Titre de section
SECTION_ITA_16_1
La poesia comica di Michelangelo. Per una nuova edizione dei testi
Risale al 1984 uno studio di Danilo Romei dal titolo “Bernismo” di Michelangelo, adesso riproposto in un recente volume del 2007. 1L’obbiettivo apparente-mente circoscritto, e cioè la relazione equivoca, impropria e al limite inesistente tra il presunto ‘bernismo’ di Michelangelo e la nuova maniera poetica (incentrata soprattutto sul capitolo burlesco e paradossale) di Berni e dei suoi sodali, non ostacolava, anzi incoraggiava nell’occa-sione una ricognizione estesa sulla poesia comica dell’artista. Dalla quale emergeva prima di tutto un esercizio sporadico e frammentario, connotato dall’assenza pressoché completa di generi tipicamente cinquecenteschi (come il capitolo giocoso e la pasquinata) con l’unica eccezione di un ternario responsivo allo stesso Berni, assai singolare negli esiti, e all’opposto ben riconoscibile per modalità attardate di chiara matrice quattrocentesca. Con approcci variamente orientati si sono mossi negli anni successivi altri interventi (dei quali si rende conto nel prosieguo), indubbiamente utili a chiarire ancor più, a livello testuale e analitico, aspetti specifici di alcune poesie michelangiolesche. Ciò che adesso appare utile, e che il presente contributo intende affrontare, è una nuova ricognizione organica dei testi, intesa a definire nella sua completezza il corpus comico di Michelangelo, ordinandolo e organizzandolo in modo compatto (per quanto possibile) rispetto alla edizione critica di Enzo Noè Girardi,2nella quale notoriamente i testi appaiono dispersi in ragione dell’ordinamento cronologico che vi presiede. I testi vengono qui presentati traendo dai materiali preparatori a una nuova edizione complessiva delle rime michelangiolesche in corso di allestimento a opera di chi scrive, alla base della quale è l’idea che le poesie dell’artista possano e debbano essere lette secondo un ordinamento che dia la giusta rilevanza a insiemi e sottoinsiemi trasmessi dalla tradizione antica oppure fondabili su criteri di genere. Di essi, alcuni ci giungono già aggregati in collettori risalenti all’autore medesimo e ai suoi collaboratori, in specie la silloge del 1546 (già raggruppata nell’antica edizione critica di Carl Frey),3e saranno dunque da riprodurre come tali. Per il resto, è possibile e opportuno aggregare le poesie sparse secondo pochi ma essenziali raggruppamenti: lirico e profano, comico, spirituale, tenendo conto infine della grande quantità di abbozzi e frammenti che andranno sistemati separatamente.
Passando al settore specifico dei testi ascrivibili alla cifra comica, è evidente che essa potrà essere delimitata solo rifacendosi a criteri di trattamento stilistico e di registro e astraendo in linea di principio da selezioni di metro. Le approssimazioni sono per qualche verso scontate, e ciò deve valere per l’intero corpus, nel senso che
l’incasellamento nei vari filoni stilistici e contenutistici (petrarchismo, burlesco, ‘dantismo’), oltre che filosofici (neoplatonismo) e spirituali (temi savonaroliani e aperture alla riforma), sortisce spesso esiti insoddisfacenti, dato che appare limitativo scindere persino entro un unico testo l’uno aspetto dall’altro. 4
Ciò che è lecito selezionare entro la fattispecie del comico è però una pluralità di testi discretamente articolata quanto ai generi peculiari (elemento tipico, questo, di un poeta dilettante ma anche onnivoro e ‘sperimentale’ oltre le mode dei suoi tempi), sovente motivata da occasioni di corrispondenza, e riconducibile a un lessico e a temi dimessi e quotidianieaun vocabolario variamente incline alla dimensione stilistica corporea, materiale e sensibile. Il tutto tenendo nel debito conto, secondo i suggerimenti di uno storico contributo di Gianfranco Contini,5che le cose nella poesia michelangiolesca emergono un po’ dappertutto e non solo negli esercizi dichiaratamente comico-bassi.
La rassegna di testi che segue necessita, a questo punto, di altre considerazioni quanto al rapporto già detto tra metri canonici e generi e sottogeneri. Quanto ai metri, tutti, più o meno, entrano in gioco nella scrittura comica di Michelangelo, e con modalità di impiego non sempre scontate. Se nel caso del n. 6 (G 21),6Chiunche nasce a morte arriva, si tratta di una scelta canonica rispetto al genere del canto carnascialesco di ispirazione lugubre (con eco riscontrabile di suggestioni savonaroliane note nella vita dell’artista), il metro si adatta solo in parte a quello usuale della frottola, con una quartina a rima alterna ABAB, seguita da quattro distici a rima baciata (il primo dei quali riprende la rima B) e un’altra quartina ABAB, che fanno pensare anche a influssi dalla barzelletta in ottonari e a modelli come quello della parte finale dell’Orfeo del Poliziano oppure il Carro della morte di Antonio Alamanni.7Paradigmatico è poi il caso del sonetto, per il quale giova a poco la distinzione tra regolare e caudato. Il primo tipo è usato insolitamente in chiave satirica nel qui presente n. 3 (G 10, Qua si fa elmi di calici e spade, che l’autografo trasmette fra l’altro come occasione di corrispondenza), e poi in chiave di corrispondenza domestica nel n. 5a Vasari (G 299, Al zucchero, a la mula, a le candele). Per converso il sonetto caudato, di antico retaggio comico e satirico (nonché di invettiva e vituperio), è prescelto sì per il celeberrimo autoritratto grottesco I’ ho già fatto un gozzo in questo stento (n.1, G5) e per una tenzone (n. 4, G 71, I’ l’ho, vostra mercè, per ricevuto), ma altresì in G 25, Quand’il servo il signor d’aspra catena, dove il tema autobiografico ‘doloroso’ è nel complesso riconducibile a una cifra lirica, e dunque da escludere da questa rassegna. Analoga riflessione si può fare guardando al ternario, i cui esempi sono stati riuniti insieme da Gorni sotto la dizione capitoli in terza rima, ma raggruppando così, nel metro comune, afferenze di genere tra le più varie e certo non tutte riconducibili alla nozione tutto sommato precisa di capitolo. 8Se afferiscono al capitolo lirico le poesie di G 45 (frammento), G 86 (frammento elegiaco per la morte del padre) e G 96 (frammento lirico amoroso), è più complicato definire il ternario G 35 (El ciglio col color non fere el volto), frammento descrittivo di tipo anatomico o fisiologico.9Si annoterà in margine il carattere di abbozzo di queste prove, che parla chiaramente di un certo disagio di Michelangelo di fronte al capitolo lirico. Non frammentari sono i due soli ternari comici che ci restano, ma parla chiaro qui la quantità, indicando una scarsissima predilezione per questo metro così bene caratterizzato in chiave comica nel Cinquecento. Tant’è che, dei due pezzi, il n. 14 (G 85) risulta una soluzione obbligata in quanto risposta a un capitolo di Berni,10mentre il n. 16 (G 267) è un originale autoritratto grottesco.
Non mancano pure nell’ottava rima i risvolti originali, se non anche sperimentali. Se si eccettua il caso di G 108, Indarno spera, come ’l vulgo dice, stanza singola di ispirazione amorosa destinata alla Silloge del 1546(nella cui serie compare col n. 42), la pratica dell’ottava è attestata (entro date larghe) soprattutto in un gruppetto di autografidel cod. fiorentino AB XIII, per confluire nell’ed. Girardi coi nn. 20, 54, 55, 67, 68. Si tratta di esercizi per lo più frammentari che palesano notevoli difficoltà di aggregazione e rendono dubitosa la sistemazione attuale di Girardi, e che qui vengono presentati secondo diversi criteri di aggregazione. A livello di genere, è evidente il peso del quattrocentesco rispetto amoroso, singolo e continuato, ma spicca altrettanto (in particolare nel n. 7, G 20) la cifra ‘nenciale’ opportunamente messa in rilievo da Gorni.11Emerge altresì la più autonoma propensione michelangiolesca all’impiego dell’ottava in chiave satirica e allegorica, come nel caso delle silique edite da Girardi separatamente coi nn. 67e 68, che qui vengono riunite col n. 13.
Un’ultima annotazione andrà svolta intorno al genere dell’epigramma o epitaffio funebre, genere questo realmente prediletto, come si vede nella grande serie per Cecchino Bracci che per la sua compattezza indiscussa è sempre stata trattata autonomamente in sede ecdotica. L’epitaffio funebre è praticato da Michelangelo in distici, in terzine e in tetrastici, metro, quest’ultimo, senz’altro preferito (soprattutto nel macro-gruppo del Bracci, ove per altro, oltre a 48tetrastici, sono presenti un sonetto e un madrigale). Nell’altro gruppo organico della Silloge si trova l’epitaf-fio per Faustina Mancini (G 177), simile a quelli per Cecchino. Presupporre un rapporto coerente tra la modalità funebre e quella comica è naturalmente arduo e dubitoso, pur se non peregrino, dato l’evidente grado di causticità, a volte riversato in notazioni corporee di tono macabro. Resta che la quartina michelangiolesca ricopre diverse e diffuse tonalità, a partire da quella più famosa della Notte in risposta a Giovanni Strozzi (G 247). I casi elencabili secondo l’edizione Girardi (segnatamente G2, G9, G 49, G 56, G 57, G 64, G 73, G 238, G 287, G 297) sono variamente riconducibili a modalità epigrammatiche di ispirazione lirica o autobiografica o spirituale, e inoltre si tenga conto che in questo elenco non tutti quelli che Girardi considera poesie in sé compiute lo sono davvero, dovendosi parte di essi ricondurre a frammenti. Se ne può concludere che l’epigramma tetrastico non è privilegiato da Michelangelo come motivo comico, e che nella presente rassegna può essere ragionevolmente incluso in quel segno solo il n. 15 (G 110), che non a caso è un terzetto e non un tetrastico.
