Revue Italique

Varia

OJ-italique-392

Fonti dell’attività letteraria dell’ Accademia di Modena. Due sonetti di Alessandro Melani

Alberto Roncaccia

Alessandro Melani, insieme a Lodovico Castelvetro e a Filippo Valentini, è una delle figure emblematiche della riflessione e della pratica specificamente letteraria e linguistica dell’Accademia di Modena, attiva ufficialmente negli anni ’30 e ’40 del Cinquecento e nota agli studiosi soprattutto per le sue attività criptoriformate. Le testimonianze propriamente letterarie del gruppo modenese restano perlopiù frammentarie e cronologicamente non molto definite. Tra quelle in cui il gruppo modenese si rende riconoscibile in quanto tale, oltre ad alcune corone o corrispondenze di sonetti, possiamo ricordare la ricostruzione di una giornata accademica messa in scena da Lazzaro Fenucci da Sassuolo nel dialogo Ragionamenti sopra alcune osservationi della lingua volgare (Bologna, Anselmo Giaccarello, 1551).1Ad alcuni codici di poesie di versificatori modenesi fa riferimento nel Settecento Girolamo Tiraboschi, ma di essi allo stato attuale delle ricerche non abbiamo notizia.

Le difficoltà di identificazione della produzione letteraria dell’accade-mia sono legate anche alle sue modalità organizzative interne, che privilegiarono riunioni libere e amichevoli senza darsi uno statuto formalizzato. Come a suo tempo spiegava il Maylender nella Storia delle accademie d’Italia, da un lato abbiamo gruppi che originariamente o progressivamente si istituzionalizzano con regole e con esplicite gerarchie interne, dall’altro abbiamo riunioni piuttosto libere che rinunciano a darsi un assetto istituzionale o a richiedere il riconoscimento di autorità politico-culturali esterne.2L’accademia modenese rientra in questa seconda tipologia per la sua nascita spontanea e per la probabile esigenza di affermare un certo grado di autonomia in ambito estense.3

Tra le fonti che rinviano alle attività letterarie di personaggi legati al gruppo modenese, c’è un documento di cui ho in parte reso conto nel 1999;4 si tratta del manoscritto miscellaneo Samlung 2057, conservato alla Biblioteca Reale di Copenaghen. Vi si trovano riunite, senza molta coerenza, delle carte appartenute a Giacomo Castelvetro, per la maggior parte vergate di sua mano. Uno dei settori individuabili di questo manoscritto permette di documentare la produzione letteraria di alcuni appartenenti al gruppo modenese, tra cui Alessandro Melani. In attesa di svolgere un esame approfondito della fascicolazione, alcune pur minime indicazioni paratestuali poste da Giacomo aiutano, in prima approssimazione, a delimitare alcune parti che qui ci interessano. Un primo settore del codice, più formalizzato, riporta un frammento di commento critico alle Rime di Bembo attribuibile a Lodovico Castelvetro, due lunghi componimenti in versi di Filippo Valentini, un compendio di retorica ciceroniana (datato 1561 e trascritto da Giacomo nel 1580) e il già noto volgarizzamento dell’Epistula ad Pisones di Orazio, indirizzato esplicitamente alla «brigata modenese». In seguito, da c. 192r, si trova un gruppo di fascicoli cui è premessa – difficile dire se la mano sia di Giacomo – la dicitura «volume senza ordine». Questa parte, che non è quella di maggiore interesse, è vergata in calligrafia formalizzata e disposta con coerenza sulla pagina. Vi sono raccolti, oltre a versi di Modenesi, testi di autori noti, come Tasso e Caro, o meno noti ma già reperibili in contemporanee raccolte di rime. Si intuisce, guardando l’insieme, l’idea di un progetto volto a riunire le rime di alcuni conterranei con quelle di poeti più conosciuti. Alcuni componimenti, in questo primo settore in bella copia che arriva finoac. 236, sono molto verosimilmente estratti dal settore successivo del manoscritto.

