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Un sonetto inedito sull’ercole e caco di Baccio Bandinelli, con ipotesi attributive (e il topos burlesco del dimissionario)
I sonetto che qui si presenta appartiene a un peculiare “sottogenere” satiricoburlesco rinascimentale (al genere più ampio pertiene l’opzione metrica caudata), il cui bersaglio diretto era un’opera d’arte, alla quale, quando era possibile, simili testi venivano appesi per essere esposti alla pubblica lettura. In questo caso si tratta di un celebre gruppo marmoreo fiorentino, scoperto il 1° maggio 1534 (sicuro terminus post quem del componimento, dunque, dal quale presumibilmente non ci si dovrà discostare più di qualche mese). Quasi sicuramente questi versi sono opera di un fiorentino, che resta celato (come spesso, ma non sempre, avveniva per tali componimenti) dietro l’anonimato.1
Il tema del presente sonetto caudato lo avvicina anche a un’altra particolare categoria di poesie satirico-burlesche: quelle che qualche anno fa ho definito “pasquinesche”, intendendo riferirmi a quei componimenti, generalmente satirici, in cui veniva data parola a una statua, proprio come accadeva per il famoso torso romano.2Spesso questi testi contenevano sottintesi politici (non necessariamente eversivi), ancora più spesso – evidentemente per la “contiguità” genetica con la scultura – esibivano intenti di critica d’arte.
Gli esempi non sono moltissimi, ma un deciso incremento al genere fu determinato dall’attività artistica di Baccio Bandinelli, proprio a par-tire dallo scoprimento del gruppo di Ercole e Caco, che dette luogo, stando alle concordi testimonianze di Vasari e Cellini, a un vero e proprio boom di epitaffi satirici nei quali i due personaggi raffigurati parlavano, per lo più in termini ferocemente critici verso la statua.3Nonostante l’alto numero di sonetti e sonettesse «appiccati», come si diceva allora, alla base del gruppo marmoreo, solo pochi di essi sono sopravvissuti (anche per l’immediata draconiana censura applicata dal duca Alessandro, come testimonia Vasari);4di due dette notizia per primo Louis Waldman, pubblicandoli nel 1994, e sono entrambi prosopopee (il secondo è addirittura un dialogo fra Ercole e Caco).5Io li ho ripubblicati nel 2006 variando il testo critico e l’interpretazione, soprattutto del secondo, dal quale derivò con tutta evidenza un celebre epigramma sul bestiame di Ercole trafugato da Caco.6Ma non fu solo l’Ercole e Caco ad attirarsi gli strali in versi dei sonettanti fiorentini: bersagli d’elezione furono anche le statue bandinelliane per il coro di Santa Maria del Fiore, tra cui l’Adamo ed Eva e il Cristo morto con un angelo (e sulle reazioni suscitate da quest’ultimo parla di nuovo anche Vasari).7
Ora, tutti questi componimenti satirici sembrano formare una vera e propria costellazione, l’uno appare in qualche modo connesso all’altro, lo segue come una puntata successiva, e ciò risulta anche dal testo inedito che qui si propone. Si tratta appunto di un sonetto caudato, riferito sin dall’intestazione all’Ercole e Caco, ed è trasmesso da due manoscritti. Uno è settecentesco: contiene infatti il ricco zibaldone messo insieme da Anton Francesco Marmi, rifacendosi esplicitamente a informazioni ricevute dal Magliabechi;8l’altro (che fu quello verosimilmente esemplato dal Marmi) è per l’appunto un Magliabechiano, l’873 della classe VII, databile alla metà del Seicento; pure di quest’ultimo manoscritto si conosce l’identità del copista, che anche in questo caso non è uno sconosciuto: si tratta del poeta scapigliato (l’aggettivo non è un anacronismo, riferendosi propriamente al gruppo di personaggi fiorentini che tra Cinque e Seicento così si autodefinivano) Francesco Rovai.9Ecco il testo del sonetto in questione secondo il manoscritto più antico (in nota si offrono le varianti rispetto a quello nello Zibaldone del Marmi):
[p. 53-54]
Sonetto in nome di Baccio Bandinelli quando fece
l’Ercole e Cacco in Firenze
Fassi fede per me Baccio scultore
com’io rinunzio al mio Gigante il segno
e follo cavalier, ch’e’ n’è più degno,
pur con consenso dell’Imperadore.
Io mi vo’ ritornare al dipintore
e lasciar la scultura pel disegno;
ditemi, non ho io havuto ingegno
in fatti a ravvedermi dell’errore?
E s’io son stato Baccio scarpellino
non è che ’l mio Gigante non sia bello
e bianco e <m>ondo10com’un ermellino,
e se così non s’assomiglia a quello
che ’n piazza de’ Signor gli sta vicino
non è però che non sia suo fratello.
Scusimi quel modello
ch’io feci già, per imparar, di terra,
che par un San Cristofano alla sgherra.
Non ha colpa chi erra11
quand’e’ non sa più là che si bisogni,
perch’a far un Gigante non son sogni.
Perch’io non mi vergogni
dirò ch’io non son Baccio, e non son sano:
così fo fede di mia propria mano.12
L’intestazione precisa che il sonetto è scritto «in nome» di Baccio Bandinelli. L’assetto formale-linguistico, nella prima quartina e nel verso conclusivo, rispecchia quello di un certificato notarile, una dichiarazione resa in prima persona dallo scultore utilizzando il formulario standard degli atti sottoscritti dinanzi a testimoni (e la formula usata nell’ultimo verso era quella che precedeva appunto la firma autografa): tanto che l’incipit el’explicit di questo sonetto si possono leggere, identici praticamente ad verbum, per esempio in un documento ufficiale proprio dello stesso Bandinelli pubblicato da Waldman.13
La quartina “notarile” rappresenta dunque un atto formale con cui l’artista cede il titolo di cavaliere di Sant’Iacopo, ricevuto da Carlo V nel 1529, al proprio «Gigante» (quindi, dei due personaggi raffigurati nel gruppo marmoreo, ovviamente a Ercole, anche per gli accostamenti dei vv. 12-14 e 15-17 del sonetto).14I vv. 5-20 ono un’ammissione dell’«errore» compiuto nell’aver voluto intraprendere l’attività di scultore, per di più di «giganti»: quindi la cessione del titolo coincide con l’abbandono della scultura e col ritorno alle più congeniali arti figurative, pittura e disegno. In questa parte centrale la poesia assume il tono di una vera e propria confessione in pubblico (al v. 8: «ravvedermi dell’errore», al v. 18: «Non ha colpa chi erra»). Nell’ultima coda l’atto di cessione del titolo si amplia paradossalmente (ma coerentemente con l’enfasi penitenziale dei vv. 5-20) in un atto di altrettanto formale rinunzia addirittura alla propria identità (l’autore disconosce se stesso per evitare la vergogna), al contempo dandosi malato, come alibi e giustificazione per il ritiro.
Il v. 2 non è comprensibile, oggi, a una prima lettura, perché presenta una particolare costruzione del verbo rinunziare (col dativo), e l’oggetto della rinunzia, il segno, potrebbe indurre equivoci sulla sua natura (lo si potrebbe interpretare come la firma dell’autore, peraltro effettivamente presente sul basamento, in forma di epigrafe: «Baccivs | Bandinell.|| flor.| faciebat.|| md|xxxiiii»). In realtà, quella costruzione è anch’essa tipica del linguaggio giuridico e implica appunto il concetto di una cessione di diritti acquisiti o di titoli ricevuti a un altro beneficiario.15Il segno è per l’appunto il simbolo di quei diritti: è il segno del cavalierato di Sant’Iacopo, la conchiglia dei pellegrini col bastone a croce in rilievo, che si vede pendere dal collo di Baccio nei suoi due autoritratti, il quadro e la stampa.16In entrambi, si noti, l’artista è vicino a un Ercole: un modellino su cui si appoggia nella stampa (la clava è inequivocabile), mentre nel quadro è un disegno a sanguigna che egli regge con la sinistra e indica con la destra, presumibilmente riferentesi proprio all’Ercole e Caco; ciò perché quella particolare statua (e il suo soggetto) rappresentava, nelle intenzioni dell’autore, non solo un’attestazione pubblica della sua maestria, ma anche un’evidente scelta di campo politica (l’Ercole mediceo contro il David repubblicano). Se qualcuno avesse qualche dubbio in merito all’identificazione del segno di Baccio, legga queste parole di un suo contemporaneo che era molto bene informato, perché nutrì nei confronti del Bandinelli, che conobbe fin dall’infanzia, un odio implacabile, ricambiato, che durò tutta la vita. Mi riferisco, naturalmente, a Benvenuto Cellini, il quale fu sicuramente uno degli anonimi che «sonettarono», come si diceva allora, il povero Baccio. Mi sembra molto eloquente, riguardo a questo verso, quanto si legge nell’Introduzione al suo Trattato dell’oreficeria, nella scheda relativa a Michelagnolo Brandini, padre dello scultore (e a suo tempo maestro di Benvenuto):
Questo uomo fu il padre di Baccino, il quale fu fatto da papa Clemente cavaliere di Santo Iacopo e da per sé si cercò del casato de’ Bandinelli. E perché ei non aveva né casata, né arme, si prese quel segno ch’ei si portava del cavalieri, per arme.17
Il «segno», insomma, suppliva alla inesistente araldica del Brandini divenuto Bandinelli.
