Revue Italique

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Provare «l’ultimo valor» di amore. Sensualità ed erotismo negli Amorum libri di Boiardo

Tiziano Zanato

L’avvio dell’«epthalogos», vale a dire di Amorum libri I 50,1 è una dichiarazione di poetica che getta luce su una delle leve fondamentali dell’ispirazione boiardesca:

Quella amorosa voglia
che a ragionar me invita
n rime ascose e crude [...].

In questi versi, la spinta all’ispirazione viene riconosciuta nella amorosa voglia, quel prorompente desiderio di possesso della donna amata che invita alla poesia, declinabile, in questo caso, in rime ascose e crude: affermazione da interpretare nel contesto della lirica,2ma anche più in generale estendibile al processo di mimetizzazione di una materia, quella legata alla sfera erotica, poco convenzionale all’interno della lirica d’amore in volgare. Va infatti preliminarmente chiarito che l’Eros di Boiardo non è mai esplicito, non si spinge a espressioni o situazioni sessualmente evidenti, come spesso accade negli elegiaci latini, nonostante la lirica degli Amorum libri risulti ricca, e talora sovrabbondante, da questo punto di vista. Tale esuberanza del sentimento amoroso si coglie soprattutto nel primo libro, che per definizione è il liber gaudii, della zoglia, del piacere, del diletto, laddove la successiva rottura dei rapporti con Antonia implica anche un raffreddamento della temperatura erotica nel secondo e in parte nel terzo libro, nei quali subentra una ben masochistica voluptas mori; nel liber tercius la sensualità torna a farsi valere, ma spesso collegata al ricordo del passato felice, finché non viene bollata come peccaminosa, fangoso error, nei componimenti conclusivi, da III 55 alla fine.

Uno degli aspetti in cui meglio si rivela l’Eros del poeta va riconosciuto nella sollecitazione sensoriale, di tutti i sensi, e in primis della vista, che riesce per definizione la porta maestra attraverso cui entra e si consolida nel cuore dell’innamorato l’amore per la donna amata, fomentato dalla di lei bellezza. Di qui la vasta serie di tópoi instauratisi fin dalle origini della poesia volgare italiana e ben presenti in Boiardo, cui però spetta anche un’interpretazione più partecipata e diretta, più calorosa se non più ‘‘spinta’’ della dinamica visiva. Pare questo il caso della ricorrente insistenza sul canone coloristico associato alla bellezza dell’amata, che comincia con il bianco, in un tripudio di presenze:

Pura mia neve che èi dal ciel discesa,
candida perla dal lito vermiglio,
bianco ligustro, bianchissimo ziglio,
pura biancheza che hai mia vita presa;

o celeste biancheza, non intesa
da li ochi umani e da lo uman consiglio,
se a le cose terrene te assumiglio
quando
fia tua vagheza mai compresa?

Ché nulla piuma del più bianco olore,
né avorio né alabastro può aguagliare
il tuo splendente e lucido colore.
3

L’inno alla biancheza di Antonia va interpretato, ad un primo e più immediato livello, come esaltazione della sua purezza, quale si conviene a un «viso verginil»4come il suo. Eppure, se si pensa che già Dante aveva suggerito, in Convivio IV xxii 17, essere la bianchezza «uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro»,5pare agevole collegare il bianco anche al corpo dell’amata,6alla sua splendida pelle alabastrina, perlacea, nivea, gigliacea, e così via, con una serie di paragoni che si risolvono in furia nominatrice, espressione del carattere ossessivo della sensualità di Boiardo.

Il successivo sonetto degli Amores I 11si indirizza sul rosso, fermato questa volta sull’unica immagine della rosa, che apre («Rosa gentil»), interfolia («Rosa gentil» v. 9) e chiude («gentil rosa») il componimento, con un tutto-pieno che non esclude, pur qui, una vena di morbosità. In questo contesto, la rosa non può che alludere al colore rosso delle labbra di lei, come conferma III 19, 6-9, dove si accenna alle parole che escono dalla bocca dell’amata, fra il rosso delle labbra e il bianco dei denti:

quando vedrò più mai nel dolce dire
da quelle rose discoprir le perle?
Quando vedrò più mai lo avorio a l’ostro
nel suave silenzio ricoprire?

La metafora della rosa rossa condensa in sé un grumo di sensualissime derivazioni, vuoi per il colore, che riconduce al fuoco della passione; vuoi per il figurato, le labbra, sineddoche dell’amata e metonimia dei suoi baci; vuoi per la plurisignificazione simbolica della rosa, già viva nella classicità e poi nel medioevo, riconoscendosi in essa «bellezza e fugacità, femminilità e segni di un richiamo di tenerezza, da una parte; il centro mistico, la fonte di ogni rigenerazione, dall’altra parte; all’incrocio di questi due assi semantici, il Giardino di Eros, il Paradiso, e il sesso della donna».7Torneremo su questa pregnantissima metafora, qui oltretutto collegata a un altro vocabolo plurisemico come «chiostro», definito dall’aggettivo «fiorito» e dunque indicante il giardino nascosto e in fiore dell’amata; basterà ora sottolineare l’esplicita esaltazione della vista, come senso fomentato e soddisfatto in grado massimo dalla bellezza di Antonia: «tu sola sei splendor al secol nostro, / che altrui ne la vista ardi, e me consumi» (vv. 7-8).

