Revue Italique

Titre de section

SECTION_ITA_15_1

Lettura di «Vorrei voler, Signor, quelch’ io non voglio» di Michelangelo Buonarroti

Davide Dalmas

Molti studi, considerazioni e precisazioni consiglierebbero se non altro prudenza, ma quante romantiche suggestioni son riaccese fin dalle modalità della presente occasione! La lettura di un singolo sonetto, sottratto a qualsiasi ipotesi di macrotesto e accompagnata di necessità dall’evocazione della personalità eccezionale del divino artista, col contrappunto minore di testimonianze sulla sua «terribilità» non soltanto stilistica, e dal ricordo dei famosi pareri sul prevalere delle «cose» di Michelangelo poeta contro le «parole» dei petrarchisti, in un contesto dove è presumibile risuoni invece proprio il concerto di alcune delle voci del petrarchismo plurale, della poesia come esercizio collettivo, lirica di società, grammatica condivisa, interscambio continuo di tessere: tutto sembra costringerci a tornare ancora sull’eccezionalità, l’originalità, la sincerità, la concretezza sentimentale contrapposte alla formularità, alla ripetizione variata, all’astrazione, alla maschera intercambiabile del poeta.

Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:
tra ’l foco e ’l cor di ghiaccia un vel s’asconde
che ’l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo ’l foglio.

I’ t’amo con la lingua e poi mi doglio
ch’amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l’uscio alla grazia che s’infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.

Squarcia ’l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!

Manda ’l preditto lume a.nnoi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda
il cor senz’alcun dubbio, e te sol senta.
1

Il nome dell’autore, tanto più violentemente in questo caso, è incorporato nel testo che leggiamo, è in sé un elemento dell’interpretazione. Non leggeremmo allo stesso modo questo sonetto se non fosse sollevato e gravato da questo nome. Tanto più che, come ben espresso da Mario Baratto, sono le rime stesse di Michelangelo ad imporci questa pratica, col loro frequente riproporre «il personaggio dell’artista», considerato però come chi ha «idea del virtuoso e del perfetto» e non come chi è in grado di compiere quest’idea. L’artista «sembra vivere un dramma rilevante, rappresentare anzi in questo, agli occhi di M., un nuovo modello di personaggio eroico, nella misura in cui ha coscienza, e la esprime, di questa compresenza di contrari, questo voler/non volere, che appaiono, in tutte le rime, la nota più saliente della sua identità di personaggio eccezionale».2

Senza sfiorare, nemmeno marginalmente, l’impalcatura filologica delle Rime, «da riconsiderare in toto»3 secondo la prefatrice di una delle edizioni più recenti, si può notare, tuttavia, che il testo del presente sonetto è ripreso senza variazioni dall’edizione Girardi (e senza cenni di discussione nei commenti) anche nelle recenti edizioni commentate di Paola Mastrocola, di Matteo Residori e in quella, prefata appunto da Cristina Montagnani, a cura di Stella Fanelli. Non pare quindi il candidato principale a quella lettura pienamente processuale della lirica di Michelangelo – auspicata sempre da Montagnani sulla scia di famosi spunti continiani – come testo che sistematicamente si sottrae alla forma conclusa come valore.

Anzi, quasi al contrario, è necessario rilevare che non si ritrovano, nel testo in esame, alcuni dei dati più singolari ed appariscenti della pratica poetica dell’artista-scrittore, a partire da quella provvisorietà e incompiutezza che a lungo «furono considerate la cifra del suo fare poesia».4 Non è certo un esempio della tendenza a chiudere l’arco dell’idea poetica secondo intima necessità eventualmente anche contro le forme ricevute dalla tradizione, 5 né della maggiore fluidità del madrigale, la forma considerata più consona al Michelangelo poeta. E neppure credo che questo sonetto sarebbe tra i primi a venire in mente per esemplificare la sua tendenza a concetti «ronchiosi, marmorei, carnosi o stopposi o lignei o comunque rigidi, tangibili, plastici, scolpiti o per lo più scheggiati» secondo una efficace descrizione mimetica.6

