Revue Italique

Titre de section

SECTION_ITA_17_1

L’edonista riluttante. Erotismo, sessualità e mito adonico nel Rinascimento

Andrea Torre

Il Figlio ha un vero cinghiale contro
il giovinetto ha un cinghialetto da nulla.
Eppure Venere elegge
quand même il giovane
e viene a
bafouer l’uomo (il Figlio)
come Angelica Orlando e Rinaldo, per Medoro.
C.E. G
adda

Dotato di una semplicità strutturale che ben supporta la libertà compositiva degli autori che vi ricorrono, il mito di Adone è stato oggetto nel corso dei secoli e nell’incontro tra le discipline 1di un processo di stratificazione semantica e ibridazione culturale, che richiede il ricorso a una «exégèse tentaculaire».2Lo sviluppo degli eventi delinea la parabola della vita umana tesa fra piacere e dolore, fra le dimensioni psicologiche di momentaneo appagamento e continua frustrazione del desiderio, fra azione e stasi. Da una parte, vediamo Venere agire per conquistare il giovane amato e per celebrarne la scomparsa; e dall’altra, Adone patire gli assalti della dea e del cinghiale fino a ridursi a immoto corpo. L’amore di Venere per Adone si connota inoltre per un’articolata propensione trasgressiva, attiva a tre livelli. Assistiamo infatti: 1) alla trasgressione della gerarchia cosmica, in seguito all’accoppiamento tra una divinità e un essere umano (con il desiderio divino che, pur connotandosi secondo la topica violenza, si abbassa alla sfera dell’umano, vuoi per bisogno erotico, vuoi per compassione); 3 2) alla trasgressione dell’ordine generazionale, poiché un adolescente diviene l’oggetto del desiderio sessuale di un adulto; 3) e alla trasgressione di un eteronormato rapporto tra i generi, dal momento che il desiderio erotico femminile viene a orientarsi verso una bellezza connotata essenzialmente in senso femminile, e proprio per questo oggetto di desiderio anche da parte dello sguardo maschile.4 Sulla scorta di tali nuclei trasgressivi è possibile indagare nelle riscritture cinque-secentesche i principali snodi problematici inerenti lo statuto del desiderio sessuale e le dinamiche della rappresentazione erotica che la storia ovidiana di Adone va ad individuare, ossia: 1) l’atto di visione quale motore della situazione erotica, e spia dei rapporti di forza che essa va ad evidenziare tra i due principali protagonisti; 2) la genealogia della perversione erotica che lega la vicenda della madre-Mirra a quella del figlio-Adone; 3) la dissoluzione delle convenzionali barriere di specie e di genere che conduce ad una estensione della vicenda nel campo del desiderio extraumano (e allusivamente omoerotico) attraverso le elaborazioni della figura e del ruolo del cinghiale.

Centrale risulta la rappresentazione del destino di una bellezza suprema ma fragile che venendo a contatto con potenze soprannaturali dimostra tutta la consustanziale passività erotica ed eroica del suo possessore, e riflette così per estensione il mistero silenzioso della fragilità dell’esistente. Adone entra infatti in scena nelle critiche ore meridiane, fiaccato nel fisico e nell’animo da una calura che lo sprofonda in un sonno opprimente (anticipazioni figurali, rispettivamente, della passione amorosa e della morte); perde la vita per colpa dell’amante divino (sopraffatto com’è dalla sua insostenibile energia erotica); e stabilisce sempre uno stretto rapporto col mondo vegetale (che stempera la natura effimera dell’eroe nell’eternità del ciclo vita-morte), mondo simbolico alternativo a quello animale (e, nello specifico, predatore) che caratterizza invece la polarità attiva del mito. Le Stanze nella favola di Venere e Adone (1545) di Lodovico Dolce ci offrono un’icastica rappresentazione di questi due archetipici mondi simbolici:

[...]
Giovinezza e beltade è a noi simile,
Ché ratto si consuma e via dispare. [...]
Però dal primo
fior, donna gentile,
A dispensar gli anni migliori impare,
Prima che manchi la stagion adorna.
Che fuggita da lei non più ritorna
.


[...]
Sì come madre, che ’l
figliuol diletto
Occider vegga a gli occhi suoi davante
Donna accesa, che ’l sanguigno aspetto
Mira del caro suo perduto amante;
Così ’l vano amator del suo bel viso
Pareva dir con dolce alta favella:
Giovanetti, imparate da Narciso
Esser pietosi ne l’età novella;
Ché per giusta cagione a l’acque assiso
Perdei l’aspetto human: tal fu mia stella
.
(ott.
9, 2-8 10, 1-6) [...]
Né così presto a la sua preda intento
Pellegrin falcon d’alto discende,
Com’ella scese in terra in un momento
E l’infelice Adone in braccio prende.
(ott.
72, 1-4 73, 1-4)

La similitudine del falcone che rapido si getta sulla preda intende esprimere con la velocità dell’atto l’intensità del sentimento di dolore che coglie Venere all’improvvisa visione del corpo esanime dell’amato; ma forse può anche ricordare di Adone la condizione passiva di preda degli appetiti sessuali di una rapace Venere, e indurre a riconoscere in tale immagine venatoria la più corretta rappresentazione del rapporto (di forza) che lega i due amanti. Proprio attraverso un analogo figurante animale, nel poemetto Venus and Adonis (1593) Shakespeare illustra la vorace passione di Venere che, prefigurando l’epilogo della vicenda e mettendo in circolo le pulsioni di amore e morte, «murders with a kiss» l’amato: «even as an empty eagle, sharp by fast, / Tires with her break on feathers, flesh and bone, / shaking her wings, devouring all in haste / Till either gorge be stuff’d or prey be gone: / even so she kiss’d his brow, his cheek, his chin, / and where she ends she doth a new begin» (vv. 54-60).5 Non diversamente, mettendo fin dalle soglie esordiali la propria riscrittura della vicenda adonica sotto il segno del «vano amator» ovidiano, Dolce sembra prospettare tutta l’autoreferenzialità del trasporto erotico narrato, dove amante e amato si rispecchiano reciprocamente quali rappresentazioni dell’idea di bellezza. Lasciato implicito da Ovidio, fatto emergere per allusione da Dolce, il sottotesto narcisistico viene posto da Shakespeare a cardine della propria riscrittura; in essa Narciso e Adone incarnano entrambi la figura del giovane maschio di estrema avvenenza che tenta di proteggere dagli assalti sessuali delle donne un Sé non ancora giunto a matura definizione. Nient’altro che un’ironica eco dell’altra storia ovidiana sembra infatti essere l’invito, rivolto dalla dea ad Adone, a cercare negli occhi di lei la propria bellezza (v. 119 : «Look in mine eye-balls, there thy beauty lies»), piuttosto che restare attore unico nella contemplazione del proprio volto (vv. 157-162: «Is thine own heart to shine own face affected? / [...] / Narcissus so himself himself forsook, / And died to kiss his shadow in the brook»). Còlta in tal senso, la componente narcisistica si giustifica non solo per le immediate moralità che attiva, ma anche in relazione alle dinamiche di visione legate al desiderio cui spesso gli autori ricorrono nella delineazione dei rapporti tra i personaggi.6

All’interno del racconto adonico vi è in particolare una situazione che sviluppa con problematica originalità uno dei motivi più frequentati dalla rappresentazione (verbale e iconica) a soggetto erotico, quello del satiro che scopre e osserva una ninfa addormentata. È una situazione di visione che, tradizionalmente, mette in scena il contrasto tra l’aggres-sività intrusiva dello sguardo maschile e l’inconsapevole esibizione del corpo femminile.7 Possiamo qui rinvenire un parallelismo con l’episodio ovidiano di Diana e Atteone, incentrato appunto sul caso di una divinità violata dal voyeurismo passionale e conoscitivo di un cacciatore; caso di voyeurismo che, secondo la suggestiva lettura di Leonard Barkan, si connota anch’esso narcisisticamente per il suo mettere in scena uno sguardo (Atteone) che riflette sé stesso in un’immagine speculare (Diana) ove sono sintetizzate le due componenti (e i due tempi) della sua identità: predatore e preda, caccia e morte.8 A livello iconografico tale situazione trova un modello archetipico e archeologico nella cosiddetta Ninfa dormiente osservata da un satiro; modello che in età moderna, oltre alla famosa Venere di Giorgione, è anche alla base della celebre Fontana di Venere dell’Hypnerotomachia Poliphili.9 Un vero e proprio calco dell’episodio di Atteone in ambiente adonico è il passaggio attraverso cui Diego Hurtado de Mendoza, nella sua Fabula de Adonis, Hipomenes y Atalanta (1553), descrive il momento in cui uno spossato Adone, cercando requie dalla calura, s’imbatte nel corpo nudo di Venere dormiente: «Queriendo defenderse del calor, / Y con el agua clara refrescarse, / Vido sola a la madre del Amor / Sobre la verde yerba reposarse: / El espeio y el peine y partidor / La ropa con que suele ataviarse, / Todo lo viò esparcido sin concierto, / Y su hermoso cuerpo descubierto» (ott. 18).10La mutevolezza delle norme culturali e la flessibilità della struttura mitologica fanno però sì che la scena possa in alcune circostanze ribaltarsi, portando a un’inver-sione dei ruoli, e dei rapporti di forza, tra soggetti sessualmente differenti. All’interno del racconto adonico è infatti, generalmente, una donna a venir immortalata durante un atto voyeuristico che ha per oggetto un uomo, l’estrema bellezza del quale si connota talora per evidenti tratti femminili che lo situano in un intervallo incerto tra i generi.11 È questa, ad esempio, la situazione che si sviluppa nel poemetto dialogato La Nice (1551) di Luca Contile, dove l’opposizione tra le polarità prima ricordate conosce un’originale giustificazione in chiave neoplatonica. La separazione tra piano divino e piano umano viene qui postulata fin dall’inizio in relazione a una sostanziale differenza del sentire, che per assunto pone il desiderio della dea, unica possibile fruitrice dell’essenza dell’amore, su un livello d’intensità superiore a quello di Adone, azzerato nella propria identità sessuale d’individuo umano e ridotto a sovra-umano corpo, a mirabile ricettacolo: «[...] Parmi / Veder dormendo over pastore, o ninfa. / Pastor non è. Ninfa non è. Ma sopra / Humana forma. O belle guance adorne / Piene di rose tenerine, e sparte / Di più vivi colori. Agli occhi miei / Miracol nuovo. [...] Dove già mai più nobil corpo / Trovar si può? Dove a me più conforme / Luoco di questo trovaresti Amore?» (vv. 317-327). In base a tale logica di verticalità delle relazioni la percezione del protagonista diviene duplice, e conclamata la sua subalternità a Venere. Adone è anima sublime, attratta per simpatia degli elementi dall’idea celeste della bellezza, ossia da Venere; e al contempo corpo terreno che si giustifica soltanto per la sua funzione di contenitore: «a i fati piace / Ch’in bel corpo mortale alma celeste / Si serri» (vv. 102-104).