Il sonetto presenta quattro dei principali topoi derisorî antibandinelliani, inclusi anche nella vita vasariana: il cavalierato (connesso all’atti-vità come scultore: rinunciando a questa, rinuncia anche al titolo), nella prima quartina; il fatto di essere molto migliore come disegnatore che come scultore, nella seconda; il confronto col David di Michelangelo, nelle terzine; la fissazione velleitaria per i giganti, nelle prime due code. Nell’inevitabile confronto con quello che sino ad allora era stato il «gigante di Piazza» per antonomasia (confronto che, stando a Vasari, era esacerbato dalla esplicita volontà emulativa dello stesso Baccio),18potrebbe sembrare che questi versi, dichiarando l’Ercole «fratello» del David, attenuassero ulteriormente il pur non del tutto denigratorio giudizio vasariano:
E nel vero, il Davitte di Michelagnolo toglie assai di lode all’Ercole di Baccio, essendogli a canto, ed essendo il più bel gigante che mai sia stato fatto, nel quale è tutta grazia e bontà; dove la maniera di Baccio è tutta diversa.19
In realtà, l’apparente impostazione (auto)apologetica nasconde un sarcastico giudizio che circolava sulle opere di Baccio, e su questa in particolare: ciò che qui si loda, e ciò che rende il gruppo di Baccio «fratello» del David, non è l’opera dell’artista, è la qualità del marmo: «bello / e bianco e <m>ondo com’un ermellino».20Infatti l’aggettivo bello, si badi, nonèasé stante, è rafforzativo dei due che seguono: il gigante di Baccio è bello bianco e bello mondo, privo di imperfezioni.21Insomma, siamo di fronte all’incunabolo del Biancone (com’è noto, futuro appellativo derisorio del vicino Nettuno del Giambologna).22A questo proposito, ho inserito l’emendamento «<m>ondo» rispetto alla lezione dei due testimoni manoscritti, che presentano invece «biondo», frutto di un’evidente banalizzazione dovuta alla dittologia con «bianco», tipica dell’esaltazione estetica letteraria maschile e femminile (coinvolgente rispettivamente capigliatura e incarnato),23ma qui del tutto fuori luogo, vista la similitudine con l’esclusivamente e immacolatamente candido ermellino, e visto che l’Ercole bandinelliano tutto può essere fuorché biondo.
Anche nella derisione, nella prima coda, dell’Ercole «di terra» eretto nel 1515 sotto il primo arco della Loggia di Piazza (poi dei Lanzi) in occasione del passaggio trionfale di papa Leone X da Firenze24e ancora presente nel ’34 c’è un’eco del velleitarismo descritto da Vasari con l’aneddoto del Marforio di neve,25oltre, nuovamente, all’ìmpari emulazione del David:
Era il colosso un Ercole, il quale per le parole anticipate di Baccio s’aspettava che superassi il Davitte del Buonarroto quivi vicino; ma non corrispondendo al dire il fare, né l’opera al vanto, scemò assai Baccio nel concetto degli artefici e di tutta la città, il quale prima s’aveva di lui.26
Nel sonetto-confessione l’Ercole della Loggia, per ammissione del suo autore, perde ogni dignità di opera d’arte (anche se effimera, avrebbe potuto essere considerata tale in quanto autonoma, a sé stante), perché diventa un «modello [...] di terra», eseguito solo «per imparar». Imparare, ovviamente, a realizzare giganti, opere che richiedono una perizia superiore a quella comune: mentre quella di Baccio non si sollevava dall’ordinaria (v. 19), e quindi egli non poteva non fallire. Il risultato del suo primo tentativo nell’arte colossale è un «San Cristofano alla sgherra», espressione che condensa in una sorta di tipico ossimoro l’insuccesso dell’artista. Qui il santo traghettatore è chiamato in causa come esempio antonomastico di gigante; ma naturalmente al colosso bandinelliano manca ogni sacralità, anzi, il suo aspetto è piuttosto quello di un malvivente (ed era appunto tipico delle satire sulle opere d’arte a soggetto sacro, in particolare i crocifissi, prendersela con l’aspetto losco del preteso Cristo, andando ben oltre il celebre “Cristo contadino” di Donatello).27La terzina sull’Ercole-san Cristofano è introdotta per spiegare il fallimento nella realizzazione del gigante di marmo: il verbo che la introduce («Scusimi») non è, io credo, un congiuntivo esortativo rivolto alla figura «di terra» (possibile, considerato l’impianto complessivo del sonetto, basato fin dalla movenza iniziale sulla prosopopea dell’Ercole di marmo, con una sorta di abdicazione a favore del proprio ipertrofico parto, mai chiamato per nome ma sempre citandone il tratto più macroscopico accompagnato da un possessivo quasi sentimentale: il «mio Gigante», ai vv. 2 e 10); ha piuttosto valore esplicativo (‘mi giustifichi’). Il senso complessivo dei vv. 9-17 consiste insomma nell’individuare due fallimenti paralleli e consecutivi, sottolineando in entrambi la distanza fra le intenzioni di partenza e le realizzazioni effettive dell’artista: Baccio più che un vero scultore è uno scalpellino; tuttavia è riuscito a realizzare un gigante di marmo che, se non è esteticamente al livello del David, è comunque anche lui, a tutti gli effetti (nessuno può negarlo), un gigante di marmo bianco e pulito, e quindi è senz’altro fratello del capolavoro di Michelangelo (anche se, è sottinteso, è un fratello più brutto). Il fallimento estetico è spiegabile considerando gli esiti del primo tentativo di Baccio di realizzare un Ercole gigantesco, «modello» di quello marmoreo, posto nello stesso luogo (e con valenze simboliche analoghe, legate – come si è detto – alla dinastia medicea in contrapposizione ai valori repubblicani della statua michelangiolesca: per Leone X quello «di terra», per Clemente VII e Alessandro quello di marmo): nelle aspettative doveva anch’egli rivaleggiare col David, ma nei fatti riuscì un «san Cristofano alla sgherra». La stessa discrepanza tra aspettative e concretizzazione del progetto che si rinviene nell’opera definitiva, dunque, caratterizzava già il modello. Si possono indicare più puntuali legami di alcuni versi di questo sonetto con vari componimenti della “costellazione” antibandinelliana: proprio a partire dal possessivo “affettivo” nei confronti della statua, che corrisponde specularmente a quello usato dal Gigante che loquitur plebi in uno dei sonetti anonimi, il «mie gran Chavalero»;28«lasciar la scultura pel disegno» (v. 6) ricorda il contenuto dei vv. 12-13 di Cacchus loquitur Herculi: Bandinelli «fa mirabil prove / col disegnar, ma non con lo scarpello»,29giudizio riflesso dalla biografia vasariana;30i vv. 15-16 possono rammentare l’esortazione rivolta allo stesso Bandinelli da Alfonso de’ Pazzi, l’Etrusco: «Fa’ de’ sepolchri, degli archi e de’ ponti: / in opra no, ma di terra il modello, / tanto ch’il prezzo ricevuto sconti»,31secondo l’altro topos denigratorio (era più abile nel realizzare modelli che opere finite),32peraltro legato al prece-dente.33
Ma i punti di riferimento testuali formalmente e contenutisticamente più vicini sono due, sempre riferiti allo stesso artista ma non legati all’Ercole e Caco: il Sonetto facto a Baccio scarpellino (incipit: «Baccio di non so chi scarpellatore») in occasione del conferimento del titolo di Cavaliere,34e «Io son quel nominato Cavaliero», che ho attribuito a Cellini, sul Cristo morto con un angelo scoperto il 13 agosto 1552:35
Sonetto facto a Baccio scarpellino, figliolo a Michelangelo orafo ottonaio, che indigniamente è facto cavaliero dello ordine di Sancto Yago de Spagna
Baccio di non so chi scarpellatore,
che par nato sputato un girifalco,36
con certi testimon’ da Montefalco37
fu facto gentilhuom in due hore;
e quel buon huomo dello Imperatore,
ch’à tolto a far ballar l’orso in sul palco,38
di San Yago ha facto il gentil scalco,
con reverentia,39gran Comendatore.
Però dateli tutti del Messere
e mutate quel Baccio in Baccellone,40
mettetelo in mezzo,41ch’è ’l dovere.
Io so che ’ Mori andranno al badalone,42
ché se un spezza le pietre sane e intere,
pensa quel che farà delle persone.
O povero Barone
Messer San Yago, hor non ti crepa el cuore
veder un scarpellin Comendatore,
il quale altro favore
non ti può far, che farti una figura
che ti faccia43fuggir per la paura?
Una n’è per sciagura
in Firenze colà in casa le Palle
sì vaga, che ognun grida: dàlle! dàlle!44
Io son quel nominato Cavaliero,
Baccio scarpellator de’ Bandinelli,
qui posto ad ascoltar questi cervelli
s’alcun nel lacerarmi dice il vero.
Son fermo in luogo sacro, in questo clero,
in altra effigie, come fanno quelli,
per tema della turba et de’ flagelli,
ch’a satisfar altrui non han l’intero.
Gli è ver ch’io debbo assai a queste genti,
ma acciò si vegga ch’io vo’ satisfargli
gli ho dato in pegno e mia primi parenti.
I primi huomin’ del mondo a.ssicurargli
stan per me pronti, palesi et <p>atenti,
talché non mi dà il cuore a contentargli.
Non so più che mi dargli,
se non m’aiuta Dio della natura,
e non mi val più l’arte di scultura:
dicon questa figura,
qual regge questo giovan stanco afflitto,
non saper quel che sia se non gli è ditto.
Leggete quel ch’è scritto:
egli è mio allevato e io son quello
che son chiamato Baccio Bandinello.45
Questi testi e il nostro sonetto, presumibilmente tutti composti a ridosso dell’occasione a cui si riferiscono (e quindi a distanza di diversi anni l’uno dall’altro),46presentano una serie di simmetrie piuttosto significative. Da un punto di vista formale, sono tutti e tre sonetti caudati e hanno esattamente la stessa lunghezza, esibendo tre code ciascuno. Da quello del contenuto, è indicativo che tutti coinvolgano nella satira direttamente la persona dell’autore, al di là dell’opera (quest’ultima è presente come bersaglio in tutti, anche nel più antico, proprio in chiusura: la «figura» nel palazzo Medici, forse l’Orfeo o il Laocoonte):47nel primo, viene data di Baccio un’immagine deteriore anche nell’aspetto («par nato sputato un girifalco», quindi un rapace avido)48e viene trattato da villano rifatto49(«il gentil scalco», come dire ‘il nobile trinciavivande’, con allusione, probabilmente, anche alla sua supina sudditanza medicea); nel sonetto attribuito a Cellini è, pur trasposto nella statua (il marmo non rappresenta Cristo e l’angelo, ma Baccio e un suo allievo), un debitore insolvente rifugiatosi in chiesa per godere dell’immunità, camuffato «in altra effigie / [...] / per tema della turba et de’ flagelli»: fuor di metafora, un artista che promette grandi opere ma poi non sa realizzarle («non mi val più l’arte di scultura»); nel nostro sonetto sull’Ercole e Caco è uno scultore fallito che prova vergogna, e pertanto anche qui arriva a negare la propria identità, accampando come giustificazione la malattia («non son sano»). Probabilmente fu proprio il coinvolgimento della persona dell’artista all’origine della scelta, da parte di chi scrisse questi tre sonetti, di mantenere l’anonimato: laddove ciò non avveniva, infatti, e la satira era indirizzata esclusivamente contro l’opera, era senz’altro possibile esplicitare pubblicamente la firma del poeta.
