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Lettura di «Arsi gran tempo e del mio foco indegno» di Torquato Tasso
È quasi inevitabile dare avvio a un discorso sulla lirica tassiana, per quanto in questo caso circoscritto ad un solo sonetto, lamentando la situazione filologica e critica in cui si trovano le rime. Se sul fronte filologico le armate pavesi stanno approssimandosi a congedare le edizioni di alcune delle più significative porzioni della ponderosa produzione lirica tassiana, sul fronte dell’esegesi e della critica si registrano ancora poche voci circondate da un laconico vuoto, forse non più semplicemente giustificabile con l’appello all’infida edizione Solerti: sarebbe sufficiente ricordare, a questo proposito, che l’edizione critica curata da Martignone e Gavazzeni del cosiddetto canzoniere Chigiano è ormai disponibile da più di una quindicina d’anni e, salvo qualche singolo intervento, raramente di largo respiro – con l’eccezione del recente volume di Davide Colussi1 – , ancora non si vede all’orizzonte un’edizione commentata, capace di illuminare trame intertestuali, di svelare nodi e scelte linguistiche e stilistiche, di intavolare una più articolata lettura delle forme del dis-corso lirico tassiano. 2 Tale latitanza critica, cui né le imponenti e talvolta sovrabbondanti celebrazioni del quinto centenario della morte del poeta né le diverse e importanti iniziative critiche sul petrarchismo degli ultimi anni hanno ovviato, tale latitanza, si diceva, pare ancora più sconfortante quando si tenga conto almeno di due elementi: da un lato dell’influenza decisiva che la lirica tassiana, anche – e, forse, soprattutto – quella di tradizione «caratterizzante», per rifarsi alle parole di Vania De Maldè,3 esercita sulla parabola che il linguaggio lirico compie nella lunga stagione che va dal secondo Cinquecento sino ai primi anni del secolo successivo, sia per le forme di progettazione e articolazione del liber di poesia, sia per le soluzioni tematico-stilistiche via via adottate. Dall’altro lato, non si può dimenticare che la lunga e a tratti tormentata esperienza tassiana appaia costantemente accompagnata dall’esercizio lirico che registra, come una sorta di diario di bordo, i punti di fuga ideali della poetica, sempre, com’è noto, in movimento, sempre aperta – all’interno di una vivace dinamica tra teoria e prassi – ad una instancabile discussione sul fare letterario e sul rapporto che il discorso letterario intrattiene con le altre discipline del sapere.
Assolto quindi il rituale compito della lamentatio, che costituisce da anni una premessa obbligata ad ogni intervento sulle rime, veniamo al sonetto Arsi gran tempo e del mio foco indegno che ho deciso di proporre per questa lettura, perché mi sembra essere un campione in qualche modo esemplare di alcune istanze generali della lirica amorosa tassiana. Composto nella prima stagione poetica del Tasso, legata all’amore per Lucrezia Bendidio, quindi nei primi anni Sessanta, il sonetto è pubblicato per la prima volta nel 1567, nelle Rime de gli Accademici Eterei; sarà poi riproposto, dopo un lavoro di revisione, all’interno del codice Chigiano, allestito da Tasso tra il 1583eil 1585in vista di un’organizzazione più seletta e narrativamente coesa della sua lirica amorosa. Infine il sonetto, e il gruppo di testi tematicamente affini che già comparivano nella raccolta degli Eterei, sarà inserito all’interno della Prima parte delle rime, andata a stampa per i tipi di Osanna nel 1591, con il corredo di un importante autocommento. La sopravvivenza del sonetto, e dei tre che gli sono prossimi già nella raccolta Eterea, nel corso di un così lungo arco di tempo dimostra, dunque, la fedeltà del Tasso ad una parte delle sue prime prove liriche, una fedeltà che tuttavia convive con il desiderio di adeguare quel dettato poetico al mutare continuo dei suoi orizzonti teorici, come testimonia il fitto lavoro variantistico cui sottopone i testi e le diverse soluzioni di liber proposte nel corso degli anni da Tasso. Si veda, intanto, come la seriazione dei testi nelle tre raccolte prese in esame illustri il permanere di questa cellula tematicamente coesa:
Eterei | Chigiano | Osanna | Solerti | |
Arsi gran tempo e del mio foco | 30 | 73 | 91 | 107 |
indegno | [173] | |||
Non più cresp’oro ed ambra tersa | 31 | 72 | 92 | 108 |
e pura | [174] | |||
Mentre sogetto al tuo spietato | 32 | 77 | 95 | 109 |
regno | [175] | |||
Ahi qual angue infernale entro ‘l | 33 | 79 | 97 | 110 |
mio seno | [176] |
Benché in questa sede ci si soffermerà soprattutto sulla redazione Eterea del sonetto, sarà utile però cercare di osservare, proprio in virtù dei vincoli che lo legano agli altri tre, gli esiti successivi del testo, specie in relazione al diverso organismo narrativo e poetico che lo contiene e alla luce dell’evolversi delle soluzioni stilistiche adottate da Tasso in ambito lirico.
Partiamo quindi dalla raccolta degli Eterei, primo, importante banco di prova del giovane Tasso; se, come è stato opportunamente osservato, la seriazione dei testi tassiani presenti nella silloge non può essere ricondotta ad una linea tematico-narrativa di spiccata coerenza, certo è altrettanto evidente che i testi sono raccolti in piccole sezioni tematiche omogenee, spesso, come vedremo, in stretto dialogo tra di loro, e capaci di sopravvivere anche nelle raccolte successive.4
Nel petrarchismo è dai particolari, anche minimi, che si definiscono identità stilistiche e poetiche, e in questa prima prova tassiana, vista con uno sguardo d’insieme, colpiscono due elementi che segnano un progressivo distanziamento dal modello bembiano e da Petrarca, almeno da quello more bembiano demonstrato e, assieme, lasciano intravvedere preferenze e idola del primo Tasso. In prima battuta si registra una tensione verso una gravitas, moderata e lontana da eccessi, per la quale corre l’obbligo di fare il nome di Della Casa. In seconda istanza si avverte un desiderio di allargare il patrimonio dei temi frequentabili dalla poesia amorosa, in nome del quale si sondano territori tematici liminari, prossimi ai confini, quando non proprio estranei al codice dei Rerum vulgarium fragmenta. Certo, un regesto dei temi affrontati nella silloge Eterea dimostra che nei testi tassiani vengono pagati inevitabili pedaggi alla topica petrarchesca, come documenta, ad esempio, la coppia dei sonetti dello specchio (151-152) o il sonetto Padre del cielo (183) che ambisce a chiudere, senza troppa convinzione, la raccolta in chiave spirituale. Ma nella direzione di un’adesione a moduli meno scontati si potrebbero ricordare, ad esempio, i sonetti sull’invecchiamento della donna (160-162), tema questo, non lo si dimentichi, certamente già legittimato da Petrarca (Rvf 12), ma riproposto e autorizzato soprattutto da Bembo con il celebre sonetto O superba et crudele (Rime 98), una parafrasi antifrastica in lingua petrarchesca dell’ode oraziana a Ligurino (Carm. IV 10), una filiera intertestuale del resto puntualmente ricordata dal Tasso nel suo più tardo autocommento;5 per Bembo si trattava, per dirlo con le parole di Dionisotti, di un «documento eccellente e tipico della retorica cinquecentesca, ormai aperta nel volgare all’intera lezione dei classici»,6 prodotto insomma del bembismo maturo, ma anche ideale punto di partenza, virtualità ancora tutta da esplorare e ricca di potenziali sviluppi. Lessico tutto petrarchesco, diceva Dionisotti, ma temi e sostanze di un’altra, diversa tradizione. Si tratta, in altre parole, di una riapertura di quel dialogo con la tradizione classica in nome del quale sono rimessi in gioco gli assetti della pratica imitativa. E la ricerca di concetti e, conseguentemente, di argomenti di sospetta legittimità petrarchesca apre poi le porte all’esplorazione di aree stilistiche se non inedite almeno percepite dal giovane Tasso come moderne.