Ac. 238, dopo una pagina di guardia che riporta, con data 6 giugno 1584, una nota spese di oggetti d’abbigliamento, inizia una cospicua serie di componimenti di autori modenesi che giunge finoac. 362. Qui la grafia è rapida e la disposizione non particolarmente pianificata. A c. 238 è anche da notare l’inizio di una numerazione originale delle carte. Ac. 276r, in calce, abbiamo la dicitura «volume secondo delle poesie de’ poeti modonesi». Se questi primi due «volumi» mostrano un certa coerenza, le cose si complicano quando in alto di c. 335r leggiamo, su un foglio altrimenti bianco, l’intitolazione «VII vol. delle opere de’ poeti modonesi», e, subito dopo, a c. 336r, «3° vol. delle opere de’ poeti modonesi». Segue inoltre, da c. 337r, una nuova numerazione progressiva. Ac. 353r, quindi a brevissima distanza, leggiamo ancora: «X. volume dell’opre de’ poeti modonesi». Anche in questo caso, si rileva una numerazione originale con la seguente indicazione: «Tutti i versi di questo libretto sono del Melano, havuti dal S.r G. Guirino». Dicitura che ritroviamo anche a c. 304: «Tutti questi che seguono sono del [cassato: gra-] S.r Alessandro Melano modonese havuti dal S.r Giuglio Guirini a 6di maggio 1577».Ac. 350, riprende una numerazione interna, ma solo a partire da c. 15.

Queste annotazioni paratestuali confermano, quindi, la scarsa coerenza sequenziale dall’assetto del codice e la sua lacunosità all’interno dei singoli fascicoli. Da un punto di vista generale, si può osservare come l’aspetto di ‘coacervo’ del manoscritto mantenga in ogni modo la logica prevalente di quella che Teresa Nocita, lavorando su codici più antichi, ha descritto come ‘silloge municipale’,5 qui data da un progetto individuale. Non è certo possibile ricostruire il piano originario di Giacomo, ma, per quanto ci interessa, possiamo almeno cogliere il senso documentario del materiale disponibile. Attraverso una selezione a campione, il manoscritto consentirà di concentrarsi su alcuni autori più legati alle attività dell’accademia.

I tre accademici maggiormente presenti nel codice sono Valentini, Melani e Giovanni Falloppia.6Anche quest’ultimo, seppure in maniera più occasionale, è un nome che ritorna in alcuni momenti critici della storia dell’accademia. Non è tuttavia incluso da Castelvetro nel Racconto delle vite d’alcuni letterati del suo tempo, 7adifferenza degli altri due cui invece dedica ampio spazio proporzionalmente alla brevità dell’operetta. Giovanni Falloppia vive fino al 1581 e viene ricordato dal Tiraboschi come uomo di chiesa (un sonetto del manoscritto gli attribuisce, infatti, il titolo di Monsignore). La sua partecipazione alle originarie attività dell’accademia sembra documentata, ma possiamo ipotizzare una successiva logica di ‘ravvedimento’. In un sonetto, a c. 342v, si dichiara sessantacinquenne e prossimo alla morte. I suoi versi risultano dettati soprattutto da motivi occasionali. Per Alessandro Melani, le ricerche d’archivio restano ancora da fare.8Le cronache modenesi citate da Tiraboschi ne fissano la morte al 2 ottobre 1568, morte che fu celebrata in versi da vari autori, come testimonia anche il manoscritto di cui ci occupiamo. Castelvetro, nelle Vite, precisa che il Melani morì intorno ai 56 anni. L’arco cronologico della sua produzione è quindi antecedente a quella data e tendenzialmente ancora legato al periodo di attività dell’accademia, probabilmente continuata, con atteggiamento nicodemitico, anche dopo lo scioglimento d’autorità avvenuto nel 1545.9

