essere memoria involontaria o indipendente, essendo riferito al rapporto Amore-Amicizia (‘se, Amore, scacci da te l’Amicizia, scacci te stesso’). E amico in chiusa di verso è tessera davvero minima, e comunque inserita in altro contesto e significato.

14 Vv. 342-44: «Onde divisi for l’acqua e la terra / E ’l lieve aere e ’l fuoco, / La cui concorde e discordevol guerra / Fece [...]».

15 TORQUATO TASSO, Opere, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, vol. I, 1963, pp. 187 e 1115.

16 Segnalato anche nel saggio di Natale cit., pp. 173-174.

17 Vedi sopra; o ancora, per es., limitandosi, qui e nelle note seguenti, al solo primo atto: nn. ai vv. 36ss (il sogno macabro è già un topos della tragedia cinquecentesca, e i punti di contatto fra quelli di Alvida e Rosmunda sono puramente generici: alla prima sembra «Che del fianco mi sia rapito a forza / Il caro sposo»; alla seconda appare l’ombra del padre Comundo assassinato, con fattezze che ricalcano da vicinissimo quelle di Ettore nell’Eneide virgiliana, II 277ss, e cfr. Cremante: luogo che, invece, non ha lasciato traccia nel passo del Torrismondo); 209ss, 234ss (il dialogo Alboino-Falisco tiene molto più della forma senecana del confronto Satelles-Tiranno; e il colloquio Re-Consigliero è ormai struttura vulgata nella tragedia cinquecentesca); 821ss (che la morte sia fin delle miserie umane, senza convergenze lessicali significative, è concetto troppo vulgato, tanto più a partire da Petrarca, che Tasso cita letteralmente, come ben osservato da Martignone, al v. 823 Porto de le miserie e fin del pianto).

18 Cfr., per es., n. a 213-16 (meglio il riferimento a Sofonisba 652-54).

19 Cfr., per es., nn. ai vv. 16ss (dopo la Sofonisba, è luogo comune che la Regina riconosca alla Nutrice pieno diritto di avere le sue confidenze); 24 (No ’l nego è tessera significativa in Petrarca, non nella Canace); 33-36 (nessun contatto significativo); 125-126 (sulla vanità dei sogni, più affini per contesto Sofonisba 124-125 e poi Orbecche 2672ss, citati nella stessa nota ma in seconda battuta, ove pure è la Nutrice che cerca di convincerne la regina per consolarla); 169ss (per «co’ sospiri / Le parole interrompe» cfr. già Ariosto O. F. XIII 32, cit. dallo stesso Martignone alla n. a 174-75); 191 (formule dell’uso); a 203ss ribalteremmo l’ordine, prima il riferimento a Orbecche poi a Canace; 274ss (il tormento della conscienza, solo lemma comune, è troppo generico); 520 («monti d’onde» anche nel son. Né mar ch’irato del Tansillo, autore per la cui presenza nel Torrismondo cfr. il saggio del Natale cit.; e cfr. anche Rinaldo X 46, Mondo creato III 349); 574 (il pertinente rimando a Orbecche, 1988ss, vanifica quello a Canace); 695-96; 739-42 (la rima vita: unita è vulgatissima, e così la metafora del nodo che tiene legata la vita al corpo, nello Speroni, di più, espressa con la più che trita locuzione petrarchesca dello stame cui s’attiene / Questa mia vita, Rvf 37, 1, Rvf 167, 13, ecc.).

20 Cfr., per es., nn. ai vv. 9ss, 16ss, 399-400, 497 (semplice co-occorrenza di celeberrima sentenza dantesca), 618ss, 636, 695-96. Si tratta di consonanze, affinità piuttosto generiche di concetti, magari comuni o molto comuni, senza riscontri, spie lessicali puntuali e decisive: la Nutrice è degna delle confidenze della Regina; l’errore è meno grave in persona del volgo; il tempo mitiga il dolore...

21 Tutte le citazioni da: P. TORELLI, La Merope, a cura di V. Guercio, Roma, Bulzoni, 1999. Edizione cui rimandiamo anche per l’indicazione di diverse altre fonti che interferiscono con questa stanza di coro torelliana. In particolare, evidentemente, per la creazione del mondo, Ovidio, Met.I 5ss.