Con l’aiuto di questi dati si può provare a formulare qualche considerazione generale. In primo luogo, se un corpus comico è ‘estraibile’ dalla poesia di Michelangelo, si tratta certamente di un insieme esiguo, difficilmente raffrontabile all’impegno di una produzione matura e senile volta nettamente a modalità liriche, profane o spirituali, e all’opposto dislocabile per la gran parte in una cronologia alta della sua attività di poeta, il che significa anche la zona più nebulosa e meno documentata, ove saranno da presupporre non poche perdite. Si tratta inoltre di testi che ci giungono per lo più come frammenti e che gli editori moderni fanno fatica a riconoscere e definire secondo ragionevoli criteri di coerenza e completezza. Una cifra, questa, riscontrabile un po’ ovunque nella storia poetica dell’artista, ma in questo settore connessa a una dimensione tipicamente occasionale e privata delle prove.12Spicca poi la natura variamente ‘sperimentale’ di questi esercizi. Ciò non va inteso nel senso di procedure innovative all’interno dei generi, ché anzi Michelangelo appare quanto mai rispettoso e a volte pedissequo rispetto a tipologie notoriamente tràdite, con evidenti richiami linguistico-topologici a precedenti più o meno illustri. La sperimentazione si coglie piuttosto a uno sguardo d’insieme, laddove i vari sottogeneri sono per lo più praticati una volta sola, come si trattasse di prove o di assaggi. Per restringere l’analisi al sonetto, si vede bene che in quell’ambito metrico non ci sono modalità ripetute più di una volta. Il celeberrimo caudato n. 1 (G5), che impianta l’autoritratto grottesco secondo esplicite modalità burchiellesche (anche se con proposte geniali), si estende in epoca tarda alla più insolita soluzione in terza rima di 15 (G 267). Il son. 2 (G 6, non caudato) è un lamento ad personam di intonazione satirico-morale. Il 3( G 10, anch’esso non caudato) èun testo satirico-politico. Il 4 (G 71, caudato) appartiene genericamente al genere antico della tenzone per le rime, non esenti spunti di invettiva. Infine il 5 (G 299) a Vasari è un sonetto non caudato di occasione domestica, la cui collocazione in questo gruppo si motiva solo con l’oggetto ‘basso’ del dono inviato dall’amico e col trattamento stilistico intenzionalmente familiare. E d’altronde è palmare l’inclinazione michelangiolesca a fare del comico uno strumento per lo più di corrispondenza, nelle prove ‘giovanili’ così come in vecchiaia.13Infine, non si può che convenire con Romei a proposito di una affezione tutt’altro che celata per modalità di tipo quattrocentesco. Del disagio dell’artista di fronte alle mode poetiche del suo tempo sono piene le carte, a partire da quelle dei letterati coevi, ben sintetizzabili nel verso di Berni Ei dice cose e voi dite parole. Un disagio fermo, quello di Michelangelo, raramente esplicito ma in grado di emergere nei modi più impensati, come nel caso del sottile e durissimo commento a una poesia dell’amico Donato Giannotti sulla quale gli era stato chiesto un parere:
Il sonecto di messer Donato mi par bello quante cosa facta a’ tempi nostri; ma perch’io ò cactivo gusto, non posso far manco stima d’um panno facto di nuovo, benché romagnuolo, che delle veste usate di seta e d’oro che faren parer bello un uom da sarti.14
A fronte di ciò, la scarsa sintonia col secolo del classicismo si rivela in fondo anche nei suoi risvolti comico-bassi, e a ben vedere il rapporto ‘negativo’ con Berni si manifesta prima di tutto in absentia, laddove l’unico vero capitolo giocoso, il 14 (G 85), non poteva che rispettare la proposta metrica e stilistica avanzata dal destinatario. Ciò che Michelangelo amava e praticava in chiave comica è in fondo reperibile nella grande eredità di Burchiello e del Lorenzo ‘nenciale’, del canto carnascialesco macabro e sentenzioso, di modi allegorici o grotteschi o sofferenti che in ogni caso parlano di dismisura piuttosto che di armonia.
I testi
I sedici pezzi che qui si presentano, comprensivi del corpus comico di Michelangelo sopravvissuto, sono ordinati secondo un criterio di metro (sonetti, frottola, ottave, ternari). All’interno dei metri, si cerca di rispettare essenzialmente la sequenza cronologica dell’ed. Girardi, con ritocchi e aggiustamenti dovuti in certi casi alla diversa organizzazione dei testi.
Sigle
AB XIII = Firenze, Casa Buonarroti, Archivio Buonarroti, cod. XIII
AB XIV = Firenze, Casa Buonarroti, Archivio Buonarroti, cod. XIV
AB XV = Firenze, Casa Buonarroti, Archivio Buonarroti, cod. XV
BERNI 1538 = Tutte le opere del Bernia in terza rima, nvovamente con somma diligentia stampate, [Venezia] per Curtio Navo et fratelli, M D XXXVIII.
FREY = Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, ed. Carl Frey, Berlin, Grotesche Verlagsbuchhandlung, 1897 [ed. anastatica, Berlin, 1964]
GIRARDI = Michelangelo Buonarroti, Rime, ed. Enzo Noè Girardi, Bari,Laterza, 1960.
Guasti = Le rime di Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore e architetto, cavate dagli autografi e pubblicate da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1863.
OPERE BURLESCHE 1548 = Il primo libro dell’opere burlesche. Di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, In Firenze, [Giunti], MDXLVIII.
Ox = Oxford, Ashmolean Museum, Parker 293
P = Parigi, Museo del Louvre, Dep. Des Arts Graphiques, Inv. RF. 4112 v
V = Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3211
1 [G 5]
I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
E lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e passi senza gli occhi muovo invano.
Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.
AB XIII, son. 6r, AB XV, 23r, 168v
3 che si sia AB XIII
Sonetto caudato.
Nota. Indirizzato a Giovanni da Pistoia, erroneamente identificato da Michelangelo il Giovane col poeta Antonio Cammelli detto il Pistoia: «Q.sto giovanni da Pistoia fuor che si possa creder quello di cui dice il berni O spirito bizzarro da Pistoia» (AB XV, 168v). È del pari erronea l’identificazione di Girardi, p. 159, che credeva di riconoscere nel destinatario «Giovanni di Benedetto da Pistoia, letterato, funzionario del governo ducale e, nel 1540, cancelliere dell’Accademia fiorentina». In realtà quest’ultimo, come accertato di recente, nacque nel 1509 (si veda la voce biografica, curata da C. Reggioli, in Dizionario Biografico degli Italiani, 56, Roma, 2001, pp. 180-82, e part. p. 181), il che porta a escludere potersi trattare della persona in questione. La quale di fatto è ancora sconosciuta, se non per i cinque suoi sonetti a Michelangelo, fra i quali un autoritratto grottesco, editi già da Frey, Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, cit., pp. 260-62. A lui è inoltre attribuito un sonetto nel ms. Firenze, BNC, Magl. VII 898, c. 191, didascalia: Ala Sig.ra Giulia napoletana vestita nel mon.rio / delle convertite di Firenze; inc. Anima bella che de l’ombra uscita. Sempre di Giovanni, il ms. Firenze BNC, Panciatichiano 164 (123) contiene il canto carnascialesco Tedeschi son costoro (cc. 284-87), edito in Canti carnascialeschi del Rinascimento, ed. Ch.S. Singleton, Bari, Laterza, 1936, p. 279-381. Si conosce infine il suo Canto della miniera, contenuto in Tutti i trionficarri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo de’ Medici fino all’Anno 1559, Cosmopoli [Lucca?], 1750, I, p. 241. Che il son. possa fare parte di uno scambio di rime con Giovanni, è idea da me avanzata in Corsaro, «Michelangelo e i letterati», cit., pp. 401-403.
Il trattamento della materia risente in particolare della tradizione comica fiorentina, con particolare attenzione per Burchiello (mentre da parte va lasciato Cecco Angiolieri, sconosciuto fino all’Ottocento). L’autoritratto grottesco o sofferente era d’altronde, negli stessi anni, affrontato da Machiavelli nei suoi sonetti dal carcere a Giuliano di Lorenzo (1513). Per i significati, ho dedicato al testo qualche pagina in Antonio Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo,in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del Convegno, Firenze 7-8 novembre 2002, ed. Aldo Galli, Chiara Piccinini, Massimiliano Rossi, Firenze, Olschki, 2007, pp. 117-36, pp. 123-27, chiarendo in particolare, per le terzine finali (vv. 15-20), non l’espressione di un disagio esistenziale serio in rapporto alla professione di artista (Giovanni da Pistoia è figura minore, cui certamente Michelangelo non poteva pensare di affidare il suo onore) quanto la sua trasposizione comica, che prevede cioè un trattamento stravolto della circostanza psicologica e privata. Dunque al v. 15, fallace e strano sarà da leggere in senso doppio: ‘ciò che dico non è da intendere solo alla lettera, non come confessione di impotenza né come vera richiesta d’aiuto, ma in senso rovesciato, come affermazione di fede in me stesso e nella mia pittura’. Si noti, al proposito, che la vignetta disegnata nell’autografo è diritta e non storta, e soprattutto sorride. Al riguardo, cf. anche la scheda di Paola Barocchi, in Michelangelo. Mostra di disegni, manoscritti e documenti, [a cura di Paola Barocchi], Firenze, Olschki, 1964, tav. xxviii pp. 88-89: «Come ha notato acutamente il Tolnay: “the sketch is not a realistic self-portrait or a descriptive caricature, but only an abbreviated indication of the content of the verses in a concise diagram. Without the verses the sketch would not have its full artistic effect, but when the sonnet has been read, it synthesizes that meaning. It is characteristic of Michelangelo’s monumental conception of art the he did not give a characterizing illustration of his text”. La sintetica ironia dell’artista doveva rimanere un fatto tutto personale. È vero che il Condivi e il Vasari insistettero sulla fatica del dipingere la volta papale in piedi – e non supinamente, come aveva affermato il Giovio – , ma la loro tranquilla e persino divagante descrizione di una difficoltà contrasta con la versione pluridimensionale del maestro».