Lungo l’intera tradizione testuale del mito è questo il luogo del racconto deputato alla celebrazione del corpo di Adone, opera d’arte che si presta alla contemplazione e istiga al possesso, paesaggio del desiderio entro cui la vista avida della dea si sprofonda stupita alla ricerca dell’idea di bellezza che lo ha informato. Come è abbozzato in Contile, l’osserva-zione di Adone dormiente riproduce il movimento della descrizione muliebre propria del canone estetico petrarchista.12 Ma essa procede anche secondo una fruizione parcellizzata del corpo, ossia riproduce l’esito più percepibile di una costruzione narrativa dell’osceno, e dell’implicita sovversività che lo accompagna. La rappresentazione frammentata del corpo focalizza infatti l’attenzione dell’osservatore su un implicito dettaglio, facendo venir meno lo spirito di sistema del corpo e mettendo in dubbio la gerarchia che lo presiede. Una modalità di inquadratura e focalizzazione dell’immagine è, ad esempio, alla base della rappresentazione feticista.13Tale modalità descrittiva è funzionale nel nostro mito al processo di problematizzazione dello statuto eroico e dell’identificazione sessuale del protagonista, e conosce ovviamente un’intensificazione parossistica nelle riscritture manieristico-barocche. Nello stesso anno, il 1614, gli omonimi idilli (L’Adone) di Ettore Martinengo e Cesare Borri mettono in scena lo sguardo di Venere. Il primo illustra un moto discensionale che procede dal «biondo crine», alle lussureggianti «gote», ai «bei lumi», alla «soave bocca», al «piccioletto labro», al «mento alabastrino», per distendersi fino alle «agili braccia», alla «compressa mano» e allo «spedito piede», a visualizzare compiutamente l’errare «del nume innamorato» entro quell’«arca felicissima e gentile» che è il corpo dell’amato. La Venere di Borri esplora invece il fine ultimo della propria passione, volgendo «gli occhi ed in un l’avida mente» dal basso verso l’altro, lungo una linea ideale del desiderio che sublima ascensionalmente i sensi inferiori in quelli superiori, le terrene fondamenta degli arti nella rarefatta atmosfera del viso, sintesi di tutte le possibili bellezze e storie mitiche (ott. 42-45):

Volge gli occhi ed in un l’avida mente
Al piè leggiadro, a le colonne vive,
Che sostengon d’Amor la reggia ardente,
Ond’ei soggioga ancor l’alme più schive.
Al rubino del labro, ed al lucente
Zaffir de gli occhi, a le perle native,
Zaffir’, perle, e rubin’ pari non scerse,
O dove sorse, o dove il Sol s’immerse.
Via più ridente sembra entro al suo pianto,
Qual’Iri in Ciel, tra rugiadose stille,
Nel curvo grembo e varïato manto
Tragge dal Sol mille colori e mille:
Così mista di lume e d’altrettanto
Stillante umore, infrà l’aure tranquille
Archeggiando pomposa, e bella, e vaga,
Gli spettator’ con mille raggi appaga.
La guancia poi sì bella e dilicata
Rossa è nel bianco, e nel rossor biancheggia;
Ch’al giglio par con dote egual sposata
La rosa, che nel giglio arde, e fiammeggia:
Et hora che dal moto ella è ’nfiammata,
Et accesa dal Sol, più porporeggia:
E tra le perle de’ sudor’ cadenti
Sembra le spoglie aver via più ridenti.
Del viso onde Cibele, e’l Dio di Delo
Per Ati quella, e quei per Dafne ardea;
De la beltà, che nel corporeo velo
D’Orithia, e di Narciso alma splendea,
Del bel, ch’in tauro volse il Re del Cielo,
Tutte le idee féro una sola idea:
Sì ch’Ati, Delia, Orithia e’l bel Narciso,
Con Europa formàr d’ADONE il viso.
14

Anche le prime ottave del poemetto Favola d’Adone (ante 1553) di Girolamo Parabosco sviluppano il motivo di Venere che contempla Adone, ma lo sfruttano soprattutto per contrapporre all’indolenza di uno «Stanco Adon» l’esuberanza erotica di una Venere «spinta d’Amor», e per far sì che i dettagli dell’incontro si pongano come sintesi dell’intera vicenda, anticipazione di ogni suo esito. L’insistita notazione del profondo sonno dell’eroe attraverso un lessico che attinge al campo semantico della morte fa dell’immagine del «sonolento» Adone una prefigurazione dell’imminente tragico destino dell’eroe, e articola la narrazione secondo uno schema circolare che vede il finale (41, 7-8: «Le luci, già d’Amor sede e governo, / Chiudendo hor morte in duro sonno eterno») rispecchiarsi nei ripetuti ritratti d’avvio: «Nel sonno immerso» (1, 5); «nel dormir sotto l’ombroso speco» (2, 7); «con oscuro velo / Tien cinto il sonno» (3, 1-2); «bel Garzon, fra l’herbe e i fior’ sepolto» (3, 8); «egli non sente, / Tanto ha l’alma nel sonno oppressa e morta» (10, 3-4).15 Dall’altra parte, le incontenibili «calde voglie» della dea alimentano gesti e parole che costituiscono, di fatto, il primo assalto subìto da Adone (ott. 10-11); un assalto che precorre, sul piano puramente verbale, quelli fisici che, nel bene e nel male, seguiranno. La scarsa abitudine alle battaglie amorose fa sì che dopo un momentaneo paralizzante stupore la ‘preda’ Adone si consegni spontaneamente e senza opporre resistenza in mano alla ‘cacciatrice’ Venere (15, 4: «E ’n terra si gittò lasso e tremante»). L’insistenza sull’inadeguatezza virile di Adone compare anche in Venus and Adonis, dove Shakespeare tematizza questo aspetto della subalternità adonica, facendone uno dei fondamenti della riluttanza dell’eroe a soddisfare i desideri della dea; ossia espandendo e radicalizzando il disappunto, solo momentaneo, descritto da Parabosco:

Poscia, vedendo ch’ei non si risente
Per parole dal sonno, in piè rissorta
Se gli accosta e lo tocca; egli non sente
Tanto ha l’alma nel sonno oppressa e morta:
Ond’essa vie più ardita (a tal consente
La
fiamma che la strugge, e Amor l’è scorta)
Bacia la dolce bocca e quel bel volto,
Che le have il cor di mezzo il petto tolto.
Tanto lo scuote al fin, tanto gl’infesta
Hora il bel petto, hor la serena faccia,
Che ’l sonolento giovene si desta,
Timido in vista, e di fuggir procaccia,
Non scorgendo anchor ben chi lo molesta
(Parabosco, Favola 10-11, 1-5)
And now Adonis with a lazy spright,
And with a heavy, dark, disliking eye,
His louring brows o’erwhelming his fair sight
Like misty vapours when they blot the sky:
Souring his cheeks, cries, «Fie! Non more of love!
The sun doth burn my face; I must remove» [...].
«Fie, lifeless picture, cold and senseless stone,
Well-painted idol, image dull and dead,
Statue contening but the eye alone,
Thing like a man, but of no woman bred!
Thou art no man, though of a man’s complexion,
For men will kiss even by their own direction».
This said, impatience chokes her pleading tongue,
And swelling passion doth provoke a pause.
(Shakespeare, Venus and Adonis 181-86 e 211-18)