Il nostro sonetto pare ricollegarsi direttamente a quello precedente sul cavalierato, nella cui intestazione si diceva che Baccio «indigniamente è facto cavaliero», così come qui il Gigante «è più degno» di Baccio di quel titolo. L’Imperatore «buon huomo» in preda all’alcol del sonetto del ’29, tanto simile al «re Carlone» rimbambito di boiardesca memoria (tale da farsi menare per il naso dai «testimon’ da Montefalco» recati da Baccio), è lo stesso che può ben dare il suo «consenso» all’insolito dirottamento su una statua dell’onorificenza erroneamente attribuita in precedenza allo scultore (v. 4 del sonetto inedito). E anche la rima scarpellatore: imperatore del sonetto più antico (vv. 1 e 5) è affine a quella scultore: imperadore (vv. 1e 4) del nostro.
Ma un legame, un percorso logico è individuabile anche considerando il sonetto cronologicamente successivo, quello attribuito a Cellini, dove nuovamente è Baccio a parlare (pur nella veste di una statua malriuscita): il concetto dell’incapacità di scolpire giganti si evolve nell’incapacità di scolpire tout-court: «non mi val più l’arte di scultura» (v. 17), il soggetto dell’opera realizzata è irriconoscibile, non corrisponde alle intenzioni dell’artista (così come l’Ercole di stucco del sonetto inedito era un «San Cristofano alla sgherra», qui non si riesce a capire chi sia il «giovan stanco afflitto» sdraiato sul piedistallo e chi sia la «figura» che lo sostiene).50Pure il gioco sull’identità dello scultore accomuna chiaramente i due sonetti in prima persona: negata in quello sull’Ercole e Caco («io non son Baccio», v. 22), viceversa proclamata e ripetuta nell’altro, con nome e cognome, ma attribuita dalla statua (parlante) a se stessa («io son quello», vv. 1 e 22). Comune è anche il paradossale rapporto con l’opera, che in entrambi i casi è un mezzo per dissimulare l’autore: l’Ercole diviene una sorta di delegato che prende il posto e il titolo del Cavaliere; il preteso Cristo è invece il Cavaliere stesso camuffato, insieme a quel suo «allevato» un po’ ambiguo.51E condivisa è pure la struttura circolare, in cui il verso finale riprende quello iniziale, dove peraltro appare in entrambi i casi, con enfasi, l’anagrafe dell’autore, l’io parlante nel sonetto: «Fassi fede per me Baccio scultore» – «così fo fede di mia propria mano»; «Io son quel nominato Cavaliero» – «io son quello / che son chiamato Baccio Bandinello».
Ennesimo elemento che accomuna il sonetto inedito e quello forse celliniano è il fatto di includere un doppio bersaglio artistico, uno principale e uno secondario, introdotto en passant; più esattamente, in entrambi una delle due opere è chiaramente denigrata, l’altra no: nel sonetto inedito, l’opera in secondo piano (l’Ercole del 1515) è ridicolizzata, mentre dell’Ercole e Caco si dice apparentemente bene; in quello attribuito a Cellini, bersaglio principale è il Cristo morto, evidentemente sminuito, mentre in secondo piano sono evocati senza alcuna disapprovazione i simulacri di Adamo ed Eva (vv. 11-13). Anche il sonetto sul cavalierato, in realtà, aveva un bersaglio duplice, uno principale e uno secondario, ma di natura diversa (un elemento astratto e un’opera d’arte) ed entrambi erano oggetto di derisione: il titolo elargito da Carlo V, appunto, e la «figura» in Palazzo Medici, l’Orfeo oppure il Laocoonte.
D’altro canto l’ultimo dei tre sonetti, quello probabimente celliniano, sembra a sua volta ricollegarsi al primo, quello sul cavalierato, per il peculiare movimento stilistico iniziale, parodicamente enfatico, con l’evo-cazione del nome aborrito, Baccio, da cui sono distanziati in iperbato ora l’attributo professionale, ora il cognome (nella versione nobilitata), mentre identica è la denigratoria qualifica artistica: «scarpellatore».52Nel primo, «Baccio di non so chi scarpellatore»;53nell’altro, al v. 2, «Baccio scarpellator de’ Bandinelli».54
Con tutto questo, non è possibile azzardare un’attribuzione dell’ano-nimo sonetto inedito con la stessa bontà di approssimazione di «Io son quel nominato Cavaliero»: lì c’è una vera e propria impronta digitale, inconfondibile, quel «Dio della natura» che è una sorta di marchio di fabbrica del Cellini scrittore.55Nel sonetto che qui si presenta e nel sonetto sul cavalierato, invece, ci sono soltanto indizi in tal senso. Oltre alla vicinanza di entrambi al sonetto già attribuito, si può citare per il Sonetto facto a Baccio scarpellino il caratteristico gioco di deformazione derisoria del nome del nemico (al v. 10: «e mutate quel Baccio in Baccellone»), che nella Vita celliniana è chiamato «Buaccio»56e nel Trattato sull’oreficeria, come si è visto, «Baccino»57(e con analoga irridente alterazione, tra diminutivo e vezzeggiativo, Benvenuto colpisce Vasari),58mentre in una lettera storpia Cavalieri in «Cavalochio».59Per quello inedito sull’Ercole e Caco si può notare che ai vv. 5-6 e 18-20 è implicita una sorta di gerarchia evolutiva-formativa in crescendo: disegno-pittura-scultura, ovvero l’aspirante scultore inizia facendo pratica di disegno, passa poi alla pittura aggiungendo il colore, approda infine (se ci riesce) alla scultura aggiungendo la terza dimensione. Qui «ritornare» (v. 5) si avvicina molto a ‘retrocedere’:60un conto è disegnare e dipingere, un altro conto è scolpire addirittura un gigante: «non son sogni» (v. 20). Chi ha scritto questi versi, insomma, non doveva avere dubbi circa il primato – se non altro per la perizia richiesta all’artista – della scultura sulla pittura.
Quel che è certo è che questi tre sonetti formano un trittico coerente anche per l’estrosa tipologia di invettiva burlesca che li caratterizza, nonché per il “concetto” stravagante alla base di ciascuno di essi. Tuttavia, proprio il concetto dell’anonimo inedito ci conduce pure verso altri autori di componimenti che condividono la stessa singolare impostazione. Un altro indiziato (fortemente) per la paternità emerge infatti dalla lettura di un quarto sonetto caudato (ma con due code invece di tre), anch’esso scritto in nome del bersaglio burlesco, anch’esso appartenente a una tipologia derisoria che si potrebbe definire “del dimissionario” (in quanto si tratta di una dichiarazione di rinuncia alle proprie cariche, ai propri titoli, alla propria arte e, al limite, alla propria identità): l’autore, in questo caso certo (perché esiste l’autografo), è Anton Francesco Grazzini, il Lasca; il sonetto in questione, però, non ha nulla a che fare né con la scultura né con la pittura o il disegno, mentre ne ha moltissimo con l’Accademia Fiorentina e le sue “correnti” intestine, e soprattutto con la figura di Alfonso de’ Pazzi, detto l’Etrusco. Personaggi entrambi, il Lasca e l’Etrusco, coinvolti a pieno titolo, col Cellini, negli scambi di vituperia di argomento artistico; entrambi tormentatori, a turno, del povero Bandinelli.61
Il sonetto a cui mi riferisco fu pubblicato da Carlo Verzone tra le Rime burlesche del Grazzini:
Agli accademici fiorentini
in nome d’Alfonso de’ Pazzi
Prima che passi affatto il sollione,
io Alfonso de’ Pazzi cerretano
della vostr’Accademia a mano a mano
mi casso per dappoco e per poltrone.
E di ciò faran fede alle persone
questi versi, che scritti ho di mia mano;
così alle Cornacchie62umile e piano
bacio la coda e chiamomi prigione.
La morte d’Ambrain spietata e fiera,
colla canzone,63m’han sì sbigottito,
ch’io non son più l’Alfonso, che dianz’era.
Anzi son per Firenze mostro a dito,
come s’io fussi proprio la versiera,
o qualche animalaccio travestito.
Onde ho preso partito
di mutar vita e fuggire il rumore,
e racquistar, s’io posso, il perso onore;
e quelle traditore
Musacce abbandonar, triste,64dappoche,
ed andarmene in villa a guardar l’oche.65
Da notare la struttura del verso di autopresentazione (v. 2): io+il nome + la qualifica (infamante), che ricorda l’«io son stato Baccio scarpellino» del nostro sonetto. L’autocassazione dall’Accademia (cioè le dimissioni dalla stessa), motivata dalla propria incapacità (v. 4), corrisponde alla rinunzia al titolo di Cavaliere e alla cessione dello stesso al Gigante di marmo, più degno a portarlo del suo autore. Anche questo messo in bocca all’Etrusco è un documento ufficiale, autografo: «di ciò faran fede alle persone / questi versi, che scritto ho di mia mano» (vv. 5-6), così come attesta l’analoga conclusione del nostro: «così fo fede di mia propria mano» (v. 23). Il trauma per la morte del proprio cavallo (un cavallo sapiente e parlante), l’Ambraino, seguito dalla canzone del Lasca che ha rivelato come l’animale fosse il ghost writer del Pazzi («Pianga Alfonso soprattutto, / ché perduto ha ’l burïasso:66/ l’Ambrain faceva tutto / delle Muse il gran fracasso: / or non più vedransi a spasso / gir sonetti e madrigali, / forza è alfin ch’in basso cali/esi stia cheto e piccino»),67lo spinge a rinnegare la propria identità: «io non son più l’Alfonso, che dianz’era» (v. 11), così come Bandinelli nel sonetto inedito dichiara «io non son Baccio, e non son sano». Nella stessa canzone a ballo si dice, a proposito dell’Ambraino, «Tanto ebb’egli spirto umano, / quanto di bestia il padrone» (vv. 12-13); qui, per fuggire il «rumore» e la vergogna di chi a Firenze lo addita come un «animalaccio travestito», e recuperare l’onore, Alfonso decide di abbandonare le «Musacce» che lo hanno tradito per ritirarsi in campagna: rinuncia, dunque, anche alla propria arte, come Baccio Bandinelli abbandona la scultura per il disegno.