Temi e gravitas, in altre parole inventio non ovvia, e in nome della convenienza, vero demone del Tasso teorico, elocutio grave, a documentare la spinta cui Tasso sottopone lo stile mediocre, proprio al genere lirico, per estenderlo verso esiti nobili e alti, verso, si potrebbe aggiungere, un vagheggiamento del bello che spinge l’eloquenza poetica nei territori della speculazione. Non, si badi, con l’obiettivo di dare vita ad una filosofia eloquente, ma con l’idea di una poesia capace di vagheggiare i concetti filosofici rendendoli, per usare le parole del Tasso della lezione sul Casa, non «forestieri» ma «naturali, nutriti in Parnaso medesimo, non venuti da l’Academia o dal Liceo».7 Tra i temi non del tutto canonici, e forse al polo estremo del possibile disancoramento del modello petrarchesco, troviamo quello dello sdegno amoroso che dà vita al piccolo ciclo dei sonetti 173-176, reso particolarmente compatto grazie a evidenti movenze narrative ed echi intratestuali.8 La breve suite prende avvio proprio con Arsi gran tempo, tracciando una parabola che parte dall’invettiva per concludersi con una palinodia della stessa, nel tentativo di cancellare la tracce della violenza verbale che avevano attraversato il discorso lirico. Arsi gran tempo è seguito infatti da Non più cresp’oro, sul quale sarà necessario tornare per meglio illuminare il nostro sonetto, poi da Mentre soggetto al tuo spietato regno e, infine, da Ahi qual angue infernale entro ’l mio seno, testo che segna la ritrattazione, riprendendo le movenze di Stesicoro e Orazio, come del resto anche il Tasso maturo chiosatore dei suoi versi ricorderà.9 Soprattutto nei primi due sonetti della serie si apre la strada alla rivendicazione di una invettiva dell’io lirico, non più vittima, come topicamente accade, della ruvida ritrosia della donna amata, ma protagonista pieno, lui e la sua voce poetica, di un vero e proprio controcanto amoroso. Si tratta, in altre parole, di un tema apparentato con l’ira, con la rabbia e, insomma, con il vituperio, armoniche ben lontane da quelle petrarchesche e, piuttosto, esplorate con una certa disinvoltura nel secondo Quattrocento, quando nei quadri lirico-narrativi facevano la loro comparsa il tradimento, il matrimonio, la derisione. Benché, come già si è accennato precedentemente, nella raccolta Eterea sarebbe forzato ravvisare rigorose linee di svolgimento narrativo, vero è che alcune zone hanno evidente coerenza e improntano se non una linea narrativa almeno un evidente gioco di rispondenze; sicuro appare, ad esempio, il collegamento di questi sonetti con la coppia esordiale della piccola raccolta eterea tassiana, con un rovesciamento sostanziale di quanto affermato in quei primi testi, rovesciamento sul quale avremo modo di tornare. Vediamo, intanto, il sonetto:
Arsi gran tempo e del mio foco indegno
esca fu sol beltà terrena e frale
qual palustre augel pur sempre l’ale
volsi di fango asperse ad umil segno.
Or che può gelo di sì giusto sdegno
spegner nel cor l’incendio aspro e mortale,
scosso d’ogni vil soma al ciel ne sale
con pronto volo il mio non pigro ingegno.
Lasso, e conosco or ben che quanto i’ dissi
fu voce d’uom cui ne’ tormenti astringa
giudice ingiusto a traviar dal vero.
Perfida, ancor ne la mia lingua io spero
che donde pria ti trasse ella ti spinga
d’un cieco oblio ne’ più profondi abissi.10
L’attacco in levare di Arsi gran tempo evoca formulari piuttosto consolidati nella lirica rinascimentale: varrà la pena ricordare soprattutto quello del sonetto bembiano inviato a Bernardo Cappello, Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento, o, tra le tante variazioni sul tema, quella proposta da Girolamo Molin, autore assai caro al giovane Tasso, con Arsi ne l’età mia verde fiorita.Mal’incipit tassiano, come già suggeriva Antonio Daniele, conserva anche l’eco della mossa d’avvio di due canzoni dellacasiane, rispettivamente la 32, Arsi, e non pur la verde stagion fresca ela 47, Errai gran tempo e, del cammino incerto, / misero peregrin molti anni andai.11 Sono aperture, quelle adottate da Bembo e Della Casa, che preludono, sulla falsariga petrarchesca, alla rappresentazione di un io lirico ormai stanco e provato dalla lunga militanza amorosa, iniziata negli anni lontani della gioventù, ma ora speranzoso di uscire dal giogo amoroso per seguire vie più virtuose. Bembo e Della Casa, dunque, appaiono sin dall’avvio del sonetto numi tutelari del giovane Tasso, ma la piega che prende il nostro sonetto muove in direzione diversa rispetto ai due maestri. Più che il disperato appello per una redenzione, nel testo tassiano alla stagione ormai conclusa infatti si contrappone un nuovo stato dell’innamorato, apparentemente libero ed estraneo all’amore, capace di volgere il suo canto contro l’amata. Il rimpianto per una stagione spesa vanamente perché mossa da un amore concupiscibile, semplicemente carnale e terreno, la beltà terrena e frale del secondo verso, rimodulazione del petrarchesco «questo caduco e fragil bene / ch’è vento et ombra, et à nome beltade» (Rvf 350, 1-2), ipotesto al quale Tasso si accosterà con maggior fedeltà nella redazione chigiana («esca fu sol beltà caduca e frale»),12 non è ammantato dal velo nostalgico e umbratile che avvolge il ricordo della bellezza, perché quell’esca, quella seduzione ammaliante, quasi perversa, ha trattenuto il poeta – ora affrancato – nelle regioni infime e basse del desiderio. Non è forse un caso se Tasso riutilizzerà, in anni successivi, questo tema con i medesimi materiali verbali nel sonetto il cui incipit suona significativamente Empia Circe crudel gran tempo m’have, testo che appare per la prima volta nel codice bolognese I4 e che riverbera lessico e temi di questo Etereo. 13
Si diceva del movimento di fondo che si avverte nel nostro sonetto tra piani temporali e, di conseguenza, tra stati emotivi e psicologici, che si succedono in una continua dissolvenza, dal passato – ben marcato dai verbi Arsi, volsi, che puntellano la prima quartina, e poi dissi del verso 11– al presente, ribattuto dai verbi e dall’avverbio Or che apre la seconda quartina, a segnare il momento del distacco, della liberazione, sino a spingersi, sul finale, soprattutto nella seconda terzina, a dichiarare la chiusura della relazione amorosa e la futura conversione del canto poetico dalla lode all’oblio, con un passaggio della vittoria contro il tempo attraverso la poesia, tema che costituiva il fil rouge dei sonetti sull’invecchiamento, a una vera e propria damnatio memoriae dell’oggetto amato. Questa struttura argomentativo-narrativa, in bilico tra rammemorazione, rinsavimento e tensione ottativa per il futuro, è alla base anche del sonetto successivo Non più cresp’oro ed ambra tersa e pura, un vero e proprio controcanto della canonica descriptio mulieris, messa in atto con un plateale rovesciamento del celeberrimo sonetto bembiano Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura (Rime 5). Anche in Non più cresp’oro la sezione conclusiva del sonetto dichiara una nuova direzione poetica, non, come in Arsi gran tempo, una damnatio memoriae, ma un’invettiva dai toni aspri e violenti, con la promessa di descrivere la donna priva del velo di bellezza che la poesia le poteva concedere, e quindi vittima della derisione e del disprezzo del mondo:
Ahi, ch’io cieco d’amor altru’ ingannai
in rime ornando di sì ricchi fregi
la forma tua, che poi leggiadra apparse.