Ancora il vedere è implicato nel sonetto I 12, terzo della serie consecutiva sui colori, dove appare l’oro dei capelli dell’amata, tópos già petrarchesco (e prima latino), che Boiardo tratta con quel surplus di ridondanza lessicale che continua a rispecchiare l’aspetto impulsivo del suo fare poetico e della sua passione amorosa:

Non fia mai sciolto da le treze bionde,
crespe, lunghe, legiadre e peregrine
che m’han legato in sì suave loco!
8

Non si erano mai visti cinque aggettivi di seguito per fotografare le qualità dei capelli amati; e si tratta di termini dal significato pieno, nessuno sinonimo degli altri. L’accumulazione che ne deriva torna, collegata ora a sostantivi, nella ricapitolazione dei colori dell’amata, gioia per gli occhi e per i sensi dell’innamorato:

Quando ebbe il mondo mai tal maraviglia?
Fiamma di rose in bianca neve viva,
auro che il sol de la sua luce priva,
un foco che nel spirto sol se impiglia,

candide perle e purpura vermiglia
che fanno una armonia celeste e diva [...].9

Il sonetto conclude le lodi di Antonia chiamandola «augella da l’aurato artiglio», sorta di nuovafenice (dato il parallelo adducibile con Rvf 185, 1: «Questa fenice de l’aurata piuma») con l’inedito particolare delle unghie «acérés et couverts de vernis doré, fort suggestifs dans leur sensualité».10

Ancora l’accumulazione è la figura cui si accompagna l’esaltazione della visione di lei, infatti unita all’anafora del verbo vedere, espedienti retorici ‘‘ossessivi’’ che, stante anche la struttura monoperiodale del componimento, sono atti a ribadire particolare su particolare della bellezza inarrivabile dell’amata:

Chi non ha visto ancora il gentil viso
che solo in terra se pareggia al sole,
e l’acorte sembiance al mondo sole
e l’atto dal mortal tanto diviso;

chi non vide fiorir quel vago riso
che germina de rose e de viole;
chi non audì le angeliche parole
che sonan d’armonia di paradiso;

chi più non vide sfavilar quel guardo
che come stral di foco il lato manco
sovente incende e mette fiame al core;

e chi non vide il volger dolce e tardo
del suave splendor tra il nero e il bianco,
non scià né sente quel che vaglia Amore. 11

Possiamo glissare sull’apparizione del colore nero, accanto al bianco già noto, qui incaricati di segnalare il nero dell’iride e il bianco dell’occhio (elementi, l’uno e l’altro, già petrarcheschi,12dunque più ‘‘neutri’’), ma andrà notato che in questo sonetto l’anafora del verbo vedere risulta in un caso spiazzata per l’inserzione di una diversa prospettiva sensoriale, legata all’udito (v. 7«chi non audì»), altro senso implicato nello stato di euforia dell’amante alla presenza dell’amata, alla contiguità fisica con lei. Le sue «parole» e «voce» hanno fatto «di sé don sì giolivo» al poeta (III 43, 10-1), «lo accento gentil de le parole» lo rendono «de li altri più felice in terra» (I 24, 12-4), tanto che questa compenetrazione fra la voce di lei e il piacere che essa provoca in lui resterà come viatico anche nei momenti di crisi:

Io sento ancor nel spirto il dolce tono
de l’angelica voce, e le parole
formate dentro al cor ancor mi sono.
Questo fra tanta zoglia sol mi dole,

che tolto m’ha Fortuna il rivederle:
quando vedrò più mai nel dolce dire
da quelle rose discoprir le perle?
Quando vedrò più mai lo avorio a l’ostro
nel suave silenzio ricoprire?
Ligiadre parolete, il tacer vostro
contro a mia voglia a lamentar me invita.
Ancor sarà che io senta il gentil sòno,
e questa spene sol me tene in vita,
per questa il mondo ancor non abandono. 13

Del tutto inconsueto, in questa ballata, è il tipo di interscambio fra l’udito e la vista, dato che il poeta si rammarica di non poter «riveder» le «parolete» dell’amata: siamo davanti a un caso sui generis di ‘‘visibile parlare’’, in cui non sono le parole a rendersi leggibili (come in certi pannelli gotici o tardogotici), quanto invece il movimento delle labbra, sicché il poeta si dice qui ammaliato, più che dal tono della voce, dalla sensualissima bocca da cui quel suono proviene. Il più affinato dei sensi dell’innamorato, quello che ne sprigiona la più inebriante voluttà è l’olfatto, sempre legato, direttamente o per via mediata, al profumo che emana dal corpo di lei: come quando il poeta rivela di essere stato «tanto vicin» al vergine viso di Antonia, «che il dolce odore / ancor me sta nel core», e pure a distanza di tempo «starà sempre» con lui.14Non è dunque un caso che gli «amorosi odori» vengano associati alla pienezza della «voglia» dell’amante, la quale ricerca sensazioni forti in grado di soddisfarla:

Datime a piena mano e rose e zigli,
spargete intorno a me viole e fiori;
ciascun che meco pianse e mei dolori,
di mia leticia meco il frutto pigli.