2 [G 6]
Signor, se vero è alcun proverbio antico
questo è ben quel che chi può mai non vuole:
tu hai creduto a favole e parole
e premiato chi è del ver nemico.
I’ sono e fui già tuo buon servo antico,
a te son dato come e raggi al sole,
e del mie tempo non ti incresce o dole,
e men ti piaccio se più m’affatico.
Già sperai ascender per la tua altezza,
e ’l giusto peso e la potente spada
fussi al bisogno, e non la voce d’Ecco.
Ma ’l cielo è quel ch’ogni virtù disprezza
locarla al mondo, se vuol ch’altri vada
a prender frutto d’un arbor ch’è secco.
Ox, AB XV, 1r
5 i sono e (sul marg.) I fui esso(n) gia Ox. 6 i raggi AB XV. 7 mio AB XV. 8 piu m<...> Ox. 9 asce(n)der <...>a <...>za Ox. 10 e <...> pote(n)te Ox. 11 echo
Ox
Sonetto.
Nota. Autografo nel testimone di Oxford. Sul disegno che contiene il testo cf. Paul Joannides, The Drawings of Michelangelo and His Followers in the Ashmolean Museum, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, scheda 4 pp. 71-77; K.T. Parker, Catalogue of the Collection of Drawings in the Ashmolean Museum, II, Italian Schools, Oxford, At the Clarendon Press, 1956, scheda 293, pp. 136-37; Corpus dei disegni di Michelangelo, ed. Charles De Tolnay, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1975-1980, 102v. Lo stesso disegno contiene i testi G 3, 7, 8, 9. In AB XV è utile alla costituzione del testo la sola versione di c. 1r, mentre quella di c. 129r è riadattata secondo il gusto di Michelangelo il Giovane. Alla versione di c. 1r si devono le integrazioni alle lacune dell’autografo, riprese dai moderni editori, forse (ma pur senza sicurezza) rese possibili da una maggiore leggibilità del testo all’epoca.
Per la datazione e la circostanza si veda la sintesi di Girardi, pp. 160-61. Annotava Michelangelo il Giovane in AB XV, 129r: «Par che si dolga di qualche principe, e penso di alcun pontefice che l’avesse poco remunerato della servitù e fatiche spese per quello. / Vedi a 65 compositicci [?] e po(n)la appresso a q.sto per che era in un medesimo foglio se non è sua o sia e non sia sua varia lezione. / Forse a Giulio secondo». Per una possibile identificazione del destinatario con Giulio II (piuttosto che con Leone X) valgono in particolare la spada del v. 10 e l’arbor (la rovere?) del v. 14. Quanto all’anno, valga il v. 5, servo antico, che fa pensare che il servizio presso il Papa, iniziato nel 1505, fosse ormai di lunga data.
3 [G 10]
Qua si fa elmi di calici e spade,
e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle:
e pur da Cristo pazienza cade.
Ma’ non ch’arrivi più ’n queste contrade
che nn’andre’ ’l sangue Suo ’nsin alle stelle,
poscia ch’a Roma Gli vendon la pelle
e ècci d’ogni ben chiuso le strade.
S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è partita,
e può quel nel manto che Medusa in Mauro;
ma se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di nostro stato il gran restauro
s’un altro segno amorza l’altra vita?
Finis
Vostro Miccelagniolo in Turchia
AB XIII, son. 5r, AB XV, 22v
9 AB XIII aperdere
Sonetto.
Nota. Conservo a testo l’elemento di firma (in AB ha XIII al centro sotto il testo: finis / Vostro miccelangniolo inturchia) che una integrante valenza espressiva. La scrittura invero particolare della copia a noi pervenuta ha fatto dubitare della autografia michelangiolesca, a partire da Guasti, p. 157, per finire con Gorni, Casi di filologia cinquecentesca, cit., pp. 440-41, che hanno pensato piuttosto a una scrittura contraffatta per ragioni prudenziali data la materia del sonetto. Non così per Lucilla Bardeschi Ciulich (Michelangelo: grafia e biografia. Disegni e autografidel maestro, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri, Firenze, Mandragora, 2002., scheda 2 p. 30) che senza incertezze assegna la copia alla mano di Michelangelo. Più di recente anche Antonio Ciaralli conferma la mano michelangiolesca di questo sonetto (Autografidei letterati italiani. Il Cinquecento,t.I,a cura di M. Motolese, E. Russo, P. Procaccioli, Roma, Salerno, 2009, p. 86) La lezione messa a testo da Girardi è stata discussa e integrata in vari luoghi da Gorni, Casi di filologia cinquecentesca, cit., pp. 439-40, dalle cui proposte accolgo il Ma’ del v. 5, da collegare al più: dunque mai più e non un’avversativa (ma anche altri luoghi potrebbero essere effettivamente emendati secondo quella guida). Non intervengo sulle ipermetrie, che in un testo del genere non vanno a mio parere ridotte. Al proposito si veda il suggerimento compendioso di Masi, La poesia difficile di Michelangelo, p. 106: «Al v. 11, la “e” iniziale che rende ipometro il verso (pertanto eliminata da Girardi, ma giustamente difesa da Contini [, Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, I, pp. 667-77:p. 672], non sembra essere una forma pronominale apocopata [...] ma piuttosto una congiunzione, perché i vv. 10-11 contengono due frasi coordinate, non una causale seguita da una conclusiva. Da notare che [...] al v. 2 è invece conservata anche da Girardi (perché ineliminabile senza pregiudicare il senso) un’altra e congiunzione iniziale che rende il verso ipermetro: tuttavia, come ha suggerito Romei, l’isosillabismo si recupera “per sinafia con il precedente” [Romei, «Bernismo di Michelangelo», cit., p. 319]; si può aggiungere che questo vale anche per il v. 11».
Michelangelo il Giovane appose sul verso del testimone autografo di AB XIII la notazione: «sonetto da Roma», e in AB XV (ovvero la copia di servizio da lui allestita per l’ed. del 1623) trascrisse il son. due volte: c. 22v, con la notazione: «Credo per l’assedio di Roma»; e c. 168r, con la notazione: «A chi indiritto non apparisce, forse a Gio. da Pistoja, come il seguente [cioè G 5]». Connetteva dunque, attraverso il comune destinatario, questo sonetto al n. 1 di questa serie (G 5). Non è agevole impostare un preciso schema di corrispondenza, né assegnare il nome di Giovanni da Pistoia come destinatario certo. È sicuro, d’altronde, che il sonetto in questione fa parte di una corrispondenza, come attesta l’epigrafe finale autografa. Quanto alla data, Frey e a seguire Girardi optarono per il pontificato di Giulio II, possibilmente il 1512. Diversamente Bardeschi Ciulich, considerando la grafia, ha pensato a una data intorno al 1497, «probabilmente dopo la scomunica del Savonarola [...] L’ironica invettiva iniziale contro il papa simoniaco, che è Alessandro VI Borgia, è di chiaro stampo savonaroliano. L’accenno alla mancanza di lavoro e all’assenza di ogni guadagno (v. 9) lo ritroviamo nella lettera al padre del primo luglio [1497] e in quella successiva del 19 agosto [...]. Si accorda con questa data anche il confronto (v. 11) tra il papa (“quel nel manto”) che può fulminare l’artista e Medusa che ha trasformato in pietra Atlante nella regione dei Mauri [...]. Infatti il Borgia, con la bolla del 12 maggio 1497, aveva lanciato la scomunica contro il Savonarola e minacciava poi di interdetto la città di Firenze» (Vita di Michelangelo, ed. Lucilla Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri, premessa di Luciano Berti, Firenze, Mandragora, 2001, scheda 10 p. 37).
4 [G 71]
I’ l’ho, vostra mercè, per ricevuto
e hollo letto delle volte venti;
tal pro vi facci alla natura i denti
co’ ’l cibo al corpo quando gli è pasciuto.
I’ ho pur, poi ch’i’ vi lasciai, saputo
che Cain fu de’ vostri anticedenti,
né voi da quel tralignate altrimenti,
ché, s’altri ha ben, ve ’l pare aver perduto.
Invidiosi, superbi, al ciel nimici,
la carità del prossimo v’è a noia,
e sol del vostro danno siete amici.
Se dice il poeta di Pistoia,
istieti a mente, e basta; e se tu dici
ben di Fiorenza, tu mi dai la soia.
Qual prezïosa gioia.
è certo, ma per te già non si intende,
perché poca virtù non la comprende.
AB XIII, st. 6v, AB XV, 23v
6 antice(n)de(n)ti AB XIII. 14 la soi AB XIII
Sonetto caudato.
Nota. Testo di corrispondenza polemica, unico nella fattispecie entro il corpus michelangiolesco. Difficile è la sua comprensione letterale, non conoscendosi il destinatario, che comunque dovrebbe avere a che fare con Pistoia, giusta la menzione del v. 12 che dovrebbe rinviare al passo di Inf. XXV 10-12: «Ahi, Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d’incenerarti sì che più non duri, / poi che in mal far lo seme tuo avanzi?». Che poi si tratti del noto Giovanni da Pistoia, destinatario del son. 1 (G 5), ebbe a pensare dubitativamente Guasti, p. 160, ma si tenga conto che i sonetti di Giovanni indirizzati a Michelangelo (editi in Frey, pp. 260-62) sono tutti di encomio.
5 [G 299]
Al zucchero, a la mula, a le candele,
aggiuntovi un fiascon di malvagia,
resta sì vinta ogni fortuna mia,
ch’i’ rendo le bilance a san Michele.
Troppa bonaccia sgonfiasìlevele,
che senza vento in mar perde la via
la debil mie barca, e par che sia
una festuca in mar rozz’e crudele.
A rispetto, a la grazia e al gran dono,
al cib’, al poto e a l’andar sovente
c’a ogni mi’ bisogno è caro e buono,
Signor mie car, ben vi sare’ nïente
per merto a darvi tutto quel ch’i’ sono,
ché ’l debito pagar non è presente.