Ecco i’ rimovo le mentite larve:
or ne la propria tua sembianza omai
ti veggia il mondo, e ti derida e spregi.14
A ben vedere, del resto, la coppia di sonetti 173e 174 è solidale anche nella proposta di un sostanziale capovolgimento della sequenza di apertura della sezione tassiana nell’antologia degli Eterei, anch’essa, si noti, conservata quasi intatta in posizione esordiale nel canzoniere Chigiano.15 L’esca amorosa, che appare nel secondo verso del nostro sonetto, avvia infatti un dialogo con il sonetto d’apertura Avean gli atti leggiadri e ’l vago aspetto, giocato proprio sul tema dell’inna-moramento, neoplatonicamente avvenuto non solo per mezzo della vista, ma anche attraverso il canto («un novo canto il cor percosse»), capace di infrangere il gelo dello sdegno che armava il cuore («Avean gli atti leggiadri e ’l vago aspetto / già rotto il gelo ond’armò sdegno il core», 144, 1-2).16 Anche in quel caso, ai versi 5-6, si faceva riferimento all’esca amorosa, in chiave però positiva, secondo linee più canoniche:
E nutrir del mio mal prendea diletto
Con l’esca dolce d’un soave errore.
Esiste, insomma, un più largo giro di rapporti tra la coppia che apre il piccolo canzoniere Etereo e il dittico 173-174; se i testi esordiali cantano, rispettivamente, l’innamoramento e l’incantato splendore della bellezza femminile, i due sonetti del ciclo dello sdegno – in controcanto – celebrano la fine della stagione dell’amore e disconoscono il valore della bellezza. Al sonetto d’esordio Avean gli atti leggiadri risponde Arsi gran tempo, come si è già osservato, mentre al secondo della serie, Su l’ampia fronte il crespo oro lucente, si contrappone, con un rovesciamento completo del tema, attraverso il recupero, però mutato di segno, dei medesimi materiali lessicali, Non più cresp’oro: dunque una sorta di movimento doppio, di amore e disamore, paso doble tra cedimento alla passione terrena e immediata riscossa.
Si è detto in avvio dell’insistita presenza di echi dellacasiani in Arsi gran tempo, avvertibili sottotraccia, ma in maniera costante, anche sul piano delle immagini; basterebbe osservare, ad esempio, il motivo dell’«augel palustre» con le ali ricoperte di fango del verso 3, trasparente gioco metaforico di un poeta che non riesce a farsi cigno, a librarsi in volo – victor se tollit ad auras era il neoplatonico motto degli Eterei. Benché non sia immagine esclusivamente dellacasiana, certamente caratterizza in modo significativo il suo canzoniere;17 e, allo stesso modo, diventa una delle immagini «largamente produttive [...] con tutte le implicazioni, letterarie ed esistenziali» della compagine degli Eterei, come ha osservato Antonio Daniele, 18 per costituire, in particolare, un elemento forte della lirica Eterea dello stesso Tasso. Viene messa a frutto, ad esempio, per dare vita a un gioco di rispondenze interne, ravvisabili sia nel ciclo dell’invecchiamento della donna sia in Padre del cielo, unico sonetto dichiaratamente spirituale della raccolta, ipotesi di lavoro, si direbbe, per una chiusura del canzoniere e della storia lirico-amorosa sulla ben nota falsariga petrarchesca di pentimento e redenzione, una strada ben presto abbandonata dal Tasso, tanto che del testo non si troverà più traccia nei successivi canzonieri amorosi; ecco la terzina finale di quel sonetto:
dammi ch’io faccia a tua magion ritorno,
come sublime augel che spieghi ed erga
da vil fango palustre al ciel le piume. 19
Torna quindi l’immagine dell’augel, ma questa volta sublime, accompagnata dal fango, che in Arsi gran tempo troviamo al verso 5, espressione metaforica del mondo terreno, di sapore biblico, con tramature che prendono avvio almeno dal Petrarca del Triumphus Mortis II 36-38(«La morte è fin d’una pregione oscura / all’anime gentili; all’altre è noia / c’hanno posto nel fango ogni lor cura»).20 Ma, come si può osservare, la chiusura del sonetto Padre del cielo appena ricordata, dialoga anche con la seconda quartina di Arsi gran tempo, nella quale si lascia spazio alla rappresentazione della nuova condizione del «giusto sdegno», capace di spegnere ogni amore vano e di lasciare finalmente libero l’animo di innalzarsi verso la contemplazione di ben più alti fenomeni. Si tratta di un motivo fortemente legato a quel «platonismo atmosferico», così come è stato definito da Pastore Stocchi,21 assai tipico di questa prima stagione tassiana e, più in generale, condiviso dalla compagine degli Eterei, ciascuno, s’intende, con gli strumenti e con la forza poetica che gli è propria. Un retroterra filosofico, però, che si infiltra e governa il dettato lirico-amoroso, tanto che, anche quando l’orizzonte speculativo e l’interpretazione della poesia d’amore da parte tassiana saranno orientati a ben più approfonditi percorsi filosofici, non sarà difficile per Tasso ridisegnare e riutilizzare questi materiali, come del resto ben testimonia la variante introdotta al verso 7-8 nella redazione Osanna del sonetto Arsi gran tempo («con altra fiamma più s’inalza e sale / sovra le stelle il mio non pigro ingegno»).22
Con un sostanziale scarto rispetto alle quartine, le due terzine presentano simmetricamente la condizione dell’io lirico, ora consapevole del condizionamento che la servitù d’amore esercitava sulla sua poesia, e un’invettiva contro la donna, che spinge alla proposta di un nuovo programma poetico, la damnatio memoriae dell’amata, di segno opposto alla precedente lode. Il latinismo perfida, in posizione rilevata e in opposizione al lasso del verso 9, rappresenta, si direbbe, la punta acuminata, l’effetto a sorpresa del sonetto. È una tessera latina di chiara derivazione elegiaca, con evidente richiamo almeno a Properzio, ma anche a Tibullo e, inoltre, a Virgilio che, pur con un’inversione di genere, la utilizza al vocativo per ben due volte nell’ultimo, tragico monologo che Didone pronuncia lanciando le sue accuse ad Enea ormai lontano all’orizzonte (Aen. IV 305, 366). È, inoltre, aggettivo non utilizzato da Petrarca e assai poco frequentato dalla lirica cinquecentesca (attestazioni si registrano, non a caso, nella lirica quattrocentesca, da Giusto e Boiardo ad altri); ha insomma tutte le caratteristiche per costituire nel sonetto quello scarto che, secondo Tasso, deve suscitare sorpresa e meraviglia nel lettore.23 Non si dimentichi del resto che lo stesso Tasso, nel più tardo dialogo del la Cavaletta, ribadisce la necessità di amministrare il dettato poetico secondo una strategia dell’imprevedibilità, dell’inattesa evocazione della meraviglia e del diletto. Ricorrendo ad una metafora venatoria, così curiosamente tipica del linguaggio amoroso (l’innamorato che come un uccello vola nel mezzo di una natura incantata e, quando è del tutto privo di difese, proprio perché distratto dalla bellezza che lo circonda, cade nelle trappole di Amore cacciatore), nel dialogo afferma che il lettore di poesia deve essere catturato quando meno se l’aspetta, secondo modi stilistici variabili e in parti del testo sempre diverse: «Si può l’auditore o ’l lettore, mentre egli si spazia per le dilettevole rime, assomigliar a l’uccello, il quale, ove men teme, ivi più spesso è colto».24 Si tratta, in altre parole, di uno dei cardini essenziali del sistema della gravitas, intesa non tanto come meccanica applicazione di schemi fissi, quanto piuttosto come una serie di regole con le quali organizzare un gioco di infinita varietà, nella virtuosistica capacità di combinare i medesimi materiali verbali, tanto da non lasciare mai al lettore la possibilità di anticipare il movimento della poesia stessa. L’accusa che Tasso, nella lezione sul sonetto del Casa, muoverà ai moderni «dicitori» sarà proprio quella di aver frainteso il sistema di organizzazione del gioco della gravitas, limitandosi a imitare gli effetti esteriori senza aver compreso il complesso sistema di regole: ars est celare artem, si potrebbe aggiungere; la gravitas, cui mira sin dalle prime prove Tasso, è sprezzatura stilistica, è esaltazione della bellezza naturale senza che appaia il lavoro di cosmesi che la poesia attua sul concetto, proprio come accade, afferma Tasso, per la bellezza femminile.