Nel testo shakespeariano l’esuberanza sessuale di Venere viene amplificata simbolicamente anche nel suo abbondante parlare, nella retorica della seduzione e del risentimento che la dea dispiega per trattenere il giovane; e a cui si contrappone lo svogliato argomentare di Adone, anche qui e per sua stessa ammissione in difetto (806: «The text is old, the orator too green»). In Parabosco il silenzio dell’eroe maschile è pressoché assoluto e ne accompagna, intensificandola, l’apparente semicoscienza dell’agire, che connota specularmente gli istanti iniziali (11, 4-5: «Timido in vista, e di fuggir procaccia, / Non scorgendo anchor ben chi lo molesta») e finali (36, 8: «E lascia il bel garzon pensoso e solo») del suo incontro con Venere. È peraltro questa solo una delle situazioni duplicate nel corso del racconto al fine di rendere più stringente e percepibile la sovrapponibilità tra codice erotico e codice tragico, fra tema dell’amore e tema della morte. Si veda anche il perfetto rispecchiamento tra il momento in cui, dall’alto, Venere scorge per la prima volta Adone addormentato (3, 4-8) e quello in cui, sempre osservandolo dal cielo, lo ritrova esanime nello stesso locus amoenus («bel loco») che aveva ospitato i loro gioiosi accoppiamenti (ott. 43-44). Il poemetto mitologico tende dunque a svilupparsi secondo un movimento circolare, nel quale i due eventi estremi si richiamano reciprocamente e il tempo del racconto sembra avvitarsi su sé stesso, mimando la biologica iterabilità (e l’antiepica sottrazione al regime di temporalità) che come nelle Stanze Dolce suggerisce per evocazione il tempo metamorfico dell’eroe-fiore va a incarnare (ott. 8):

Questa [rosa] verdeggia, ricoperta anchora
Dal chiuso pome u’ le sue foglie serba.
Quell’altra il rompe, vaga d’uscir fuora;
Quella scopre i suo’ honor’ ricca e superba.
E quella aperta con la nuova aurora,
Già, venuto il suo fin, cade ne l’herba;
E, mentre occhio si move, a poco a poco
Un’altra è nata, e cresce nel suo loco.

Anche Dolce, come Parabosco, segnala gli snodi-chiave della vicenda attraverso due atti di visione che si distendono tra cielo e terra, e si sviluppano in reciproco controcampo. L’allontanamento di Venere, che di fatto lascia il giovane al suo luttuoso destino, è descritto secondo il punto di vista di Adone (Stanze 49, 7-8 : «E Venere, ch’ogn’hor del sommo acquista, / Fiso mirò fin che gli uscìo di vista»); la morte del giovane è invece còlta attraverso gli occhi della dea, che «giù nel basso terren, da l’alta spera» contempla il cadavere di Adone, e vi si getta sopra «sì come madre [...] o donna accesa», ma anche come «pellegrin falcone» sulla preda. La protratta similitudine dolciana è una significativa testimonianza del fatto che la sovrapponibilità tra esperienza erotica e destino luttuoso acquista interesse, nel quadro delle riscritture moderne della storia di Adone, anche per l’ombra che getta sul ruolo giocato dai vari personaggi nella determinazione degli eventi narrati. Se l’immagine del falcone è solo una delle ricorrenti allusioni alla, più o meno diretta, responsabilità di Venere nella morte dell’amato; l’analo-gia con le figure della madre e dell’innamorata non può che far riverberare in Venere la figura di Mirra genitrice di Adone e amante incestuosa del padre e ricordare quindi l’altra donna che col proprio agire ha determinato (in un certo senso, geneticamente) il destino di Adone. Le ‘due’ madri, i due episodi genealogicamente connessi, vengono ad intrecciarsi fin dall’avvio della storia adonica, quando si accenna al ruolo di Eros nell’innamoramento di Venere. Il dettato ovidiano non attribuisce a Eros alcuna volontarietà nel ferimento di Venere (Met. 10, 525-26: «Namque pharetratus dum dat puer oscula matri, / inscius exstanti destrinxit harundine pectus») ma i ripetuti cenni estetizzanti sulla somiglianza tra gli infanti Adone ed Eros (Met. 10, 515-17: «qualia namque / corpora nudorum tabula pinguntur Amorum, / talis erat») hanno forse indotto gli autori della tradizione a configurare come una rivincita di Eros la ‘vendetta della passione materna’ che Ovidio attribuisce invece ad Adone: «iam iuvenis, iam vir, iam se formosior ipso est, / iam placet et Veneri matrisque ulciscitur ignes» (Met. 10, 523-24). Vediamo, ad esempio, che nell’Ovidius Moralizatus (1342-1350 ca.) di Pierre Bersuire l’evento esiziale non viene più stimato ‘inconsapevole’ bensì ‘incauto’: «Vulnerata enim fuit quadam die telo cupidinis filii sui matrem incautius osculantis propter quod Adonidem videns in ipsum dicitur exarsisse» (X, xii);16 e l’eco di questo giudizio si avverte ancora a inizio Seicento nell’idillio di Borri, in una dittologia che rivela tutto il tempo intercorso: «Da la pregna faretra un dardo aurato / Lasciò cader’il figlio incauto e folle» (13, 1-2).17 Restando però in età medievale e procedendo pochi decenni dopo Bersuire, possiamo notare che Giovanni Bonsignori nel suo Ovidius Metamorphoseos Vulgare (1375-1377 ca.) intensifica il concetto, rimuovendo decisamente l’evento dal piano della casualità e immaginando che Eros «tolse le saette e piano e debelmente saettò la madre».18 Eros saetta Venere per affermare il proprio assoluto potere negli affari erotici, secondo il topos cristallizzatosi sotto la formula virgiliana omnia vincit Amor. In un cantare di primo Cinquecento attribuito a Emiliano Carnari (Historia de Mirra novamente in octava rima traducta, 1515 ca.) l’intervento di Eros viene presentato proprio come una reazione all’hybris materna che, prima di venir punita da un ingegnoso agguato dell’«alato garzone», si mostra addirittura ostile all’amore di Adone e indifferente verso la sua estrema bellezza: «Dicono alcuni molto repugnò / Venere allo amor di questo Adone / (da tutti era chiamato), e che robbò / l’arco e saette allo alato garzone, / ma lui a questo tanto se inzegnò / che Vener inamorata alfin restonne» (42, 1-4).19 Con minor creatività ma pressoché negli stessi termini Nicolò degli Agostini diluisce in ottava rima la prosa di Bonsignori, poiché nell’Ovidio metamorphoseos in verso vulgare (1522) egli evidenzia ciò che in Bonsignori rimaneva implicito: «Venus, vedendo la madre de amore / La gran bellezza e la gran gagliardia / Nel vago Adonis, fu presa de amore, / Perché Cupido a questo consentia / E con una saetta i passò il core».20Diversamente da quanto fa per altri passi di Agostini, Lodovico Dolce sceglie in questo punto di restar fedele al dettato ovidiano, e per la lezione della sua riscrittura del poema Le Trasformazioni (1553) riconfigura nuovamente l’accaduto come uno sciagurato errore: «Ché un dì Cupido il suo bel collo stretto / Tenendo e, non so come per errore, / Con uno de’ suoi stral’ ferille il petto» (xxi 49, 3-5).21Nello stesso anno è invece Parabosco a riproporre la maliziosa lettura medievale del comportamento di Eroseapresentarlo come un atto di vendetta. Alla vista di Adone addormentato, Venere resta stupefatta da tanta bellezza e arde tanto più «quanto più rio / Strale acuto le aventa il figlio Amore»; sicché al lirico Parabosco non resta che chiosare: «Ahi, spietato garzon, renderti il fio / Sforzi la madre di lascivo errore?» (5, 3-6). Il «lascivo errore» attribuito a Venere («la madre») è con ogni probabilità memoria distorta del sintagma «matrisque ulciscitur ignes», attraverso cui Ovidio ci comunica che l’incontrollabile passione di una dea (Venere) per un mortale (Adone) può essere inteso come contrappasso dell’altrettanto irrefrenabile desiderio erotico che ha spinto una figlia (Mirra) ad accoppiarsi col proprio padre (Cinira). In Ovidio la “vendetta” è di Adone, e mira a riabilitare sua madre Mirra. Così infatti già l’anonimo autore del medievale Ovide moralisè (1316-1328ca.) aveva disteso, a scanso di equivoci, il sintetico passaggio ovidiano: «Venus fu de s’amour esprise. / Adonis a vengance prise / De la grant honte et du mesfait / Que Venus à sa mere a fait / Quant el li fist amer son pere. / Or revenche Adonis sa mere» (x 1991-96); così, con una puntuale lettura e resa dell’incriminato esametro, si ribadirà il concetto ne Le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara (1561): «Al fine [Adone] accese anchor la dea del loco, / E vendicò de la sua madre il foco» (x 220, 7-8).22In Parabosco l’idea di vendetta viene invece traslata sulla figura di Eros, che avrebbe innescato l’amore di sua madre Venere verso Adone per vendicarsi con essa di averlo costretto a favorire l’incestuoso (e, per lui, infamante) amore di Mirra. Di una punizione inflitta dal figlio Eros alla madre Venere si parla anche nel poemetto Adonis (1564) di Pierre de Ronsard: «Amour, voulant un jour se venger de sa mere, / Esleut de son carquois la fleche plus amere: / Puis la tirant contre elle, au cœr la luy cacha, / Et l’amour d’Adonis au cœr luy attacha» (vv. 5-8).23Ma è nella manoscritta Favola di Venere e d’Adone di Giovan Battista Strozzi che compare la più esplicita spiegazione degli eventi: «Non voglio or questionar se per vendetta / La madre Citerea Cupido offese / Perché Mirra a giacer col padre astretta / Dal venereo furor infame il rese» (3, 1-4).24

