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«Sparsae frondes» e «speranze sparte»: lettura del sonetto di Garcilaso de la Vega «¡Oh hado secutivo en mis dolores!»
A proposito di una delle due elegie composte da Garcilaso de la Vega, un illustre studioso, Francisco Rico, ha osservato che «il disegno e il processo di composizione [...] consistono nell’esplorazione della propria tradizione letteraria».1 In effetti, il sonetto di cui mi accingo a offrire una breve lettura non si sottrae a tale poetica di concezione umanistica e, di conseguenza, può fungere da esempio ulteriore di come, nella poesia di Garcilaso, «la storia della letteratura riesca a intrecciarsi con la sostanza stessa di un testo».2 Frutto di un petrarchismo maturo e, al tempo stesso, di una radicata assimilazione della lezione umanistica, il sonetto in questione testimonia l’avvenuta conquista da parte del toledano del nuovo modello poetico, nelle realizzazioni del quale si fa evidente la sapienza con cui egli fu in grado di coniugare l’esempio dei classici con la lettura di Petrarca e dei moderni poeti italiani.3 Ma, prima di ogni altra considerazione, leggiamo il testo:
¡Oh hado secutivo en mis dolores,
cómo sentí tus leyes rigurosas!
Cortaste ’l árbol con manos dañosas
y esparciste por tierra fruta y flores.
En poco espacio yacen los amores,
y toda la esperanza de mis cosas,
tornados en cenizas desdeñosas
y sordas a mis quejas y clamores.
Las lágrimas que en esta sepultura
se vierten hoy en día y se vertieron
recibe, aunque sin fruto allá te sean,
hasta que aquella eterna noche escura
me cierre aquestos ojos que te vieron,
dejándome con otros que te vean.4
Nella prima quartina del sonetto dedicato alla sepoltura dell’amata, Garcilaso sviluppa la metafora che identifica l’amata morta con l’albero reciso e, all’interno di essa, adotta l’immagine dei fiori e dei frutti sparsi, ai quali sono assimilate le membra di lei. Dal classico studio di Rafael Lapesa,5 sappiamo che tale immagine ricalca quella dell’albero d’arancio reciso, che si legge nell’ultima prosa dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, dove, nel sogno notturno che segue ai giochi funebri in onore della madre di Ergasto, a Sincero appare, come ultima forma, quella di un arancio reciso:
Ultimamente un albero bellissimo di arangio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco da le radici, con le frondi e i fioriei frutti sparsi per terra.6
Allegoria della «sventura politica» della dinastia aragonese, secondo un’interpretazione politica, o, in alternativa, presentimento della morte della «piccola fanciulla» amata da Sincero (vii, 9), secondo un’inter pretazione amorosa,7 in ogni caso, la visione onirica dell’arancio reciso nell’Arcadia, senza alcun dubbio, riprende, a sua volta, l’incubo dell’alloro sradicato che, nel De raptu Proserpinae di Claudiano, Cérere vede in sogno come presagio della perdita di sua figlia Proserpina, rapita da Plutone:
[...] hanc [il lauro a Cècere più diletto] imo stipite caesam
vidit et incomptos foedari pulvere ramos.
(iii 76-77)8
Eppure, nonostante lo stretto rapporto col poema mitologico tardo antico, a proposito della prosa del Sannazaro e della trasformazione dell’alloro in un arancio, si è ipotizzato «un autentico depistaggio, camuffamento di una fonte altrimenti riconoscibilissima»,9 con ciò riferendosi alla decima ecloga del Bucolicum carmen petrarchesco, dedicata alla «laurea occidens», dove Silvano-Petrarca racconta della morte del lauro, l’albero che «non simboleggia soltanto la donna amata, ma anche e soprattutto la poesia».10 La segnalazione di tale fonte letteraria è, del resto, cosa assai recente, se un moderno editore dell’Arcadia ha potuto osservare che «non so quanti, allora e nei secoli successivi, furono capaci di decifrare il rinvio, come ha saputo il più valido fra gli studiosi odierni dell’Arcadia, Giuseppe Velli»,11 il quale, difatti, in una proficua nota del suo saggio del 1983, riferendosi alla visione luttuosa dell’albero reciso contenuta nella prosa sannazariana, avverte che, in aggiunta al De raptu di Claudiano, «il suo più pertinente puntello, indubitabile, [si trova] nell’esordio e nella chiusa di Buc. Carmen x (Laurea occidens)».12 Ebbene, tra coloro che già allora, ossia al tempo della circolazione primo cinquecentesca dell’Arcadia, «furono capaci di decifrare il rinvio» petrarchesco, ci fu certamente Garcilaso de la Vega, il quale, muovendo dall’immagine dell’arancio reciso dalle Parche nella prosa dell’Arcadia, e avendo in mente probabilmente i versi del De raptu con l’alloro abbattuto dalle Furie, risale alla fonte petrarchesca del Sannazaro e, negli scarsi versi del nostro sonetto, intesse un fittissimo dialogo sia col Petrarca latino del carme bucolico, sia col Petrarca volgare di alcuni componimenti del canzoniere, in morte di Laura. Di tale foltissimo dialogo potrò tracciare solo un vago, quanto rapido, disegno, in ragione dello spazio che generosamente mi è stato concesso.