Il sonetto quindi, dopo questo scarto, si chiude sulla nota della condanna, sul doppio movimento che la voce poetica mette in atto con la tensione oppositiva tra i verbi trarre e spingere, una sorta di risoluzione, sull’asse verticale, della contrapposizione fuoco-amore / gelo-sdegno, il primo che ha innalzato ingiustamente la donna, il secondo capace di farla sprofondare negli abissi dell’oblio, con una nota finale che conserva una evidente memoria del Petrarca del Triumphus Temporis 101-102: «in questi humani, a dir proprio, ligustri, / di cieca oblivïon che scuri abissi», celebrazione finale, come nell’ipotesto petrarchesco, di un trionfo del tempo sulla debole fama che la donna ha ingiustamente acquisito. Ma, rispetto a questa così perentoria chiusura del sonetto, se si allarga lo sguardo all’intera sequenza 173-176, si può comprendere che l’espres-sione anche violenta dello sdegno non è punto terminale del discorso lirico amoroso, quanto piuttosto una fase della vicenda sentimentale ed emotiva. Basterebbe, per aver conferma di ciò, rileggere alcune delle Conclusioni amorose che Tasso stila qualche anno dopo la pubblicazione delle rime eteree, nel 1570, quando affermerà che l’ira è «condimento dell’amore», né si può dare «amore senza ira», benché, continui, «nissun sdegno esser giusto ne gli amanti».25 È insomma una stazione di passaggio, un accidente e uno sprofondamento, interno al percorso amoroso, per il quale, inoltre, era possibile allegare ragioni filosoficamente forti per concedere allo sdegno e alla sua palinodia piena cittadinanza nel discorso lirico. Del resto, se il giovane Tasso guarda a Della Casa, sembra anche attento lettore, proprio quando va alla ricerca delle esperienze avvertite come innovative, tanto delle prove del petrarchismo veneto postbembiano quanto, e forse soprattutto, di quelle di area meridionale, che a partire dai primi anni Cinquanta avevano avuto larga circolazione grazie alle antologie liriche giolitine. E proprio uno dei protagonisti di quella stagione, Dionigi Atanagi, che, non si dimentichi, aveva accolto alcune rime del Tassino nella silloge per la morte di Irene di Spilimbergo ed era il curatore della raccolta degli Eterei, nelle sue annotazioni poste in appendice alla sua antologia De le rime di diversi nobili poeti toscani (1565) insisteva nel sottolineare come la novità di quella poesia consistesse proprio nei terreni dell’inventio, osservazione critica ribadita anche, con concetti e modi non troppo distanti da quelli del Tasso teorico, nella prefatoria alle rime di Berardino Rota, edite proprio nello stesso anno della raccolta Eterea. Sfogliando le pagine di quelle antologie Tasso poteva riscontrare, soprattutto tra le liriche di Tansillo, una larga frequentazione di temi extrapetrarcheschi, in particolare quello dello sdegno, cui il poeta di Venosa aveva dedicato, all’interno del suo breve canzoniere edito nel Libro quinto di Giolito, una serie di quattro testi, due canzoni che incorniciavano due sonetti. In quel caso, nelle maglie di un racconto lirico dominato dalla gelosia e da tinte realistiche, in nome del quale l’infedeltà della donna produceva l’esplosione dello sdegno poetico, Tansillo aveva utilizzato armoniche che paiono essere rimaste nella mente di Tasso, non solo all’epoca della composizione dei sonetti in vista della raccolta Eterea, ma anche più tardi, quando si accinse ad allestire la più elaborata architettura del canzoniere Chigiano. 26 In particolare Tansillo aveva rappresentato il conflitto interiore dell’innamorato nei termini di una battaglia combattuta come un «metaphysical conflict between personified emotions within the poet’s suol».27 E, del resto, non sembra essere solamente il tema dello sdegno ad aver attratto Tasso, se si ricorda che il microcanzoniere tansilliano si chiudeva con il sonetto Padre del ciel, poi ch’io m’aveggio e piango, un testo di evidente ascendenza petrarchesca, ma che il giovane Tasso in parte ricalca proprio nell’ultimo dei sonetti della serie Eterea.28 Per tornare alla nostra sequenza 173-176, andrà dunque osservato che la violenta chiusura di Arsi gran tempo, quasi una vera e propria maledizione scagliata contro la donna, ribattuta per di più dal sonetto successivo, che, come osservato, rimodula e ribadisce il controcanto amoroso, viene però rovesciata di segno dal sonetto-palinodia che chiude la serie Ahi qual angue infernale (176), nel quale il poeta attribuisce a un’ispirazione demoniaca il suo stile aggressivo: la sua «lingua», che in Arsi gran tempo aveva appunto il compito di far sprofondare negli abissi dell’oblio l’oggetto della sua poesia, era divenuta «temeraria», empia, proprio a causa della tentazione insinuatasi attraverso l’ira.
A quanto osservato sino ad ora, si potranno forse aggiungere alcune considerazioni, tanto sul piano delle scelte metriche e stilistiche, quanto per osservare, sia pure di scorcio, il destino di questo gruppo di sonetti nei progetti di liber lirico proposti da Tasso negli anni seguenti. Per quanto riguarda le opzioni stilistiche e metriche, il cui peso specifico è rilevantissimo in un genere della differenza minima e della sfumatura com’è il petrarchismo, sarà opportuno gettare uno sguardo allo schema metrico adottato per Arsi gran tempo, una testura piuttosto canonica per le quartine (ABBA ABBA), con inversione speculare dei rimanti per le terzine, secondo lo schema CDE EDC. Si tratta di una scelta che documenta il desiderio di spingersi non solo verso soluzioni proprie alla gravitas ma, anche, verso un’opzione moderna, non petrarchesca – almeno così crede Tasso – e non bembiana. Ci aiuta, nell’esame dello schema, lo stesso Tasso teorico quando, nel più tardo dialogo del La Cavaletta, passa in rassegna le testure capaci di attribuire gravità, stabilendo un doppio registro di entrate, l’uno con esempi di terzine gravi sostanzialmente canonici, vale a dire petrarcheschi, e l’altro con la presentazione delle varianti o, per dirla con parole tassiane, delle transgressioni dalla norma. Dopo aver concluso l’analisi delle forme che desume direttamente da Petrarca, Tasso illustra con particolare attenzione le formule che definisce o nuove o rinnovate, inserendo in questa categoria proprio la nostra testura e allegando un esempio dellacasiano (Della Casa, Rime, 24 Nessun lieto giamai). Sempre nelle stesse pagine ricorda inoltre che si tratta di un tipo di schema già esistente nella lirica italiana antica, e cita a testimonianza Dante, ma poi, aggiunge, rinnovato, rimesso in moto, dalla tradizione moderna.29 Si tratta, in realtà, di una piccola svista tassiana, perché di questo schema si registra almeno un’occorrenza nel Canzoniere di Petrarca (Rvf 93), ma evidentemente sfuggita a Tasso stesso. La conferma di questo convincimento viene anche dalle postille che Tasso verga nei margini della cosiddetta Giuntina Zeno, recentemente riscoperta e studiata da Emilio Russo, dove accanto al dantesco Cavalcando l’altr’hier – che testimonia lo schema CDE EDC – Tasso annota: «testura usata solo da’ moderni».30 Sebbene sia pericoloso guardare alle soluzioni metriche del giovane Tasso dalla specola del Tasso più maturo, legittimando le scelte del primo con l’orizzonte teorico del secondo, in questo caso pare corretto interpretare l’opzione dello schema rimico proprio in virtù di un consapevole spostamento verso la gravitas, una mossa stilistica confer-mata anche dallo schema adottatto per il sonetto, per così dire, gemello, Non più cresp’oro (ABBA ABBA CDE ECD), definito da Tasso grave, variazione sulle stesse armoniche di quello utilizzato per Arsi gran tempo. Del resto, ad un regesto delle scelte metriche operate da Tasso negli Eterei, si osserva che dei 38 sonetti presenti, solamente 11 sono di chiara impronta petrarchesca, mentre 11 riprendono strutture rare dei Rerum vulgarium fragmenta e ben 16 non hanno precedenti nel Canzoniere. 31