L’altezza cronologica presumibile del sonetto sull’Ercole e Caco, il 1534, non preclude un’eventuale attribuzione al Lasca, che in quell’anno aveva ventinove anni.68Tuttavia, se è vero quanto si è affermato sopra, cioè che l’anonimo in questione doveva ritenere superiore la scultura alla pittura, bisogna ricordare che giusto trent’anni dopo, ossia in occasione delle esequie di Michelangelo, lo stesso Lasca espresse in proposito l’idea opposta, nel sonetto tricaudato «Tutte quelle ragion, che accolte e sparte» (suscitando l’indignata reazione di Benvenuto Cellini, strenuo sostenitore del primato dell’arte di Fidia).69
Ma il meccanismo derisorio che abbiamo definito del “dimissionario” fu utilizzato anche da colui al quale lo inflisse il Lasca, ossia Alfonso de’ Pazzi. Quest’ultimo, infatti, compose un sonetto contro Benedetto Varchi (che il Verzone attribuì al Grazzini perché lo trovò – in una versione frammentaria – in un altro manoscritto autografo del Lasca, all’interno di una sezione antifrasticamente intitolata In lode del Padre Varchi)70basato proprio su tale meccanismo. Il sonetto in questione contiene una rinunzia alla propria identità (il nome) attribuita al Varchi, annunciata pubblicamente come in un bando («Fassi noto a ciascun»), rinunzia che corrisponde a una sorta di abdicazione, che dal punto di vista dell’Etrusco è una metamorfosi in positivo, l’unica possibile per il suo odiato bersaglio: infatti il difetto fondamentale del Varchi era, per l’appunto, essere il Varchi; non essendolo più, venivano meno anche i motivi di biasimo agli occhi del suo principale detrattore. Al contrario di quanto sosteneva Verzone, questo sonetto è sicuramente dell’Etrusco, anzitutto per la peculiare scelta delle due parole-rima alternate (Varchi-Feo), che il Lasca aborriva e che invece caratterizzavano lo stile di Alfonso;71poi per il fatto di essere trasmesso, con l’attribuzione al Pazzi, da vari manoscritti che Verzone non conosceva, tra cui uno idiografo;72infine per quello che viene detto al v. 8contro il Varchi («odïoso e rozzo»), appropriatissimo per l’Etrusco ma non per il Lasca:
Fassi noto a ciascun come hoggi il Varchi
rinunzia ’l Varchi et vuol sol mastro Feo,
e tanto piace al Varchi mastro Feo
che più non osa ricordar il Varchi.
Quest’è quanto di buon mai fece ’l Varchi,
a barattar il Varchi a mastro Feo;
che tant’è caro e gentil mastro Feo,
quant’a punto odïoso e rozzo il Varchi.
Hor chi vuol far piacer e grazia al Varchi
da qui inanzi lo chiami mastro Feo,
nome che val per cento mila Varchi.
E però viva viva mastro Feo,
gridat’ha l’Accademia, e non più Varchi,
ché ’l Varchi è trasformato in mastro Feo.73
Notevole è, peraltro, la vicinanza tra i due versi iniziali e quelli corrispondenti del nostro sonetto antibandinelliano: «Fassi fede per me Baccio scultore / com’io rinunzio al mio Gigante il segno». Il componimento con le rime Varchi-Feo si trova nell’autografo del Lasca per la semplice ragione che quest’ultimo scrisse un altro sonetto (quello che lo precede nel manoscritto e nell’edizione del Verzone), che va letto necessariamente accodato a tale componimento; dunque, l’idea satiricoburlesca dell’Etrusco dovette impressionare favorevolmente il Lasca, il quale recuperò quel sonetto del Pazzi pur in forma incompiuta (rielaborandolo con alcune varianti, secondo un uso che caratterizza tutta la sua attività di editore di testi burleschi, e certo ripromettendosi di completarlo) per inserirlo all’interno del segmento antivarchiano della propria raccolta, che si finge opera – per specifica competenza – del fantasma dell’Etrusco, componendo a sua volta un sonetto che costituiva il seguito dell’altro e lo avvalorava:
Il Varchi è stato gran tempo Giudeo,
pur or di nuovo alla Fede è tornato;
e l’Etrusco gentil l’ha battezzato,
ed hagli posto nome mastro Feo.
Un nome certo non vile o plebeo,
ma nobil, grazïoso ed onorato,
e da suo par, ch’è dotto e letterato,
più che non è la cetera d’Orfeo.74
Chi vuol che mastro Feo fusse già frate,
e chi lo fa pedante Marchigiano,
ch’insegnò scriver Greco alle giuncate.
Ma sia che vuol; maestro Feo toscano
il padre Varchi vuol che lo chiamiate
voi tutti quanti, che l’amate sano.
Così di propria mano,
in ogni suo poema o buono o reo,
troverete soscritto: mastro Feo.75
Da notare anche qui la sottolineatura nella coda della sottoscrizione autografa che avvalora il nuovo nome, quel «di propria mano» che era anche nel verso finale del sonetto inedito. Dunque, il sonetto del Lasca serve a commentare, favorevolmente, il nuovo battesimo del Varchi effettuato dall’Etrusco. La quartina iniziale potrebbe suggerire una spiegazione per il particolare nome prescelto: Feo come fe’ (= ‘fede’) con epitesi di -o; ma è più probabile che il nome alludesse o alla retribuzione del Varchi (secondo la prima accezione del termine riportata nel Grande dizionario del Battaglia, ‘salario, stipendio’), oppure – e questa ipotesi è suffragata forse dal v. 11: «ch’insegnò scriver Greco alle giuncate» – alla sua pinguedine («Guardalo ’n viso, ve’ com’egli è grasso», scrive l’Etrusco nel sonetto «Il Varchi non sa ir, se non di passo»): l’accezione in questo caso è quella della frottola sacchettiana La lingua nova, ossia ‘merenda, cibo’. Dunque, anche l’Etrusco, venticinquenne nel 1534, poteva essere stato l’autore del nostro componimento anonimo, come pure Cellini (il quale, in fuga da Pier Luigi Farnese, passò a Firenze nel 1535, dove intagliò alcune monete per il duca Alessandro).76Difficile individuare fra i tre il vero autore: ma è difficile anche che sia stato qualcuno estraneo alla triade, caratterizzata da una comunanza di poetica, di interessi e di antipatie nella quale quel sonetto sull’Ercole e Caco si colloca perfettamente.
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1 Si segnalano tratti linguistici caratteristici del fiorentino, come il rotacismo in «scarpellino» e la forma «Cristofano» per «Cristoforo». Questa tipologia di testi non prevedeva necessariamente l’anonimato dell’autore: lo testimoniano i sonetti di tal genere del Pistoia, dello Strazzola, del Lasca, di Alfonso de’ Pazzi detto l’Etrusco.
2 Cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere e altri prodigi pasquineschi fiorentini (Bandinelli, Cellini, Michelangelo),in Ex marmore. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna. Atti del Colloquio internazionale (Lecce-Otranto, 17-19 novembre 2005), a cura di Chrysa Damianaki, Paolo Procaccioli, Angelo Romano, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 221-74.
3 «Furono appiccati ancora intorno alla basa molti versi latini e toscani, ne’ quali era piacevole vedere gl’ingegni de’ componitori e l’invenzioni e i detti acuti», Giorgio Vasari, Le Opere, a cura di Gaetano Milanesi, Firenze, Sansoni, 1878-1885, vol. vi, p. 159; «Così il detto Bandinello cominciò a favellare [alla presenza del duca Cosimo] et disse: “Signore, quando io scopersi il mio Ercole e Cacco, certo che io credo che più di cento sonettacci ei mi fu fatti, i quali dicevano il peggio che immaginar si possa al mondo da questo popolaccio”. [...] et dipoi disse del suo Ercole et Cacco gli infiniti et vituperosi sonetti che ve gli fu appiccati, et diceva male di questo popolo. [...] Io credo [rammenta Cellini al duca Cosimo] che e’ vi fu appiccato più di mille sonetti, in vitupero di cotesta operaccia; et io so che Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo se ne ricorda», Benvenuto Cellini, La Vita, a cura di Lorenzo Bellotto, [Milano-]Parma, Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda Editore, 1996, p. 652 [Vita, ii 70], p. 709 [ii 91] e p. 734 [ii 99].
4 «Ma trapassandosi col dir male e con le poesie satiriche e mordaci ogni convenevole segno, il duca Alessandro, parendogli sua indegnità per essere l’opera pubblica, fu forzato a far mettere in prigione alcuni, i quali senza rispetto apertamente andavano appiccando sonetti: la qual cosa chiuse tosto le bocche de’ maldicenti», Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 159. La base di quel monumento è rimasta nei secoli un luogo popolare anche per invettive personali da parte di anonimi mordaci graffitari, come mostra ancora oggi, fra le diverse incisioni nel marmo più o meno leggibili, il «Saracini Baron fottuto | 1772» sul lato verso gli Uffizi (in questo caso l’ingiuria parrebbe essere un’aggiunta di mano diversa accodata in un secondo tempo all’originario nome incompleto «Saracini B»).
5 Anonimo, Gigans loquitur plebi (incipit: «Tu non debi saper, plebaccia, ch’io») e Cacchus loquitur Herculi (incipit: «Deh, Hercol, non m’infragner col bastone») in L. A. Waldman, “Miracol’ novo et raro”: Two Unpublished Contemporary Satires on Bandinelli’s Hercules and Cacus,in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, xxxviii, 1994, pp. 419-27.