V, 87r
Sonetto.
Nota. Autografo in V. Sonetto d’occasione a Giorgio Vasari, in risposta di doni. L’identificazione del destinatario si deve essenzialmente al frammento di lettera a lui indirizzata (26 settembre 1555) che è nel verso della medesima c. (cf. Il carteggio di Michelangelo, cit., V, lett. MCCXIII, pp. 43-44). Inoltre fa da guida il passo della vasariana Vita di Michelangelo dove si legge: «la notte si levava, non potendo dormire, a lavorare con lo scarpello, avendo fatto una celata di cartoni, e sopra il mezzo del capo teneva accesa la candela, la quale con questo modo rendeva lume dove egli lavorava, senza impedimento delle mani; ed il Vasari, che più volte vidde la celata, considerò che non adoperava cera, ma candele di sevo di capra schietto, che sono eccellenti; e gliene mandò quattro mezzi, che erano quaranta libbre» (Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architettori scritte da Giorgio Vasari pittore aretino, con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, Firenze, Sansoni, 1906 [rist. anast. Firenze, Le Lettere, 1998], VII, p. 276). Al v. 10 il sintagma l’andar sovente, per quanto improprio, si deve riferire alla mula del v. 1.
6 [G 21]
Chiunche nasce a morte arriva
nel fuggir del tempo, e ’l sole
niuna cosa lascia viva.
Manca il dolce e quel che dole,
e gli ’ngegni e le parole,
e le nostre antiche prole
al sole ombre, al vento un fumo.
Come voi uomini fumo,
lieti e tristi come siete,
e or siàn, come vedete,
terra al sol, di vita priva.
Ogni cosa a morte arriva.
Già fur gli occhi nostri interi
con la luce in ogni speco:
or son voti, orrendi e neri,
e ciò porta il tempo seco.
AB XIII, canz. 2,ABXV, 10r
12 ogni cosa <...> AB XIII
Frottola di struttura circolare, con quartina a rima alterna ABAB, quattro distici a rima baciata (il primo dei quali riprende la rima B), un’altra quartina ABAB.
Nota. In ABXV, 10r: «È scritto di Michelag.lo, ma vedi se è d’altro autore cioè secondo versi di Sta. M.a nuova o simili ma pure credo di Miche-lag.lo a imitazione di quella barzelletta, Morti siàn come vedete (canc.) Dolor pianto e penitenza». Per questi riferimenti Girardi, pp. 172-73, rinvia ai Versi di Santa Maria Nuova di Castellano de’ Castellani, testo: Morti siàn come vedete; e inoltre alla barzelletta Dolor pianto e penitenza di Antonio Alamanni (in Tutti i trionfie canti carnascialeschi, ed. Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, Firenze, 1559). È senza dubbio un canto carnascialesco, per la cui ispirazione aggiungerei, come luogo parallelo e in qualche modo illustre, l’incipit del canto dei Diavoli iscacciati di cielo di Machiavelli: Già fumo, or non siàn più, spirti beati. Si vedano anche: S. Carrai, Riflessi savonaroliani nella poesia fiorentina fino a Michelangelo, in Id., L’usignolo di Bembo. Un’idea della lirica italiana del Rinascimento, Roma, Carocci, 2006, pp. 53-66, p. 66; G. Ponsiglione, La lirica di Michelangelo e i poeti savonaroliani, «La Critica del Testo», 6 (2003), pp. 855-81; K. Eisenbichler, The Religious Poetry of Michelangelo: The Mystical Sublimation,in Michelangelo: selected scholarship in English, 5: Drawings, Poetry and Miscellaneous Studies, Edited with introductions by William E. Wallace, New York, Garland, 1995, pp. 195-208, p. 197: «Because the fragment’s rhythmic verse structure is highly reminiscent of Florentine carnival songs (‘canti carnascialeschi’) and ‘frottole’, the poem could be envisioned as a macabre ‘Dance of Death’ composition. A graphic illustration of this macabre consciousness of the inevitability od death is to be found in the sketch of a skeleton carrying a coffin on his shoulders which, Michelangelo Buonarroti the Younger reports, adorned the staircase of his uncle’s house in Rome».
7 [G 20]
I Tu ha’ ’l viso più dolce che la sapa,
e passato vi par su la lumaca,
tanto ben lustra, e più bel ch’una rapa;
e denti bianchi come pastinaca,
in modo tal che invaghiresti ’l Papa,
e gli occhi del color dell’utriaca,
e ’ cape’ bianchi e biondi più che porri:
ond’io morrò se tu non mi soccorri.
II La tuo bellezza par molto più bella
che uomo che dipinto in chiesa sia:
la bocca tuo mi par una scarsella
di fagiuo’ piena, sì com’è la mia;
le ciglia paion tinte alla padella
e torte più ch’un arco di Soria;
le gote ha’ rosse e bianche quando stacci,
come fra cacio fresco e rosolacci.
III Quand’io ti veggo, in sun ciascuna poppa
mi paion duo cocomer in un sacco,
ond’io m’accendo tutto come stoppa,
bench’io sia dalla zappa rotto e stracco.
Pensa: s’avessi ancor la bella coppa
ti seguirrei fra l’altre me’ ch’un bracco,
di che s’i massi aver fussi possibile
io fare’ oggi qui cose incredibile.
P, AB XV, 50r
i 2 ui par <...> la lumaca P. iii 1-8 om. AB XV. iii 4 bench’io di incerta lettura P
Ottave.
Nota. L’autografo è in un disegno censito in Corpus dei disegni di Michelangelo, cit., 25v. La copia di AB XV reca in cima l’annotazione: «Da disegni di Mr Bernardo Buontalenti: oggi miei. / Da un disegno a penna d’una femmina ritta con un putto a piedi oggi venutomi in mano e fatto mio». C’è dunque discendenza diretta tra l’autografo e la copia del pronipote. Quanto all’autografo, cf. Girardi, p. 172: «Le stanze sono state messe in carta in due momenti: la prima di esse è infatti a lettere più marcate e inclinate; le altre due hanno lettere più piccole, pallide, dritte. La grafia non è più quella giovanile delle prime poesie, ma neppure quella caratteristica degli anni 30». La soluzione ecdotica di Frey fu di dividere l’ultima stanza (assente in AB XV) assegnando ai due spezzoni i nn. XXXVII (p. 29) e CLXVI 8 (p. 258).
Per la data, Girardi, pp. 171-72, considerava lo schizzo di Antonio Mini «che si trova tra i due ultimi disegni, riferibile alle pareti della Cappella medicea. Il Mini entrò a servizio di M. nel 1523»; ma un notevole arretramento (fino al 1505) è stato supposto dal De Tolnay (Corpus dei disegni di Michelangelo, cit., I, pp. 44-45). Quanto al genere, si legga in Gorni, Le ottave dei giganti, cit., p. 44: «comporta tre ottave ed è decisamente di natura “nenciale”, come rivela parola del primo verso, che rima con papa e rapa anche in Nencia, 29, come aveva già notato Fortunato Rizzi [commento parziale del 1924]».
8 [G 54]
I Io crederrei, se tu fussi di sasso,
amarti con tal fede, ch’i’ potrei
farti meco venir più che di passo;
se fussi morto, parlar ti farei,
se fussi in ciel, ti tirerei a basso
con pianti, co’ sospir, co’ prieghi miei:
sendo vivo e di carne, e qui tra noi,
chi t’ama e serve che de’ creder poi?
II I’ non posso altro far che seguitarti,
e della grande impresa non mi pento.
Tu non se’ fatta com’un uom da sarti,
che si muove di fuor, si muove drento;
e se dalla ragion tu non ti parti,
spero c’un dì tu mi fara’ contento:
ché ’l morso il ben servir togli’ a’ serpenti,
come l’agresto quand’allega i denti.
III E’ non è forza contra l’umiltate,
né crudeltà può star contra l’amore,
ogni durezza suol vincer pietate,
sì come l’allegrezza fa ’l dolore;
una nuova nel mondo alta beltate
come la tuo non ha ’ltrimenti il core;
c’una vagina, ch’è dritta a vedella,
non può dentro tener torte coltella.
IV E’ non può esser pur che qualche poco
la mie gran servitù non ti sie cara;
pensa che non si truova in ogni loco
la fede negli amici, ch’è sì rara;
<...........>
V Quando un dì sto che veder non ti posso,
non posso trovar pace in luogo ignuno;
se po’ ti veggo, mi s’appicca a dosso,
come suole il mangiar far al digiuno;
<...........>
Com’altri il ventre di votar si muore,
ch’è più ’l conforto, po’ che pri’ è ’l dolore.
AB XIII st. 3r, AB XV, 11r-v
iv 1 I no(n) crederro mai che qualche poco var. alternativa scritta di traverso accanto ai vv. AB XIII
Ottave.