Il tortuoso percorso di questo dettaglio testuale della tradizione postovidiana dell’episodio adonico icasticamente sintetizzato nel più compiuto approdo moderno di questa, l’Adone (1623) di Marino: «parve caso improviso e fu bell’arte» (iii 43, 3)25 potrebbe valere da spia della stretta connessione che, in nome di una genealogia della perversione erotica, lega la vicenda della madre-Mirra a quella del figlio-Adone. Una connessione che da una parte, nel suo evidenziare una consequenzialità causa-effetto tra gli eventi, sembra quasi prospettare «the polymorphous perversity of a family romance» e fare quindi della storia di Mirra un «darkening pre-test for the tale of Venus and Adonis, which points to the perverse origins of desire»;26 e che dall’altra parte, nelle specularità che lascia intravvedere, suggerisce di leggere caratteri, azioni e relazioni propri di una fabula secondo quelli dell’altra, e viceversa. Còlta in tal senso, ad esempio, la comparazione tra le bellezze supreme degli infanti Adone ed Eros27su cui si gioca di fatto la transizione narrativa tra le due storie predispone a cogliere da subito i due personaggi nella loro identità parentale di “figli”, con le immediate conseguenze di riconoscere nel trasporto emotivo di Venere per Adone una componente materna, e quindi di inserire il loro rapporto in un quadro relazionale potenzialmente prossimo a quello che ha visto protagonisti Mirra e Cinira. La reciproca connotazione filiale di Adone e l’insistenza sulla giovane età dell’eroe rendono ancor più complesse le influenze dell’antecedente incestuoso. 28Oltre che sulla soglia incipitaria, l’ambigua natura del sentimento di Venere nei confronti di Adone (quale doppio di Eros) si conserva anche nei due statuti che la dea assume durante l’evolversi della vicenda, statuti che di fatto duplicano la storia di Mirra in quella di Adone secondo uno sviluppo narrativo circolare: l’amante accesa si rispecchia nella mater dolorosa, e vice-versa.29 Il vincolo adonico con l’incestuosa madre, rinsaldato dalla sovrapponibilità tra le figure di Venere e Mirra, intensifica inoltre lo status di passività dell’eroe; un eroe che vede il proprio destino predeterminato da colpe ataviche e, in seguito, determinato dal momentaneo allontanamento della dea (che consente, di fatto, l’esiziale incontro col cinghiale). Quest’ultimo aspetto viene affrontato nel già citato cantare Historia di Mirra di Carnari attraverso un’aperta denuncia del comportamento irresponsabile di Venere: «Ma dimmi, Vener mia, se tanto amavi / quel giovenetto, a ché lasarlo solo, / come con esso sempre non andavi / quando ferir volea l’animal stuolo. / Hora e piacer’ te tornaranno in guai / per che morte se gli ha portati a volo / e più non goderai quello godevi / perché lasarlo sol mai non dovevi. // E pianto fece poi Vener di questo / non tel so dir, ché mai verun poeta / non contarebbe mai l’acto funesto / che Vener fece e mai non fu più lieta» (ott. 48 e 49, 1-4). 30

L’intima vocazione a ricoprire il ruolo di mero oggetto del desiderio e il fardello della perversa genealogia non risultano meno influenti anche laddove il protagonista assume i connotati dell’eroe maturo e dell’amante focoso. È il caso dell’efficace riscrittura di Ovidio offertaci, in chiave edipica, da Anguillara.31 Nelle Metamorfosi d’Ovidio l’intero episodio adonico è posto all’ombra della vicenda di Mirra, e il percorso di formazione del protagonista come amante adulto e come capo di una comunità è condotto anche attraverso l’insistita opera di rimozione memoriale della peccaminosa polarità materna. Già in Ovidio la vicenda di Mirra è apertamente collocata entro il campo semantico dell’osceno sia a livello di inventio (con l’avvertimento «Dira canam» il narratore-agens Orfeo denuncerà subito come “indicibile” questa historia), sia a livello di elocutio (in una delle due occorrenze dell’intero poema, il termine “osceno” andrà infatti qui a descrivere l’incestuoso talamo; cfr. vv. 465-466: «Accipit obsceno genitor sua viscera lecto / virgineosque metus levat hortaturque timentem»). Dante e Petrarca stigmatizzano la follia dell’amore contro natura di Mirra, ricorrendo entrambi a un’immagine di devianza morale: «ed elli a me: “Quell’è l’anima antica / di Mirra scellerata, che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica”» (Inf. 30, 37-39); «Semiramìs, Biblì e Mirra ria: / come ciascuna par che si vergogni / de la sua non concessa e torta via!» (Triumphus Cupidinis 3, 76-78). E tutto il peso censorio sull’evento viene confermato dalle letture allegoriche cui è sottoposta la figura di questa donna tra Medioevo e Rinascimento. 32 Di particolare interesse anche in prospettiva Anguillara risulta il resoconto della vicenda offertoci nell’Historia de Mirra; un resoconto che nella sua brevità accentua fortemente il peso della colpa materna sul destino del figlio, 33soprattutto intrecciando senza soluzione di continuità piano narrativo e piano allegorico, favola e giudizio morale. In una serie di interventi metanarrativi l’autore del cantare inserisce nel proprio discorso poetico il contenuto della postilla evemeristica che Bonsignori pone a corollario della propria volgarizzazione in prosa (sull’inevitabile punizione che segue il peccato della donna);34 e, presentando la coppia quasi come un’unica entità, mette in diretta relazione la tragica morte di Adone col «peccato / che la madre e ’l figliol ebbe dannato»:

Però niun non abia tanto ardire
che pensarsi commettere tal peccato,
come se vede in Mirra, allo ver dire,
qual del
figliol e di lei fin sia stato,
e come ebbono lor vita a
finire
sol per l’error comesso scelerato.
(ott. 52, 1-6)

Nelle Stanze nella favola di Adone Lodovico Dolce sviluppa il nucleo concettuale del “peccato familiare”, modificando la dispositio della materia e allestendo un vero e proprio tribunale celeste in cui Giunone declama una dura requisitoria volta a far ricadere l’«iniqua e scelerata» colpa di Mirra su Adone (64, 1-2: «Tu vedi, o sposo, s’è di viver degno / L’iniquo parto, il mal concetto seme»).35Giovanni Tarcagnota impiega solo due versi del suo poemetto L’Adone (1550) per riconoscere nell’assalto mortale del cinghiale l’inevitabile conferma dello stigma con cui il perverso comportamento di Mirra aveva macchiato Adone: «Che forse per punir Mirra, e ’l suo errore, / Venia [un cinghiaro] verso il figliuol con tanto horrore» (10, 7-8).

Nelle Metamorfosi d’Ovidio Anguillara insiste invece sul dato biologico della consanguineità tra madre e figlio; e fonda strategicamente su di esso gli scarti della sua riscrittura rispetto al racconto ovidiano. Ricorrenti e del tutto originali sono, ad esempio, i riferimenti alla vocazione materna che accompagna il lussurioso agire di Mirra dal subitaneo innamoramento (134, 4-5:«[...] l’amor arse del padre, / E bramò aver di lui la prole, e l’ebbe»), al conquistato appoggio della nutrice (172, 5-6: «E seco gusterai la stessa gioia / Che nel generar te gustò tua madre»), fino all’amplesso col padre (188, 7-8: «E del seme medesmo, onde già nacque, / Aver l’ingordo sen grave a lei piacque»). Questa vocazione materna, nell’interpretazione di Anguillara, sembra addirittura determinare la stessa passione erotica di Mirra: «Si sapea ben per Cipro il folle incesto / Che già commesso Mirra avea co’l padre; / Ché in quel furore il re fé manifesto / La fraude ch’ella usò per farsi madre» (219, 1-4). Se l’insano trasporto di Mirra per il padre pare finalizzato più al concepimento che al piacere erotico, la perversa attitudine per i «venerei assalti» e per ogni «infame amor» è comunque la dote naturale che la donna lascia al figlio, nutrendo con la resina il sangue del feto (206, 5: «Vi passò anche la ria lussuria, ond’arse»). Lungo questo scambio di umori che di fatto duplica (o prolunga) quello del liquido seminale tra Cinira e Mirra si gioca l’intero dramma familiare e comunitario attraverso cui Anguillara legge la storia di Adone.36 Appare evidente che l’autore cinquecentesco proceda qui alla naturalizzazione biologica di un giudizio morale, alla forzosa oggettivizzazione di un dato culturale. I continui riferimenti al campo semantico bio-genealogico che accompagnano tanto l’entrata in scena del giovane eroe («prezioso parto», «sangue real», «sangue regio», «aer paterno», «sangue esterno», «figliuolo incerto», «regio figlio», etc.) quanto la sua tragica dipartita (dove il suo sangue si mescolerà con l’«humore» del fonte adonio e con la «terra», ad alimentare nuovi cicli vitali); questi continui riferimenti, dicevo, non fanno allora che allungare l’ombra entro cui il suo agire è destinato a collocarsi. Non diversamente, la trouvaille romanzesca dell’occultamento dell’empia origine materna di Adone da parte della ninfa levatrice (215, 1-3: «La ninfa, che nutrillo, il rende accorto / Com’ei dal re di Cipro era disceso; / Ma de la madre ria tacendo il torto») si rende narrativamente necessaria per giustificare un’elezione regale che assume tutti i connotati di un’ipocrita purificazione del sangue: «È ver ch’ogn’un di creder si fingea / Che del sangue regale ei fosse uscito / Di qualche Ninfa nobile Sabea, / E non d’amore infame, e prohibito» (220, 1-4). Si assiste dunque a un radicale processo di rimozione collettiva del peccato di Mirra attraverso l’adozione della figura filiale “perfetta” di Adone, e al parallelo oblio del re-padre Cinira sostituito nelle sue funzioni da una comunità statale che funge da padre putativo del nuovo eroe. Alla macchia viziosa dei genitori sembra dunque temporaneamente sostituirsi la tersa avvenenza del figlio. A questa suprema bellezza guarda Venere, per ricostituirne attraverso l’amplesso proprio come in Contile l’unita-ria idea che l’ha informata: «Uniam quel corpo, ch’è diviso in dui,/Econ nostro piacer gioviamo altrui» (236, 7-8). In Anguillara il dato estetico accresce (e conferma) una dignità già implicita nell’origine regale, a differenza di quanto accade per l’Adone mariniano «che poteva essere re, ma in lui la bellezza non creava maestà perché era un re senza potere. Adone, efebico ed apatico, è un eroe di tipo speciale, fatto non per governare o vincere ma per essere amato». Se quindi l’episodio mariniano del concorso di bellezza (L’Adone xvi 187-96) «trasforma la bellezza di Adone da oggetto di desiderio a oggetto di considerazioni estetiche»,37 la dignitosa figura regale presentata da Anguillara sembra invece trovare nel forte potenziale erotico garantito dalla propria bellezza fisica il puntuale compimento della virtus regale (218, 3-4: «Lo scorgerlo sì bello, e di tal merto, / Onde s’opràr per lui le donne molto»). Oppure, rammentando la macchia umana della sua storia familiare, sembra trovarvi l’unico reale fondamento.