Il tema dello sdegno, dunque, richiede una strategia stilistica governata dalla ricerca della gravitas, nel nome di una ridefinizione del perimetro lirico-amoroso; una strada indicata, almeno nel suo punto di fuga ideale, da Della Casa, ma in un costante dialogo con Bembo, un confronto serrato e sottilmente polemico, si direbbe antifrastico. E si tratta, per di più, di un’opzione stilistica che Tasso condivide con altri Eterei, per documentare la quale è sufficiente scorrere l’antologia con l’occhio attento al rapporto tra temi e metro. Sembra utile in questo senso ricordare almeno il caso di Scipione Gonzaga, considerato da Tasso quale arbitro di stile e di elocuzione in diverse occasioni, non ultima la revisione della Liberata.32 Presente nella raccolta con 15 testi, il suo esercizio lirico è stato giudicato esercizio «garbato», anche se forse, sotto la patina di una eleganza di maniera, si cela una tensione sperimentale di maggior spessore, ben testimoniata proprio dalle scelte metriche. Pare interessante osservare, ad esempio, che il sonetto bembiano Crin d’oro crespo, già ripreso da Tasso nel più volte citato Non più cresp’oro, costituisce anche il modello, ricalcato con fedeltà quasi calligrafica, del sonetto di Scipione Gonzaga Crespo aureo crin cui par che ’ntorno vole, a documentare una serie di letture e di autori comuni agli Eterei. Va notato però che, in questo caso, l’imita-zione di Gonzaga gioca sì a riprendere con grande fedeltà il precedente bembiano (ne mutua la serie di parole rima vole | sole | parole | sole; segue con puntualità l’organizzazione della descriptio mulieris), ma ne complica sottilmente l’ordito, adottando lo schema metrico ABAB BAAB CDE DCE, assai raro, in particolare per le quartine, attestato solo due volte in Petrarca (Rvf 210e Rvf 295), in testi più volte ricordati nel dibattito cinquecentesco proprio come casi limite, di volta in volta additati come estremi da evitare o come opzioni legittime per nuove soluzioni, a seconda del rapporto che con il modello si intendeva instaurare.33 Ma, pur senza diffondersi troppo nell’analisi delle scelte del piccolo drappello di rime di Gonzaga, varrà la pena osservare come le forme metriche adottate illustrino il desiderio di orientarsi verso zone rare e peregrine, un desiderio talvolta esibito quasi con ostentazione, come accade per il sonetto Er’io qual uom che nulla vede o sente (Eterei 126), che mostra ancora la predilezione per lo schema delle quartine ABAB BAAB, questa volta associato alle terzine CDE CDE, a perfetta imitazione dell’hapax petrarchesco di Rvf 295(da cui riprende la serie rimica A -ente e l’assonanza della rima B, resa con sfumatura più grave, passando da -eme di Petrarca a -erse); oppure il sonetto Sparsa il volto di pallide viole, che esibisce per le terzine lo schema CDD CEE, non attestato nei Rvf e raro anche nella rimeria mediocinquecentesca; o, infine, Dopo una lunga e sanguinosa guerra, un sonetto cosiddetto continuato, costruito cioè su due parole rima (guerra e pace, con schema ABAB ABAB ABA BAB), con il quale Gonzaga si riallaccia a una tradizione virtuosistica, peraltro esigua nel Cinquecento (anche se, e non a caso, Domenico Venier ne conta ben quattro fra le sue rime).34 Sono quindi scelte metriche, quelle che mette in mostra Gonzaga, condivise, magari con maggiore prudenza da parte di alcuni, dagli altri Eterei presenti nell’antologia, in nome di una istanza sperimentale che li spinge ad emulare movenze dellacasiane, istanze del petrarchismo postbembiano di area veneta, come anche i risultati più innovativi della lirica meridionale, assurta alla gloria nazionale in tempi relativamente recenti grazie alle antologie di rime. E anche Tasso, come abbiamo visto, risente di questa tensione che guarda a proposte percepite come “moderne”, una spinta che per lui sembra andare invece attenuandosi, specie sul fronte metrico, negli anni successivi, quando, in nome di un rappel à l’ordre sul fronte imitativo, tornerà verso forme più ortodossamente petrarchesche.
Una considerazione finale merita il ruolo che Arsi gran tempo ei sonetti a lui attigui asssumono nelle nuove raccolte che Tasso allestisce negli anni successivi alla silloge Eterea, quando questi testi saranno inseriti all’interno di una partitura narrativa più ampia, nella quale il tema del contrasto tra sdegno e amore, veri e propri attanti del conflitto interiore che si consuma nell’animo dell’io innamorato, acquisterà una importanza decisiva. A partire dal canzoniere Chigiano, come ha riconosciuto Martignone sulla scia delle osservazioni di Martini, le maglie del racconto lirico costruito da Tasso si fanno infatti via via più stringenti, con un ispessimento della coerenza complessiva, ottenuta soprattutto facendo leva su alcuni nuclei tematici già esistenti nelle rime giovanili, ora però tra loro più integrati e connessi. Il sonetto Arsi gran tempo nel Chigiano, ma anche, senza differenze troppo evidenti, nella stampa Osanna, mantiene una funzione di cerniera narrativa forte che, attraverso un gioco di tensioni e controtensioni tra «duri e aspri lamenti» e «cortesi e amorose lodi»,35 prelude alla conclusione, sia pure parziale e temporanea, di una prima fase del racconto lirico e del Libro primo, suggellata dalla canzone LXXXI. Nelle 12sezioni individuate da Martignone all’interno del Chigiano, infatti, il nostro sonetto fa parte di una serie che assume il ruolo di punto cardine rispetto alle ultime tre sequenze, quando dopo l’eplosione della gelosia (sez. 10, testi LXII-LXIX), il poeta dà sfogo allo sdegno (sez. 11, testi LXXLXXVII), per poi pentirsi e giungere a una parziale chiusura del ciclo narrativo (sez. 12, testi LXXVIII-LXXXI).36 La novità rispetto alla seriazione Eterea è, come si è già avuto modo di osservare, una inversione tra Arsi gran tempo e Non più cresp’oro, dettata dal desiderio di creare una progressione argomentativa più serrata e forse coerente, in nome della quale l’io lirico dapprima dichiara di voler attuare un controcanto amoroso, destinato appunto a rappresentare la bellezza femminile priva dei «ricchi fregi» della poesia, cui segue, nell’apice dell’ira dominata dallo sdegno, la damnatio memoriae. Ora, nella nuova compagine narrativa, ribadita anche nei testi successivi, nei quali l’io lirico giunge persino ad accusare la donna di aver sfruttato la poesia solo per ottenere la fama, avendo preso esempio da Erostrato, capace di dare alle fiamme il tempio di Diana all’esclusivo scopo di essere ricordato in eterno («E prender vuol da quella mano essempio / che prima osò con dispietata arsura, / per farsi nota ad ogni età futura, / struggere antico e glorioso tempio», LXXV 5-8). I sonetti LXXIV-LXXVI, interposti ai testi 174-175della serie Eterea, dilatano dunque la tensione drammatica per allontanare il momento della palinodia finale, già, come si ricorderà, parte integrante del piccolo ciclo giovanile. In questo senso vengono quindi rafforzate le linee ideologiche esistenti, ma sono nel contempo confinate in modo più evidente all’interno dell’animo del poeta sotto il segno del conflitto interiore, tanto che nella didascalia del sonetto LXXX afferma che «la diversità delle cose dette della donna sua, hor lodandola hor lamentandosene, non procede dall’instabilità di lei ma da la propria passione». Si profila così una enfatizzazione del combattimento che si svolge nell’animo del soggetto lirico, una battaglia del resto continuamente ribadita con il ricorso a metafore di carattere bellico, per cui lo sdegno diventa di volta in volta «debil guerrier», «campione audace», e, infine, «quel generoso mio guerriero interno», come recita l’incipit della canzone LXXXI, modellato sul celebre attacco della canzone 360 dei Rvf, testo da cui riprende la più complessiva struttura della contesa giudiziaria («Finge che lo Sdegno accusi