Nota. Si dispongono qui con numerazione separata (nn. 8, 9, 10, 11)le tredici ottave contenute in AB XIII, st. 3r-4v, son. 23r, che in Girardi compaiono riunite col n. 54. Si cerca così di rispettare la loro collocazione materiale in supporti mss. separati e assieme la loro cifra evidente di frammenti. In precedenza erano state diverse le soluzioni di ordinamento di queste stanze, a partire da Michelangelo il Giovane, che dispose separatamente le tre stanze del n. 11, unì insieme i nn. 8 e 9 numerando di seguito le stanze da 1 a 9, e nella copia ulteriore in fondo al cod. provò altre varie soluzioni. Guasti, pp. 329-36, dispose i testi secondo l’ordine: 8, 9 iv, 10, 11, 9 i-iii. Girardi, pp. 206-11, riallacciandosi alla soluzione di Frey, dichiarava: «non c’è motivo di ritenere che la successione offerta dai mss. non sia quella giusta». Ma gli autografi di AB XIII sono notoriamente il risultato di un assemblaggio tardo, che pertanto non ha rilevanza per l’ordinamento dei pezzi, la cui presumibile autonomia (considerando anche la cifra incompiuta o palesemente frammentaria di alcuni di essi) è manifesta, oltre che nei supporti materiali, nei contenuti testuali. In dettaglio, AB XIII trasmette una siliqua di cinque stanze (qui n. 8, frammentarie le ultime due) in sequenza per l’intero spazio del recto della c. 3, mentre il verso della medesima ne comprende quattro, qui numerate 9. Queste ultime sono divise da tratti orizzontali di penna, che indicano chiaramente trattarsi di stanze autonome organizzate al modo del ris-petto continuato. La separatezza rispetto al primo gruppo di 3r è d’altronde evidente guardando all’assetto retorico. Nelle cinque ottave di 8 il poeta si appella al destinatario amoroso usando il tu (con incertezza, in quanto in st. 1 costui è appellato al maschile: morto, vivo, mentre in st. 2 l’oggetto d’amore è al femminile: Tu non se’ fatta com’un uom da sarti; l’autografo di AB XIII non lascia al proposito alcun dubbio). Nella st. i di 9, invece, l’oggetto d’amore è al femminile in terza persona (E non mi passa tra le mani un giorno / ch’i’ non la vegga o senta con la mente), per ritornare alla seconda persona in 9 iv, ma qui, come si è detto si tratta di ottave indipendenti. La autonomia del n. 10 è palmare quanto al supporto documentario separato (AB XIII, 4r) e anche quanto al ductus, chiaramente diverso da quello di c. 3r-v. Lo stesso dicasi per le tre ottave del n. 11.
9 [G 54]
i E’ non mi passa tra le mani un giorno
ch’i’ non la vegga o senta con la mente;
né scaldar ma’ si può fornace o forno
ch’a’ mie sospir non fussi più rovente;
e quando avien ch’i’ l’abbi un pò dintorno,
sfavillo come ferro in foco ardente,
e tanto vorre’ dir, s’ella m’aspetta,
ch’i’ dico men che quand’i’ non ho fretta.
ii S’avvien che la mi rida pure un poco
o mi saluti in mezzo della via,
mi levo come polvere dal foco
o di bombarda o d’altra artiglieria;
se mi domanda, subito m’affioco,
perdo la voce e la risposta mia,
e subito s’arrende il gran desio,
e la speranza cede al poter mio.
iii I’ sento in me non so che grand’amore,
che quasi arrivere’ ’nsino alle stelle;
e quando alcuna volta il vo’ trar fore,
non ho buco sì grande nella pelle
che nol faccia, a uscirne, assa’ minore
parere, e le mie cose assai men belle:
ch’amore o forza el dirne è grazia sola,
e men ne dice chi più alto vola.
iv I’ vo pensando al mio viver di prima,
inanzi ch’i’ t’amassi, come gli era:
di me non fu ma’ chi facesse stima,
perdendo ogni dì il tempo insino a sera.
Forse pensavo di cantare in rima
o di ritrarmi da ogni altra stiera?
Or si fa ’l nome, o per tristo o per buono,
e sassi pure almen che i’ ci sono.
AB XIII st. 3v, AB XV, 11v-12r
ii 1 tu> la mi rida AB XIII. iv 8 calmo(n)do scritto sopra il rigo in corrispondenza di cheici AB XIII
10 [G 54]
Tu m’entrasti per gli occhi, ond’io mi spargo
come grappol d’agresto in un’ampolla,
che doppo ’l collo cresce ov’è più largo;
così l’immagin tua, che fuor m’immolla,
dentro per gli occhi cresce, ond’io m’allargo
come pelle ove gonfia la midolla;
entrando in me per sì stretto viaggio,
che tu mai n’esca ardir creder non aggio.
AB XIII st. 4r, AB XV, 13r
3 doppo l ga(m)bo corr. collo sul marg. AB XIII. 7-8 var. alternativa in calce: or se si grande e si strecto l viaggio / ca creder che ma nesca ardir no(n) aggio. 1-8 l’ottava, separata da un tratto di penna orizzontale, è riscritta sotto in caratteri più piccoli come segue: Tu me(n)tri tucto ondio me tucto spargo (var. alternativa sopra il r.: tu entri i(n) me dondio me tucto spargo) / per gli ochi come grappolo n una npolla / che crescie doppo l collo oue piu largo / poi chi to dentro se la mie midolla / ondio ricresco e ta(n)to il corpo allargo / quante del cor limmagin si satolla / ne spero esca ondentrasti del gra(n) pecto / tante capace e lochio tanto strecto.
11 [G 54]
I Come quand’entra in una palla il vento,
che col medesmo fiato l’animella,
come l’apre di fuor, la serra drento,
così l’immagin del tuo volto bella
per gli occhi dentro all’alma venir sento;
e come gli apre, poi si serra in quella;
e come palla pugno al primo balzo,
percosso da’ tu’ occhi al ciel po’ m’alzo.
II Perché non basta a una donna bella
goder le lode d’un amante solo,
ché suo beltà potre’ morir con ella,
dunche, s’i’ t’amo, reverisco e colo,
al merito ’l poter poco favella,
ch’un zoppo non pareggia un lente volo,
né gira ’l sol per un sol suo mercede,
ma per ogni occhio san ch’al mondo vede.
III I’ non posso pensar come ’l cor m’ardi,
passando a quel per gli occhi sempre molli,
che ’l foco spegnerìen, non ch’e tuo sguardi.
Tutti e ripari mie son corti e folli:
se l’acqua il foco accende, ogni altro è tardi
a camparmi dal mal ch’i’ bramo e volli,
salvo il foco medesmo. O cosa strana,
se ’l mal del foco spesso il foco sana!
AB XIII son. 23v, AB XV, 10v
i 5 var. alt. sul marg. dal fiato tuo nel mie cor venir se(n)to AB XIII. i 6 var. alt. sul marg. quando sappressa e de(n)tro serra quella AB XIII. iii 1 var. alt. sopra il rigo no(n) posso pur AB XIII. iii 4 corti e tardi (canc.) folli AB XIII
12 [G 55]
I’ t’ho comprato, ancor che molto caro,
un po’ di non so che, che sa di buono,
perch’a l’odor la strada spesso imparo:
ovunche tu ti sia, dovunch’i’ sono,
senz’alcun dubbio ne son certo e chiaro.
Se da me ti nascondi, i’ tel perdono:
portandol dove vai sempre con teco,
ti troverrei, quand’io fussi ben cieco.
AB XIII, st. 1r, AB XV, 23v
Strambotto.
Nota. Il testo è sulla parte superiore del f., la cui zona inferiore è occupata da un abbozzo di lettera a Cavalieri del 1533 (Il carteggio di Michelangelo, cit., IV, lett. CMXVII, p. 28). Girardi, p. 211, tende a dissociare l’ottava dall’abbozzo. I vv. 7-8 sono separati da uno spazio bianco e scritti in grafia più piccola. Né, d’altronde, pare da dubitare l’interezza e coerenza dell’insieme. Per la cifra ‘nenciale’ del pezzo cf. Gorni, «Le ottave dei giganti », cit., p. 44, che lo accomuna ai precedenti di G 54. Ai quali non v’è per altro ragione di associarlo a livello testuale (malgrado il periodo di composizione sia probabilmente il medesimo), in quanto lo strambotto ha un senso compiuto e ben si definisce come messaggio privato.
13 [G 67-68]
I Nuovo piacere e di maggiore stima
veder l’ardite capre sopr’un sasso
montar, pascendo or questa or quella cima,
e ’l mastro lor, con aspre note, al basso,
sfogare el cor colla suo rozza rima,
sonando or fermo, e or con lento passo,
e la suo vaga, che ha ’l cor di ferro,
star co’ porci, in contegno, sott’un cerro;
II quant’è veder ’n un eminente loco
e di pagli’ e di terra el loro ospizio:
chi ingombra ’l desco e chi fa fora ’l foco,
sott’a quel faggio ch’è più lor propizio;
chi ingrassa e gratta ’l porco, e prende gioco,
chi doma ’l ciuco col basto primizio;
el vecchio gode e fa poche parole,
fuor dell’uscio a sedere, e stassi al sole.
III Di fuor dentro si vede quel che hanno:
pace sanza oro e sanza sete alcuna.
El giorno ch’a solcare i colli vanno,
contar puo’ lor ricchezze ad una ad una.
Non han serrami e non temon di danno;
lascion la casa aperta alla fortuna;
po’, doppo l’opra, lieti el sonno tentano;
sazi di ghiande, in sul fien s’adormentano.
IV L’invidia non ha loco in questo stato;
la superbia se stessa si divora.
Avide son di qualche verde prato,
o di quell’erba che più bella infiora.
Il lor sommo tesoro è uno arato,
e ’l bomero è la gemma che gli onora;
un paio di ceste è la credenza loro,
e le pale e le zappee’vasi d’oro.
V O avarizia cieca, o bassi ingegni,
che disusate ’l ben della natura!
Cercando l’or, le terre e ’ ricchi regni,
vostre imprese superbia ha forte e dura.
L’accidia, la lussuria par v’insegni;
l’invidia ’l mal d’altrui provede e cura:
non vi scorgete, in insaziabil foco,
che ’l tempo è breve e ’l necessario è poco.
VI Color c’anticamente, al secol vecchio,
si trasser fame e sete d’acqua e ghiande
vi sieno esemplo, scorta, lume e specchio,
e freno alle delizie, alle vivande.
Porgete al mie parlare un po’ l’orecchio:
colui che ’l mondo impera, e ch’è sì grande,
ancor disidra, e non ha pace poi;
e ’l villanel la gode co’ suo buoi.
VII D’oro e di gemme, e spaventata in vista,
adorna, la Ricchezza va pensando;
ogni vento, ogni pioggia la contrista,
e gli agùri e ’ prodigi va notando.
La lieta Povertà, fugiendo, acquista
ogni tesor, né pensa come o quando,
secur ne’ boschi, in panni rozzi e bigi,
fuor d’obrighi, di cure e di letigi.