Datime e fiori e candidi e vermigli:
confano a questo giorno e bei colori;
spargeti intorno d’amorosi odori,
ché il loco a la mia voglia se assumigli.15

Nemmeno è casuale che lo stesso sintagma «amorosi odori» qui fruito venga applicato ai profumi che sprigionano dalla natura primaverile in fiore, non per nulla innescati da Antonia stessa, che canta e danza con due compagne, come le Grazie:

La terra lieta germinava fiori
e il loco aventuroso sospirava
di dolce foco e d’amorosi odori.16

La sensualità del quadro dipende qui dalla raffigurazione della natura come corpo vivo, profumato e sospirante, che funge da proiezione del corpo di lei e ne accompagna la performance. Il ‘‘corpo’’ della Natura conosce la sua massima proliferazione di odori in primavera, la stagione infatti degli amori, che coinvolge uomini e animali nello stesso istinto riproduttivo. Oggi sappiamo che i profumi sono legati ad aree dell’epi-talamo connesse alla stimolazione del piacere e che i feromoni rappresentano una vera e propria «esca atrativa»17 per gli esseri dotati di sensorialità; Boiardo, naturalmente, ignora i meccanismi chimici, biologici e neurologici di tali fenomeni, ma ne conosce perfettamente gli effetti, vuoi per esperienza diretta (si presume), vuoi anche ciò che qui maggiormente rileva per la via letteraria. In origine sta Lucrezio, con la pagina iniziale del De rerum natura, il cui inno a Venere sigilla in un nodo inestricabile la reviviscenza della natura in primavera con la forza genitabilis instillata dalla dea dell’amore a genus omne animantum. La collocazione da parte di Boiardo del suo innamoramento in primavera, oltre a obbedire a un inevitabile luogo comune della poesia provenzale e antico-italiana, risente anche di un aspetto di incoercibilità, come fosse il necessario rispetto di una legge di natura, ed è per questa ragione che i primissimi componimenti degli Amorum libri si situano sotto il segno del proemio lucreziano, che conosce l’acme della sua influenza nel sonetto «Ad Amorem»:

Alto diletto, che ralegri il mondo
e le tempestee’venti fai restare,
l’erbe fiorite e fai tranquillo il mare,
et a’ mortali il cor lieto e iocondo,

se Jove sù nel cielo, e giù nel fondo
fecisti il crudo Dite inamorare,
se non se vide ancora contrastare
a le tue forze primo né secondo,

qual fia che or te resista, avendo apreso
foco insueto e disusato dardo
che dolcemente l’anima disface?
18

Il diletto che funge da vocativo iniziale è esattamente la voluptas, riferita a Venere, con cui si apre il testo di Lucrezio, vale a dire il piacere collegato all’irreprimibile, perché fisiologico, desiderio amoroso; e lucreziani sono altresì i richiami agli effetti della primavera sulla natura, dalla mancanza di tempeste e venti all’apparizione dei fiori e alla placidezza del mare:

te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti.19

Insomma, la sottomissione ad Amore del giovane conte di Scandiano obbedisce anche, ma ovviamente non solo, a un mito di fertilità, con il coinvolgimento di anima e corpo, sentimenti e istinti. Non per nulla Antonia viene descritta, sempre nelle pagine iniziali del canzoniere, come una novella Flora-Venere, che fa resuscitare, con l’ecosfera, anche il desiderio amoroso in ogni essere, «vuol che ’l mondo se inamori», o altrimenti detto «omnibus incutiens blandum per pectora amorem»:20

Il canto de li augei de fronda in fronda
e lo odorato vento per li fiori
e lo ischiarir de’ lucidi liquori,
che rendon nostra vista più ioconda,

son perché la Natura e il Ciel seconda
costei, che vuol che ’l mondo se inamori;
così di dolce voce e dolci odori
l’aria, la terra è già ripiena e l’onda.

Dovunque e passi move on gira il viso
fiamegia un spirto sì vivo d’amore
che avanti a la stagione el caldo mena.

Al suo dolce guardare, al dolce riso
l’erba vien verde e colorito il fiore
e il mar se aqueta e il ciel se raserena.21

Viene sottolineata l’interscambiabilità fra Antonia e la Natura-Primavera, tale che la prima scatena gli effetti della seconda e quest’ultima concentra nella donna l’immensa sua forza: si può dire che l’amata non è solo una forza della natura, ma è la forza della Natura e fa tutt’uno con lei:

Io vidi in quel bel viso Primavera,
de erbetta adorna e de ogni gentil fiore,
vermiglia tutta, d’or, candida e nera.22

Al mito di Venere-Flora-Primavera che si reincarna in Antonia si accompagna, sul piano espressivo, un paniere di immagini naturali, interpretabili su due livelli. Una di queste è lo sbocciare dei fiori, per il quale Boiardo ricorre al termine aprire, come si vede a I 39, 5-10:

e vidi a la rogiada matutina
la rosa aprir d’un color sì infiamato
[...]

e vidi aprire a la stagion novella
la molle erbeta [...]

oppure a III 25, 38-40:

Apria Natura ogni suo bel lavoro:
la palida viola era fiorita
e la sanguigna rosa e il bianco ziglio.

L’aprirsi dei fiori o dell’erba sotto la forza incalzante della primavera è dettata dalla stessa vis riproduttiva di cui parla Lucrezio, sicché appare lecito proporne, accanto a una lettura letterale, un’altra di secondo livello, con riferimento al tenero dischiudersi delle fanciulle in fiore alle pulsioni della carne, se non proprio allo sbocciare del loro sesso. Va da sé che tale interpretazione si appoggia sull’impiego anfibologico dei vocaboli fiore o rosa a cui abbiamo già accennato, ma che riesce agevole confermare. Nel sonetto II 24, dedicato all’amico Guido Scaiola che, innamorato a sua volta (e forse proprio di una sorella di Antonia Caprara), sta godendo di un amore corrisposto, a differenza di Matteo Maria, la situazione dei due è descritta in termini contrapposti con le seguenti metafore:

Io nel diserto, e tu stai nel giardino;
tu favorito, et io pur come soglio;
io come vuoli, e tu non come voglio,
prendi la rosa, dove io prendo il spino23

dove la condizione di favorito in amore è resa esplicita dallo stare nel giardino (il paradiso delle delizie) dell’amata, in cui poter cogliere l’agognata rosa.A III 41 il poeta, in viaggio per Roma e dunque lontano dalla sua donna, teme per lei perché «in terra è mal sicuro un sì bel fiore» (v. 14), ripetendosi poco oltre:

Quante volte la facia e il pensier volto
dove lasciai tra l’erbe il mio bel fiore!
Quante volte se cangia il mio colore
temendo che d’altrui non sia ricolto!24

Non sembrano dunque sussistere dubbi circa la possibile e quasi univoca equazione fra il fiore o la rosa o il giardino e il sesso muliebre, e sulla base di questa agnizione può forse acquistare una luce diversa il sonetto I 46, dove il poeta si rivolge al «fiore / che fu da quella man gentil accolto,/esìlegiadramente ad oro involto», vale a dire al dono di un fiore (una rosa?) da parte di Antonia, sapientemente confezionato con fili d’oro (esplicita metafora dei capelli di lei): regalo denso di implicazioni freudiane, sottolineate dall’essere ora quel fiore, una volta colto, divenuto «secco, sanza foglie e sanza odore, / discolorito, misero e disciolto». Del resto, casi di sostituzione dell’oggetto, anche meno scabrosi, non mancano: nel vicino sonetto I 38 il loculus auro textum di cui parla la rubrica, vale a dire il portamonete in tessuto ricamato d’oro, regalato dall’amata all’amante, viene riempito di baci da quest’ultimo, naturalmente indirizzati a ciò che quel dono simboleggia, vale a dire «la man legiadra» che ne è l’artefice; e sarà il caso di notare, in questo componimento, l’unica occorrenza in tutto il canzoniere del termine «basi», di chiara matrice catulliana, con il quale la sfera dei sensi del protagonista implicati nel rapporto amoroso si allarga al tatto e al gusto. 25

L’equivocità lessicale inerente al sesso femminile colpisce anche l’altro genere, quello maschile, ed è individuabile ad esempio nel «destrier fremente e arguto», «Frenato [...] di fiamma, e bianco tutto», guidato da Cupido, nella canzone (non per nulla definita in rubrica «Alegoria») II 22:26 si tratta qui solo di un sospetto, per quanto sostenuto dalla possibile chiave freudiana in cui può essere letta l’allegoria del cantus, vale a dire il conflitto tra desiderio dei sensi e sua frustrazione. Su questa base risulta più marcata l’ambivalenza dell’altro (e ultimo) ricorso di destrier aI 33, 37-9:

Qual capestro, qual freno on qual’ catene,
qual forza tene el destrier ch’è già mosso
nel corso furïoso, et ha chi el sproni?

Sostiene la doppia lettura Denise Alexandre-Gras, 27la quale anzi punta l’attenzione su svariati altri termini racchiudenti una possibile interpretazione fallica, come ferro adunco, che indica l’àncora nella metafora della navigazione amorosa,28oppure cor, naturalmente solo in certi contesti: ad esempio a III 14 e 15, 29cui sarà da aggiungere III 54, dove ritorna il tropo già noto del paradiso. 30Altrove, la duplicità accompagna vocaboli già tradizionalmente à double entendre, come sembra accadere nell’ultima canzone degli Amores (III 59), definita in rubrica «Moralis alegoria» e investita del compito di allontanare gli «spirti perregrini» sulla terra dal giardino allettante, ma altamente pericoloso, dell’amore: tali le espressioni, alludenti a un rapporto sessuale, «Credeti a me che giacque sopra al prato» (v. 22), «Se ve colcati ne’ suavi odori / che surgon quinci a la terra fiorita» (vv. 25-26), «driciati ad erto la animosa fronte; / avanti aveti il monte» (vv. 58-59). Sembra inverosimile, ma si comprende con la tiepidezza con cui Boiardo si accinge a chiudere la sua vicenda d’amore, che un cantus di condanna dell’amore-lussuria implichi un corredo di immagini ad alto tasso di ambiguità sessuale, sintomo di una psiche niente affatto doma e di una guarigione ancora incompleta.

La sensualità boiardesca appare propensa a diffondendersiearivelarsi anche direttamente in situazioni e atmosfere prive d’ambiguità. I brividi d’amore, che già avevano percorso la schiena di Francesco Petrarca nel vedere una «pastorella [...] bagnar un leggiadretto velo», «tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, / tutto tremar d’un amoroso gielo»,31 tornano amplificati, per echi diretti collegati a una straripante potenza dell’Eros, nel sonetto I 23:

Io vado tratto da sì ardente voglia,
che ’l sol tanto non arde ora nel celo,
benché la neve a l’alpe, a’ rivi il gelo,
l’umor a l’erbe, a’ fonti l’unda toglia.

Quando io penso al piacer che ’l cor me invoglia,
nel qual dal caldo sol me copro e velo,
io non ho sangue in core o in dosso pelo
che non mi tremi de amorosa zoglia.

Motore di tutto è l’ardente voglia, l’infiammata libido dell’innamo-rato, che brucia più del sole solstiziale, tanto da provocare un tremito in tutto il corpo che è causa di amorosa zoglia, di vero e proprio godimento fisico, oltre che emotivo. La situazione si ripete, nei medesimi termini, nel libro terzo, sotto il solleone:

Adesso che il ciel arde e il mondo avampa,
sotto il sol vado, torrido e affanato,
dove alta voglia e gran desir me chiama32

ma anche può essere capovolta, inquadrandosi nel gelo invernale, che non cambia né fa calare la vis erotica del protagonista:

Tornato è il tempo rigido e guazoso,
che la notte sù crese e il giorno manca,
il ciel se anera e la terra se imbianca,
l’unda è concreta e il vento è ruinoso.