Ben lontani dal valore espressivo del frammento, qui ci troviamo di fronte ad un’architettura perfettamente compiuta e organicamente sviluppata: un sonetto completo (e già scendiamo dai 302testi dell’edizione Girardi a un’ottantina di esemplari); con quartine a croce (ABBA) e terzine replicate (CDE), che sarà il modello fisso del sonetto spirituale di Vittoria Colonna; 7 scolpito con quattro periodi totalmente espressi e pienamente contenuti nelle quattro parti metriche principali.8 E la simmetria si espande anche al movimento interno, regolato in modo ordinato: l’“io” domina nelle due quartine, il ”tu” nelle due terzine; con perfetta costanza ognuna delle quattro parti è aperta da un verbo: le due quartine con un verbo in prima persona («vorrei» e «I’ t’amo») eledue terzine con verbi alla seconda persona («Squarcia» e «Manda»). Le specificazioni dell’io e del tu sono contrapposte anche ritmicamente: i verbi dell’io hanno l’accento in seconda posizione («vorrèi», «i’ t’àmo», «né sò»), mentre gli imperativi invocativi rivolti al tu battono subito, con ritmo da vero inizio, vera origine («squàrcia», «rómpi», «mànda»). In questo modo nelle quartine si esprime la descrizione interiore dell’agi-tazione dell’io; mentre nelle terzine si apre lo spazio all’invocazione diretta, alla richiesta dell’intervento, con un forte spostamento dinamico dall’io al tu. Ma le due parti sono organicamente, indissolubilmente connesse: l’interiorità contrastata dell’io non è soliloquio ma autoanalisi in presenza del tu, la sua è una situazione in sé irrisolvibile, chiusa, ma presentata all’altro, offerta al suo sguardo; nella seconda parte il centro dell’attenzione è esplicitamente spostato su questo tu, ma naturalmente l’intervento richiesto deve scendere sull’io della prima parte.

Questa forma chiusa e legata, questa perfetta costruzione intensifica la forza raggelata del muro invalicabile, mima la dinamica di forze interiori che si consumano vicendevolmente senza poter produrre un reale risultato; e quindi amplifica la necessità che il movimento vero provenga dall’esterno, fuori dalle pulsazioni dell’io.

E allora il centro stilistico e semantico del sonetto è collocabile in quella ripetuta apostrofe al «Signor», 9 collocata nelle posizioni più rilevate: al centro del primo verso della prima quartina e al centro del primo verso della prima terzina. Inizialmente ancora ingabbiata nel ritmo giambico, e imbrigliata nel poliptoto egocentrico, 10 ancora soltanto un’inci-dentale all’interno dell’avvolgersi dell’io su di sé; ad apertura delle terzine, e quindi all’avviarsi della soluzione del sonetto, l’invocazione diretta diventa mossa, scattante, segue immediatamente quel fortissimo accento sul “tu” (che “rima” con il termine opposto, l’oggetto da abbattere, al termine dello stesso verso: “muro”). Intorno al centro costituito da questa apostrofe raddoppiata si sistema la calcolata contrapposizione binaria dei termini. Da un lato: ghiaccia, vel, orgoglio, muro, durezza, mondo, dubbio, dall’altro: foco (due volte), amor, grazia, sol, luce / lume.

La leggera anastrofe del v. 2 riavvicina i contrapposti: foco e ghiaccia, molto presenti nelle rime di Michelangelo, soprattutto il primo (Friedrich ha potuto scrivere che «nessuno ha cantato il fuoco con tanta intesità come Michelangelo»).11 Ma non si tratta qui di una ripresa della petrarchesca compresenza degli opposti tesa a descrivere la fenomenologia emotiva dell’amante; l’antitesi non è direttamente tra il fuoco e il ghiaccio: lo strato nascosto di ghiaccio tiene separati il fuoco e il cuore. E appunto quest’ultimo è il termine più di tutti ripetuto, il terreno di contesa: il «cor» (4volte, assente solo nella prima terzina). Le azioni chiamate a sconvolgere, a eliminare la separatezza apparentemente insolubile delle due serie sono quindi di necessità molto violente (squarcia e rompi, prima di manda). Perché l’ostacolo da superare è tra finito e infinito, tra umano e divino. L’io, la parte umana della relazione, non sa, da sé, come aprire la porta (anche nel sonetto n. 298, rivolto al Cristo della Passione, Michelangelo ribadisce: «[...] onde le chiuse porte / del ciel, di terra a l’uom col sangue apristi»). Soltanto alla fine del sonetto, quindi, all’interno della desiderata iniziativa divina può tornare pienamente l’io: io arda e senta, che è la parola conclusiva, auspicio di una pienezza del sentire contrapposta in tutto al poliptoto iniziale aperto dal condizionale vorrei, ma in una posizione dipendente, anche dal punto di vista sintattico: non verbo principale, ma proposizione finale.