La rimozione collettiva del perverso passato di Adone non coincide infatti con una sospensione della viralità dell’energia erotica tra i protagonisti della storia. Anzi, lo stesso fascino che fa di Adone un re è proprio quello che soggioga Venere, facendo dunque della «dea del loco» la vittima di un’indiretta ritorsione di Mirra (220, 8: «E vendicò de la sua madre il foco»). L’innamoramento di Venere viene descritto tramite il topos stilnovistico del contagio visivo della passione erotica, ma sono le modalità attraverso cui Anguillara ricostruisce l’accaduto a render ancor più ingegnosa la sua esecuzione dell’episodio ovidiano. Innanzitutto Anguillara colma un omissis che, tanto nell’originale ovidiano (x 527-30: «altius actum / vulnus erat specie, primoque fefellerat ipsam. / Capta viri forma non Cythereïa curat / litora») quanto nei suoi successivi volgarizzatori, lascia sottointesa la presenza di Adone nel momento dell’accidentale ferimento di Venere ad opera di Eros (221, 7-8: «Hor mentre ch’ad amar la dea s’accende, / nel re, che quindi passa, i lumi intende»). La drammatizzazione del legame causale tra il colpo di Eros e la vista di Adone o dovremmo dire: il contemporaneo e mutuo sommovimento di sangue e spiritus risente con ogni evidenza in Anguillara dell’episodio ariostesco dell’innamoramento di Angelica per Medoro (Orlando furioso xix 19-20). Lo ritroveremo sviluppato nella Favola di Venere e d’Adone di Strozzi (4, 1-4: «Parve puntura e fu piaga profonda,/El’effetto più rio della sembianza. / Vide in quel punto la beltà gioconda / Del bell’Adon ch’ogni bellezza avanza»), visualizzato efficacemente in Venere, Adone e Cupido di Annibale Carracci (1588-1590ca., Madrid, Museo Nacional del Prado),38 nonché riproposto con più teatrale eleganza nell’Adone di Marino: «Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo, / Amor crudele in lei rivolge il dardo», sicché «in un punto medesmo il fier garzone / ferille il core ed additolle Adone. // Gira la vista ch’Amor l’addita, / che scorgerlo ben può, sì presso ei giace» (iii 16, 7-8,e 43-44). Nel racconto di Anguillara però Adone e Venere non sono soli sulla scena dell’innamoramento. Insieme a loro c’è anche un «crudo e intrepido cinghiale». E nello stesso preciso momento in cui il giovane re incontra lo sguardo della dea, egli scocca una freccia contro la fiera (222, 5-8: «A punto ch’ella in quel tempo il vide in faccia, / Che’l petto le ferì l’aurato strale. / Fère il cinghiale intanto Adon co’l dardo, / Poi la dea vede, e lei fère co’l guardo»). Il contagio erotico sembrerebbe dunque diffrangersi lungo due canali. Questa suggestiva triangolazione di sguardi (dove occhiate e frecce coincidono, nella realtà così come nella figuralità lirico-erotica) sviluppa e prefigura l’intera fabula adonica sulla scorta dell’ambigua sovrapposizione fra i desideri dei suoi tre attori principali (per tacer dell’ombra di Mirra e del gemello Eros); sovrapposizione che, assente nel modello ovidiano, viene invece a sostanziare quello idillico (dalla classicità dello pseudo-Teocrito alla modernità di Tarcagnota, Shakespeare e Marino), soprattutto in relazione al motivo del cinghiale acceso di libidine per Adone. È questo l’ultimo, ma non secondario, nucleo problematico da affrontare per una lettura sub specie erotica del mito di Adone.

Anguillara non sviluppa compiutamente tale aspetto della storia e si limita agli allusivi parallelismi tra il cinghiale e la dea (entrambe vittime di Adone-Eros), tra il cinghiale e Marte (entrambi gelosi, e uno il doppio dell’altro),39e tra il cinghiale e Adone (per la medesima immagine di sottomissione che affianca la fiera catturata dai compagni di Adone all’eroe prono davanti a Venere: «Lascia che sia da gli altri il verre ucciso, / Et a’ piè de la dea fido s’atterra»). Il motivo della natura sessuale dell’assalto della bestia appartiene però stabilmente alla lunga storia di Adone, poiché risale all’anonima anacreontica Adone morto, ritenuta a lungo teocritea e come tale inserita da Estienne nella sua traduzione latina degli Idilli.40 La più compiuta elaborazionepremariniana di questa versione del mito è senza dubbio quella che ci offre Giovanni Tarcagnota. Nel poemetto L’Adone la triangolazione di sguardi delineata da Anguillara diviene a tutti gli effetti un triangolo erotico, al cui vertice il giovane eroe ribadisce il suo ruolo di catalizzatore del desiderio altrui senza distinzione di genere né di specie. Gli altri due angoli sono occupati da due soggetti sostanzialmente identici e speculari. L’innamoramento del cinghiale duplica infatti quello di Venere (entrambi colpiti dalla medesima freccia, scagliata prima da Cupido e poi da Adone), così come il suo irreprimibile trasporto erotico ha la stessa sovrastante potenza di quello della dea (e ricorda da vicino quello di Mirra). Romanzando l’ipotesto alessandrino, Tarcagnota immagina che Venere abbia sottratto di nascosto a Cupido uno dei suoi strali dorati per farne dono galante all’amato, e che proprio con questa freccia Adone abbia colpito il cinghiale (18, 7-8: «E pur non fu da Amor quel dardo tratto, / Ma da Adone, cui fu il duon misero fatto»), il quale improvvisamente «vago del bel fanciul» non lo minaccia più ma lo «ha caro, / Né si sazia di mirar quel viso adorno» (21, 2-4). Ma esattamente come Venere, che non riesce a limitare il proprio desiderio nella forma di una distante contemplazione (o come Mirra che non sopporta di coltivare il proprio amore entro i confini di un rapporto filiale), anche il cinghiale trattiene a fatica il proprio ardore, e non può che esplodere nell’istante in cui scorge il fine ultimo della sua eccitazione: «ecco che un forzato vento / Gli [ad Adone] alza la veste, e scuopre il terso argento. // L’accesa bestia quando vide ignuda la coscia del figliuol di sua sorella, / [...] / Si sente venir meno, si sente fuoco / Divenir tutta, e’n sé non ha più luoco» (ott. 23-24). Al di là della trouvaille del vento fatale (subitamente adottata da Marino, L’Adone xviii 94, 5-8: «Ed ecco un vento al’improviso allora, / se Marte o Cinzia fu non so dir bene, / che per recargli alfin l’ultima angoscia / gli alzò la vesta e gli scoprì la coscia»), è la ripresa lessicale dell’attributo «accesa» a destare interesse. Poc’anzi utilizzato per definire lo stato di Venere (19, 5: «E perché sen’ [di Adone] trovava ogn’hor più accesa»), esso ribadisce infatti per sillogismo la responsabilità della dea nella morte del giovane, appena prima affermata tramite l’agnizione narrativa della freccia; e, associato alla perifrasi «figliuol di sua sorella», tale aggettivo estende la comparazione (e la compartecipazione di colpa) anche a colei che «Fu di suo padre innamorata e accesa» (Dolce, Stanze nella favola di Adone 54, 2).