6 Cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 260-63 ni i e ii. L’epigramma ivi, p. 264 n° iii: «Ercole, non mi dar, ch’i tuoi vitelli / ti renderò con tutto il tuo bestiame; / ma il bue l’ha avuto Baccio Bandinelli».
7 Cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 236-47. Queste le parole di Vasari: «Ed ancora che questa statua [il Cristo morto] fusse ragionevole e delle migliori di Baccio, nondimeno non si poteva saziare il popolo di dirne male e di levarne i pezzi, non meno tutta l’altra gente che i preti», Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 182. Ovviamente l’espressione «levarne i pezzi» non va intesa in senso letterale, ma figurato: ‘criticare punto per punto’.
8 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VIII, 16, c. 26r. Il manoscritto è intestato Zibaldone di diverse notizie letterarie e altre che sentirò alla giornata specialmente dall’eruditissimo sig.r Antonio Magliabechi Io cavaliere Ant.o Fran.co Marmi vol. 2do, ed è databile al primo decennio del sec. XVIII. Sul Marmi (bibliotecario per Cosimo III, amico e collaboratore di Antonio Magliabechi, il cui immenso patrimonio librario ordinò per primo dando vita al nucleo originario della futura Biblioteca Nazionale fiorentina, arcade e accademico fiorentino, nato a Firenze il 13 dicembre 1665 e morto nella stessa città il 3 dicembre 1736) cfr. la voce di M. Sambucco Hamoud nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 70, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008, pp. 618-21.
9 Francesco di Paolantonio Rovai, poeta-pittore fiorentino morto nel 1649, compare nel Malmantile Racquistato di Lorenzo Lippi con lo pseudonimo anagrammatico di Franco Vincerosa, non a caso a fianco di un altro poeta-pittore – come lo stesso Lippi – , Salvator Rosa (nel cantare iv, ottava 13: cfr. Il Malmantile racquistato di Perlone Zipoli colle note di Puccio Lamoni e d’altri, Edizione conforme alla Fiorentina del 1750, In Prato, Nella stamperia di Luigi Vannini, 1815,to. ii, p. 123). Il Rovai è citato nella vita di Lorenzo Lippi scritta da Filippo Baldinucci come colui che più lo incoraggiò alla composizione del Malmantile; fra l’altro, recitò nel carnevale del 1626 a casa di Agnolo e Lorenzo del Turco. Fece parte dell’Accademia dei Percossi, che si riuniva a casa di Salvator Rosa (cfr. A. Belloni, Il Seicento,in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1929, p. 300). Su di lui e sugli altri scapigliati fiorentini (in particolare sul loro capofila, Curzio Marignolli) cfr. G. Masi, “Gente scapigliatissima e bizzarra”. La poesia libertina di Curzio Marignolli, in Extravagances amoureuses: l’amour au-delà de la norme à la Renaissance. Stravaganze amorose: l’amore oltre la norma nel Rinascimento, Actes du colloque international du groupe de recherche Cinquecento plurale, Tours, 18-20 septembre 2008, Sous la direction de Élise Boillet et Chiara Lastraioli, Paris, Honoré Champion, 2010, pp. 341-414.
10 <m>ondo: a testo: «biondo».
11 A capo segue «quando», parola-richiamo per la pagina seguente.
12 Dal ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 873 (sec. XVII), pp. 53-54. Nell’indice (probabilmente di mano di Francesco Rovai),ac.[4] v si legge: «di incerto. Sonetto in nome di Baccio Bandinelli quando fece l’Ercole e ’l Cacco; comincia: Fassi fede per me Baccio scultore a 52». Varianti presenti nel citato Zibaldone del Marmi, ossia il ms. Magliabechiano, VIII, 16: titolo: Sonetto di Baccio; 2 rinuntio [...] gigant’il; 3 et; 6 et; 7 avuto; 9 Et io; 12 et; 17 un fan [biffato, segue lacuna] ... alla sgherra; 19 quando e’.
13 Si tratta della ricevuta di un prestito, datata 3 gennaio 1551; la formula iniziale del documento è: «Fassi fede per me Bartholomeo di Michelagnolo Bandinelli come [...]», mentre ogni dichiarazione si chiude con l’attestazione di autografia: «Et per fede del vero ho fatto questi [versi, cioè ‘righe’] di mia propria mano, hoggi questo sopradetto dì in Firenze» (cito da L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court. A Corpus of early modern Sources, Philadelphia, American Philosophical Society, 2004, p. 454 doc. 786).
14 Ed è appunto Ercole il Gigans che loquitur plebi nell’anonimo sonetto pasquinesco «Tu non debi saper, plebaccia, ch’io» (cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 261). Al v. 26 di tale sonetto è espresso il rammarico della statua per le offese ricevute dal suo realizzatore, in questi termini: «ma più mi duol del mie gran Chavalero», il quale qui sembra ricambiare la stima del suo personaggio.
15 Cfr. le definizioni e gli esempi riportati nel Grande Dizionario della Lingua Italiana,s.v. rinunziare1, §§ 10 e 11.
16 I due autoritratti bandinelliani, assegnati agli anni Quaranta, sono visibili in L. Barkan, Unearthing the Past: Archaeology and Aesthetics in the Making of Renaissance Culture, New Haven and London, Yale University Press, 1999, p. 305, figg. 5.15 (dipinto all’Isabella Stuart Gardner Museum di Boston) e 5.16 (incisione di Niccolò della Casa conservata nel Museum of Fine Arts di Boston). Sui ritratti di Bandinelli cfr. R. Handley, «A Portrait of Bandinelli », Fenway Court, i,n° 3, 1966, pp. 17-24. I simboli del cavalierato furono allusivamente scolpiti dal Bandinelli sul suo Cristo morto con un angelo per il coro del Duomo: «On the angel’s baldric – traditionally a favored spot for sculptors to carve their names – Baccio sculpted a pattern of crosses of Santiago, in alternation with decorative roundels. On his breast and back, where this baldric attaches to his mantle, the sculptor placed a handsomely carved circular brooch decorated with the scallop-shell emblem of St. James» (L. A. Waldman, The Choir of Florence Cathedral: Transformations of Sacred Space, 1334-1572, tesi di Ph. D. (maggio 1999), Ann Arbor (Michigan), umi Dissertation Services, 2003, p. 160).
17 Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura [...] Si aggiungano: I Discorsi e i Ricordi intorno all’arte. Le Lettere e le Suppliche. Le Poesie, a cura di Carlo Milanesi, Firenze, Le Monnier, 1857, p. 8; riportato in Opere di Baldassare Castiglione Giovanni Della Casa Benvenuto Cellini, a cura di Carlo Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 973. Da notare la polemica ascrizione dell’iniziativa della nobilitazione di Baccio al papa e non all’imperatore: quest’ultimo, insomma, avrebbe fatto solo una concessione ai veri “padroni” di Baccio, i Medici, dopo la riconciliazione seguita alla sconfitta della Lega di Cognac.
18 Addirittura, Vasari arrivò a imputare al Bandinelli la responsabilità della distruzione del famoso cartone michelangiolesco della battaglia di Cascina, collocandola ai tempi della «mutazione» del 1512: «Nel tumulto adunque del palazzo per la rinnovazione dello stato, Baccio da sé solo segretamente stracciò il cartone in molti pezzi. Di che non si sapendo la causa, alcuni dicevano che Baccio l’aveva stracciato per avere appresso di sé qualche pezzo del cartone a suo modo; alcuni giudicarono che egli volesse tòrre a’ giovani quella commodità, perché non avessino a profittare e farsi noti nell’arte; alcuni dicevano che a far questo lo mosse l’affezione di Lionardo da Vinci, al quale il cartone del Buonarroto aveva tolto molta riputazione; alcuni, forse meglio interpretando, ne davano la causa all’odio che egli portava a Michelagnolo, sì come poi fece vedere in tutta la vita sua. Fu la perdita del cartone alla città non piccola, ed il carico di Baccio grandissimo, il quale meritamente gli fu dato da ciascuno, e d’invidioso e di maligno», Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, pp. 137-38. È lecito dubitare della veridicità dell’accusa vasariana, come ha fatto con buone ragioni Leonid Barkan, facendo rilevare che «at the equivalent moment in the Life of Michelangelo, the prime cause is held to be the illness of Giuliano de’ Medici in 1516» (L. Barkan, Unearthing the Past, cit., p. 320 e nota 93; cfr. infatti Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vii, p. 161). Le velleità emulative nei confronti di Michelangelo, stando sempre a Vasari, emersero ai tempi della realizzazione di un Ercole di stucco per la Loggia de’ Signori, di cui parleremo fra breve, e naturalmente al momento in cui gli fu assegnato l’Ercole e Caco, «vantandosi lui di passare il Davitte di Michelagnolo» Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 149. Anche l’Aretino, in una lettera piuttosto risentita in cui accusava pubblicamente il Bandinelli di ingratitudine nei propri confronti, gli rimproverava la «prosonzione [...] che si arrischia con temeraria fantasticaria di voler superare Michel Agnolo» (lettera da Venezia dell’ottobre 1545, inPietro Aretino, Lettere. Libro terzo, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 1999, p. 334 n° 378). Cfr. D. Heikamp, Baccio Bandinelli nel Duomo di Firenze,in Paragone. Arte, 175, luglio 1964, p. 32-42, a p. 36.
19 Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 160.
20 Lo stesso meccanismo denigratorio è alla base dell’aneddoto vasariano della gentildonna davanti all’Adamo ed Eva del Bandinelli: la quale, definendo Eva «bianca e soda», «ingegnosamente mostrando di lodare, biasimò copertamente, e morse l’artefice e l’artifizio suo, dando alla statua quelle lode proprie de’ corpi femminili, le quali è necessario intendere della materia del marmo; e di lui [= ‘del marmo’] son vere, ma dell’opera e dell’artifizio no, perciocché l’artifizio quelle lode non lodano. Mostrò adunque quella valente donna, che altro non si poteva secondo lei lodare in quella statua, se non il marmo» Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 181. Il fulcro critico dell’aneddoto venne ripreso da Raffaello Borghini nel Riposo del 1584, laddove scrive che il Dio Padre del Bandinelli «mostra più del marmo che dell’arte» (cit. in L. A Waldman, The Choir of Florence Cathedral, cit., p. 211).