Ho accennato al fatto che incontriamo qui antitesi concettuali e verbali presenti anche altrove nelle rime di Michelangelo. Si può aggiungere che l’atto di rompere un muro, ma in un testo d’amore, rivolto a un «signor mie» con la minuscola, lo troviamo nel n. 60(«Se vera è la speranza che mi dai, / se vero è ’l gran desio che m’è concesso, / rompasi il mur fra.ll’uno e l’altra messo»); e che nella quartina n. 73l’anima stessa afferma che deve darle vita il «foco» o il «lume» («Mentre del foco son scacciata e priva, / morir m’è forza [...]»).

Ma l’interesse centrale, in questa occasione, è determinare la tempera-tura del petrarchismo di questo “sonetto perfetto”. I suggerimenti tratti da Petrarca certo non mancano. Per il verso iniziale si fa spesso riferimento, nei commenti, alla prima terzina del sonetto 118 dei Rerum vulgarium fragmenta: «Or qui son lasso, et voglio esser altrove; / et vorrei più volere, et più non voglio; / et per più non poter fo quant’io posso» (seguito subito, ma in modo meno calzante per il nostro testo, dai vv. 41-42della canzone 119: «ond’a me in questo stato / altro volere o disvoler m’è tolto»; Gigliucci rimanda anche a Ariosto lirico: «Io voglio, ma io non so quel ch’io mi voglia»).12 Per «al mondo spenta» il riferimento possibile è alla famosa canzone Spirto gentil (Rvf 53, 7-8): «io parlo a te, però ch’altrove un raggio / non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta». Anche per ammorza si può rinviare al Canzoniere: «Subito allor, com’acqua ’l foco amorza, / d’un lungo et grave sonno mi risveglio: / et veggio ben che ’l nostro viver vola / et ch’esser non si pò più d’una volta; /e’nmezzo ’l cor mi sona una parola / di lei ch’è or dal suo bel nodo sciolta, / ma ne’ suoi giorni al mondo fu sì sola, / ch’a tutte, s’i’ non erro, fama à tolta.» (Rvf 361, 7-14). Ma questo «amorza» è hapax petrarchesco (in Dante si trova in rima, cfr. Paradiso iv 76-78: «ché volontà, se non vuol, non s’ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza»). Infine, l’atto di squarciare il velo si trova nella canzone per crociata: «Dunque ora è ’l tempo da ritrare il collo / dal giogo antico, et da squarciare il velo / ch’è stato avolto intorno agli occhi nostri» (Rvf 28, 61-63); mentre il meno prossimo rimando alla prima quartina del sonetto 362(«Volo con l’ali de’ pensieri al cielo / sì spesse volte che quasi un di loro / esser mi par ch’àn ivi il suo thesoro, / lasciando in terra lo squarciato velo») potrebbe suggerire di leggere anche nell’invo-cazione di Michelangelo quasi un’invocazione della morte, benché qui il velo sia quello descritto tra cuore e fuoco (meglio allora ricordare la voce di Matelda in Purgatorio xxxii 70-72: «Però trascorro a quando mi svegliai, / e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo / del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”»).

Insomma il «petrarchismo non petrarchista»13 di Michelangelo qui sembra esprimersi soprattutto scegliendo attentamente laddove Petrarca stesso è meno petrarchista: un hapax, sintagmi tratti da poesie morali o politiche e non amorose, dantismi (in Michelangelo con l’aggiunta di «ghiaccia», cfr. Inferno xxxiv 29); e anche l’esempio più cospicuo, quello dell’incipit, rifunzionalizza il linguaggio amoroso petrarchesco nell’articolazione dell’interiorità nel suo rapporto insieme passionato e impossibile con Dio. 14

La forma architettonica di questo sonetto, 15 le dimensioni e i modi della sua intertestualità esaltano la forte impressione di un dialogo interiore e verticale. Forte è l’invito a leggerlo come grande descrizione, atemporale, della posizione paradossale dell’uomo cristiano in sé, soprattutto nelle accezioni più paoline. Richiamo al proposito alcuni brani delle lettere ai Romani e ai Galati nella traduzione di Antonio Brucioli, per sentire la lingua di un fiorentino più giovane di una dozzina d’anni rispetto a Michelangelo e che pubblicava proprio negli anni presunti di questo sonetto La Biblia (Venezia, Lucantonio Giunti, 1532).