Sembra dunque livellarsi (e scomparire), di fronte all’insostenibile pulsione erotica, l’ordinato impianto relazionale che aveva presieduto all’architettura semantica della lunga storia di Adone attraverso la riproduzione del medesimo rapporto gerarchico lungo più piani: cosmico (divinità vs. umanità), sociale (padre vs. figlia, e maschio vs. femmina), naturale (umanità vs. animalità). La forza dell’attrazione sessuale s’intreccia qui con la legge strutturale per eccellenza della narrazione quella della non corrispondenza dei desideri, dello sfasamento degli affetti al fine di illustrare il ripetuto cortocircuito che viene a generarsi tra legge (come costruzione sociale di una comunità), ragione (come principio che consente a un individuo di vivere entro una comunità) e sentimento (quale fondamento istintivo dell’agire individuale); e che porta a un perturbamento tragico del sistema di convenienze e comportamenti riconosciuti, alla dissoluzione del discretum nel continuum. Alla confusione: «et quot confundas, et iura et nomina, sentis!» (Met.x 346). Questo cortocircuito costituisce di fatto il nucleo concettuale primario dell’interpretazione del mondo offertaci da Ovidio per via di metamorfosi; nonché il nucleo concettuale che più alimenta le riprese moderne delle storie ovidiane. Proprio a ciò pare riferirsi Tarcagnota quando attraverso un’anafora e la ripetizione del medesimo attributo («strano», da intendersi come ‘estraneo alla norma’ ma anche come ‘mirabile’) associa due casi di accoppiamento sessuale contrario alle leggi di natura (Pasife che con un artificio riesce a farsi penetrare dall’amato toro) e alle consuetudini sociali (Mirra), e li contrappone entrambi all’innamoramento del cinghiale, in ragione del fatto che «l’amante» (l’emittente della passione) là non è una bestia, bensì «discorre, e intende». L’inaudita identità del desiderio che deriva dalla comparazione è però il privilegio ultimo dello stupore che sottende le storie mitiche qui da Tarcagnota rievocate sotto l’insegna del sovvertimento della norma. Alle vicende di Pasifae e Mirra, ossia di amanti dotate di piena umanità (solo momentaneamente, e finalisticamente, ridotta a bestialità), risponde infatti l’intensa umanizzazione del cinghiale (ott. 17-18), che di lì a poco quasi trasformato dalla sua stessa passione illustrerà con voce e raziocinio il proprio violento agire (ott. 65):

Fu ben strano l’amor di lei, che in Creta
Un bianco toro amando arse cotanto;
Fu strano, che giacer potesse lieta
Mirra, madre di Adon, col padre a canto:
Fùr simili ardor’ strani, perché il vieta
Natura, e pentir sol ne segue, e pianto.
Ma chi di ciò gran maraviglia prende,
Poi che
l’amante vi discorre, e intende?
La maraviglia grande, e’l non più udito
Caso si è, che un così horrendo mostro
Per huom si trovi in modo il cor ferito,
Che
sen’ vesta l’humano affetto nostro.
Miracol nuovo, e nel mondo inaudito,
E da notarsi con eterno inchiostro
[...].
Ti giuro, che il voler mio non fu mai
Di offender questo tuo sì caro amante;
Ben è egli il ver che
tosto ch’io mirai
Nel corpo ignudo sue bellezze tante
,
Di tanta fiamma
acceso mi trovai,
Che cieco a forza mi sospinsi avante,
Per baciar la beltà, che il cor m’apria,
Et ismorzar l’ardor, che
in me sentia.

Con più ostentato sensualismo la confessione ferina verrà tradotta entro un contesto lirico da Scipione Ammirato («Ma veggendol fermarsi / Saldo come colonna, / E senza veste o gonna / La bianchissima coscia ignuda starsi, / D’amor accesa e calda / Corsi veloce e balda / Per baciarla e succhiarla. E al fato piacque / Che’ncontro al mio voler estinto giacque»),41 a testimonianza dell’interesse dell’ambiente letterario napoletano cinquecentesco per questa variante al racconto ovidiano, poi compiutamente recepita anche da Marino: «ma la beltà, che vince un cor divino, / può ben anco domar spirto ferino. // Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo, / [...] / onde il mio labbro scelerato e crudo / per un bacio involarne oltre si spinse» (L’Adone xviii 237, 7-8 238, 1-6). Forse non immemore proprio della riscrittura di Tarcagnota, anche Shakespeare ricorrerà al paradossale dialogo tra i due amanti di Adone; e radicalizzerà il parallelismo tra di essi, immaginando in nome dell’essere umano Adone una completa sovrapposizione tra la dea e la bestia, un indistinto rispecchiamento tra le estremità della gerarchia cosmica poc’anzi ricordata. Dopo aver scorto il corpo esangue del suo riluttante amato, Venere si sprofonda infatti spontaneamente entro la mente del cinghiale, proiettando su di esso tutta la propria vis erotica: «Who did not whet his teeth at him again, / But by a kiss thought to persuade him there; / And nuzzling in his flank, the loving swine / Sheath’d unaware the tusk in his soft groin» (vv. 1113-16). Poi, nel rammarico di non aver còlto per tempo l’eroe-fiore, tenta di sublimarne la perdita attraverso la ripetizione rituale e illusoria dello stesso violento atto di penetrazione compiuto dal cinghiale: «“Had I been tooth’d like him, I must confess, / With kissing him I should have kill’d him first / [...]”. / With this she falleth in the place she stood, / And stains her face with his congealed blood» (vv. 1117-22).42

____________

1 Le principali testimonianze della lunga storia di Adone sono state raccolte e commentate nei volumi: Variazioni su Adone. i. Favole lettere idilli (1532-1623),ac.di A. Torre, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009,e Variazioni su Adone. ii. Libretti musicali e di ballo (1614-1898), a c. di S. Tomassini, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009. Alle edizioni fornite nel primo volume si fa riferimento per le lezioni, qui citate, delle Stanze nella favola di Adone di Lodovico Dolce, della Favola d’Adone di Girolamo Parabosco,de La Nice di Luca Contile,de L’Adone di Giovanni Tarcagnota,de Le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara ede L’Adone di Ettore Martinengo. Per una innovativa analisi transdisciplinare del mito adonico – quale racconto esemplare, modello simbolico e archetipo dell’immaginario – si veda ora A. Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Milano, Mimesis, 2012.

2 Cfr. R.Caillois, I demoni meridiani, a c. di C. Ossola, Torino, Bollati Boringhieri, 1999,p. 6.

3 È l’infrazione che – nel Venus y Adonis (ante 1604)diLope de Vega – spingerà un geloso Apollo a congiurare per la morte di Adone: «Apolo. Que sufran celos de Apolo / tal infamia, que en sus braços / vean un hombre mortal, y no le abrassen mis rayos. / Cielos, soy el sol? Quien soy? / [...] / Si Faeton era otro yo,/yleveys precipitado / en el mar de su sobervia / pudiendo en mi proprio llanto» (Lope de Vega, Tragicomedia de Adonis y Venus, 1876-87, in Decimasexta parte de las Comedias de Lope de Vega Carpio, Madrid, Alonso Martin, p. 37r).

4 Possiamo inserire anche questo aspetto della vicenda nella confusa determinazione delle identità sessuali che Anthony Mortimer riconosce essere costitutiva del mito, e in particolar modo della riscrittura offerta da Shakespeare: «The hermaphrodite figure is particularly relevant to Venus and Adonis because we already think of both protagonists in bisexual terms – Adonis as a hunter, proud of his male autonomy and yet feminine in his beauty and virginally fearful of sexual invasion; Venus as a woman inviting penetration, yet attracted by a beauty that, with its enticing hollows, casts her in the male role. What could be more fitting than that one doubly sexual identity should replace two split sexual identities and that sexual fusion should be the answer to sexual confusion» (A. Mortimer, Variable Passions. A Reading of Shakespeare’s Venus and Adonis, New York, AMS Press, 2000,p. 101).

5 Si cita da William Shakespeare, Venus and Adonis,inId., The Narrative Poems, ed. by M. Evans, London, Penguin, 1989.

6 Sulla natura narcisistica dello sguardo pornografico Cfr. P. FIndlen, Humanism, Politics and Pornography in Renaissance Italy,in The Invention of Pornography. Obscenity and the Origins of Modernity, 1500-1800, ed. by L. Hunt, New York, Zone Books, 1996, pp. 49-108, in part. a p. 69.