Valentini e Melani, oltre ad essere esponenti di spicco della componente più letteraria dell’accademia, hanno diversi elementi in comune. Entrambi praticano una poesia petrarchistica particolarmente nutrita di erudizione, ricca di arditezze lessicali e sintattiche, non sempre incline alla cantabilità. Questo atteggiamento appare in sintonia con quanto Lodovico Castelvetro precisa nella prefazione all’edizione-traduzione-commento della Poetica di Aristotele, vale a dire la necessità di coltivare una lingua volgare che sia in grado di sostenere temi elevati, cólti, e non solo amorosi.10Una posizione analoga è infatti espressa da Valentini nell’esordio della canzone a Carlo V (Poi perch’amor per donna senza pare) nel momento in cui rivendica un’ispirazione poetica non amorosa.11Di Valentini il codice danese presenta una canzone politica dedicata a Ercole II, ancora inedita, la seconda quindi nota, di cui fornirò la trascrizione in altra sede.

Di Melani, oltre ad una serie di testi sparsi, una sezione del manoscritto presenta, come si è accennato, una raccolta sistematica di componimenti, una sorta di canzoniere che comprende 45 poesie, cui se ne possono aggiungere alcune tratte da altri fascicoli del codice. All’inizio di questa raccolta appare un’interessante esitazione del trascrittore. Il primo sonetto della serie, S’io ’l dissi mai che gli amor miei sian secchi, è trascritto cassando il primo emistichio dell’incipit di un altro sonetto, Questo acquoso terreno, ov’io son nato. Probabilmente Giacomo, siamo a c. 304r del ms, si ricorda di avere già trascritto il testo in precedenza (lo ritroviamo infatti a c. 238v), e riprende la trascrizione da S’io ’l dissi mai che gli amor miei sian secchi. Possiamo ipotizzare che nell’antigrafo utilizzato, quello avuto da Giulio Guirini, Questo acquoso terreno fosse con buona probabilità il primo sonetto della serie. Il componimento, in effetti, può svolgere una funzione introduttiva, se non veramente proemiale, per il fatto di esprimere l’identificazione del poeta con la propria terra e con la tradizione letteraria modenese. Trascrivo proponendo una punteggiatura interpretativa e sciogliendo senza indicazioni le abbreviature usuali:

Questo aquoso terreno, ov’io son nato,
ch’ogn’hora Secchia lavano et Panaro,
se poco a Cerer fu gradito et caro,
da Vener venne et da le Muse amato.

Queste spesso Hippocrene hanno cangiato
nei nostri fonti et sì quest’acque amaro
che se d’un cigno le Peligne ornaro,
due, l’avo e ’l padre vostro, a queste han dato.

Quella, di cui fu l’Oceano padre,
di mille belle nimphe nostre il grido
ir fa dal Varo a l’onda Ausonia estrema,

et hor fa la beltà vostra dal nido
lungi volar con lieve ale leggiadre,
oh ben aventurosa terra, et tema.

Sullo stesso foglio, prima di questo abbiamo un altro sonetto dedicato a Tarquinia Molza, Face, che chiudi i balli, et chiudi insieme, presente anche a c. 306v con l’indicazione, a mo’ di titolo, «sopra il ballo della torza». È probabile che anche il componimento trascritto sopra sia dedicato a Tarquinia, i cui ascendenti diretti, Francesco Maria Molza e Camillo Molza, morto a 45 anni nel 1558, meritano il ricordo poetico rispettivamente come «avo» e come «padre». È utile ricordare che al giovane Camillo Molza, di cui fu precettore Giovanni Berrettari (così come lo fu poi della stessa Tarquinia), era stato dedicato un ciclo di sonetti scritti da diversi membri di spicco dell’accademia12 e che di lui fa menzione anche Francesco Patrizi nell’Amorosa visione.