Perché quello che io opero, non conosco, perché non fo quello che io voglio, ma quello fo, ch’io ho in odio. Et se io fo quello che io non voglio, consento a la legge, ch’ella sia buona. Et di già hora non opero io quello, ma il peccato che habita in me, perché io so che non habita, cioè ne la carne mia il bene, perché il volere è meco, ma non truovo l’operare il bene, perché io non fo il bene, che io voglio, ma fo questo, il male ch’io non voglio. Et se io fo quello che io non voglio, non già opero quello, ma il peccato che habita in me.
(Romani 7, 15-20)

Et dico, caminate con lo spirito, et non adempierete le concupiscentie de la carne. Perché la carne desidera contro a lo spirito, et lo spirito contro a la carne. Et queste cose fra loro scambievolmente si contrariano, acciò che tutte quelle cose che voi volete, le medesime non facciate, ma se voi siate tirati da lo spirito non siate sotto la legge.
(
Galati 5, 16-17)

In questo sonetto non si trovano – come ad esempio in alcuni testi per il Cavalieri o per la Colonna – accenni neoplatonici all’amore come scala coeli, riconoscimento iniziale dell’imperituro nel carnale, sentimento di elevazione spirituale nella contemplazione della persona amata. Qui non c’è nessun altro, uomo o donna, nessuna mediazione, soltanto l’io e l’Altro. Di qui lo scacco della volontà, la coscienza dell’impossibilità di sentimenti pieni nella condizione umana presa in sé, fuori dalla dimensione dello Spirito, fosse anche nell’interiorità di un’anima eccezionale; sofferto riconoscimento dell’insufficienza della volontà e conseguente richiesta della Grazia.16

Ma dall’altro lato, la forma stessa del sonetto ci spinge a cercare corrispondenze e scarti non solo con la poesia coeva, ma più ampiamente con le sensibilità religiose di un periodo così accidentato e denso della storia del pensiero e della vita cristiana. Se va accolta la possibile datazione (carta, grafia, ecc.) al 1533-1534, il sonetto sarebbe ad un tempo dimostrazione di un personale approfondimento delle premesse religiose della giovinezza fiorentina, a partire dagli scritti di Savonarola «al quale egli ha sempre avuta grande affezione, restandogli ancor nella mente la memoria della sua voce viva», come afferma la Vita del Condivi, le rime spirituali di Lorenzo, e soprattutto di Benivieni («Dimmi, Anima mia, che fai, che cerchi et pensi? / Penso ch’io vorrei far quel ch’io non posso»)17 e, dall’altra parte, notevole segnalazione del perché qualche anno più tardi questo artista supremo, già anziano, troverà tanta consonanza col percorso di Vittoria Colonna (e in questa direzione andrebbe valutata soprattutto l’insistenza sul lume). La verticalità rimarrebbe comunque in parte ineliminabile: se anche (cosa impossibile) si riuscisse a ricostruire con certezza il momento esatto della composizione, le letture precise del periodo, i colloqui e le meditazioni, il confronto con amici e ispiratori, questo testo rimarrebbe un capolavoro di descrizione paradossale e insieme originaria della posizione del cristiano, che – per citare un pensatore che di paradossale relazione con l’Altro qualcosa sapeva – faceva dire al Barth dell’intro-duzione all’Epistola ai Romani: «Certo, non si devono trascurare le differenze tra il suo [parla di Paolo, ovviamente] tempo e il nostro, tra il luogo ove scrisse e il nostro, col fine però di riconoscere che queste differenze non hanno nessuna importanza essenziale.»18

Anche perché la sapienza letteraria profusa nell’espressione di questa posizione è vergata su un foglio che è detto «bugiardo», è scritta da penna che sa di non corrispondere all’«opre»; la paradossalità, l’impos-sibilità di risolvere sul piano della logica, coinvolge la scrittura stessa, l’arte. Proprio la bellezza, la grande efficacia letteraria esprimono con verità la menzogna della poesia, dell’arte; e denunciano come colpevole lo «spietato orgoglio» (cioè privo di pietà, contrario di pio, umano troppo umano) che accompagna il lavoro del grande artefice (come ancora in estrema vecchiaia, nel tormentato sonetto 285: «Onde l’affettüosa fantasia / che l’arte mi fece idol e monarca, / conosco or ben com’era d’error carca, / e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia»).