VIII L’avere e ’l dar, l’usanze streme e strane,
el meglio e ’l peggio, e le cime dell’arte
al villanel son tutte cose piane,
e l’erba e l’acqua e ’l latte è la sua parte;
e ’l cantar rozzo, e ’ calli delle mane,
è ’l dieci e ’l cento e ’ conti e lo suo carte
dell’usura che ’n terra surger vede;
e senza affanno alla fortuna cede.
IX Onora e ama e teme e prega Dio
pe’ pascol, per l’armento e pel lavoro,
con fede, con ispeme e con desio,
per la gravida vacca e pel bel toro.
El Dubbio, el Forse, el Come, el Perché rio
no ’l può ma’ far, ché non istà fra loro:
se con semplice fede adora e prega
Iddio e ’l ciel, l’un lega e l’altro piega.
X El Dubbio armato e zoppo si figura,
e va saltando come la locuste,
tremando d’ogni tempo per natura,
qual suole al vento far canna paluste.
El Perché è magro, e ’ntorn’alla cintura
ha molte chiave, e non son tanto giuste,
c’agugina gl’ingegni della porta,
e va di notte, e ’l buio è la suo scorta.
XI El Come e ’l Forse son parenti stretti,
e son giganti di sì grande altezza,
c’al sol andar ciascun par si diletti,
e ciechi fur per mirar suo chiarezza;
e quello alle città co’ fieri petti
tengon, per tutto adombran lor bellezza;
e van per vie fra sassi erte e distorte,
tentando colle man qual istà forte.
XII Povero e nudo e sol se ne va ’l Vero,
che fra la gente umìle ha gran valore:
un occhio ha sol, qual è lucente e mero,
e ’l corpo ha d’oro, e d’adamante ’l core;
e negli affanni cresce e fassi altero,
e ’n mille luoghi nasce, se ’n un muore;
di fuor verdeggia sì come smeraldo,
e sta co’ suo fedel costante e saldo.
XIII Cogli occhi onesti e bassi in ver’ la terra,
vestito d’oro e di vari ricami,
il Falso va, c’a’ iusti sol fa guerra;
ipocrito, di fuor par c’ognuno ami;
perch’è di ghiaccio, al sol si cuopre e serra;
sempre sta ’n corte, e par che l’ombra brami;
e ha per suo sostegno e compagnia
la Fraude, la Discordia e la Bugia.
XIV L’Adulazion v’è poi, ch’è pien d’affanni,
giovane destra e di bella persona;
di più color coperta di più panni,
che ’l cielo a primavera a’ fior non dona:
ottien ciò che la vuol con dolci inganni,
e sol di quel che piace altrui ragiona;
ha ’l pianto e ’l riso in una voglia sola;
cogli occhi adora, e con le mani invola.
XV Non è sol madre in corte all’opre orrende,
ma è lor balia ancora, e col suo latte
le cresce, l’aümenta e le difende.
< ... >
XVI Un gigante v’è ancor, d’altezza tanta
che da’ sua occhi noi qua giù non vede,
e molte volte ha ricoperta e franta
una città colla pianta del piede;
al sole aspira e l’alte torre pianta
per agiunger al cielo, e non lo vede,
ché ’l corpo suo, così robusto e magno,
un occhio ha solo e quell’ha ’n un calcagno.
XVII Vede per terra le cose passate,
el capo ha fermo e prossimo le stelle,
di qua giù se ne vede dua giornate
delle gran gambe, e irsut’ ha la pelle;
da indi in su non ha verno né state,
ché le stagion gli sono equali e belle;
e come ’l ciel fa pari alla suo fronte,
in terra al pian col piè fa ogni monte.
XVIII Com’a noi è ’l minuzzol dell’arena,
sotto la pianta a lui son le montagne;
fra ’ folti pel delle suo gambe mena
diverse forme mostruose e magne;
per mosca vi sarebbe una balena;
e sol si turba e sol s’attrista e piagne
quando in quell’occhio il vento seco tira
fummo o festuca o polvere che gira.
XIX Una gran vecchia pigra e lenta ha seco,
che latta e mamma l’orribil figura;
el suo arrogante, temerario e cieco
ardir conforta e sempre rassicura.
Fuor di lui stassi in un serrato speco,
nelle gran rocche e dentro all’alte mura;
quand’è lui in ozio, ell’è ’n tenebre vive,
e sol inopia nel popol prescrive.
XX Palida e gialla, e nel suo grave seno
il segno porta sol del suo signore:
cresce del mal d’altrui, del ben vien meno,
né s’empie per cibarsi a tutte l’ore;
il corso suo non ha termin né freno,
e odia altrui e sé non porta amore;
di pietra ha ’l core e di ferro le braccia,
e nel suo ventre il mare e ’ monti caccia.
XXI Sette lor nati van sopra la terra,
che cercan tutto l’uno e l’altro polo,
e solo a’ iusti fanno insidie e guerra,
e mille capi ha ciascun per sé solo.
L’etterno abisso per lor s’apre e serra,
tal preda fan nell’universo stuolo;
e lor membra ci prendon passo passo,
come edera nel mur fra sasso e sasso.
AB XIII, st. 2r-v (I-XV), 6r (XVI-XVIII), 5r (XIX-XXI), AB XV, 24r-26v xvi 4 qualche cicta colle pia(n)te var. altern. sul marg. AB XIII. xviii a seguire l’ottava (c. 6r) sono i vv. sgg., possibile var. altern. della xix: Secho una donna a p(er) compagno sostegnio ellecta / in chui ricovra in ogni suo paura / qua(n)del gra(n) iove fulmine saecta / nelle suo braccia se(m)pre sol si rassichura / questa del ciel gli g<i>ura far ve(n)decta / se randine o tempesta al mo(n)do fura. xix 2 la suo gran l’orribil AB XIII. xxi 1 suo lor nati AB XIII. XXI 4 membra (var. altern. sopra il r.) AB XIII. xxi 7 legan (var. altern. sopra il r.) AB XIII. xxi 8 fa (sopra il r.) nel mur AB XIII
Ottave.
Nota. In Girardi le ottave I-XV sono edite n. 67, le ottave XVI-XXI col n. 68. In realtà l’insieme è distribuito in tre cc. di AB XIII, esattamente 2r-v (I-XV), 6r (XVI-XVIII), 5r (XIX-XXI). L’idea di unificare i tre gruppi e disporli nella presente successione fu già di Michelangelo il Giovane in AB XV. Adesso la medesima soluzione è proposta da Gorni, Le ottave dei giganti, cit., pp. 47-52, il cui suggerimento, a fronte della natura ‘gigantesca’ delle figure allegoriche del Come e del Forse (XI 2), era: «a me pare che i due o, per meglio dire, i tre frammenti (posto che 68, 1-3 è distinto da 68, 4-6) in ottave possano essere le parti di un tutto allegorico non portato a termine, né realizzato dall’autore. Anche se mi sembra che la chiave di lettura di 68, rispetto a 67, sia più cupa, più misteriosa, più suggestiva perché meno evidente». In Gorni, Casi di filologia cinquecentesca, cit., p. 441, lo studioso notava, quanto a G 68: «le ottave 1-3 vanno separate da 4-6, o almeno va segnata tra loro lacuna (ben distinto, in effetti, è il rispettivo supporto documentario) [...] non si può dire se, in caso di associazione dei due gruppi, preceda 1-3 o 4-6». Ma per questo aspetto pare chiaro che il gruppo 1-3 (qui ott. XVI-XVIII) debba precedere il gruppo 4-6 (qui ott. XIX-XXI) giusta la stesura alternativa dell’ott. XIX che si trova nella c. dell’altro gruppo a seguire l’ott. XVIII (v. qui sopra l’apparato). Il carattere composito di questo esperimento si manifesta per altro in modo evidente a livello di ispirazione. A una prima serie (I-IX) caratterizzata secondo stilemi di satira classica (idillio del mondo campestre a contrastare la malizia del mondo civilizzato), succede, con una cesura netta a partire dalla ott. X, una materia pur essa satirica ma procedente per figure allegoriche.
14 [G 85]
Risposta del Buonarroto in nome di fr. Bastiano al capitolo di Francesco Berni a Sebastiano dal Piombo Padre, a me più che gli altri reverendo
Com’io ebbi la vostra, signor mio,
cercando andai fra tutti e cardinali
e dissi a tre da vostra parte addio.
Al Medico maggior de’ nostri mali
mostrai la detta, onde ne rise tanto
che ’l naso fe’ dua parti dell’occhiali.
Il servito da voi pregiato e santo
costà e qua, sì come voi scrivete,
n’ebbe piacer, che ne rise altro tanto.
A quel che tien le cose più secrete
del Medico minor non l’ho ancor visto;
farebbesi anche a lui, se fusse prete.
Ècci molt’altri che rinegon Cristo
che voi non siate qua; né dà lor noia
ché chi non crede si tien manco tristo.
Di voi a tutti caverò la foia
di questa vostra; e chi non si contenta
affogar possa per le man del boia.
La Carne che nel sal si purga e stenta
che saria buon per carbonata ancora
di voi più che di sé par si rammenta.
Il nostro Buonarroto, che v’adora,
visto la vostra, se ben veggio, parmi
c’al ciel si lievi mille volte ogn’ora;
e dice che la vita de’ sua marmi
non basta a far il vostro nome eterno,
come lui fanno i divin vostri carmi.
Ai qual non nuoce né state né verno,
dal tempo esenti e da morte crudele,
che fama di virtù non ha in governo.
E come vostro amico e mio fedele
disse: – Ai dipinti, visti i versi belli,
s’appiccon voti e s’accendon candele.
Dunque i’ son pur nel numero di quelli,
da un goffo pittor senza valore
cavato a pennelli e alberelli.
Il Bernia ringraziate per mio amore,
che fra tanti lui sol conosce il vero
di me; ché chi mi stima è ’n grand’errore.