22 Per le fonti del coro giraldiano, tra cui appunto anche il luogo appena citato di Ovidio Met., rimandiamo all’ottimo puntuale commento di Cremante, in Teatro del Cinquecento, I, La tragedia, cit., ad loc.

23 P.TORELLI, Poesie con il trattato della poesia lirica, a cura di N. Catelli, A. Torre, A. Bianchi e G. Genovese, Parma, Guanda, 2008, testo numero 123, p. 175.

24 Per esempio Rime, canzone Perché l’ingorda voglia (num. 24, vv. 38ss), sui benefici effetti dell’amata sull’anima del poeta. O il Polidoro, coro Ben de l’alto intelletto, vv. 1316ss. (cfr. P. TORELLI, Il Polidoro, a cura di V. Guercio, Firenze, La Nuova Italia, 1990. Tutte le citazioni da questa edizione).

25 PETRARCA, Rvf 53, 44 «l’anime che lassù son cittadine»; Torelli, Rime, canz. Perché l’ingorda voglia, v. 60 (nello splendore dell’amata l’anima del P. «gode e s’acqueta, / Come fan ne le luci alme e divine / L’anime che lassù son cittadine»); il Sacerdote del Polidoro, v. 1450 (i morti destinati ai Cieli «ivi son raccolti / da l’alme, che là su son cittadine»). Il passo petrarchesco, ricostruito, in rima e per contrarium, in simile contesto devozionale, in Merope, coro Occhio puro del ciel, v. 519: «ove stato gioioso / trovan l’alme che qui son pellegrine».

26 Vedi anche ott. XIII, p. 166; Il Polidoro, vv. 1892ss.

27 Cfr. vv. 1666ss.

28 Rime, Questa phenice, ott. XII, p. 165; Il Polidoro, vv. 2520ss.

29 Rime, Questa phenice, ott. VIIIss, pp. 164-165; La Vittoria, vv. 1630ss (ricalco del Gerione dantesco), e 1642ss; Il Polidoro, vv. 2534ss. Per le citazioni dalla Galatea e dalla Vittoria cfr.: P. TORELLI, Teatro, a cura di A. Bianchi, V. Guercio, S. Tomassini, Parma, Guanda, 2009.

30 Cfr. HOR., Carm., II ix 1ss.

31 Lo stesso motivo, ma rovesciato di segno (non facciamoci illusioni, «Cosa bella e mortal passa e non dura»), nell’Egloga prima, vv. 27ss: «Non sempre è verde il prato o bianco il giglio, / Né spargon le superbe chiome al vento / Le pioppe ogni hor, ch’a noi fan sì grat’ombra» (ed. cit., p. 200).

32 Il Sacerdote, nel Polidoro, a proposito della prossima caduta del tiranno: «[...] Cedono già le brineaibei fioretti, / vanno in rotta le nebbie, e ’l duro gelo / scaccian da noi le violette, e ’l verde» (cfr. vv. 2604ss). Rime, Egloga III, vv. 1-3: «Era ne la stagion che ’l freddo perde, / E scacciate le nebbie d’ogn’intorno / Nascer fa il sol le violette, elverde». O, anche, sestina Hor che Zephiro spira, vv. 1-5.

33 Vedi, nelle Rime, il sonetto num. 42, Ma poi che torna a noi, sue gratie infonde; e Il Polidoro, vv. 2314ss.

34 Nelle Rime, il son. subito precedente, num. 41, Quando, dal suo natio dolce terreno; e Galatea, vv. 2319ss.

35 Cfr. il nostro “Vertù contra furore...”: analisi del petrarchismo tragico di Pomponio Torelli, in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a cura di C. Montagnani, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 249-59.

36 Dalle Rime all’ultima tragedia, Il Polidoro: pungenti e chiari rai; lucenti e chiari rai; lucenti e caldi lumi; rai possenti e chiari; sol lucente e chiaro; lucenti e caldi rai.

37 TORELLI, Teatro, p. 291.

38 «E tant’ardir in sì vil gente alberga, / Che per biasmar il suo signor potente / Snodàr le lor presuntuose lingue?» (vv. 1602-1604).

39 V. Guercio, “Vertù contra furore cit., pp. 263-97.

40 V. Guercio, “Vertù contra furore cit., pp. 259-63.