Se ripercorriamo mentalmente il sonetto spagnolo, è facile rendersi conto che esso nasce dalla convergenza di tre motivi tematici che si fondono organicamente, disponendosi nelle unità strofiche del breve componimento. Si tratta dell’immagine dell’albero reciso per l’amata morta, da cui la mia lettura ha preso le mosse; del pianto sulla di lei sepoltura; del ricongiungimento (o dell’auspicio di ricongiungersi) con l’amata in un dimensione, per così dire, altra. In verità, un’analoga connessione di elementi tematici è possibile ritrovare già nel dialogo tra Silvano e Socrate nella menzionata ecloga petrarchesca, nei diversi passaggi di cui si nutre il dialogo negli ultimi trenta esametri del componimento. Anche nel testo petrarchesco si parte dallo sradicamento della pianta di alloro, che qui risulta distrutta dalla bufera dei venti:
pestifer hinc eurus, hinc humidus irruit auster;
ac, stratis late arboribus, mea gaudia laurum
extirpant franguntque truces, terreque cavernis
brachia ramorum, frondesque tutere comantes
(381-84)
(‘ecco da una parte l’euro pestifero e dall’altra l’umido austro fanno impeto, e, atterrati gli alberi tutto intorno, sradicano la pianta dell’alloro, la mia gioia, e truci la spezzano e ne portano le braccia e la chioma in fosse di terra’).13
A tale immagine, che nell’ecloga petrarchesca acquista un significato allegorico e non tanto – o non solo – metaforico, segue una decina di versi che includono il lamento presso la sepoltura dell’amata, perché Silvano, alla domanda che rivolge a se stesso: «Que me terra capit?» (‘Quale terra mi accoglierà’), risponde con le seguenti parole ricolme d’afflizione:
[...] Potes ad tua damna reverti,
infelix, sparsasque solo conquirere frondes
et laceros ramos, et iam sine cortice truncum
amplecti, lacrimisque arentia membra rigare
(388-91)
(‘Infelice, forse potresti ritornare ai luoghi della tua sventura, e raccogliere le fronde sparse al suolo e i rami spezzati, abbracciare il tronco già privo della sua scorza e rigare di lacrime le sue aride membra’).