Le prime due quartine del componimento sono marcate dall’insistenza deittica con cui l’io esprime la propria filiazione geografica e indica il territorio modenese, ricco di acque, come degno della fonte Ippocrene, di cui racconta Ovidio nelle Metamorfosi. È Ovidio, infatti, il «cigno» evocato nella seconda quartina, le cui muse sono denominate in riferimento alla natale Sulmona, città abitata originariamente dal popolo dei Peligni. Al poeta degli Amores, quindi, sono enfaticamente avvicinati Francesco e Camillo Molza. Anche quest’ultimo, secondo le testimonianze, fu localmente stimato come scrittore in volgare. Egli, come ricorda Nicola Catelli nella recente voce del DBI dedicata a Tarquinia, progettava di curare la stampa delle opere paterne. Il sonetto è emblematico di una poesia giocata all’insegna della complessità sintattica, dell’erudizione e della ricerca lessicale. L’erudizione geografica, in particolare, è ricordata da Castelvetro come caratteristica del Melani. La prima terzina sembra riferirsi ancora ad Ippocrene, come sorgente figlia di Oceano, ma non va esclusa la possibilità di un più generico richiamo a Venere. Per metonimia, Ippocrene rappresenta la poesia che diffonde la fama delle fanciulle modenesi in tutta Italia, o, più precisamente, nell’Italia del nord, secondo la diagonale che dal confine naturale del Varo segue i bacini fluviali fino all’Adriatico. Ora, in conclusione, è la bellezza di Tarquinia che comincia ad acquistare fama persino lontano da Modena, definita terra fortunata e per questo cantata dalla poesia dell’autore. Da notare la tmesi ritmico-sintattica della chiusa, la cui fortissima intensità è ottenuta attraverso l’inserto esclamativo dell’ultimo verso che separa la coppia di sostantivi «ale» e «tema», entrambi retti dalla preposizione «con». Tarquinia è la nuova ninfa di Modena, la sua bellezza comincia ad affacciarsi dal «nido» e, quindi, come un uccellino nel suo primo tentativo di volo, ha ali ancora inesperte e prova timore.

Un altro sonetto del Melani, preso a campione all’interno di una base di riferimento petrarchesca incrementata di immagini e di metafore classicistiche, può confermare il gusto per la sintassi complessa e per la sperimentazione lessicale. È il sonetto dedicato a Lucia Bertana «nella tornata da Roma del suo consorte», qui trascritto con grafia e interpunzione interpretativa:

Luce, che al tuo bel sol ti ricongiugni
che in meriggio il terreno orn[ò] latino
mentre che ad Aquilone il pie’ vicino
haveva l’altro sol ch’ora ’l fa lugni,

hor che ’l tuo col suo raggio insieme aggiugni,
veggio a Flora dar luogo il dio del vino,
et non più visto arabico giardino,
secchi ottobri tornare in verdi giugni,

et ninfe odo cantar in versi gai:
«Luce, che fer le Muse et Vener chiara,
né sciemi giunta, come ogn’altra, al sole,

te come privilegia e i tuoi bei rai
Phebo cui sei, più ch’altra mai fu, cara,
così non vedi nube nel tuo sole».

Il senso del sonetto resta in parte oscuro, giocato con voluta ambiguità sull’immagine metaforica dei due soli cui si aggiunge il riferimento al sole astronomico. A livello lessicale, notiamo l’inabituale forma ‘lugni’ per ‘lungi’,13 di cui si trova un’occorrenza quattrocentesca nel canzoniere dell’umbro Nicola da Montefalco, autore del Filenico.14 Lucia, come in numerosi altri sonetti di Alessandro Melani, è evocata col nome poetico di «Luce» e connotata dalle suggestioni semantiche che ne derivano. Nel Racconto delle vite d’alcuni letterati del suo tempo, il cui titolo completo vale qui la pena di ricordare -riporta la dicitura «scritte per suo piacere», Lodovico Castelvetro, dopo aver detto che il Melani scrisse molti sonetti volgari e che era lodato «dagli intendenti, con tutto che fossero reputati alquanto oscuri», con gusto novellistico ricorda un aneddoto in cui fu sorpreso in casa di Lucia in assenza del marito di lei.15