Ma la sua disciplina el lume intero
mi può ben dar, e gran miracol fia,
a far un uom dipinto un uom da vero. –
Così mi disse; e io per cortesia
vel raccomando quanto so e posso,
che fia l’apportator di questa mia.
Mentre la scrivo a verso a verso, rosso
divengo assai, pensando a cui la mando,
sendo il mio non professo, goffo e grosso.
Pur nondimen così mi raccomando
anch’io a voi, e altro non accade;
d’ogni tempo son vostro e d’ogni quando.
A voi nel numer delle cose rade
tutto mi v’offerisco, e non pensate
ch’i’ manchi, se ’l cappuccio non mi cade.
Così vi dico e giuro, e certo siate,
ch’i’ non farei per me quel che per voi:
e non m’abbiate a schifo come frate.
Comandatemi, e fate poi da voi.
AB XIV, sez. III, 60r-61v, AB XV, 173r-174r, Berni 1538, 28v-29v, Opere burlesche 1548, 71r-72r
Tit. risposta de fra bastiano Berni 1538. risposta di fra bastiano Opere burlesche 1548. 5 la data, onde ei Berni 1538 Opere burlesche 1548. 6 fa due parti de gli Berni 1538 fe due parti de gl’occhiali Opere burlesche 1548. 7 pregiato tanto Berni 1538 da noi pregiato tanto Opere burlesche 1548. 9 ene rise altrettanto Berni 1538 Opere burlesche 1548. 10 Ma quel Berni 1538 Opere burlesche 1548. 11 non ho anchor visto Opere burlesche 1548. 12 anco Berni 1538 fussi Opere burlesche 1548. 13 rinegan Berni 1538 Sonci molt’altri, che rinegan Opere burlesche 1548. 15 men crede, se tien Berni 1538 men crede Opere burlesche 1548. 18 la man Berni 1538. 20 Carbonale Berni 1538 carnovale Opere burlesche 1548. 21 se contenta Berni 1538 si contenta Opere burlesche 1548. 22-24 om. AB XIV. 22 buon Aruotto Berni 1538. 24 lieva Berni 1538. 25 suoi Berni 1538 Opere burlesche 1548. 27 vostri divin Berni 1538 Opere burlesche 1548. 28 A quai Berni 1538 Opere burlesche 1548. 29 Da tempo assenti Berni 1538 Opere burlesche 1548. 32 à depinta visto Berni 1538 visto Opere burlesche 1548. 33 S’appicca i voti, accende le Berni 1538 s’appiccan voti, e accendon candele Opere burlesche 1548. 34 pur il numero Opere burlesche 1548. 35 sanza Berni 1538 dipintor Opere burlesche 1548. 36 da pennelli Berni 1538 Opere burlesche 1548. 37 Bernia ringratiate mio signore Berni 1538 ringratiate, mio signore Opere burlesche 1548. 38 egli sol Opere burlesche 1548. 39 De me, chi chi Berni 1538 Di me chi mi stima Opere burlesche 1548. 40 il lume Berni 1538 Opere burlesche 1548. 42 d’un’huom depinto un da dovero Berni 1538 d’un huom dipinto un da dovero Opere burlesche 1548. 43 me Berni 1538. 45 supportator Berni 1538 fia apportator Opere burlesche 1548. 47 a chi Berni 1538 Opere burlesche 1548. 48 Sendo al mio non professo, grosso, e mosso Berni 1538 Opere burlesche 1548. 53 me Berni 1538. 56 farrei Berni 1538. 57 E non habbiate Opere burlesche 1548.
Capitolo ternario.
Nota. Oltre al testimone AB XIV, ove il capitolo è apografo e trascritto a seguire quello di Berni, il ternario conobbe all’epoca una diffusione a stampa. Edito primieramente in Berni 1538 (separato, invero, dal capitolo di proposta, A Fra Bastian dal Piombo, che sta alle cc. 20r-21v) con attribuzione fittizia a Sebastiano, fu riprodotto passivamente in due edd. successive (Tvtte le opere del Bernia in terza rima, nvovamente con somma diligentia stampate, [s.l.], M. D. XXXX; Tvtte le opere del Bernia in terza rima, nvovamente con somma diligentia stampate, [s.l.], M D XLII). Berni 1538 si colloca cronologicamente alquanto a ridosso della data di stesura, che segue di poche settimane il ternario di proposta di Berni Padre, a me più che molti reverendo, probabilmente della prima metà del 1534 e già apparso a stampa nell’anno precedente (I capitoli del Mauro et del Bernia et altri authori nuovamente con ogni diligentia et correttione stampati, [Roma] per Curtio Navo, m d xxxvii, alle cc. 57r-58r con la didascalia: capitolo a fra bastian / dal piombo dil bernia), dove però figurava senza la risposta, segno che quest’ultima fu nelle disponibilità dell’editore Navò solo l’anno succes-sivo. Da Berni 1538 il testo fu riproposto, con alcuni interventi personali di Grazzini non collegabili a altri antigrafi, entro il Primo libro dell’opere burlesche, nuova edizione fiorentina che Antonfrancesco Grazzini il Lasca curò per l’editore Giunti nel 1548 (Opere burlesche 1548), dove figurava in una sezione D’autori incerti con la didascalia: risposta di fra bastiano. Ristampe di quest’opera furono fatte nel 1550 e 1552, nonché a Venezia per Domenico Giglio nel 1564.
Da questa tradizione a stampa la lezione di AB XIV è indipendente. La copia in questione appartiene alla stessa mano che stese la sez. II del cod., contenente un lacerto della silloge allestita da Luigi del Riccio e Donato Giannotti intorno al 1546, e dunque va datata con ogni probabilità al medesimo periodo. Il testo, non del tutto attendibile in quanto lacunoso dei vv. 20-22, è in ogni caso più affidabile di quelli a stampa (caratterizzati fin dall’inizio da corruttele o fraintendimenti, oltre che a arbitrari aggiustamenti retorici e sintattici). Su di esso si è fondato Girardi, pp. 260-63, integrando la lacuna dei vv. 20-22 con Opere burlesche 1548, che a sua detta «riproduce il testo della prima stampa del capitolo [...] nella seconda edizione delle poesie del Berni curata dal Lasca [sic] (Venezia, 1538)», e registrando le varianti di quest’ultima. Ma, oltre alla confusione su Lasca (estraneo all’ed. veneziana del 1538), c’è da ripetere che Opere burlesche 1548 è un descriptus che risale a Berni 1538, le cui varianti non hanno rilievo in quanto frutto di innovazioni arbitrarie di Grazzini. AB XIV non è in ogni caso da seguire nelle numerose apocopi e elisioni che sono palesemente un tratto personale del copista. Infine, la copia di AB XV è collaterale a AB XIV (non da essa derivante, in quanto vi è presente una variante dei vv. 22-24), ma abbondantemente alterata per iniziativa di Michelangelo il Giovane. Precede una didascalia: «Risposta al capitol del Berni Indiritto a fra Bastian dal Piombo, che comincia = Padre a me piu che gli altri reverendo La quale era fra le scritture di Luigi del Riccio con la rubrica che diceva Risposta del Buonarroto in nome di fra Bastiano».
Il capitolo si legge in stretta connessione con quello di proposta di Berni, che fu da subito percepito come un originale commento in versi all’arte e alla poesia dell’artista, tanto da essere citato da Varchi nel 1547 all’atto di commentare il sonetto michelangiolesco Non vider gli occhi miei: «come disse quello ingegnosissimo Poeta di ciance, et da trastullo, che egli è nuovo Apollo, & nuovo Apelle, & non dice parole, ma cose, tratte non solo del mezzo di Platone, ma d’Aristotile» (Due lezzioni di M. Benedetto Varchi, nella prima delle quali si dichiara un Sonetto di M. Michelagnolo Buonarroti, nella seconda si disputa quale sia più nobile arte la Scultura, o la Pittura, con una lettera d’esso Michelagnolo, & piu altri Eccellentiss. Pittori, et Scultori, sopra la Quistione sopradetta, In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, mdxlix, c. 52). La risposta di Michelangelo fu attribuita concordemente a Sebastiano da tutta l’antica tradizione a stampa. Vasari non aveva dubbi nell’assegnarlo a quello nella prima e nella seconda edizione delle Vite,e una completa restituzione a Michelangelo si deve in definitiva all’edi-zione Guasti, ove il capitolo figura incluso e motivato entro il corpus. Sulla paternità non sussistono di fatto dubbi reali, stante se non altro la presenza del testo in AB XIV, ma si tenga conto del cenno di M. Residori, Sulla corrispondenza poetica tra Berni e Michelangelo (senza dimenticare Sebastiano dal Piombo),in Les années trente du XVIe siècle italien, Actes du Colloque International (Paris, 3-5 juin 2004) réunis et présentés par Danielle Boillet et Michel Plaisance, Paris, C.I.R.R.I., 2007, pp. 207-24, p. 210: «non mi pare si possa nemmeno escludere l’ipotesi che all’origine del capitolo [...] ci sia qualche forma di collaborazione fra i due artisti, almeno a livello della prima ideazione», col rinvio alla «ben documentata abitudine di Michelangelo e Sebastiano a collaborare nel campo dell’arte figurativa». La modalità obliqua è del resto obbligata dalla proposta di Berni, indirizzata formalmente a Sebastiano, ed è pensabile che questo ‘gioco’ fosse predisposto per un facile disvelamento presso il lettore contemporaneo. Infine,alv. 45, l’annuncio che Michelangelo sarà l’appor-tatore del capitolo «deve probabilmente intendersi alla lettera, perché proprio in quel periodo Michelangelo avrebbe fatto per l’ultima volta della sua vita il viaggio da Roma a Firenze, per recarsi al capezzale del padre gravemente malato» (Residori, Sulla corrispondenza poetica tra Berni e Michelangelo, cit., p. 209).
15 [G 110]
Io dico a voi, ch’al mondo avete dato
l’anima e ’l corpo e lo spirito ’nsieme:
in questa cassa oscura è ’l vostro lato.
AB XV, 50v
Terzina.