Né può sfuggire all’attento lettore che la triste costatazione dell’ultimo verso citato: «lacrimisque arentia membra rigare» risulta ripresa e ampliata nello sconsolato invito rivolto alla defunta nella prima terzina del sonetto spagnolo:
Las lágrimas que en esta sepultura
se vierten hoy en día y se vertieron
recibe, aunque sin fruto allá te sean
dove il copioso liquido versato per effetto del dolore sul terreno della fossa si rivela del tutto infecondo sin fruto per la defunta che vi è sepolta, analogamente a quanto occorre alle lacrime di Silvano che scoprono la propria sterilità (arentia) nei confronti delle membra dell’alloro divelto.14
Nella consolatio dell’amico con la quale si conclude praticamente il componimento petrarchesco, è formulata l’idea che il lauro, rapito dagli dei, è stato trapiantato altrove: «felicibus arvis inseruere / dei» (‘gli dei lo trapiantarono in campi felici’); e, privo della scorza caduca, getta nuove radici nei campi elisi: «pars vivacior egit / elisiosque novo fecundat germine campos» (402-403). Ed è qui, nei campi elisi, dove Silvano dovrà augurarsi di essere ammesso, allo scopo di ricongiungersi con l’alloro-Laura: «quod honestius opta, / transire in terras, ubi nunc tua gloria vivit» (‘formula un voto più onesto, di passare in quelle terre dove ora vive la tua gloria’, 409-10), in ciò seguito dall’amante del sonetto spagnolo, secondo l’auspicio espresso nell’ultima terzina:
hasta que aquella eterna noche escura
me cierre aquestos ojos que te vieron,
dejándome con otros que te vean
dove, però, è assente ogni traccia di quell’«ideale cristiano» che soprav- viveva nella chiusa dell’ecloga petrarchesca e che era presente nell’esortazione dell’amico: «quod honestius opta», nella quale l’aggettivo – come ha scritto il moderno editore del testo – «accentua [...] la differenza morale tra il comportamento del P[etrarca], legato all’amore terreno e alla gloria, e l’ideale cristiano a cui Socrate intende richiamarlo».15
Neppure, forse, è da ritenersi un caso, sebbene ciò avvenga con un uso del verbo che allude alle diverse circostanze iscritte nei due testi, che nei versi finali dell’egloga petrarchesca il lettore s’imbatta nella presenza anaforica del verbo videre: «vidimus», «vidisti», «vidi», sempre in riferimento a quell’unico oggetto della visione operata da Socrate, in qualità di testimone, che consiste nella trasposizione dell’alloro-Laura «in parte miliori», ossia nei campi elisi, dove Silvano «vestigia suplex / consequere» (‘seguirà supplice i suoi passi’, 407-408); e che il medesimo lettore, nei versi finali del sonetto spagnolo, torni a imbattersi nello stesso verbo, due volte ripetuto, a proposito questa volta della passata visione terrena dell’amata «te vieron» e di quella auspicata ultraterrena «te vean».16
Tuttavia, come ho già avvertito, il dialogo si rivela fittissimo non solo col Petrarca latino dell’egloga, ma anche con l’autore in volgare del canzoniere, dove l’immagine della pianta divelta e delle sue «sparte fronde», in relazione alla morte di Laura per la nota equivalenza di Laura = lauro, compare in due sonetti, Al cader d’una pianta che si svelse (Rvf 318) e Ite, rime dolenti al duro sasso (Rvf 333), oltre che in due delle sei strofe che compongono la celebre canzone delle visioni, Standomi un giorno solo a la fenestra (Rvf 323).17 Ebbene, con due di questi componimenti sembrano stabilire non peregrine relazioni i versi della seconda quartina del nostro sonetto. Difatti, il «poco espacio» del sepolcro dell’amata riprende l’espressione contenuta in un emistichio della canzone delle visioni: «et poco spatio asconde» (Rvf 323, 23), sebbene in tale contesto il riferimento letteraleèa un particolare luogo di sepoltura, quello in cui sprofondano «l’alte ricchezze» della nave percossa dalla tempesta e presto inabissatasi, una delle sei visioni o allegorie funebri nelle quali è frazionata la canzone. Ma, non meno pertinente appare il rimando a un altro componimento del canzoniere, nel quale – come segnalò Herrera – il motivo della strettezza dello spazio tombale si mostra unito a quello della dissoluzione di ogni speranza, anche se l’espressione letterale «poco spatio» risulta sostituita dall’altro e semanticamente equivalente sintagma, «poca terra»: «or mie speranze sparte / à Morte, et poca terra il mio bene preme» (Rvf 331, 46-47). D’altronde, è superfluo rimarcare che il motivo dell’angustia del sepolcro rispetto alle grandiosità del bene perduto che vi è sepolto, è una costante delle rime in morte di Laura.18