Et io come di prima son focoso,
né per fredura il mio voler se stanca;
la fiama che egli ha intorno sì lo affranca
che nulla teme il fredo aspro e noglioso.

Io la mia estate eterna haggio nel petto,
e non la muta il turbido Orïone
né Hyàde né Plyàde né altra stella.

Scaldami il cor Amor con tal diletto
che verdegiar lo fa d’ogni stagione,
ché il suo bel Sole a li ochi mei non cella.33

Emerge qui con evidenza, anche stilistica,34il precedente dantesco della petrosa Io son venuto al punto della rota, tutta giocata sulla contrapposizione tra la stagione fredda e il persistere del sentimento d’amore nel poeta, sebbene in Boiardo quest’ultimo si connoti quale febbre ad altissima temperatura, come sempre causata da un ardente desiderio che provoca diletto. La stagione interiore dell’innamorato è una aestas perennis, tanto che la metafora più diffusa nel canzoniere resta quella del «caldo de amore», espressione non per nulla introdotta fin dal sonetto proemiale (v. 13), quasi a sancire la fisicità della passione. Alla quale, infatti, sottostà anche Antonia, come appare da questo sensualissimo primo piano del suo atteggiamento di innamorata, che provoca l’immediato falling in love di Matteo Maria:

Girava il viso vergognoso e tardo
vèr me talor, di foco in vista accesa.
35

Altrove, quando Antonia avrà gettato la maschera, dimostrerà sì un cuore di «giaza dura», ma non cambieranno i suoi «ochi di foco»,36 comunque più forti di Amore e dell’«onde sue focose».37 Naturalmente l’amata, «dolce foco»,38 possiede al proprio arco una molteplicità di frecce seduttive:

Il suave tacere, il stare altero
lo accorto ragionar, il dolce guardo,
il perregrin dansar ligiadro e novo

m’hano sì forte acceso nel pensiero,
che sin ne le medole avampo et ardo,
né altrove pace che in quel viso trovo. 39

Si noterà che, fra doti fisiche e dello spirito, fa bella vista di sé anche il dansar, che invano cercheremmo in Laura o nella Isabeta di Giusto de’ Conti: Antonia è una donna di corte, che sa sapientemente usare e mostrare il proprio corpo in un ballo (probabilmente una coreografiao bassadanza) capace di scatenare al solito il fuoco nel poeta e ammaliare i presenti. Proprio questo corpo è alluso da una serie di metafore nel già citato Epthalogos I 50, le quali, lungi dal rendere più evanescente e dunque irriconoscibile il figurato, ne esaltano la grazia e la bellezza. Nell’elencarle, il poeta parla «come madonna fosse a me presente» (v. 7), quasi ella gli si stesse rivelando nel pieno del suo splendore: eccola perciò chiamata «Candida mia colomba» (v. 8), dove torna il colore bianco ‘‘corporale’’ già visto, e insieme «Augella de l’amor» (v. 11); poi diventa «Arborsel mio fronzuto», «adorno / di schieto tronco e de odorate foglie» (vv. 15 e 18-9), in cui queste ultime richiamano la chioma di Antonia e il tronco il suo corpo slanciato, senza imperfezioni; si passa a «Gentil mia fera e snella, / agile in vista, candida e ligiera» (vv. 22-3), quasi un animale scattante e felino; subentra «Lucida perla» (v. 28), che richiama i riflessi madreperlacei della sua pelle; infine «Vago fioreto», con le note blandamente sessuali del traslato. Non stupisce così che, nella chiusa di questo Canticus canticorum quattrocentesco in volgare, Boiardo affidi ad Amore, l’unico che può degnamente cantare le bellezze di Antonia, il compito di raffigurarla «tra le tre ninfe nude» (v. 47), come una delle Grazie che si offrono prive di veli agli occhi dell’amante.

Il conte di Scandiano non è solo maestro nell’allestire momenti di avvolgente e calda sensualità, ma sa spingersi anche oltre, verso i confini propri dell’erotismo. Vi si accinge con la medesima forma mentis e con gli stessi strumenti allusivi che abbiamo già visto in opera, ed è in grado di agire sull’arco di interi componimenti. Leggiamo il sonetto I 13:

Ride nel mio pensier la bella luce
che intorno a li ochi di costei sintilla,
e lèvame legier come favilla
e nel salir del ciel se me fa duce.

Là veramente Amor me la riluce
e con sua man nel cor me la sigilla;
ma l’alma de dolceza se distilla
tanto che in forsi la mia vita aduce.

Così, rapto nel ciel fuor di me stesso,
comprendo del zoir di paradiso
quanto mortal aspetto mai ne vide.

E se io tornasse a quel piacer più spesso,
sarebbe il spirto mo’ da me diviso,
se il soverchio diletto l’omo occide.

A una prima lettura, la lirica sembra porsi nel solco platonico dell’ele-vazione ad tertium caelum di uno spirito amante, come fra l’altro dimostrerebbero le reminiscenze paoline dei vv. 9-10;40sennonché la sottolineatura, come s’è visto tipica della sensualità boiardesca, sul «soverchio diletto» sbilancia l’interpretazione, per cui tale sintagma non andrà riferito solo a un’esclusiva e sublime avventura mentale, ma anche a un’esperienza paradisiaca, nel senso etimologico di hortus (deliciarum), in grado di far provare, qui sulla terra, uno «zoir di paradiso». Corroborano tale lettura vari segnali sparsi nel testo, allusivi anche a un amplesso, dall’anima che «de dolcezza se distilla», si consuma letteralmente goccia a goccia, al «paradiso» in cui riconoscere il giardino fiorito dell’amata. Il sonetto allude dunque, nel suo complesso, a un excessus mentis che è anche un’estasi dei sensi, il raggiungimento della soglia estrema del piacer dello spirito toccato attraverso l’ebbrezza della carne.