7 La variazione è interessante non solo perché comporta l’inversione dell’identità sessuale dell’oggetto dello sguardo desiderante, ma anche perché può rientrare in quella tipologia di scene voyeuristiche in cui il punto di vista del soggetto osservante si dispone, quasi inconsapevolmente, a venir assunto dal lettore/spettatore: «Nelle interpretazioni rinascimentali l’atto di scoprire e di spiare segretamente è frequentemente accentuato, in modo tale da sviluppare il tema dello sguardo proibito. Così un argomento talmente fondamentale al nostro discorso contemporaneo sulla sessualità, quale lo sguardo dello spettatore, riveste anche uno spazio privilegiato per l’analisi di molte stampe rinascimentali, dove per la prima volta venne ripreso dalla produzione antica» (B. Talvacchia, Il mercato dell’eros: rappresentazioni della sessualità femminile nei soggetti mitologici,in Monaca, moglie, serva, cortigiana: vita e immagine delle donne tra Rinascimento e Controriforma, a c. di C. Acidini Luchinat, Firenze, Morgana edizioni, 2001, pp. 193-245, cit.ap. 206). È peraltro questa una situazione che caratterizza l’arte figurativa nella sua lunga durata, come ci testimonia Linda Nochlin nello studio dedicato a The Great Bathers di August Renoir e più in generale al tema delle bagnanti nella produzione artistica otto-novecentesca: «There are rarely any men in these pictures aside from an occasional faun or satyr. The pastoral idyll represents only the naked female: the male presence is an absence; or, rather, it is displaced to the understood position of the creating artist and the consuming viewer, not to speak of the potential buyer of the work» (L. Nochlin, Bathers, Bodies, Beauty. The Visceral Eye, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2006, pp. 19-20).

8 Cfr. L. Barkan, The Gods Made Flesh. Metamorphosis and the Pursuit of Paganism, New Haven-London, Yale University Press, 1986,p. 45: «Acteon and Diana are both hunters, and so, in perceiving the naked goddess, the young man is looking in a sort of mirror and seeing a transfigured, sacred form of his own identity. [...] This equation – of Acteon with the holy form of himself as hunter – inexorably brings about the complementary equation, of Acteon with the beastly form of himself as hunter, the stag whom he has been hunting». Si veda anche N. Vickers, Diana Described. Scattered Woman and Scattered Rhyme, in «Critical Inquiry», viii (1981), pp. 265-79.

9 Cfr. Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, a c. di M. Ariani e M. Gabriele, Milano, Adelphi, 1998, vol. i (ripr. anast. dell’edizione aldina 1499), p. 71: «La quale bellissima nympha dormendo giacea commodamente sopra uno explicato panno. Et sotto il capo suo bellamente intomentato et complicato in puvinario grumo era. Et una parte poscia del dicto aptissimamente fue conducta ad coprire quello che conveniente debi stare caelato. Cubendo et sopra il fianco dextro ritracto il subiecto brachio cum la soluta mano sotto la guancia il capo ociosamente appodiava. Et l’altro brachio libero et sencia officio distendevasi sopra il lumbo sinistro derivando aperta al medio dilla polposa coxa». Si veda a proposito, anche per più diffusi rinvii bibliografici, H. K. Szépe, Desire in the Printed Dream of Poliphilo, «Art History», xix (1996), 3, pp. 379-392.

10 Diego Hurtado de Mendoza, Fabula de Adonis, Hipomenes y Atalanta,in Poetas líricos de los siglos XVI y XVII. Tomo primero, colección ordenada por A. de Castro, Madrid, M. Rivadeneyra, 1854, pp. 68-70,cit.ap. 69.

11 Per restare in ambito artistico, potrebbe essere questo il caso della famosa statua dell’Ermafrodita dormiente (II sec. d.C., Musée du Louvre) che, a seconda del punto di vista assunto dall’osservatore, si presta a rivelare solo una o entrambe le identità sessuali che racchiude in sé. Cfr. F. Jacobs, Sexual Variations: Playing with (Dis)similitude,in A Cultural History of Sexuality in the Renaissance, ed. by B. Talvacchia, Oxford-New York, Berg, 2011, pp. 73-94.

12 Per cui Cfr. almeno G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, pp. 145-84.

13 Cfr. C. Alduy, Archéologie d’un gros plan. Sémiologie du sexe imprimé dans les Blasons anatomiques du corps féminin (1539-1568),in Obscénités renaissantes, sous la direction de H. Roberts, G. Peureux, L. Wajeman, Genève, Droz, 2011, pp. 163-92,in part. p. 172: «Le régime de focalisation qui se concentre dans la pornographie moderne sur les organes sexuels s’applique ici à chaque partie anatomique, à tel point qu’on peut se demander si l’obscénité n’est pas avant tout un type de cadrage: c’est le gros plan – littéral dans la gravure, rhétorique dans le poème – qui fait le fétiche et le voyeur». Per una trattazione generale della questione si veda anche The Body in Parts. Fantasies of Corporeality in Early Modern Europe, ed. by D. Hillman and C. Mazzio, New York-London, Routledge, 1997, in particolare S. Lobanov-Rostovsky, Taming the Basilisk, pp. 195-220.

14 Si cita il testo di Cesare Borri dall’edizione approntata in S. Tomassini, Adone a Milano, o una Venere per i Borromeo, in «Philo<:>logica», iii, 5 (aprile 1994), pp. 26-69.

15 Si allude qui a una debolezza fisica connaturale alla bellezza, adolescenziale e dunque incompleta, di Adone. In una singolare versione in prosa del primo libro delle Metamorfosi ovidiane, realizzata da Francesco Pona, è Venere a venir rappresentata in questa posa di estatica stanchezza; e l’immagine è ricordata dall’autore secentesco come similitudine valida per rappresentare la bella ninfa Siringa contemplata dal satiro Pan: «Teneva il bel mento, concavo in mezzo, appoggiato alla bianca mano, quasi che il Sonno allettasse ad impadronirsi de’ lumi suoi. Tale forse fu veduta la Dea della Rosa e del Mirto, stanca e sonacchiosa giacersi, quando fatta seguace del caro Adone, per conformarsi al genio di Lui,si finse cacciatrice ella ancora...» (Francesco Pona, La trasformazione del primo libro delle Metamorfosi d’Ovidio, Verona, Merlo, 1618,p. 177).

16 Petrus Berchorius, Ovidius Moralizatus, lib. x, fab. xii, Utrecht, Intituut voor Laat Latijn der Rijksuniversiteit, 1962,p. 321.

17 Il concetto viene già ribadito a metà Cinquecento nel volgarizzamento in endecasillabi sciolti del solo decimo libro delle Metamorfosi realizzato da Camillo Cauzio: «Per ciò che mentre il faretrato Amore / La sua madre vezzoso stringe, e bascia, / Con lo strale, che fuor spuntava alquanto, / Inaveduto le distrinse ’l petto» (Camillo Cauzio, Il decimo libro delle Trasformazioni d’Ovidio, Venezia, Comin da Trino, 1548,p. 20).

18 Per il testo si è ricorsi a Giovanni Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos Vulgare, cap. xxvii, ed. critica a c. di E. Ardissino, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2001,p. 493.

19 Historia de Mirra novamente in octava rima traducta, s.i.t. Si è utilizzato l’esemplare conservato presso la biblioteca Colombina di Siviglia con segnatura 2.193. L’attri-buzione del testo a un tale Emiliano Carnari è stata avanzata, sulla scorta del testo di dedica, in B. Guthmuller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 203-12.

20 Niccolò Degli Agostini, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar, x, 128, Venezia, Zoppino, 1522,p. 128.

21 Lodovico Dolce, Le Trasformazioni, xxi, 49, Venezia, Giolito, 1553,p. 230.

22 Questa lettura degli eventi è con ogni probabilità condizionata da un passo della xiv Favola di Igino (I sec. d.C.) in cui si afferma che Venere indusse Mirra all’incesto per punire la superbia della di lei madre Cecreide che osò definire la figlia più bella della dea. Cfr. V. Emeljanow, Ovidian Mannerism. An Analysis of the Venus and Adonis Episode in Met. X 503-738, in «Mnemosyne», xxii (1969), 1, pp. 67-76.

23 Per il testo si è ricorsi a Pierre de Ronsard, Adonis,in Id., Œuvres complètes, vol. ii, sous la direction de J. Céard, D. Ménager, M. Simonin, Paris, Gallimard, 1994, pp. 315-24.Cfr. H.Tuzet, Mort et resurréction d’Adonis. Étude de l’évolution d’un mythe, Paris, José Corti, 1987.

24 Giovan Battista Strozzi, Favola di Venere e d’Adone,in P.Cherchi, Molte Veneri e pochi Adoni (con un inedito attribuibile a G.B. Strozzi), in «Esperienze letterarie», xiii (1988), n. 4, pp. 15-38.

25 Per il testo si è ricorsi a Giovan Battista Marino, L’Adone, a c. di G. Pozzi, Milano, Mondadori, 1976.

26 J.Bate, Shakespeare and Ovid, Oxford, Clarendon Press, 1993, p. 60.

27 Ad ulteriore conferma della naturale interferenza tra motivi archetipici, possiamo ricordare la vasta fortuna, a partire dal periodo alessandrino, di un nuovo modulo di rappresentazione di Eros, quello che immortala il dio-bambino mentre dorme e rende a tutti contemplabile la sua estrema avvenenza: fino all’età barocca questa iconografia sarà rinvenibile in sarcofagi, urne marmoree, mosaici, pitture murarie, gioielli, stampe e sculture (si veda, ad esempio, la statuetta di bronzo The Sleeping Eros, II o III sec. d.C., conservata al Metropolitan Museum di New York).

28 Cfr. C.Kahn, Man’s Estate. Masculinity Identity in Shakespeare, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1981,p. 33: «In Adonis, Shakespeare depicts not only a narcissistic character for whom eros is a threat to the self, but also a boy who regards women as a threat to his masculinity. But the real threat is internal, and comes from his very urge to defend against eros».