l’Amore concupiscibile inanzi la Ragione, e che l’Amore si difenda»). Dalla prima redazione Eterea, insomma, sopravvivono una serie di cellule tematico-narrative che possiedono in nuce un potenziale diegetico messo a regime dal canzoniere Chigiano, anche attraverso gli argomenti anteposti ad ogni testo, grazie ai quali il fieri evenemenziale viene continuamente sottolineato, a segnalare che ogni componimento deve essere letto come cellula narrativa di un discorso che prosegue. Si viene così disegnando una teatralizzazione della storia lirica nelle forme di una psicomachia dell’io che si carica di una tensione, tutta interna al discorso poetico, tra sdegno e amore, tra ira, passione e ragione. Non sarà del resto un caso che i medesimi attanti psicologici evocati siano chiamati in causa da Tasso anche per descrivere un momento decisivo del Bildungsroman di Rinaldo all’interno della Liberata, quando il mago d’Ascalona descrive a Carlo e Ubaldo l’effetto che produrrà nel giovane cavaliere la contemplazione della sua immagine di innamorato nello scudo: «[...] a tal vista potrà vergogna e sdegno / scacciar del petto suo l’amor indegno» (Lib. XIV 77, 7-8). Nel caso della lirica tassiana però il racconto non prevede alcuna teleologia, in qualche modo implicita al genere epico: il romanzo di formazione lirico percorre strade diverse, e lo farà persino in palese deroga al modello per eccellenza, il Canzoniere petrarchesco, almeno nelle forme che nel Cinquecento esso aveva assunto. Il liber di poesia, nella versione leggibile nel Chigiano, cantiere lasciato inconcluso da Tasso, sembra governato dal tempo dell’elegia, un cerchio destinato a non chiudersi mai, cui l’invenzione tassiana della duplicazione dell’oggetto amoroso, che dà avvio alla seconda parte del canzoniere, contribuisce a dare maggior tensione drammatica. E all’elemento di discontinuità costituito dal «novo, inusitato ardore» del sonetto proemiale del Libro secondo, si sovrappone il segno della continuità e del ricominciamento, proprio in virtù del sotterraneo conflitto tra i fantasmi interiori della psicologia dell’io lirico. In questo senso, il riutilizzo dei materiali giovanili, persino nella stampa Osanna, quando l’autocommento, sorta di espansione di carattere erudito delle aree del racconto, sempre però mirata a rafforzare i vettori di narratività della storia, sia pure di una storia tutta giocata ora sul piano più squisitamente filosofico, dimostra una fedeltà unita alla capacità di permeare i materiali di antica data in un tessuto in parte nuovo, in parte rimodulato proprio sulla base dello scheletro di quella prima storia narrata. A testimonianza di ciò si potrà ricordare il commento all’incipit di Arsi gran tempo:
L’amor del poeta nel suo fervore non passò un anno; ma, se un giorno, anzi un’ora, a gli amanti pare lunghissimo tempo, come dimostra Senofonte con l’esempio di <Artabazo> amante di Ciro, che parrà un anno intiero?37
L’indicazione cronologica, giudicata «un’eccezionale nota autobiografica» da Alessandro Martini,38testimonia la volontà di mantenere, anzi persino di precisare e perfezionare, il racconto originario, pur se arricchito e volto in direzioni teoriche e stilistiche progressivamente mutate.
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1 D. Colussi, Figure della diligenza. Costanti e varianti del Tasso lirico nel canzoniere Chigiano L VIII 302, Roma-Padova, Antenore, 2011.
2 Per un sintetico quadro della situazione filologica, come anche per il piano delle future edizioni previste all’interno dell’edizione nazionale delle opere di Torquato Tasso, cfr. F. Gavazzeni, L’edizione critica delle «Rime» di Torquato Tasso, in «Studi tassiani», 39-40 (2001-2002), pp. 133-44, cui si rimanda anche per la bibliografia pregressa; vedi inoltre, per un bilancio complessivo, C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 309-33. L’edizione del codice Chigiano L VIII 302 è andata a stampa una prima volta nel 1993 (Rime d’amore [secondo il cod. Chigiano L VIII 302], a cura di F. Gavazzeni, M. Leva, V. Martignone, Modena, Panini, 1993) e, successivamente, come «evoluzione della precedente», nel 2004, come parte dell’Edizione nazionale delle opere di Torquato Tasso (vol. IV, I, 1, Rime, Prima parte, tomo I, Rime d’amore [secondo il codice Chigiano L VIII 302], edizione critica a cura di F. Gavazzeni e V. Martignone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004).
3 V. De Maldè, Le Rime tassiane tra filologia e critica: per un bilancio dell’ultimo decennio di studi, in Torquato Tasso e la cultura estense, vol. I, a cura di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 317-32.
4 A. Martini, Amore esce dal caos. L’organizzazione tematico-narrativa delle rime amorose del Tasso, in «Filologia e critica», IX (1984), pp. 78-121, in part. pp. 85 sgg.; ripreso da V. Martignone, La struttura narrativa del codice Chigiano delle Rime tassiane, in «Studi tassiani», 38 (1990), pp. 71-128, in part. pp. 72-75, che però esprime delle riserve sul ruolo e la funzione, per così dire, generativa dei gruppi tematicamente affini delle liriche eteree, attorno ai quali si sarebbe venuta costruendo poi la nuova architettura del libro Chigiano: la «centralità funzionale delle liriche degli Eterei non pare sempre nel nuovo canzoniere così evidente: esse acquistano nuovi significati proprio tramite l’innesto di componimenti che non solo incrementano, ma connettono e raccordano la varie sezioni».
5 Così infatti scrive nell’autocommento Tasso a proposito del sonetto 160, Vedrò da gli anni in mia vendetta ancora: «Tratta uno argomento prima trattato da Orazio, O crudelis adhuc et Veneris muneribus potens [Carm., IV, 10], e poi dal Bembo O crudele, o superba, o di bellezza e d’ogni don del Ciel ricca e possente [Rime, 98]», cfr. Le rime di Torquato Tasso, Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe a cura di A. Solerti, vol. II, Rime d’amore, Bologna, Romagnoli -Dall’Acqua, 1898, p. 109.
6 Pietro Bembo, Prose della volgar lingua -Gli Asolani -Rime, a cura di C. Dionisotti, Milano, Tea, 1993, p. 579.
7 Torquato Tasso, Lezione sopra un sonetto di Monsignor Della Casa, in Le prose diverse di Torquato Tasso, a cura di C. Guasti, Firenze, Successori Le Monnier, 1875, vol. II, p. 121; sulla rivendicazione espressa da Tasso nella lezione per una poesia autonoma dalla filosofia, ma ad essa non antagonista, quanto piuttosto complementare per la capacità di comprendere e investigare il reale, cfr. E. Ardissino, Tasso, Plotino, Ficino: in margine a un postillato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 20-22 (interessante anche per l’inquadramento della produzione Eterea del Tasso) e S. Jossa, Poesia come filosofia: Della Casa fra Varchi e Tasso, in Giovanni Della Casa: un seminario per il centenario, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 229-40.
8 Il tema dello sdegno ha comunque larga cittadinanza nella lirica tassiana; cfr. Torquato Tasso, Le rime, vol. 3, P-Z, a cura di O. Besomi, J. Hauser e G. Sopranzi, Hildesheim -Zürich -New York, Verlag, 2004, pp. 1060-65 (volume della serie ATLI, Archivio tematico della tradizione lirica). Importante è poi osservare come lo stesso tema sia ampiamente utilizzato nel repertorio madrigalistico tassiano, e non solo; a questo proposito sarà sufficiente ricordare il piccolo ciclo di madrigali di Guarini (nelle rime guariniane andate a stampa nel 1598, cc. 107v108r: Arsi un tempo ed amai e Ardo sì, ma non t’amo, intitolati, rispettivamente, Sdegno amoroso e Foco di sdegno), cui lo stesso Tasso rispose (sempre nell’edizione guariniana, c. 108v: Ardi e gela a tua voglia), un ciclo destinato a grande fortuna anche nella tradizione musicale, cfr., ad esempio, Sdegnosi amori. Musica di diversi autori sopra uno istesso soggetto di parole a cinque voci, raccolti insieme da Giulio Gigli da Immola, Munich, 1585.