Nota. Trasmesso dal solo AB XV di mano di Michelangelo il Giovane, nella seguente nota: «Disse Bern(ardo) [Buontalenti] che Michel(angelo) aveva a mezza scala in casa sua in roma dipinta una uno [cass.] disegnato uno scheletro di morte di chiaro scuro ritto co(n) una cassa in spalla rozza dove era scritta / Io dico a voi ch’al mondo avete dato / l’anima e’l corpo & lo spirito ’nsieme / In questa cassa oscura è’l vostro lato». Il riferimento a Bernardo Buontalenti indica che il pezzo ha la medesima provenienza dei materiali pervenuti al pronipote relativi al n. 7 (G 20; cf. lì la Nota). Per la data, Girardi, p. 294, considera il commento precedente di Frey, p. 484: «Unico elemento utile per la cronologia è il termine a quo del 1534/35».
Per il senso e l’ispirazione il testo va associato alla modalità dell’epitaffio in sé compiuto. Si veda quanto in G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere e altri prodigi pasquineschi fiorentini (Bandinelli, Cellini, Michelangelo),in Ex mar-more. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna, Atti del Colloquio Internazionale, Lecce-Otranto, 17-19 novembre, ed. Chrysa Damaniaki, Paolo Procaccioli, Angelo Romano, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 221-74, p. 247, che connette questa terzina alla silloge per Cecchino Bracci, pur chiarendo che «tuttavia [la terzina è] leggermente anomala e, se vogliamo, “ibrida”, in quanto a parlare è uno scheletro disegnato che reca in spalla una cassa da morto». K. Eisenbichler, The Religious Poetry of Michelangelo: The Mystical Sublimation,in Michelangelo: selected scholarship in English, vol. 5: Drawings, Poetry and Miscellaneous Studies, Edited with introductions by William E. Wallace, New York, Garland, 1995, pp. 195-208, p. 197, connette l’epitaffio al n. 6 (G 21), nel segno della danza macabra.
16 [G 267]
I’ sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua, pover e solo,
come spirto legato in un’ampolla,
e la mia scura tomba è picciol volo,
dov’è Aragne e mill’opre e lavoranti,
e fan di lor filando fusaiuolo.
D’intorno a l’uscio ho mete di giganti,
che chi mangia uva o ha presa medicina
non vanno altrove a cacar tutti quanti.
I’ ho ’mparato a conoscer l’orina
e la cannella ond’esce, per quei fessi
che inanzi dì mi chiamon la mattina.
Gatti, carogne, canterelli o cessi,
chi n’ha per masserizia o men vïaggio
non vien a vicitarmi mai senz’essi.
L’anima mia dal corpo ha tal vantaggio,
che se stasata allentasse l’odore,
seco non la terre’ ’l pan e ’l formaggio.
La tosse e ’l freddo il tien sol che non more;
se la non esce per l’uscio di sotto,
per bocca il fiato a pena uscir può fore.
Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io vivo e mangio a scotto.
La mia allegrezza è la maninconia,
e ’l mio riposo son questi disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
Chi mi vedesse a la festa de’ Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.
Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa;
se ’l maggior caccia sempre il minor duolo,
di penne l’alma ho ben tarpata e rasa.
Io tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.
Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
ch’al moto lor la voce suoni e resti.
La faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz’altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
Mi cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l’altro canta un grillo tutta notte;
né dormo e russo al catarroso anelo.
Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,
agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.
Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin, come colui
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ove alcun tempo fui
di tanta opinion, mi reca a questo,
povero, vecchio e servo in forza altrui,
ch’i’ son disfatto s’i’ non muoio presto.
AB XIV, sez. II, 40r-41r
4 et picciol AB XIV. 6 fusaiulo AB XIV. 8 mang’uu’a presa corr. in ha sopra il r. di mano di D. Giannotti AB XIV. 15 fucitarmi uicitarmi corr. sopra il r. di mano di Giannotti AB XIV. 43 N un’orecchio mi cou’ corr. di mano di Giannotti Mi coua in un orecchio AB XIV. 47 cemboli cartocci la a aggiunta sopra da Giannotti AB XIV. 51 & s’affogò corr. poi affogò da Giannotti AB XIV
Ternario.
Nota. Il testimone unico è apografo e in qualche modo infido, giusta le difficoltà di lettura e l’evidente trasandatezza. Il contenitore (tradizionalmente siglato Gian) è quello che trascrive parte della silloge 1546, preceduta dal titolo: «Son: canzoni & madrigali:», dove le poesie portano un numero progressivo fino al n. 34, se non per la singolare inserzione di questo capitolo, che non è numerato. Al v. 15 la lezione mutarmi proposta da Girardi va senz’altro corretta in vicitarmi (come già suggerito da Romei, Bernismo di Michelangelo, cit., p. 326). Rispetto alla restituzione di Girardi, e coerentemente con la soluzione del n. 14 (G 85), elimino qui la più parte delle apocopi e elisioni che connotano la scrittura del copista, sulle quali già intervenne in più casi D. Giannotti all’atto di rivedere la copia.
Per la data, probabilmente il 1546, si veda in Girardi, p. 436. Il metro in terzine induce all’associazione scontata al genere burlesco, ma il capitolo è qui in realtà un «semplice involucro» (Romei, Bernismo di Michelangelo, cit., p. 315) per una siliqua di immagini grottesche che risentono semmai di una cifra burchiellesca (cfr. ibidem, pp. 324-25).
____________
1 Danilo Romei, Bernismo di Michelangelo, in Id., Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze, Centro 2P, 1984, pp. 137-182; poi in Id., Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534), Manziana, Vecchiarelli, 2007, pp. 307-38.
2 Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari, Laterza, 1960.
3 Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, ed. Carl Frey, Berlin, Grote’sche Verlagsbuchhandlung, 1897 [ed. anastatica, Berlin, 1964]. Si veda ora, per un approfondimento testuale, il mio recente contributo: A. Corsaro, Intorno alle rime di Michelangelo Buonarroti. La silloge del 1546, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXXXV (2008), pp. 536-69.
4 G. Masi, Lo sguardo di Michelangelo, poeta del “dunque”: proposte esegetiche, in «Italianistica», XXXVIII, 2 (2009), pp. 175-96:p. 178.
5 G. Contini, Una lettura su Michelangelo [1937], ora in Id., Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, pp. 242-58.
6 Adotto d’ora in poi, una doppia numerazione, contrassegnando i testi secondo il nuovo ordine della presente raccolta e accanto (fra parentesi) col numero canonico dell’ed. Girardi, siglata G.
7 Che si legge a partire dall’edizione curata da Antonfrancesco Grazzini, Tutti i trionfi, carri, mascherate ò canti carnascialeschi andati per Firenze, Dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de Medici ...per infino à questo anno presente 1559, In Fiorenza, mdlviiii, pp. 146-48.
8 G. Gorni, Casi di filologia cinquecentesca: Tasso, Molza, Da Porto, Michelangelo,in Per Cesare Bozzetti. Studi di filologia e letteratura italiana, ed. Simone Albonico, Andrea Comboni, Giorgio Panizza e Claudio Vela, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 425-42, pp. 438-39. In quell’intervento si raggruppavano segnatamente (entro una classificazione provvisoria) i ternari: G 35, 45, 85, 86, 96, 267; ma non i diversi abbozzi in terza rima non messi a testo da Girardi in quanto riconducibili a testi definitivi risolti in altro metro, ad es. le varie prove in terza rima del madrigale G 246.
9 Un’analisi distesa e esauriente è ora in Masi, Lo sguardo di Michelangelo, cit., pp. 188-94.
10 E in ogni caso Romei, Bernismo di Michelangelo, cit., p. 316, ha messo opportunamente in rilievo la distanza che separa «la facilità, la politezza, la piacevolezza del Berni [...] e l’andare irto e spezzato, a tratti persino faticoso della verseggiatura michelangiolesca. E ciò – è da credere – per l’attuazione attenta della stessa retorica dell’asprezza e della obscuritas, che con granitica coerenza governa gran parte della poesia di Michelangiolo».
11 G. Gorni, Le ottave dei giganti,in Michelangelo poeta e artista, Atti della giornata di studi (21 gennaio 2005), ed. Paolo Grossi e Matteo Residori, Parigi, Istituto Italiano di Cultura, 2005 (Quaderni dell’Hotel Galliffet. IV), pp. 41-52:p. 44.
12 In Romei, Bernismo di Michelangelo, cit., p. 314: «la produzione burlesca [di Michelangelo] è una produzione occasionale. Non nel senso [...] dell’improvvisa-zione e della casualità, ma in quello, non necessariamente deteriore, della marcata giunzione con circostanze, proposte, situazioni, sollecitazioni precise e potenzialmente accertabili, anche quando di fatto non accertate».
13 In A. Corsaro, Michelangelo e i letterati, in Officine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana fra Riforma e Controriforma, ed. Harald Hendrix e P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2008, pp. 383-425, avanzavo l’idea di ampliare la corrispondenza poetica con Giovanni da Pistoia, di cui l’esito arcifamoso è il son. 1, I’ ho già fatto un gozzo in questo stento. Già Frey aveva selezionato cinque poesie autografe (tre sonetti caudati e due sonetti) che Giovanni indirizzò a Michelangelo, estraendole dal cod. xvii dell’Archivio Buonarroti e sistemandole in appendice alla sua edizione critica. Con tutta la prudenza del caso, si potrebbero pensare come indirizzati a Giovanni il son. 4 (G 71), secondo un’idea già di Guasti, e il n. 3 (G 10), sicuramente di corrispondenza e di cui già il pronipote Michelangelo il Giovane aveva pensato la possibile destinazione a Giovanni (v. qui sotto i testi).
14 Firenze, Archivio Buonarroti, AB XIII, mad. 2. Cito da Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi a cura di Paola Barocchi e Riccardo Ristori, Firenze, S.P.E.S., 1965-1983, IV, lettera MXVIII, febbraio[?] 1544, p. 177.