____________

1 Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di Matteo Residori, introduzione di Mario Baratto, Milano, Mondadori, 1998, pp. 161-62; il testo è ripreso dall’edi-zione a cura di Enzo Noè Girardi (Bari, Laterza, 1960), in questo caso senza correzioni o proposte di modifica.

2 Baratto, Introduzione cit., pp. XIV-XV. Queste parole seguono l’analisi proprio del nostro sonetto, considerato come esempio della presenza in modo più fitto ed ossessivo di elementi di platonismo nella serie di poesie composte «per il giovane Tommaso Cavalieri da lui amato» (p. XIII): «Il sonetto è impostato su antitesi ben note a un lettore di Petrarca, innanzi tutto su quella fuoco/ghiaccio:ma l’antitesi si risolve subito nella denuncia della qualità menzognera del suo esercizio poetico, del tentativo che egli fa con la penna di sublimare il proprio dissidio interno. Tanto è vero che il condizionale che apre il sonetto (Vorrei voler...), già nel primo verso respinto da un presente negativo, non voglio, rimane appena un flebile desiderio nel resto del sonetto, costruito su un’impietosa descrizione del suo conflitto presente nella seconda quartina, e in una invocazione a Dio nelle due terzine, che finisce col lasciare al Creatore ogni responsabilità di salvezza del peccatore. Per cui il dissidio iniziale viene superato da un’aspirazione a un contatto quasi mistico con Dio, di tipo agostiniano, la cui possibilità è affidata a una pura invocazione: solo Dio può rompere il “muro” di “durezza” che ritarda la sua “luce”, come scrive il poeta “acciò ch’io arda / il cor senz’alcun dubbio” (vv. 13-14). Dubbiosità che resta così la sigla finale del sonetto, dato che il suo superamento è affidato a un’ottativa che si denuncia chiaramente come tale» (p. XIV).

3 Michelangelo Buonarroti, Rime, introduzione, note e commento di Stella Fanelli, prefazione di Cristina Montagnani, Milano, Garzanti, 2006, p. XXXII.

4 Stella Fanelli, Introduzione cit., p. XIV.

5 «Nei frammenti lirici la frase ha termine quando ha espresso ciò che voleva esprimere. La poesia frammentaria di Michelangelo è autonoma rispetto alla forma del genere poetico ed egli decide della lunghezza o della brevità di una poesia non in base a leggi morfologiche, ma seguendo la legge del proprio pensiero. [...] Creazioni di questo genere sono al tempo stesso torso e forma perfettamente conchiusa» Hugo Friedrich, Epoche della lirica italiana (1964), Milano, Mursia, 1975, p. 30.

6 Sono parole del bello e denso cappello introduttivo di Roberto Gigliucci alle rime michelangiolesche nel volume a sua cura La lirica rinascimentale, scelta e introduzione di Jacqueline Risset, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2000, p. 308.

7 Cfr. Carlo Vecce, Petrarca, Vittoria, Michelangelo. Note di commento ai testi e varianti di Vittoria Colonna e di Michelangelo, in «Studi e problemi di critica testuale», n. 44 (aprile 1992), pp. 101-25

8 Caso non frequente: «È raro [...] che egli, secondo il sistema classico, faccia coincidere parti del discorso e successione delle strofe in una suddivisione comune» Friedrich, Epoche, cit., p. 28.

9 Mastrocola lascia aperta la possibilità che il primo «signor» sia Cavalieri, e per il dubbio rimanda alla figurazione del n. 67; mentre Gigliucci sostiene che il «Signor» è sempre Dio e non Cavalieri, ma che «gli incroci fra i due interlocutori sono possibili» (p. 319), rimandando a Sento d’un foco

10 Il poliptoto come figura del ravvolgimento in sé dell’io, che ha bisogno di un intervento esterno, si ritrova anche nel madrigale 152 rivolto a Vittoria Colonna: «Tu pur dalle mie streme / parti puo’ sol levarne, / ch’in me non è di me voler né forza».