Una situazione simile esprimerebbe, a detta di Alexandre-Gras, il sonetto III 8, che sarebbe «la peinture la plus achevée du plaisir»41di tutti gli Amorum libri:

La fiamma che me intrò per li ochi al core
consuma l’alma mia sì dolcemente
che a pena il mio morir per me si sente,
tanto suave infuso è quello ardore.

Come colui che in sonno dolce more,
morso da l’aspe, e con l’ochio languente
rifiuta il giorno, e la torpida mente
senza alcun senso perde ogni vigore;

così ancor io, del mio dolce veneno
pasciuto, vo mancando a poco a poco,
né posso del mancar prender sospetto:

ché, abenché io senta il spirto venir meno,
non cerco per campar spegner il foco,
per non spegner con seco il mio diletto.

Secondo la studiosa francese si tratterebbe della descrizione sub cortice di un orgasmo, dipinto come un lento mancamento, quasi un annullamento in una morte apparente: che è ipotesi non infondata, per quanto qui l’evidenza lessicale sia meno sottolineata rispetto all’esempio precedente e dovendo anche considerare la collocazione nel macrotesto del sonetto, che non fa parte della sezione euforica degli Amores (la più disponibile a raccogliere riferimenti più o meno criptati di natura erotica), ma entra in una catena di componimenti sulla morte imminente del protagonista amante. Si può invece convenire con Alexandre-Gras nell’evidenziare il legame diretto esistente fra «ces répresentations du plaisir érotique, discrètes et euphémiques», e la concezione filosofica eudemonistica di Boiardo, che fa della ricerca della zoglia l’imperativo morale della propria esistenza.

Le punte estreme, allestite con l’evidente intenzione di far percepire in pieno, senza schermi troppo opachi, la dimensione erotica dei versi, si incontrano in due componimenti in cui la chiave per entrare nel doppio fondo del meccanismo proviene, in entrambi i casi, da una fonte letteraria, segnatamente dal ricorso a Boccaccio. Il primo esempio è il rodundelus I 27, la cui caratteristica essenziale e fortemente innovativa risulta, sul piano formale, la ripetizione del ritornello di quattro versi all’inizio della lirica e alla fine di ogni strofa, per un totale di nove riproposizioni dello stesso quartetto su cento versi in totale. Eccone il testo:

Se alcun de amor sentito
ha l’ultimo valor, sì come io sento,
pensi quanto è contento
uno amoroso cor al ciel salito!

Si ripropone qui la gioia («quanto è contento») di un innamorato che tocca letteralmente il cielo con un dito, secondo linee di svolgimento non troppo lontane da quelle, presentate sopra, del sonetto I 13. Eppure qui siamo in possesso di una tessera in più, di fondamentale rilievo, per annettere valenza sessuale all’espressione ‘‘sentire l’ultimo valor di amore’’: basti leggere, nel Filostrato di Boccaccio, l’ottava 32 della terza parte, con quanto precede:

Lungo sarebbe a raccontar la festa,
ed impossibile a dire il diletto
che ’nsieme preser pervenuti in questa;
ei si spogliaro ed entraron nel letto,
dove la donna nell’ultima vesta
rimasa già, con piacevole detto
gli disse: «Spogliomi io? Le nuove spose
son la notte primiera vergognose.»
A cui Troiolo disse: «Anima mia,
io te ne priego, sì ch’io t’abbi in braccio
ignuda sì come il mio cor disia.»
Ed ella allora: «Ve’ ch’io me ne spaccio.»
E la camiscia sua gittata via,
nelle sue braccia si ricolse avaccio;
e strignendo l’un l’altro con fervore,
d’amor sentiron l’ultimo valore.

L’esplicitezza che manca nel testo boiardesco si trova squadernata nel precedente boccacciano, il cui diverso genere letterario di appartenenza permetteva all’autore (notoriamente e simpaticamente diretto nell’espri-mere l’Eros) un racconto tanto immediato e insieme naïf di un amplesso amoroso. Nel farne propria la formula-chiave, Matteo Maria offriva ai suoi lettori lo strumento per adire ai penetrali del testo, potendo così aggirare l’ostacolo non si dice del pudore, che è sentimento in lui poco radicato, quanto della convenientia retorica ed espressiva.

Rivelata la caratura erotica dell’intercalare, si comprende in pieno la ragione per cui esso è iterato nove volte, come una campana che suoni a distesa per festeggiare la vittoria dell’innamorato (in questo caso del maschio) sulla sua nemica e per esprimere l’incredulità quasi allucinata del poeta per aver raggiunto l’obiettivo agognato da ogni amante: una volta di più, la ricorsività del ritornello sottolinea il carattere ossessivo, già noto, della sensualità boiardesca. La quale ha modo di rivelarsi ulteriormente nel corpo del componimento, tramite il ricorso a immagini ed espressioni caratteristiche dell’euforia, dunque del piacere: ecco subito, infatti, la «zoglia» (v. 12); poi l’appellativo «mio diletto» rivolto ad Antonia (v. 17), con il quale l’oggetto del desiderio coincide con il soddisfacimento dello stesso; più in là la frase «scoprir la belleza di costei» (v. 22), quindi una vera dichiarazione di intimità fisica:

Beato viso, che al viso fiorito
fusti tanto vicin che il dolce odore
ancor me sta nel core,
e starà sempre insin che in vita sia,
tu l’alta legiadria
vedesti sì di presso e gli ochi bei.42

Segue una lode all’arditezza del proprio «guardo» per aver ammirato «quel vivo ardore» (vv. 41-2), e poco oltre le ben note metafore dell’amata «candida rosa» (v. 65), «rosa mia» (v. 77), «zentil fiore» (v. 90). Quanto ad erotismo, non si potrebbe trovare di più o di meglio del rodundelus negli Amorum libri.