29 Cfr. A.Mortimer, Visible Passions cit., p. 12: «Her desire for Adonis has, from the start, co-existed with material protective elements and her transformation into a mater dolorosa remains erotic. The final incestuous image of the Adonis-flower as a son who takes his father’s place in the mother’s bed is a fitting conclusion to the story of a passion where the erotic and the maternal are so intricately woven that the movement from one to the other must be seen less as an ascent than as a shift of emphasis». Su questo aspetto si veda anche J. B. Perlman, Myrrha, Cupid and/as Adonis: Metamorphoses 10 and the Artistry of Incest, in Metamorphosis. The Changing Face of Ovid in Medieval and Early Modern Europe, ed. by A. Keith and S. Rupp, Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2007, pp. 223-38.

30 Ronsard rincarerà la dose, amplificando la fatale leggerezza dell’abbandono dell’amato nell’irriguardosa rapidità della durata del lutto della dea, ed inserirà così la vicenda entro la topica elegiaca dell’incostanza dell’amor muliebre: «Si tost qu’ellì le vit mort, Amour d’autre costé / Luy a plus tost que vent son regret emporté, / Si qu’elle qui estoit n’agueres tant esprise / D’Adonis, l’oublia pour aimer un Anchise, / Un Pasteur Phrygien [...]. / Telles sont et seront les amitiez des femmes» (vv. 359-65).

31 Sulla riscrittura ovidiana di Anguillara si veda ora G. Bucchi, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pisa, ETS, 2011.

32 Cfr. W.McKenzie, Ovidian Obscenity in Renaissance France, in Obscénités renaissantes cit., pp. 39-48, in part. p. 43: «Medieval/Renaissance Ovidian commentary – as translated from Latin to France and published with the tales until at least 1531 – strives to redeem Byblis’s and Myrrha’s tales of (literally) ‘obscene’ love through Christian allegory. The ‘moral’ interpretation of Myrrha’s tale is particularly ingenious. ‘Mirra peut signifier la glorieuse vierge marie’ because myrrhe gives off ‘parfaicte odeur’ (fol. piiiv). Moreover, ‘cette vierge [...] conceut de son pere ung filz’ (ibid.). The incestuous act is forgotten once Myrrha is transformed into a tree (Metamorphoses 10.492-501): ‘entre le bois & lescorce c’est à dire dedans son chaste non contaminé ventre sans corrupcion l’enfant a et depuis demoura vierge sans charnel désir’ (fol. piiiv)».

33 Carnari attenua gli iniziali scrupoli della giovane (6, 1-3: «Innamorossi costei di suo patre / e delibrosse mettere in effecto / di far contente al fin sue voglie latre») e insiste sull’ineluttabile dominio delle passioni di cui prima lei e poi il figlio Adone saranno vittime (20, 7-8: «ma chi è sforzato d’ubidir Amore / convien che esca di lege e virtù fuore»).

34 Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos Vulgare cit., p. 493:«Allegoria ed undecime trasmutazione de Mirra mutata in arbore. Una donna fu in Grecia chiamata Mirra, e fu figliuola del re Cinnara, la quale, ’namorandose del padre, ad inganno giacque con lui, per la qual cosa la volse uccidere. La donna fuggì ed arrivò in Arabia, e come desperata se ’mpiccò per la gola a uno arbore chiamato da poi mirra. Essendo Mirra così impiccata, una donna la trovò, e vedendo ch’ella era gravida, si la tagiò per mezzo e trassene el figliuolo ch’era vivo, el quale fu poi chiamato Adon; e dice che Venere ’namorò de lui, cioè che fu molto lussurioso» (corsivi miei). Il brano viene così messo in ottava da Carnari: «Ma ciò di questo, lector, sappi il vero / e como fu punito tal peccato, / ascoltarai qui con l’animo intiero / che in questa sol per me te fia contato. / Avendo lei comisso adultero/aun arbor con su man se fu apiccato / per che, lector, so che hai l’inteligenza / che ’po il peccato vien la penitenza» (Historia de Mirra cit., ott. 39).

35 Per una lettura delle Stanze nella favola di Venere e Adone mi permetto di rinviare ad A. Torre, Come lavorava Lodovico Dolce,in Dissonanze concordi. Temi, questioni e personaggi intorno ad Anton Francesco Doni, a c. di G. Rizzarelli, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 229-54.

36 Si veda M. Bettini, Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 206-207: «Come ben sappiamo, nella famiglia dell’incestuoso, si crea una sorta di mondo alla rovescia: il marito è contemporaneamente figlio, i figli contemporaneamente nipoti, lo zio materno è contemporaneamente un cognato e così via. Uno dei motivi per cui l’incesto si configura come colpa dichiaratamente sociale, comunitaria, e non solo personale, è costituito proprio da questo: che esso fa automaticamente violenza a tutta la stirpe, anche ai discendenti, anche agli antenati. Tutti, inevitabilmente, ricevono dall’incesto un attentato alla loro identità personale: nessuno è più in grado di collocarsi in maniera univoca nell’ambito del gruppo o della lignée. L’incesto scombina le “posizioni relative” di ciascuno».

37 Per entrambe le citazioni Cfr. P. Cherchi, Il Re Adone, Palermo, Sellerio, 1999, p. 21.

38 Cfr. Annibale Carracci’s Venus, Adonis & Cupid, a c. di A. Ubeda de Los Cobos et alii, Madrid, Museo Nacional del Prado, 2005.

39 Con un’altra interessante infrazione al dettato ovidiano Anguillara fa sì che «Marte cangiando la divina fronte, | D’un superbo cinghiale il volto prende» (301, 3-4). La soluzione narrativa aveva però già avuto altre occorrenze nella tradizione testuale del mito di Adone: in due glosse serviane a Æn 5, 72 («quem educatum nymphae Adonem appellaverunt. Hunc Venus vehementissime dilexit, et cum ira Martis ab apro esset occisus») e a Buc. 10, 18 («Adonis cognominatus est. Quem quia Venus adamavit, Mars in aprum transfiguratus occidit» e «quem dolo Mercurii monte deductum cum aper, quem fabulae Martem loquuntur»); in un passo del Commentarium in Isaiam prophetam (ii, 2, 275-276,a Is 18, 1-2) dell’arci-vescovo Cirillo di Alessandria («Quo offensus Mars aemulus ac rivalis Veneris, suis forma assumpta, in venantem, insilit», Cfr. PG Migne lxx,p. 440); e, fra le riscritture moderne, nel Llanto de Venus en la muerte de Adonis composto dallo spagnolo Juan de la Cueva nel 1604, che nell’introduttivo Argomento in prosa ricorda che «siendo Adonis mancebo de mucha gentileza, se enamorò dél la Diosa Venus, de la cual el Dios Marte estava afficionado, i conociendo que por los amores de Adonis caçando cual tenìa de costumbre en el Monte Idalio, le saliò el Javalì en que Marte se avia transformado i le dio una herida en la ingle, de la cual Adonis muriò luogo» (cit. in J. Cebriàn, El mito de Adonis en la poesia de la edad de oro (El Adonis de Juan de la Cueva en su contexto), Barcelona, PPU, 1988, p. 78).

40 Moschi, Bionis, Theocriti, elegantissimorum poetarum idyllia aliquot, ab Henrico Stephano Latina facta. Eiusdem carmina non diuersi ab illis argumenti, Venezia, Paolo Manuzio, 1555. Cfr. Anonimo, Adone morto,in Carmi di Teocrito e dei poeti bucolici greci minori,a c. di O. Vox, Torino, Utet, 1997,p. 483: «Ti giuro, Citera, per te stessa e il tuo sposo, e per queste mie catene, e per questi cacciatori, il tuo sposo, così bello, non volevo colpirlo, ma lo contemplavo come una statua e, non sopportando il bruciore, quella coscia che aveva nuda, smaniavo di baciarla». Questa ode greca è anche alla base dell’Epigrammata de Adoni ab apro interempto di Antonio Sebastiano Minturno (vv. 50-62): «Respondit fera: “Per tuum, Cypria, / Magnum numen, et hunc per egregium / Virum, per meaque haec manus validae / Sancta vincula, et hos per, hos volucres / Venantes, iterum, atque iuro iterum: / Formosum hunc iuvenem tuum haud volui / Meis diripere his cupidinibus; / Verum dum specimen nitens video / (Aestus impatiens tenella dabat / nuda foemina mollibus Zephiris) / Ingens me miserum libido capit / Mille suavia dulcia hinc capere, / Atque me impulit ignis indomitus”» (Antonio Sebastiano Minturno, Epigrammata et Elegiae, Venezia, Valvassori, 1564,cc. 7r-v).

41 Scipione Ammirato, Opuscoli, Firenze, Landi, 1637,p. 617. La canzone Quando il suo Adon morto compare già in una raccolta cinquecentesca di Rime di Ammirato conservata manoscritta nella biblioteca Nazionale Centrale di Roma (ms. 948), sulla quale si veda A. Vallone, Studi e ricerche di letteratura salentina, Lecce, Centro di studi salentini, 1959, pp. 29-96.

42 Sull’occorrenza shakespeariana di questa importante variazione della fabula adonica si veda T. Hughes, Shakespeare and the Goddess of Complete Being, London, Faber & Faber, 1992, pp. 49-92.