21 Si noti l’analogo apparente apprezzamento dell’Etrusco nei confronti del Cristo morto: «u(n) fante grosso, biancho, unico e bello» (son. Per Baccio Bandinelli scultore,v. 5; cit. in G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco (Alfonso de’ Pazzi),in Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, Atti del Seminario internazionale di studi (Urbino-Sassocorvaro, 9-11 novembre 2006), a cura di Antonio Corsaro, Harald Hendrix, Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2007, pp. 301-58, a p. 354.
22 Sul topos del bel marmo rovinato, che dall’Ercole e Caco approda al Nettuno, cfr.G.Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 226 e nota 17.
23 Fra gli altri esempi cfr. Giovanni Boccaccio, Decameron, viii, 10, 10: «E essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto».
24 Il 30 novembre 1515 papa Leone X, diretto a Bologna per firmare l’accordo di pace con Francesco I dopo la vittoria del re francese a Marignano, giunse a Firenze, dove per l’occasione fu allestito un vero e proprio trionfo. «Et in su la loggia de’ Signori sì v’era uno giugante fatto di terra, colorito a modo che se fussi di bronzo, ed era della grandezza che è quello di marmo che è in sulla ringhiera del palazzo di detti Signori» (Ricordanze di Bartolomeo Masi, calderaio fiorentino, dal 1478 al 1526, a cura di Giuseppe Odoardo Corazzini, Firenze, Sansoni, 1906, p. 167). Si trattava di un Ercole di stucco colorato in modo da sembrare bronzo per fare pendant con la Giuditta di Donatello, che allora si trovava in posizione simmetrica al nuovo Ercole, sotto il terzo arco della Loggia; il tutto è visibile in una ricostruzione a posteriori (del 1561), l’affresco vasariano in Palazzo Vecchio Papa Leone X attraversa piazza della Signoria nel suo ingresso trionfale a Firenze. L’intera documentazione scritta e iconografica sull’evento è disponibile nella monografia di I. Ciseri, L’ingresso trionfale di Leone X in Firenze nel 1515, Firenze, Olschki, 1990. Il posto dell’effimero manufatto bandinelliano sarebbe stato preso nel 1553-’54 dal Perseo di Benvenuto Cellini.
25 L’aneddoto premonitore sulle attitudini dell’artista, topos ricorrente nelle Vite vasariane, è indizio inequivocabile della sua futura propensione a realizzare statue colossali («sempre fu vago di far giganti», Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 144): «Essendo ancora Baccio nell’età fanciullesca, si riparava alcuna volta nella bottega di Girolamo del Buda, pittore ordinario, su la piazza di San Pulinari; dove essendo un verno venuta gran copia di neve, e dipoi dalla gente ammontata su detta piazza, Girolamo rivolto a Baccio gli disse per ischerzo: Baccio, se questa neve fussi marmo, non se ne caverebbe egli un bel gigante, come Marforio, a giacere? Caverebbesi; rispose Baccio; ed io voglio che noi facciamo come se fusse marmo; e posata prestamente la cappa, messe nella neve le mani, e da altri fanciulli aiutato, scemando la neve dove era troppa ed altrove aggiugnendo, fece una bozza d’un Marforio di braccia otto, a giacere: di che il pittore ed ognuno restorono maravigliati, non tanto di ciò che egli avesse fatto, quanto dell’animo che egli ebbe di mettersi a sì gran lavoro, così piccolo e fanciullo» (ivi, p. 135).
26 Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, pp. 141-42.
27 Cfr. M. Spagnolo, Poesie contro le opere d’arte: arguzia, biasimo e ironia nella critica d’arte del Cinquecento,in Ex marmore, cit., p. 321-54, in particolare il sonetto del Pistoia (Appendice, i), il secondo dello Strazzola (ivi, ii.2) e quello del Lasca (ivi, iv.2), che se la prende con le statue bandinelliane per il coro del Duomo: «Dio Padre e ’l Figlio, Eva Adamo hai fatti / quattro birboni storpiati e rattratti».
28 Gigans loquitur plebi,v. 26 (in G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 262). La reciprocità affettiva opera-autore è simmetrica anche nel movente che ne sollecita l’esternazione: nel sonetto inedito è l’autore che difende il suo gigante dalle offese dei detrattori, in Gigans loquitur plebi è il gigante che difende il suo autore dalle stesse ingiurie (cfr. supra, nota 14).
29 G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 263.
30 È esattamente il giudizio formulato da Vasari sul San Pietro del Bandinelli: «benché non con tutta la perfezione della scultura, nondimeno si vede in lui buon disegno» (Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 141). Del resto l’apprezza-mento per il suo disegno è incondizionato: «Ma perché il suo disegnare – al che si vede che egli più che ad altro attese – fu tale e di tanta bontà che supera ogni suo difetto di natura, e lo fa conoscere per uomo raro di questa arte, noi per ciò non solamente lo annoveriamo tra i maggiori, ma sempre abbiamo avuto rispetto all’opere sue, e cerco abbiamo non di guastarle, ma di finirle e di fare loro onore» (ivi, p. 195). Nell’epico scontro col Cellini al cospetto del duca, dopo la sistematica stroncatura dell’Ercole e Caco attuata da Benvenuto, Baccio fa un estremo appello alla sua dote universalmente riconosciuta: «“Ahi, cattiva linguaccia, o dove lasci tu ’l mio disegno?” Io dissi che, chi disegnava bene e’ non poteva operar mai male: ”Inperò io crederrò che ’l tuo disegno sia come sono le opere“» (Vita, ii 71; inBenvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 654-55); al che, ferito nell’orgoglio, il Bandinelli scade nell’insulto («Oh sta’ cheto, sodomitaccio!»). Cfr.L.Barkan, Unearthing the Past: Archaeology and Aesthetics in the Making of Renaissance Culture, New Haven and London, Yale University Press, 1999, p. 304-6, p. 324.
31 Sonetto «Bandinello, hai tu fatto quel gigante», vv. 12-14 (cfr. G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco, cit., p. 354).
32 Per esempio, il primo modello grande di cera dell’Ercole e Caco,adifferenza della statua finita, dovette essere apprezzato molto non solo dal committente, se anche il Vasari ammette che esso era considerato «dagli artefici cosa rara» (Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 150). Analogo successo riscosse il modello del coro di Santa Maria del Fiore (poi letteralmente demolito dai critici in tutte le sue parti, una volta realizzato, cfr. supra, nota 7): «Fu mostro al duca questo modello, ed ancora doppi disegni fatti da Baccio; i quali sì per la varietà e quantità, come ancora per la loro bellezza, perciocché Baccio lavorava di cera fieramente e disegnava bene, piacquero a Sua Eccellenza» (ivi, p. 179). Cfr. L. Barkan, Unearthing the Past, cit., p. 322 e p. 330.
33 L’importanza primaria del disegno preparatorio dell’opera – quindi l’idea di fondo, la struttura – è al centro delle critiche mosse dallo stesso Baccio ad Andrea Sansovino, attaccato perché la sua opera «non aveva disegno» (dunque un difetto speculare a quello rimproverato da Vasari al San Pietro bandinelliano, di cui supra nella nota 30). Il Sansovino replicò «dicendo che l’opere si fanno con le mani, non con la lingua; e che ’l buon disegno non sta nelle carte, ma nella perfezione dell’opera finita nel sasso» (Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, pp. 142-43). Anche il Cellini attesta che Baccio era intervenuto in termini affini dinanzi a papa Clemente VII, che aveva commissionato a Benvenuto una medaglia: «“A questi orafi, di queste cose belle bisogna lor fare e’ disegni”. Al quale io subito mi volsi et dissi che io non avevo bisogno di sua disegni per l’arte mia, ma che io speravo bene, con qualche tempo, che con i mia disegni io darei noia a l’arte sua» (Vita,i 45; in Benvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 175).
34 Pubblicato in Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 154 nota 1, e da ultimo in L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court, cit., p. 911-12. Cfr. su di esso G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 224.
35 Cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 238-45.
36 girifalco: rapace apprezzato in falconeria.
37 testimon’ da Montefalco: questa espressione, che fa riferimento apparentemente alla località umbra da cui i testimoni proverrebbero, è assente dai lessici e dai dizionari di proverbi, e trova spiegazione solo grazie alla monumentale raccolta paremiologica di Francesco Serdonati, conservata manoscritta presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, ms. Mediceo Palatino LXII1-4 (in quattro tomi), to. iv c. 176r: «Testimoni da Montefalco, per un giulio testificano quel che altrui vuole». Anton Maria Salvini citò tale espressione nel suo Progetto di risposta [...] da farsi all’Anticrusca di Mess. Paolo Beni, per spiegare lo pseudonimo assunto nella sua risposta, attribuita appunto a un «Morando Tagliaferro umanista della comunità di Montefalco» (in Saggio di lettere di Orazio Rucellai e di testimonianze autorevoli in lode e difesa dell’Accademia della Crusca, Firenze, nella Stamperia Magheri, 1826, p. 189).
38 ch’à ... palco: l’espressione dovrebbe valere ‘che ha preso l’abitudine di ubriacarsi’ (il ballonzolare dell’orso ricorda il barcollare dell’ubriaco).
39 con reverentia: ‘con rispetto parlando’.
40 Baccellone: falso accrescitivo per il gran commendatore, che significa ‘minchione’.
41 mettetelo in mezzo: ‘fategli cerchio intorno (per onorarlo)’, ma anche ‘prendetelo in giro, imbrogliatelo’. Per evitare l’ipometria, bisogna presupporre qui una dialefe (mettetelo | in).
42 al badalone: ‘in malora’.