La perentorietà di quest’ultima affermazione non tiene forse conto della presenza e dei caratteri di un’altra lirica, il sonetto I 53, con il quale ci troviamo sulla soglia estrema del libro gioioso, vicinissimi al giro di boa che inizierà, di lì a poco (da I 56), la lunga navigazione nel dolore e nella disperazione amorosa. Il componimento registra la punta più alta nel raggiungimento del piacere e della zoglia di tutto il canzoniere, prima del tonfo fatale:

La smisurata et incredibil voglia
che dentro fu renchiusa nel mio core,
non potendo capervi, esce de fore,
e mostra altrui cantando la mia zoglia.

Cingete il capo a me di verde foglia,
ché grande è il mio trionfo, e vie magiore
che quel de Augusto on d’altro imperatore
che ornar di verde lauro il crin si soglia.

Felice bracia mia, che mo’ tanto alto
giugnesti che a gran pena io il credo ancora,
qual fia di vostra gloria degna lode?

Ché tanto de lo ardir vostro me exalto
che non più meco, ma nel ciel dimora
il cor, che ancor del ben passato gode.

È un’altra autocelebrazione, al pari di quella del rotondello, ma qui dipinta con i colori esaltati ed esaltanti di un trionfo militare, 43evidentemente per una vittoria ottenuta dall’innamorato, sulla cui natura è piuttosto agevole indagare. Perno della raffigurazione è l’allocuzione alle proprie «bracia», «felice» per essere giunte mo’, e cioè poco prima sintomo di una stesura del sonetto che si vuol suggerire avvenuta a ridosso del fatto , «tanto alto», che il poeta ne è tuttora incredulo. La mossa, retorica e contenutistica, non risulta inedita, perché si poteva già leggere in un passo della ballata Tanto è, Amore, il bene che sigla la giornata ottava del Decameron:

Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser già mai
là dov’io l’ho tenute
e ch’io dovessi giunger la mia faccia
là dov’io l’accostai
per grazia e per salute?44

Il protagonista della ballata esalta le proprie braccia e, al tempo stesso, il suo viso, evidentemente per essere stati accanto, cioè uniti, alla donna amata, e nel caso della faccia la lode è la medesima già tributata da Boiardo al suo proprio «beato viso» nel rodundelus sopra ricordato. Anche per questa ragione pare lecito concludere che la situazione allusa nel rotondello, nella ballata boccacciana e nel sonetto sia la medesima, e che le bracia si siano strette in un amplesso condotto ben presto alle naturali conseguenze. La riprova viene dalla prima quartina della lirica boiardesca, che si rifà, con modalità di vera e propria citazione, ancora alla ballata finale dell’ottava giornata:

L’abondante allegrezza ch’è nel core,
dell’alta gioia e cara
nella qual m’hai recato,
non potendo capervi esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra ’l mio lieto stato.
45

Sentito il testo di questa ballata, i giovani della brigata decameroniana si erano trovati dubbiosi su quale fosse il senso esatto da assegnare ai versi, visto che a un certo punto si diceva: «Io non so col mio canto dimostrare, / né disegnar col dito, / Amore, il ben ch’io sento; / e s’io sapessi, mel convien celare» (vv. 13-6):

niun ve n’ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di convenirgli tener nascoso cantava; e quantunque varii varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne.46

Boccaccio glissa su quale fosse, per lui, la «verità del fatto», che è chiaro essere inconfessabile per la semplice ragione che la ballata nel suo complesso si riferisce ai piaceri del coito. La chiave che rivela il doppiosenso sta nel verbo «esce di fore» («de fore» in Boiardo), che corrisponde esattamente al latino eiaculatur; si comprende così, tornando agli Amorum libri, che «la smisurata et incredibil voglia» è l’incontenibile libido (maschile) di un atto sessuale che perviene al suo peroptato traguardo (l’«ultimo valor» del rotondello), facendo raggiungere all’amante la zoglia che proviene dal soddisfacimento dei propri istinti: non a caso, il sonetto si chiude su un perentorio gode.

Si può adesso capire che il trionfo che il poeta chiede per sé nel sonetto è la conseguenza di una battaglia d’amore condotta e conclusa vittoriosamente, la quale ha comportato la conquista, ben reale e tangibile, del corpo amato. È il medesimo trionfo che Ovidio tributa a sé stesso, per l’identica ragione:

Ite triumphales circum mea tempora laurus!
Vicimus: in nostro est, ecce, Corinna sinu
47

dove l’affermazione di aver tenuto stretta al petto l’amata si può sovrapporre all’allocuzione di Matteo Maria alle proprie «Felice bracia». Per il poeta degli Amorum libri la pienezza dell’Eros è il massimo bene possibile, di cui si dice esplicitamente mai «sazio» (I 55, 1) e che preferisce a «forza, senno e [...] bellezza»,

tal che io non stimo la indica richeza,
né del gran re di Scythi il vasto impero,
che un sol piacer de amor non può aguagliare. 48

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1 Cito da MATTEO MARIA BOIARDO, Amorum libri tres, a cura di T. Zanato, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo -Interlinea edizioni, 2012.

2 Dove ascose si riferisce al procedimento «per suma» della canzone, con rime speculari nell’intero componimento, tali per cui quelle dei vv. 1-24 si ripetono all’indietro nei vv. 26-49, con il v. 25 a fungere da perno per la retrogradatio; crude riconduce all’effetto di straniamento indotto nel lettore dall’inedita struttura rimica della ‘‘settina’’.