L’interpretazione più economica dei versi ci porta ad intendere che il poeta celebri il ricongiungimento coniugale di Lucia con il marito così da poter cantare, in tutta legittimità, lo splendore dell’amata. Data la complessità del sonetto proponiamo la seguente parafrasi di lavoro: ‘[vv. 1-4] Oh Lucia, che ti ricongiungi al tuo bel sole (cioè al tuo consorte), che col suo ritorno illuminò di luce meridiana la terra italica mentre il sole astronomico si trovava al Nord, dal quale ora è lontano (cioè ora è ritornato al Sud), [vv. 5-8] ora che il tuo raggio aggiungi al suo (cioè al luminoso tuo consorte), vedo a Flora (cioè alla primavera) cedere il passo il dio del vino (cioè l’autunno), e come in un favoloso giardino orientale il secco ottobre ravvivarsi in giugno, [vv. 9-11] ele ninfe intonare canti gioiosi, che dicono: «Oh Lucia, che le Muse e Venere (cioè la forza della poesia e dell’amore) fecero splendente al punto che non si attenua la tua luce, come avviene per ogni altra donna, di fronte al sole , [vv. 12-14] nello stesso modo in cui Febo privilegia te e i tuoi luminosi raggi, tenendoti più cara di quanto fu mai ogni altra donna, così non c’è nube che possa offuscare lo splendore del tuo sole’. Per il motivo topico del sole offuscato di fronte all’amata, già ben presente nella poesia delle Origini, possiamo ricordare l’esempio di Rvf 115, dove però ad entrare in competizione col sole astronomico è l’io lirico, che lo vince ottenendo lo sguardo di Laura e, nella terzina conclusiva, con ironia ne constata il sentimento di umiliazione: «A lui la faccia lagrimosa et trista / un nuviletto intorno ricoverse: / cotanto l’esser vinto li dispiacque».

Questi due sonetti del Melani, presi a campione all’interno di un relativamente ampio corpus di rime ancora inedito, possono contribuire a definire alcune coordinate della pratica petrarchistica d’area modenese nel medio Cinquecento. Nell’attesa di svolgere una trascrizione e un’analisi più sistematica di tale corpus, i due sonetti trascritti possono già permetterci di confermare il giudizio su Melani trasmessoci da Castelvetro, che ne sottolineava la notevole densità compositiva e la propensione all’oscurità.

In termini storico-critici, pur quindi in prima approssimazione, va rilevata l’esplicita trasgressione al bembiano equilibrio tra gravità e piacevolezza, o almeno la propensione a una certa libertà nella pratica petrarchistica. Mentre Valentini, di fronte alla lirica monolinguistica e monotematica, opta per temi di ordine politico-morali e per costruzioni testuali lunghe e complesse in sostanza per un petrarchismo che possiamo definire senz’altro politico -, Alessandro Melani resta invece all’interno della tematica amorosa e della forma sonetto e, con le forze che gli sono proprie, sceglie di incrementare lo scarto verso la gravitas linguistica e stilistica.

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1 Per il dialogo di Fenucci come documento accademico e per gli esempi di produzione in versi mi permetto di rinviare a A. Roncaccia, Il metodo critico di Ludovico Castelvetro, Roma, Bulzoni, 2006.