9 «Si duole il poeta d’avere scritto contro la sua donna e si disdice, ad imitazione di Stesicoro, il quale avendo biasmata Elena cantò la palinodia, e d’Orazio che similmente in quella ode O matre pulchra filia pulchrior [Carm. I, 16]; e del Petrarca il quale trasportato da simil passione fece simile emenda in quel sonetto, Spinse amore e dolore ove ir non debbe La mia lingua avviata a lamentarsi [Rvf 345]. Ma il Tasso diede maggior soddisfazione a la sua donna a gl’iddii celesti, e particolarmente al sole», cfr. Le rime di Torquato Tasso cit., vol. II, p. 167.
10 Rime de gli Academici Eterei, a cura di G. Auzzas e M. Pastore Stocchi, Padova, Cedam, 1995, p. 179; la sola sezione tassiana dell’antologia era stata edita in Torquato Tasso, Rime ‘eteree’, a cura di L. Caretti, Parma, Zara, 1990 (ed. ripresa da Id., Studi sulle rime del Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1950); sulla raccolta cfr. anche F. Gavazzeni, Per l’edizione delle «Rime de gli Academici Eterei», in Sul Tasso. Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Luigi Poma, a cura di F. Gavazzeni, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2003, pp. 213-28.
11 Cfr. A. Daniele, Introduzione a Rime de gli Academici Eterei, cit., pp. 1-38, p. 14; come osserva Stefano Carrai nel suo commento alle rime dellacasiane, l’attacco «Arsi, e non pur la verde stagione fresca» ha precedenti in Ariosto, Rime, Cap. XXVII, 1: «Arsi nel mio bel foco un tempo quieto»; mentre «Errai gran tempo» in Benedetto Varchi, Sonetti (Firenze, Torrentino, 1555, p. 3): «Alsi ed arsi gran tempo, e fu l’algore»; cfr. Giovanni Della Casa, Rime, a cura di S. Carrai, Torino, Einaudi, 2003, pp. 89-90, 254.
12 I versi petrarcheschi saranno citati da Tasso anche nel dialogo Il forestiero napoletano overo de la Gelosia per indicare, quasi in forma proverbiale, la definizione della bellezza terrena, cfr. Torquato Tasso, Dialoghi, a cura di G. Baffetti, intr. di E. Raimondi, Milano, Rizzoli, 1998, vol. I, p. 202.
13 Per una descrizione del manoscritto 1072, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, cfr. Le rime di Torquato Tasso, cit., vol. I, pp. 86-104;si veda il sonetto, consonante per filigrane tematiche e, conseguentemente, per lessico e immagini con Arsi gran tempo: «Empia Circe crudel gran tempo m’have / con fallaci speranze e certo danno / tenuto oppresso in così lungo affanno / ch’a rammentarlo ancor l’anima pave. // Or, che ritratto ho il cor dal giogo grave, / a ragion lei disprezzo e ’l mio error danno, / né temo che nov’arte o novo inganno / o nova forza più la prema o grave; // Perché da gli occhi de la mente insana / l’oscura nebbia è via sparita e sgombra, / e l’amoroso foco in tutto è spento; / e veggio omai che false larve ed ombra / di vero bene e sol bellezza vana / fu la indegna cagion del mio tormento», si cita da Le rime di Torquato Tasso cit., vol. II, p. 424.
14 Rime de gli Academici Eterei cit., p. 179.
15 I sonetti 1, 2, 3 della raccolta eterea figurano nel Chigiano, sia pure con una seriazione leggermente variata (rispettivamente come IV, II, III); cfr. V. Martignone, La struttura narrativa del codice Chigiano delle Rime tassiane cit., pp. 75, 118.
16 Tasso così chioserà questo luogo nel più tardo autocommento: «Già rotto il gielo. Imita il Petrarca in quei versi E d’intorno al mio cor pensier gelati Fatto avean quasi adamantino smalto, Ch’allentar non lasciava il duro affetto [Rvf 23, 24-26]; ed intende de lo sdegno o de l’ira invecchiata, ch’è odio, come dice Aristotele ne la Politica; e se l’amore è abito, parimente è abito il suo contrario: per ciò malagevolmente si può mutare. Se l’un si chiama fuoco, l’altro si può nominar giaccio», cfr. Le rime di Torquato Tasso cit., vol. II, p. 10.
17 Il motivo, la «similitudine de l’augel di valle», come dichiarerà Tasso nel suo autocommento, risale al Virgilio bucolico («argutos inter sterpere anser olores», Buc. 9, 36) e si ritrova, con la contrapposizione cigno/uccello palustre, in Della Casa, nei due sonetti rivolti a Varchi (Rime, 52, 9-10: «La spoglia il mondo mira: or non s’arresta / spesso nel fango augel di bianche piume» e 53, 5: «ma io palustre augel che poco s’erga / su l’ale sembro [...]»; oltre ai luoghi allegati da Carrai nel suo commento alle rime casiane (Caro, Cappello e Battiferri), si potrà ricordare almeno Luigi Tansillo, Rime, 401, 9 («io solo tacqui, augel palustre e roco»; si cita dall’edizione con introduzione e testo a cura di T. R. Toscano, commento di E. Milburn e R. Pestarino, Roma, Bulzoni, 2011, t. II, p. 925); si tratta in ogni caso di immagine cara al Tasso Etereo (cfr. Eterei 162, 9-10: «Anz’io, ch’or sembro augel palustre e roco, / cigno parrò lungo il tuo nobil fiume»). Ma per la fortuna dell’immagine, assurta anche nelle imprese di alcuni Eterei, cfr. A. Casu, «Translata proficit arbos». Le imprese “eteree” nelle Rime del Tasso, in «Italique», II (1999), pp. 81-111, in part. pp. 88-90, 100, che ricorda in proposito anche il sonetto tassiano Tacqui palustre augello e vile, composto, secondo la congettura di Solerti, in occasione della morte di Stefano Santini (cfr. Le rime di Torquato Tasso cit., vol. III, p. 25).
18 Cfr. Daniele, Introduzione a Rime de gli Academici Eterei cit., p. 29.
19 Rime de gli Academici Eterei cit., p. 184.
20 Il nesso aspergere + fango sarà ripreso da Tasso nelle sue prove con il linguaggio tragico, in particolare nel Galealto, dove il sintagma rappresenta il vuoto simulacro della bellezza, in modo analogo a quanto afferma al v. 2 di Arsi gran tempo.
21 Cfr. M. Pastore Stocchi, La poetica degli Eterei, in Formazione e fortuna del Tasso nella cultura della Serenissima, Atti del Convegno di studi nel IV centenario della morte di Torquato Tasso (1595-1995), Padova-Venezia, 10-11 novembre 1995, a cura di L. Borsetto e B. M. Da Rif, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1997, pp. 109-20, p. 116.
22 Più volte torna nell’autocommento del 1591 una definizione della matrice etico-filosofica dello sdegno, in particolare a chiosare il verso 5 del nostro sonetto: «Lo sdegno, detto Nemesis da’ Greci e da’ Latini indignatio, èaffetto lodevole, e suol nascere ne gli animi nostri, come dimostra Aristotele nel secondo de la Rettorica, quando l’immeritevole è immeritevolmente esaltato o il meritevole a torto depresso. Avendo dunque il poeta risguardo a la sua depressa condizione, chiama il suo sdegno onorato, o per la cagione detta finale, la quale altro non è che onore», cfr. Le rime di Torquato Tasso cit., vol. II, p. 161; ma anche altrove, ad esempio a illustrare il tessuto concettuale della importante canzone Quel generoso mio guerriero interno: «in questa canzone, ne la quale imita il poeta l’accusa fatta dal Petrarca ad Amore avanti il tribunal de la Ragione e la difesa d’Amore, egli introduce ne lo stesso modo l’ira o lo Sdegno, il quale accusa Amore avanti la medesima regina. E non è ciò fatto dal poeta senza molta convenevolezza, imperocché ne l’animo nostro è l’esempio e l’immagine de la repubblica, sì come afferma Platone [...] e le parti de l’animo sono disposte come quelle de la città; avvegna che la ragione, di cui sono operazioni il discorrere, il consigliare, l’eleggere, rappresenta il re con il senato; l’ira o la potenza irascibile è simile a’ soldati che stanno a la guardia; ma la concupiscibile più s’assomiglia a la turba de gli artefici e de’ ministri», cfr. Ibidem, p. 172.