11 «Nessuno ha cantato il fuoco con tanta intensità come Michelangelo. [...] Mai la lingua di Michelangelo è così ricca di inventiva come quando affronta il motivo del fuoco. Ardere, bruciare, cuocere, lampo, fiamma, fumo, fiammeggiare, fiaccola, scintilla, carbone, cenere, fucina: questo ed altro formano le metafore della sua poesia d’amore. [...] Michelangelo cerca il contrasto fra pietra e fuoco perché è più tagliente di quello, più comune nella letteratura, fra fuoco e ghiaccio, fuoco ed acqua» Friedrich, Epoche, cit., p. 39. In questo sonetto ci sono invece proprio i più «comuni» fuoco e ghiaccio.

12 «Lasso! che bramo ancor, che più voglio io, / se nulla cosa da voler mi resta, / e son, senza disio, pien di disio? // Amor mi tien pur sempre in gioia e ’n festa; / che brami adunque, disiosa voglia? / che nova cosa è quel che mi molesta? // Io voglio, ma io non so quel ch’io mi voglia; / volendo mi doglio; ah duro fato, / che senza alcun dolor sempre mi doglia! // So pur ch’io son più lieto e più beato / di quanti amanti fûr felici mai, / e sopra modo alla mia donna grato. // So ch’ella m’ama e che m’ha caro assai, / e meco è d’una voglia e d’uno amore, / e possedo quel ben ch’io desiai. // Ma nova voglia ancor resta nel core, / e senza mal provar, provo tormento / con certo non so che lieto dolore. // E benché sia tra li altri il più contento, / più bramo ancor, bench’io nol sappia dire, / e così, più felice e discontento, // s’altro bramar non so, bramo morire» Ludovico Ariosto, Rime, introduzione e note di Stefano Bianchi, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 175-76.

13 «Parliamo allora di un petrarchismo non petrarchista, fondato però su habitus squisitamente petrarcheschi, come l’attitudine ossessiva all’ossimoro e alla sgomenta coincidentia oppositorum, il macerarsi sul dato dell’alienazione, la contraddittorietà di orgogliosa euforia e senso lancinante del peccato, o l’interscambio vita-morte condotto fino a vertici di ingegnosità mai però gratuita» Gigliucci, cit., p. 308.

14 Binni sceglieva proprio questo «grande sonetto 87» come esempio di «quegli ardenti squarci nel tessuto dell’amore platonico con il diretto rivolgersi a Dio e il prospettargli il dramma della propria contrastante volontà»; e proseguiva: «gli emblemi del contrasto amoroso vengono adibiti al contrasto dell’animo in rapporto alla sua vocazione religiosa e la tecnica delle antitesi viene esaltata alla sua funzione più drammatica e pregnante» Walter Binni, Michelangelo scrittore, Torino, Einaudi, 1975, p. 54.

15 «Questo è uno dei più belli e tipici sonetti di Michelangiolo, simbolicamente e strutturalmente perfetto, semanticamente ambiugo; e già il dire che quel “lume” è la grazia è forse un dir troppo» Enzo Noè Girardi, Studi su Michelangiolo scrittore, Firenze, Olschki, 1974, p. 117.

16 «La lirica di Michelangelo fu, pur con tutta la selvaggia esuberanza della sua lingua, la massima espressione poetica di quei grandi concetti che il neoplatonismo aveva proposto. Ma essa fu anche il fallimento del neoplatonismo di fronte alla frattura fra divino e terreno, di fronte ai limiti dell’amore più puro per un essere umano. L’uomo che cercava se stesso attraverso Eros trovò il suo proprio smarrimento» Friedrich, Epoche cit., p. 43. Ossola inserisce questo sonetto, inteso come «invocation de la grâce praeveniens de Dieu», nel periodo di «mûrissement» in una «économie du sacrifice qui deviendra – quelques années plus tard – la reconaissance du “bénéfice du sang”, lequel – seul – suffit à notre salut» Carlo Ossola, Michel-Ange: l’idée et la grâce, in Michelangelo poeta e artista, a cura di Paolo Grassi e Matteo Residori, Parigi, Istituto Italiano di Cultura, 2005, pp. 125-54, ap. 131; con riferimento poi esplicito al “valdesianesimo” di Michelangelo, con ampie citazioni dal Beneficio di Cristo e da Juan de Valdés, a confronto con Vittoria Colonna.

17 Cito da Binni, Michelangelo scrittore cit., p. 77.

18 Karl Barth, L’Epistola ai Romani (1918), a cura di Giovanni Miegge, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 1.