43 Il testo di Waldman presenta in questo verso un evidente refuso: «che ti faccia fa fuggir [...]».
44 Sonetto caudato anonimo, pubblicato da ultimo in L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court, cit., pp. 911-12 n° 1, dal manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 720, c. 299. L’ultimo verso rammenta la battuta finale di un aneddoto riportato dal Doni nella sua Zucca avente per protagonista Antonio Carafulla: «Non è dubio che alcune persone dimostrano voler mettere a effetto una cosa e poi ne fanno un’altra. Ci son molti che portano nel petto veleno assai e sempre hanno paroline buone. Usava dire il Carafulla: «Tal grida “Palle Palle!” che farebbe [= ‘equivarrebbe’] a “Dàlle dàlle”». In questo proposito si costuma dire in proverbio: Ei dice con la bocca e non col cuore», Anton Francesco Doni, Le novelle, to. ii, La zucca, a cura di Elena Pierazzo, Roma, Salerno Editrice, 2003, vol. i, p. 38. L’assegnazione del detto al buffone fiorentino, personaggio ricorrente nelle opere doniane, non è casuale: pare che egli, al tempo dell’assedio, fosse imprigionato dai repubblicani per le sue imprudenti parole in rimpianto dell’abbondanza e dei più accessibili prezzi praticati sotto il passato regime, pronunziate (da fool quale egli era) apertamente e in pubblico. L’episodio è ricordato dal Giovio nelle Historiæ sui temporis: «Quin etiam ab intemperanti odio in Mediceos, quod civitati maxime pudendum et hostibus pariter ridendum fuit, Antonium Carafullam, a vetere insania non insultum morionem Mediceae domus familiarem, in eum carcerem, qui Stincus appellatur, duci iusserunt quod, perambulando urbem vociferandoque comitantibus et arridentibus pueris, decuriones et aediles dixisset nunquam recte annonam curaturos nisi Mediceorum instituta ad memoriam presentemque usum revocarent: quo vili pretio commeatum omnis generis coëmendum in omnibus foris proponere consuevissent. Sed Carafulla, quum traherentur a lictoribus, subinde dixerat (quod diuturnae ei calamitati fuit): Neque vos apparitores, qui me invitum perducitis, propterea minoris pretii emptam quam sesqui aureo nivei panis heminam comedetis», Paolo Giovio, Opera, vol. iv, Historiarum sui temporis, curante Dante Visconti, to. ii, parte i, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1964, p. 156. L’imprigionamento (ripreso anche da Serdonati e da Scipione Ammirato) è confermato dai versi di un anonimo antimediceo citati da R. Bragantini, Altre schede per Carafulla,in Saggi di linguistica e di letteratura in memoria di Paolo Zolli, a cura di Giampaolo Borghello, Manlio Cortelazzo, Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1991, p. 490. Un altro episodio, che vede il Carafulla costretto dai repubblicani a gridare «Libertà!» invece di «Palle!», al che egli rispose: «Libertà! Libertà! fino alla porta e non più in là», è citato dal Serdonati nella sua summenzionata raccolta laurenziana (cfr. F. Ageno, Un personaggio proverbiale: il Carafulla, in Ead., Studi lessicali, a cura di Paolo Bongrani, Franca Magnani e Domizia Trolli, introduzione di Ghino Ghinassi, Bologna, Clueb, 2000, pp. 354-55).
45 Sonetto caudato anonimo, pubblicato da ultimo in G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 264-66 n° iv, dove è attribuito a Benvenuto Cellini; tratto dal manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 1178,c. xxviiir-v.
46 Intorno al 1529 il primo sul cavalierato, al 1534 quello sull’Ercole e Caco e al 1552 quello sul Cristo morto.
47 Sull’identificazione della «figura» cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 224-25.
48 Nella Vita celliniana, durante la disputa sul Ganimede antico, prima dell’epico scontro sull’Ercole e Caco davanti al duca, così è descritto il Bandinelli: «inmentre che io dicevo queste cose il Bandinello si scontorceva et faceva i più brutti visi del suo viso, che era bruttissimo, che inmaginar si possa al mondo» (Vita, ii 70; in Benvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 651). Una similitudine animalesca è usata poco dopo da Cellini per denigrare le fattezze dell’Ercole bandinelliano: «quella sua faccia e’ non si conosce se l’è di uomo o se l’è di lionbue» (ivi, p. 653). Più avanti, di nuovo su Bandinelli: «quel suo bruttissimo visaccio» (Vita, ii 71; ivi, p. 655).
49 Nel sonetto celliniano «Fiesole e Settignian, Pinzedimonte» (Benvenuto Cellini, Rime, introduzione e commento di Vittorio Gatto, Roma, Archivio Guido Izzi, 2001, p. 100-1 n° 64) Bandinelli è definito «avaro scarpellino» e implicitamente accomunato ai suoi compatrioti-sostenitori, originari del contado: «la vostra forma e l’arrogante voce / dimostran che di luoghi alpestri siete» (vv. 7 e 9-10).
50 È possibile che al Cristo morto vada riferito anche il frammento di sonetto del Lasca, intitolato Al Cavalier Bandinello, che presenta la stessa critica rivolta a un’opera non precisatata: «[...] ’n questo tuo marmo stravagante / non si conosce e non s’intende nulla» (da ultimo in L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court, cit., p. 922).
51 Corrispondente al «fanciullino dell’età di dieci anni» con lui in groppa al «muluccio» sulla piazza di San Domenico (cfr. Vita, ii 66; in Benvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 645), con cui Cellini sembra voler implicitamente rimbeccare il «sodomitaccio» ricevuto dal Bandinelli in presenza del duca.
52 Qualifica presente, nella forma «scarpellino», nell’intestazione del Sonetto facto a Baccio scarpellino e nel v. 17 dello stesso («veder un scarpellin Comendatore»), così come nel v. 7 del sonetto celliniano «Fiesol e Settignian, Pinzedimonte»: «invidioso avaro scarpellino»; ritorna anche nel sonetto inedito sull’Ercole e Caco, al v. 9: «io son stato Baccio scarpellino». Quella “nobile” di «scultore» è nell’incipit di quest’ultimo sonetto («Fassi fede per me Baccio scultore») come nella prima occorrenza della Vita celliniana («Bandinello scultore», Vita,i 45;in Benvenuto Cellini, La Vita, p. 175).
53 Per la verosimile reminiscenza dell’incipit del sonetto contro Forese, «Bicci novel, figliuol di non so cui», agevolata dalla paronomasia Bicci-Baccio, cfr.G.Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., p. 224.
54 Cfr. anche l’incipit di Alfonso de’ Pazzi che parodia le pompose iscrizioni apposte dallo scultore sui basamenti delle proprie statue: «O Baccius facïebat Bandinello», sonetto composto per satireggiare il Cristo morto con un angelo (su cui cfr. G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco, cit., pp. 343-44 ep. 354 n° 13). Tale la già citata iscrizione dell’Ercole e Caco:«baccivs bandinell. flor. faciebat. mdxxxiiii», quella dell’Adamo trasformato in Bacco:«baccivs bandinellvs florentinvs eqves faciebat» (cfr. L. A. Waldman, The Choir of Florence Cathedral, cit., p. 125), quella originariamente presente sotto il gruppo di Adamo ed Eva: «bacivs bandinellvs civis florentinvs eqves sancti iacobi faciebat m.d.l.i» (cfr. ivi, p. 141), e quella alla base del Laocoonte, che dovette essere aggiunta dopo il 1529: «baccivs bandinellvs florentinvs sancti iacobi eqves faciebat» (cfr. W. Liebenwein, Clemente VII e il ‘Laocoonte’,in Benvenuto Cellini. Kunst und Kunsttheorie im 16. Jahrhundert, herausgegeben von Alessandro Nova und Anna Schreurs, Köln, Böhlau Verlag, 2003, pp. 268-69 e nota 58). Detlef Heikamp, che per primo pubblicò il sonetto dell’Etrusco, riferì invece il verso incipitario all’acquisizione del nuovo cognome (cfr. D. Heikamp, Poesie in vituperio del Bandinelli, in Paragone. Arte, 175, luglio 1964, pp. 59-68, a p. 66; cfr. Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971-1977, vol. ii, p. 1372 nota 10).
55 Cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 241-45.
56 Vita, ii 54; in Benvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 612.
57 Cfr. supra, il testo di cui alla nota 17.
58 Vasari è chiamato «Giorgino» e «Giorgetto» (Benvenuto Cellini, La Vita, cit., p. 312 e 742 [i 86 e ii 101]; Id., Rime, cit., p. 166,n° 111 v. 17, 194,n° 127 v. 6); ma così anche Alfonso de’ Pazzi: «Giorgin cava del marcio Benvenuto», incipit del sonetto pubblicato in L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court, cit., p. 14, secondo la lezione del manoscritto conservato a Firenze, Archivio di Stato, Guardaroba Medicea 221. In ogni caso, il gioco espressivo sui suffissi (peggiorativi, diminutivi, vezzeggiativi) è, in generale, tratto stilistico saliente dell’autore della Vita.
59 Si tratta di una lettera indirizzata da Cellini al duca Cosimo nel 1548 a proposito del busto di quest’ultimo (cit. in D. Heikamp, In margine alla ‘Vita di Baccio Bandinelli’ del Vasari,in Paragone. Arte, 191, gennaio 1966, pp. 51-62, alle pp. 57-58).
60 Un simile “ritorno” è anche nella biografia vasariana: il giovane Baccio, acquisito «nome di gran disegnatore», e poi «apparato il modo del colorire», tentò anche la tecnica dell’affresco, sperimentandola in casa sua: «ma vedendo che ciò gli arrecava più difficultà ch’e’ non s’era promesso nel seccare della calcina, ritornò allo studio di prima a far di rilievo» (Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 138 e p. 139). Anzi, successivamente, dopo il giudizio negativo di Michelangelo su una sua pittura, abbandonò anche quest’ultima arte: «i disegni di Baccio erano bellissimi, ma co’ colori gli conduceva male e senza grazia: perché egli si risolvé a non dipignere più di sua mano [...]» (Giorgio Vasari, Le Opere, cit., vol. vi, p. 152).