2 Dopo il monumentale studio di M. Maylender (Storia delle accademie d’Italia, 5 voll., Bologna, Cappelli, 1926-1930) il problema della classificazione delle accademie è stato posto successivamente da C. Pecorella, Note per la classificazione delle Accademie italiane dei secoli XVI-XVIII, in «Studi sassaresi», ser. iii, 1, 1967-68, pp. 205-31. Prendendo spunto dall’embrionale partizione maylenderiana tra salotti letterari e accademie vere e proprie, Pecorella osserva che «l’assetto istituzionale, la previsione di norme», ovvero l’approdo ad uno statuto accademico ufficiale, «suole [...] conseguire ad una già prolungata attività, alla constatazione, se non altro, che una determinata serie di incontri ha avuto effetti positivi per i partecipanti sicché sia prevedibile che essi proseguano ed opportuno regolarne le modalità» (p. 206). Ne consegue, quindi, «che anche gli enti effimeri, le accademie di breve, brevissima, durata, hanno un loro valore e richiedono un esame spassionato, ed è anche per questo che [...] il criterio dell’assetto istituzionale pur se valido non è di per sé idoneo a consentire una classificazione del materiale che ne abbracci la maggiore quantità possibile» (p. 209).

3 Come osserva Susanna Peyronel Rambaldi: «Questi intellettuali modenesi erano dunque ancora straordinariamente legati ad una società urbana e mercantile. I traffici cittadini, in cui continuano ad essere coinvolti, li integrano strettamente nella comunità di cui fanno parte, conferendo loro un prestigio ed un ascendente sulla popolazione che sarà difficile riscontrare nella società italiana anche soltanto qualche decennio più tardi. La mancanza di un potere signorile forte e consolidato che li condizioni direttamente, crea d’altra parte in Modena una situazione particolare rispetto ad altre città italiane, per cui lo scambio culturale tra gli intellettuali e la popolazione dei ceti sociali più attivi appare più facile e meno mediato» (Speranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano, Angeli, 1979, p. 232).

4 Si rinvia a A.Roncaccia, Un frammento critico sulle ‘Rime’ del Bembo attribuibile a Ludovico Castelvetro, in «Aevum», lxiii (1999), pp. 707-33.

5 Si veda T.Nocita, Per uno studio tipologico dei canzonieri. I codici municipali di lirica italiana antica,in Actas del I congreso internacional Convivio para el estudio de los cancioneros, Granada, 13-16 octubre 2004, Departamento de Filología Románica, Facultad de Filosofiía y Letras, Unversidad de Granata, 2006, pp. 577-84.

6 I tre nomi ricorrono nei documenti noti citati da Dalmas nel capitolo dedicato a Valentini e alla critica dantesca modenese in D. Dalmas, Dante nella crisi religiosa del Cinquecento italiano. Da Trifon Gabriele a Lodovico Castelvetro, Manziana, Vecchiarelli, 2005, in part. alle pp. 212-22. Le pagine di Dalmas su Castelvetro e Valentini sono utili per ricostruire la componente letteraria dell’accademia, anche nei termini di una vera e propria scuola modenese.

7 Ora pubblicate in una nuova trascrizione annotata nel volume Ludovico Castelvetro, Filologia ed eresia. Scritti religiosi, a cura di G. Mongini, Brescia, Morcelliana, 2011, pp. 285-343.