23 Cfr. Colussi, Figure della diligenza cit., p. 333, che ricorda come perfide sia «diffussisimo nella poesia erotica latina»; significative occorrenze si registrano anche nella tradizione volgare quattro e cinquecentesca, tra le quali vale la pena segnalare almeno il verso «per cui, perfido, già mi ti legasti» del sonetto Poscia c’hai rotto quella intera fede di Domenico Venier, edito dapprima ne Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, Venezia, Bonelli, 1553, f. 130v e poi ne I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli, Venezia, Sessa, 1558, p. 183; si noti poi che nei madrigali citati alla nota 8, Guarini utilizza più volte l’aggettivo (cfr., ad esempio: «Ardo sì, ma non t’amo / perfida, e dispietata»).
24 Torquato Tasso, Dialoghi, a cura di B. Basile, Milano, Mursia, 1991, p. 199.
25 Sulle Conclusioni amorose cfr. M. Farina, Tasso’s Fifty Conclusions about Love: an Introduction, in «Forum Italicum», 38 (2004), pp. 364-73 (nello stesso numero della rivista a pp. 582-91, sempre a cura di Farina si trova una edizione e una traduzione in inglese delle Conclusioni).
26 I 23 testi che costituiscono il piccolo canzoniere tansilliano erano stati editi per la prima volta nelle Rime di diversi illustri signori napoletani [...] Libro terzo, Venezia, Giolito, 1552 (poi riedito nel 1553 e nel 1555 con l’indicazione del volume mutata in Libro quinto); saranno poi ripresi, ma senza rispettare la seriazione, ne i Fiori delle rime de’ poeti illustri [...], Venezia, Sessa, 1558; per una dettagliata analisi di questi testi cfr. E. Milburn, Luigi Tansillo and Liric Poetry in Sixteenth-Century Naples, Leeds, Maney Publishing for the Modern Humanities Research Association, 2003, pp. 84-107 (per la tradizione dei testi tansilliani cfr. Luigi Tansillo, Rime, Introduzione e testo di T. R. Toscano, commento di E. Milburn e R. Pestarino, Roma, Bulzoni, 2011, t.I, pp. 75-81); il piccolo ciclo dello sdegno è aperto dalla canzone Nessun di liberta visse mai lieto, seguito dai due sonetti Poi che ’l mio nodo han gli altrui nodi sciolto e Qual uom che trasse il grave remo e spinse, e si chiude con la canzone Amor, se vuo’ ch’io torni al giogo antico.
27 Milburn, Luigi Tansillo cit., p. 95.
28 Si veda il testo di chiusura di Tansillo: «Padre del ciel, poi ch’io m’aveggio e piango / che troppo dal tuo regno mi dilungo, / gradisci il pianto, ond’ogg’io lavo et ungo / tuoi santi piedi, e mia durezza frango. // Non consentir, che tra le spine e ’l fango / de la palude, in ch’io m’affondo e pungo, / mi giungan l’ombre; oimè, quanto egli è lungo / questo error mio; ne pur me ne rimango. // Sin qui non trovo, ch’orme de le mie / stampi la strada tua, che par sì alpestra; / e son del giorno omai più in là, ch’a terza. // Prima ch’afferri, o più lontan travie, / rimenami al camin de la man destra / col raggio, signor mio, non con la sferza» (si cita da Rime di diversi illustri signori napoletani [...] Libro quinto, Venezia, Giolito, 1555, p. 46); forti le affinità che il sonetto tassiano testimonia, specie per le immagini della valle palustre, rilevate anche del recente commento al sonetto tansilliano (cfr. Tansillo, Rime, cit., t. II, p. 667).
29 Tasso, Dialoghi cit., pp. 205-207.
30 E. Russo, Tasso e gli antichi dicitori, in Id., Studi su Tasso e Marino, Roma-Padova, Antenore Editrice, 2005, pp. 39-67, p. 56; tra i «moderni» che fanno ricorso allo schema CDE EDC non figura Bembo, ma compaiono significativamente Della Casa, Guidiccioni e, con alto numero di frequenza, Bernardo Tasso (circa il 12%); andrà poi rilevato che, nonostante il Tasso più maturo sia più prossimo alle soluzioni petrarchesche, questo schema delle terzine sarà ancora uno dei preferiti (cfr. A. Afribo, Teoria e prassi della «gravitas» nel Cinquecento cit., pp. 150).
31 Si veda una sintetica tavola metrica dei sonetti Eterei (in comparazione anche con quelli Chigiani):
32 I rapporti con il Gonzaga, che risalgono al primo soggiorno patavino di Tasso nel 1562, furono molto stretti anche dopo il trasferimento a Roma di Scipione; sarà, come è noto, vero e proprio coordinatore del gruppo di lettori cui verrà affidata la cosiddetta revisione romana della Liberata, giungendo a trascrivere di suo pugno il testo (cfr. L. Poma, Il vero codice Gonzaga [e prime note sul testo della «Liberata»], in «Studi di filologia italiana», 40, 1982, pp. 193-216); ma a lui Tasso si rivolgerà anche in altri momenti, tra i quali interessa qui ricordare il coinvolgimento per la progettata edizione delle rime nel 1580, occasione in cui il poeta richiede a Gonzaga di intervenire per selezionare i testi da pubblicare: «Ma ne’ sonetti non veggo com’ella possa por mano con mia sodisfazione, se non quando ella volesse con diligente severità riprovar tutti quelli che non giudicherà degni di lodatissimo scrittore, de’ quali sono anco forse alcuni nel libro che diedi al signor duca, ed in quel de gli Eterei. Ma bench’io non ricusi di veder insieme stampati tutti quelli che sono nel libro del signor duca, ed in quel che diedi al cont’Ercole; gli altri nondimeno, che non sono in questo numero, desidero che sieno severissimamente esaminati, e fatta di loro diligentissima scelta: perciochè sì come alcuni ce ne sono de’ quali io molto mi compiaccio, e quelli particolarmente che io feci nel principio del mio umore; ce ne sono nondimeno molti i quali mi sono usciti da le mani ne la mia pazzia, i quali per migliaia di scudi non vorrei che si vedessero. Or faccia Vostra Signoria quel che giudica che sia di maggior mia sodisfazione; e creda che se l’amorevolezza sua sarà eguale al giudicio, io rimarrò soddisfatto di Vostra Signoria illustrissima», cfr. Torquato Tasso, Le lettere, a cura di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, vol. II, lett. 136.
33 Si veda la ricostruzione del dibattitto in Afribo, Teoria e prassi della «gravitas» nel Cinquecento cit., pp. 138-41; lo schema delle quartine è ripreso due volte da Bembo (Rime 40, 69), anche se con ripresa perfetta di Rvf 210 anche per le terzine (CDC DCD).
34 Lo schema del cosiddetto sonetto continuo ha origini antiche ed appare attestato nelle rime di Cino; per una ricostruzione puntuale della tradizione cinquecentesca di questa forma metrica, cfr. B. Bartolomeo, Notizie su sonetto e canzone nelle «Rime diverse di molti eccellentissimi auttori», in «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco ed E. Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 59-60.
35 Cfr. Tasso, Rime d’amore (secondo il codice Chigiano L VIII 302) cit., LXXX, 1-2 (p. 91).
36 Cfr. Martignone, La struttura narrativa cit., in part. pp. 75-81.
37 Cfr. Le rime di Torquato Tasso cit., vol. II, p. 161; l’integrazione della lacuna – i puntini di sospensione che si trovano nell’edizione Osanna – è dovuta a Bruno Basile, Restauri e verifiche per l’officina tassiana delle «Rime», in Letteratura e storia meridionale. Studi offerti a Aldo Vallone, Firenze, Olschki, 1989, vol. I, pp. 125-42, in part. pp. 130-32.
38 Cfr. Martini, Amore esce dal caos cit., p. 102; più in generale Martini osserva, proprio sulla scorta di questa annotazione, che «malgrado il sovrapporsi di tanti componimenti di epoche diverse, e occasionati da donne anche diverse, sulla primitiva traccia eterea, l’estrema volontà di ordinamento non offusca, anzi rende più limpido lo svolgersi del primitivo romanzo amoroso».