61 Il Lasca è l’autore di componimenti antibandinelliani sul Cristo morto (un frammento di sonetto, cfr. supra, nota 50; e un sonetto, su cui cfr. G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere, cit., pp. 230-31, p. 240, pp. 245-47; testo ivi, pp. 266-68 n° v; in quest’ultimo si riscontra il biasimo per l’incapacità rappresentativa di Baccio: doveva fare Cristo, ha fatto un disgraziato essere deforme e senza nome) e di una sonettessa Contro Baccio Bandinelli scultore per le sue statue fatte nel coro della Metropolitana di Firenze, trascritta in L. A. Waldman, Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court, cit., p. 920-21 append. iii n° 17. Per l’Etrusco cfr. G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco, cit., pp. 353-55 ni 12-15 (un sonetto per il Cristo morto, un altro su tutte le statue per il coro del Duomo, un finto epitaffio in vita e un finto funerale del Varchi del quale il Bandinelli sarebbe stato incaricato di realizzare il busto).
62 Si riferisce ai membri della Compagnia delle Cornacchie, su cui cfr. la canzone a ballo dell’Etrusco «Le cornachie han post’el tetto» e il madrigale «Orfeo sonando la sonora lira», in vari manoscritti intitolato appunto Alla Compagnia delle Cornacchie. Cfr. anche, per i «cornacchioni», il sonetto del Lasca A M. Antonio Alberti, «Di quanti stati son mai nel passato», v. 13, Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, a cura di Carlo Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, p. 66 n° lxxix,e la Canzone non finita a M. Alfonso de’ Pazzi, dello stesso Lasca (incipit: «Su, su, Cornacchie, aguzzatevi l’ugna»; edita ivi, p. 154 n° vi). Così il Moücke glossa il sonetto grazziniano ad Antonio Alberti: «Col nome di Cornacchie, Cornacchiotti e Cornacchioni era distinta una brigata d’uomini bizzarri, i quali si dilettavano nelle loro adunanze di criticare le azioni di tutti. Alcuni di questi sono nominati da Alfonso de’ Pazzi nella canzone a ballo [«Le cornachie han post’el tetto»]: Su cornacchie alla pancaccia / cornacchiotti bigi e neri / su Ciapetti Bacci e Pieri. Nel sopramentovato ms. delle Rime del Pazzi [Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Palatino Vincenzo Capponi 134, esemplato dal figlio di Alfonso], dopo la Canzone suddetta vi è questa nota: “Ciapetto Pitti, Baccio Cambi, Piero Mannelli ecc. che continovamente stavano alla panca del Canto di via Maggio, presso a’ Frescobaldi, a pie’ del ponte a S. Trinita: e quivi sempre gracchiavano”» (Anton Francesco Grazzini, Rime, [a cura di Francesco Moücke e Anton Maria Biscioni,] Firenze, Nella stamperia di Francesco Moücke, 1741-1742, vol. i, p. 299).
63 colla canzone: allude alla canzone a ballo del Lasca in morte dell’Ambraino, la cavalcatura miracolosa dell’Etrusco: «Pianga ognuno a capo chino, / ché gli è morto l’Ambraino» è la ripresa (Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., pp. 159-60 n° i). Ai vv. 39-40 della stessa, infatti, si legge che «L’Accademia ha ordinato / fra sei giorni di cassallo».
64 triste: nel manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Banco Rari 61: «vili e» (lezione condivisa dalla tradizione manoscritta, a detta del Verzone: cfr. la nota seguente).
65 Pubblicato in Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 40 n° xlvi, dal codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II.IV.249 (già Magliabechiano, VII, 490, quasi interamente autografo del Lasca: cfr. la scheda di Franco Pignatti in Autografidei letterati italiani. Il Cinquecento,to. i, Roma, Salerno Editrice, p. 231). Attestato anche nel citato manoscritto Banco Rari 61, non autografo.
66 I buriassi erano gli allenatori dei cavalieri per i tornei (ne parla ampiamente il Pulci nella sua Giostra), ma anche (ed è questo il significato nei versi del Lasca) i suggeritori per i poeti improvvisatori (cfr. le due accezioni nel Grande dizionario del Battaglia, s. v.). Cfr., per questo significato, un sonetto del Pulci a Matteo Franco: «E’ si conosce fra’ tuoi zibaldoni / un certo burïasso [...]», Luigi Pulci, Opere minori, a cura di Paolo Orvieto, Milano, Mursia, 1986, p. 163 n° v.
67 Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 160 n° i, vv. 30-37.
68 La sicura data di nascita del Lasca, il 22 marzo 1505, è stata recentemente indicata da Vanni BRAMANTI, Il Lasca e la famiglia della Fonte (da alcune lettere inedite), in Schede Umanistiche,n.s., xviii, n° 1, 2004, p. 19-40, a p. 20.
69 Per il sonetto, apparso in appendice all’Oratione funeraria per Michelangelo del Tarsia, cfr. Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 84 (riportato anche in Benvenuto Cellini, Rime, cit., p. 7; e cfr. ivi, p. 6 nota 1-3). La risposta polemica per le rime (anzi, per le parole in rima) di Cellini si legge ivi, p. 5 n° 1: «O voi, ch’avete, non sapendo, sparte»; Cellini rincarò la dose nel sonetto Il Boschereccio contro il Lasca («Se le lasche, col tempo, la natura»), ivi, p. 8 n° 2.
70 Si tratta del ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 1348,cc. 1r-105r, porzione autografa del Lasca (ms. che il Verzone per errore indica come 1248: cfr. Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. lx); la sezione in “lode” del Varchi si trova alle cc. 35r-50v, ed è preceduta da una lettera «A M(es)ser Benedetto Varchi» firmata «L’anima d’Alfonso Pazzi» (trascritta in Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 27), che indurrebbe a ipotizzare una stesura post mortem dell’Etrusco, cioè dopo il 1555 (nel ms. 1513 della Biblioteca Statale di Lucca, difatti, la lettera è datata «Di quest’altro mondo, l’anno de’ vivi 1556»; ma tale manoscritto non è autografo, e l’ipotesi di datazione non è certa, considerato l’uso burlesco di “anticipare” la dipartita dei propri bersagli, e tale era per il Lasca anche l’Etusco, visto che, significativamente, alla sezione antivarchiana fa seguito un’altrettanto antifrastica sezione In lode d’Alfonso de’ Pazzi). All’inizio del manoscritto figura una lettera a Giovanni Mazzuoli del maggio 1547 a precedere La Guerra de’ mostri (sembra lo stesso contenuto del ms. della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, Antinori 57). Cfr. la scheda di Franco Pignatti in Autografidei letterati italiani. Il Cinquecento,to. i, cit., p. 231 n° 20 (e n° o 5).
71 Cfr. G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’Etrusco, cit., pp. 337-39 (anche per le critiche infastidite del Lasca in proposito).
72 Con l’incipit «Fassi noto a·cciascun come oggi el Varchi», una quartina del sonetto si trova nel ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 361, c. 84r (nella parte in cui è idiografo, quindi molto autorevole, tra i Sonetti non forniti) e, intero, nel Magliabechiano, VII, 536, c. 47v (si tratta di una raccolta datata 1561 di Poesie varie [di Alfonso de’ Pazzi] scritte da Girolamo Amelonghi). Il Moücke lo cita, attribuendolo ad Alfonso, dicendo di averlo tratto dal ms. Palatino Vincenzo Capponi 134 (Anton Francesco Grazzini, Rime, cit., vol. ii, p. 376), contenente la raccolta messa insieme dal figlio del Pazzi nel 1572-73: ma in questo codice il sonetto non c’è. Copie posteriori, sette-ottocentesche, sono nel Magliabechiano, VII, 868, p. 89 (copia eseguita dal Biscioni); nel ms. 1527 della Biblioteca Statale di Lucca (forse copia del precedente); nel ms. Palatino, 244, p. 68 (le poesie del Pazzi furono fatte trascrivere da Rosso Antonio Martini nel dicembre 1723, basandosi sulla citata raccolta Biscioni o forse su un altro ms. da essa derivato, il Palatino 248); e nel ms. della Biblioteca Riccardiana di Firenze, Moreniano 216, c. 180r. Verzone ne sostenne l’attribuzione al Lasca in Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. cxiii; lo si legge ivi, pp. 25-26 n° xxvi, in una versione in cui manca la prima terzina e si riscontrano alcune varianti rispetto a quelle summenzionate, versione tratta dal citato autografo del Grazzini, Magliabechiano, VII, 1348, c. 45r-v; cfr. la nota seguente per le varianti.
73 Cito dal ms. della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliabechiano, VII, 536, c. 47v. Il sonetto è riportato dal Poggiali nella sua Serie de’ testi di lingua stampati che si citano nel Vocabolario degli Accademici della Crusca, posseduta da Gaetano Poggiali, Livorno, Presso Tommaso Masi e Comp. °, 1813,to. i, p. 248; egli afferma di averlo tratto dalla copia delle poesie dell’Etrusco compilata da Rosso Antonio Martini e arricchita di varianti dal Biscioni, ossia il citato ms. Palatino, 244. Quest’ultima versione, che risale a quella esemplata dal Biscioni, non presenta varianti sostanziali rispetto a quella che qui si riporta. Due versi varianti si leggono invece nell’autografo del Lasca: 4 ch’ei non vuol più sentir nominar Varchi; 14 Varchi non più, ma viva mastro Feo. Ulteriori varianti sono in un’altra versione citata dal Verzone (Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 26 in nota), molto diversa (è un sonetto caudato) e attribuita al Lasca, presente nel manoscritto della Biblioteca Statale di Lucca, n° 1513: «E chi è amico e vuol gradire il Varchi / domanda e chiama il Varchi mastro Feo, / se non vuol nimicarsi in tutto il Varchi. / Vada in bordello il Varchi / et onorisi sol maestro Feo / a disonor del Varchi in tutto Ebreo» (vv. 12-17). Quest’ultimo verso pare composto per rafforzare il legame con l’incipit del sonetto-séguito del Lasca, di cui si dirà fra breve.
74 Il verso significa che il nuovo nome, mastro Feo, è appropriato al Varchi («da suo par») più di quanto non sia appropriata la cetra a Orfeo.
75 Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, cit., p. 25 n° xxv; dal ms. Magliabechiano, VII, 1348, cc. 44v-45r.
76 Cfr. i parr. i 75-76 e 80-81 della Vita.