3 Cfr. BOIARDO, Amorum libri I 10, 1-11.

4 Cfr. BOIARDO, Amorum libri III 38, 1.

5 Secondo categorie aristoteliche ribadite da BOEZIO: «Album enim cum sit in corpore, dicitur corpus album, et praedicatur albedo de corpore» (In Categorias Aristotelis I).

6 Una proposta già avanzata da D. ALEXANDRE-GRAS, Le «Canzoniere» de Boiardo, du pétrarquisme à l’inspiration personelle, Saint-Etienne, Publications de l’Université de Saint-Etienne, 1980,p. 159.

7 Così P. ZUMTHOR, Lingua, testo, enigma, Genova, Il Melangolo, 1991 (edizione originale: Paris 1975), p. 335.

8 BOIARDO, Amorum libri I 12, 9-11.

9 BOIARDO, Amorum libri I 49, 1-6.

10 Così ALEXANDRE-GRAS, Le «Canzoniere» de Boiardo, cit. p. 158.

11 BOIARDO, Amorum libri I 42.

12 Cfr. Rvf 72, 50-1: «soavemente tra ’l bel nero e ’l biancho / volgete il lume in cui Amor si trastulla».

13 BOIARDO, Amorum libri III 19.

14 Cfr. BOIARDO, Amorum libri I 27, 29-32.

15 BOIARDO, Amorum libri I 36, 1-8.

16 BOIARDO, Amorum libri I 30, 12-14.

17 Cfr. BOIARDO, Amorum libri II 22, 71.

18 BOIARDO, Amorum libri I 9, 1-11.

19 LUCREZIO, De rerum natura I 6-8.

20 LUCREZIO, De rerum netura I 19. Blandum andrà qui reso con ‘allettante’.

21 BOIARDO, Amorum libri I 6.

22 BOIARDO, Amorum libri I 48, 9-11.

23 BOIARDO, Amorum libri II 24, 5-8.

24 BOIARDO, Amorum libri III 46, 5-8.

25 Cfr. «avrai sempre da me mille sospiri, / mille basi la notte e mille il zorno» (vv. 13-4) con Carmina 5, 7-9: «Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum».

26 Cfr. vv. II 22, 44-45.

27 Cfr. Le «Canzoniere» de Boiardo, cit., pp. 161-62.

28 Si veda BOIARDO, Amorum libri I 18, 5-8: «Vago desir coi remi a gir me aita, / governa el temo Amor, che è la mia scorta, / Speranza tien in man la fune intorta / per porre il ferro adunco a la finita».

29 Cfr. III 15, 9-11: «tal il mio cor, che di gran sete avampa, / nel suo bel fonte disiando more, / e piglia oltre al poter l’ampla dolceza», e III 14, 9-11: «Egli è davanti già del suo bel lume, / dove Amor lo rinfresca a la dolce ombra / e tienlo ascoso sotto a le sue piume», nel qual passo l’anfibologia è rafforzata da piume, collegate a III 25, 26-9 agli amori di Giove e Leda.

30 «In quel fiorito e vago paradiso, / là dove regna Amore, / lasciai piagnendo a la mia donna il core» (vv. 1-3).

31 Cfr. Rvf 52, 4-8, sui quali rinvio a quanto ho scritto in Chiose frammentarie al Canzoniere, in «Humanitas», LIX (2004), pp. 37-58, alle pp. 43-45.

32 BOIARDO, Amorum libri III 13, 9-11.

33 BOIARDO, Amorum libri I 45.

34 Per cui si veda quanto ne scrivo nell’edizione citata nella nota 1,pp. 284-85.

35 BOIARDO, Amorum libri III 25, 75-6.

36 BOIARDO, Amorum libri III 11, 11-2.

37 BOIARDO, Amorum libri III 20, 12-3.

38 BOIARDO, Amorum libri I 25, 7.

39 BOIARDO, Amorum libri I 54, 9-14.

40 Per le quali rinvio al mio commento agli Amorum libri tres, cit., p. 119.

41 Cfr. Le «Canzoniere» de Boiardo, cit., p. 164.

42 BOIARDO, Amorum libri I 27, 29-34.

43 Come scrive A. TISSONI BENVENUTI, Boiardo elegiaco e Tito Vespasiano Strozzi,in L’elegia nella tradizione poetica italiana, a cura di A. Comboni e A. Di Ricco, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 2003,pp. 81-102,ap. 91.

44 BOCCACCIO, Decameron VIII, 22-7.

45 BOCCACCIO, Decameron VIII, 4-9.

46 Cito da GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron VIII concl. 13 (edizione a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1980).

47 Amores II 12, 1-2: fonte riconosciuta per primo da G. MAZZONI, Le ecloghe volgari e il Timone di Matteo Maria Boiardo,in Studi su Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1894,pp. 321-55,ap. 343.

48 BOIARDO, Amorum libri III 52, 5 e 12-4. Considerazioni simili si colgono anche nell’Inamoramento de Orlando, ad esempio in bocca a Leodilla, la quale, dopo aver provato per la prima volta il piacere dell’amore fisico, afferma: «Io credèti morir per gran dolcieza, / né altra cosa dapoi stimai nel mondo. / Altri aquisti possanza o gran richieza, / o lo esser nominato per il mondo; / ciascun che è sagio el suo piacer apreza/eilviver diletoso, e star iocondo: / chi vòle honore o roba con affanno / me non ascolti, et àbiassene il danno!» (I xxii 27: edizione a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Montagnani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999).