8 Mongini riassume bene quanto è noto della biografia del Melani: «Su Alessandro Melani (Modena 1512 -ivi, 1568) si hanno notizie scarse e frammmentarie. Si formò, come scrive il Castelvetro, a Ferrara e a Bologna, dove seguì i corsi di Ludovico Boccadiferro e Antonio Bernardi. Nel 1538 fu per qualche tempo al servizio di Girolamo Aleardo. Può essere annoverato in sostanza tra gli Accademici modenesi, se pur non compare tra i firmatari del formulario di fede del 1542. Fu tuttavia tra coloro – il Porto, il Grillenzoni e lo stesso Castelvetro – che scrissero il 3 luglio dello stesso anno al cardinal Sadoleto protestando la loro innocenza, e appare assai significativa dell’atteggiamento nicodemitico del Milani l’affermazione che egli “nelle cose exteriori non si partiva dalle consuetudini della santa romana chiesa”. Svolse ruoli pubblici, e fu più volte tra i Conservatori della città; per il resto visse ritirato, dedicandosi agli studi e alla poesia. Secondo un costume diffuso tra gli Accademici e tipico poi del movimento eterodosso dei ‘fratelli’ modenesi, nel 1558 durante la detenzione a Roma del libraio Antonio Gadaldini ebbe contatti con il figlio di quest’ultimo, Cornelio, per sovvenirlo nelle necessità in cui versava la famiglia, ben consapevole che la vicenda del padre riguardava “la cosa comune a tutti”. Pur avendo abiurato segretamente nelle mani del Morone, incorse nelle indagini dell’Inquisizione, alle quali solo la morte lo sottrasse, il 2 ottobre 1568.Ineffetti il 26 marzo dello stesso anno era stato citato, nel corso di una deposizione agli inquisitori, dal tessitore Antonio Maria Ferrara, che lo aveva nominato tra i ‘fratelli’ e le ‘sorelle’ (tra i quali figuravano Giulio Sadoleto, Giovanni Rangoni, Antonio Gadaldini, Giacomo Graziani, Francesco Camorana, Bartolomeo della Porta e altri ancora) cui si rivolgeva per la colletta delle elemosine da distribuire ai bisognosi della comunità» (Mongini, Filologia ed eresia cit., pp. 328-29).

9 Si rinvia a Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi cit.

10 «Senza che io ho giudicato che questa fosse opportunità convenevole e da non tralasciare da fare una volta esperienza, il che da niuno infino a qui non pare che sia stato tentato, se fosse possibile che con le voci proprie e naturali di questa lingua si potessono fare vedere e palesare altri concetti della mente nostra che d’amore e di cose leggiere e popolari, e si potesse ragionare e trattar d’arti e di dottrine e di cose gravi e nobili senza bruttare e contaminar la purità sua con la ’mmondizia delle voci barbere e scolastiche, e senza variare e alterar la simplicità sua con la mistura delle voci greche e latine quando la necessità non ci costringe a far ciò, accioché, riconoscendosi la sufficienza e ’l valore di questa lingua ancora in questa parte, non resti priva più lungamente della debita sua lode», Ludovico Castelvetro, Poetica d’Aris-totele vulgarizzata e sposta, a cura di W. Romani, Bari, Laterza («Scrittori d’Italia», 264-265), 1979, vol. i,p. 4.

11 «Dico che poi, donde a gran fama m’alze, / i vanni Amor non dammi (come sentir i più pungenti strali / et de le faci più cocenti fammi), / convien pur ch’io m’inalze / a gloria e le m’impenne altronde l’ali» vv. 17-22; in A.Roncaccia, Petrarchismo metrico del Cinquecento. La canzone di Filippo Valentini a Carlo V,in «L’Abaco», 2-3 (2003-2004), pp. 137-72.

12 Si veda Roncaccia, Il metodo critico cit., p. 100 ess.

13 A poter sorprendere non è tanto l’esito fonetico, pur eccezionale, quanto il suo uso, a Cinquecento inoltrato, in un contesto linguistico di base petrarchista.

14 Devo l’indicazione a Simone Albonico, che ringrazio. Per la lettura diacritica e generale del sonetto, mi sono stati utili i suggerimenti di Simone Albonico, di Sabrina Ferrara e di Pietro Petteruti Pellegrino.

15 «Ora godendo dell’amor suo, vi fu colto in casa una notte da un servitore nel tempo che Paolo III aveva mandato Gurone in Inghilterra [...]. Ma la donna [...] ricoperse questa sciagura dandogli da intendere che il Melano era quella notte in casa non per lei ma per una damigella [...]. Là onde egli era più che prima caro al marito, né la donna, o il marito, facevano cosa niuna senza il consiglio suo» (Mongini, Filologia ed eresia cit., pp. 294-95).