Ai versi finali dei tre testi petrarcheschi anteriormente menzionati, possiamo rinviare, invece, per l’invocazione senza risposta alle ceneri dell’amata, contenuta nei vv. 7-8 del nostro sonetto, dal momento che l’amante petrarchesco continua a rivolgersi con fervore al «vivo lauro [...] al cielo translato»: «con gravi accenti / è anchor chi chiama, et non è chi risponda» (Rvf 318, 13-14), versi che – come, peraltro, è stato ricordato – si muovono «sul ricordo d’un grido del profeta Isaia, “qui vocavi et non erat qui responderet” (Is LXVI4), nel deserto dello spirito», e che danno perciò «la misura del vuoto tra cielo e terra».19 Del resto, anche per questa via, è possibile ponderare il disimpegno laico di Garcilaso rispetto al sostrato profondamente religioso e cristiano che soggiace al testo petrarchesco, com’è reso evidente anche dall’aggettivo che accompagna le ceneri a cui l’invocazione è rivolta, e che attribuisce una qualità ad esse apparentemente poco conforme: «cenizas desdeñosas», a meno di non ravvisare nella mancata reazione delle ceneri garcilasiane un atto d’indifferenza, in continuità con l’atteggiamento sdegnoso che la donna ebbe in vita.20 Mentre, perfino in questo caso, l’unica occorrenza del sostantivo «cenere» nel canzoniere petrarchesco, riferito alla morte di Laura, s’accoppia all’aggettivo «sparso»: «or vo piangendo il tuo cenere sparso» (Rvf 320, 14), con un uso che Rosanna Bettarini non ha esitato a inter pretare «nel segno cristiano della cinis e della pulvis mortis (Sap II 3; Gn XVIII 27); infatti l’aggettivo sparso [...] è sul modello salmistico: “dispersa sunt omnia ossa mea [...] et in pulvere mortis deduxisti me” (Ps XXI 15-16)».21
Se, in quanto finora esposto, la mia preoccupazione dominante è stata di descrivere, seppure per sommi capi, la complessa trama intertestuale di cui è intessuto il sonetto prescelto, è perché credo di poter affermare che essa fornisce la più fedele testimonianza di due non trascurabili peculiarità, che caratterizzano profondamente la produzione matura di Garcilaso.
In effetti, se, come si è osservato all’inizio, l’assimilazione della lezione umanistica da parte del poeta spagnolo ebbe come risultato quello di indurlo a considerare il processo di composizione testuale e l’esplorazione della tradizione letteraria come facce della stessa moneta, ossia come fenomeni inestricabilmente uniti e convergenti nel dare origine alla creazione poetica, ebbene la nostra lettura del sonetto ha mostrato con la massima chiarezza – spero – come l’incontro con il passo della prosa sannazariana lo mosse, nell’alto stesso del processo creativo, a percorrere a ritroso l’ideale cammino compiuto dal napoletano, per accostarsi alle opere da cui quel passo aveva tratto nutrimento: all’immagine della pianta divelta consegnata alla favola mitologica tardo antica, probabilmente; e, con totale sicurezza, invece, agli esametri finali dell’egloga latina, dove quella stessa immagine era stata ripresa in chiave allegorica, per poi essere assunta con più ampio disegno in alcune delle più significativa rime in volgare, in morte di Laura, alle quali pure Garcilaso finisce per approdare e prestare ascolto con non minore profitto per l’elaborazione del suo sonetto.
Ma – e con ciò siamo già alla seconda peculiarità, a cui accennavo – un tale processo di composizione non si realizza affatto per mera giustapposizione delle diverse tessere testuali rinvenute, dal momento che a presiedere alla scrittura del sonetto intervengono all’unisono sia il recupero di testi, operato grazie ai calcolati movimenti all’indietro e in avanti lungo la tradizione letteraria, sia la presenza di un disegno totalmente organico, dalla cui coerenza discendono originalità compositiva e novità ideologica. In altri termini, la selezione dei testi, ispirata a criteri rigorosamente storico-letterari, è strettamente funzionale all’originalità compositiva e ideologica del prodotto creativo. Così, la specifica conformazione assunta dai tre singoli motivi tematici che convergono nel sonetto, nonché l’assetto con cui l’insieme di essi si dispone, non hanno precedente alcuno, sebbene – come si è tentato di mostrare – ognuno di tali fattori si ritrovi nei componimenti petrarcheschi, né solo in essi; e, nel finale dell’egloga latina, si vedano perfino succedersi nelle battute che si scambiano i due dialoganti.
Di rilevanza ancora maggiore è, poi, la novità ideologica, perché – come si è avuto modo di notare in occasione del confronto tra l’ultima terzina del sonetto e gli esametri finali dell’ecloga – il motivo del ricongiungimento con l’amata, rispetto alla tradizione a cui fa capo, conosce in Garcilaso un processo di laicizzazione, giacché esso si presenta depurato da ogni elemento penitenziale implicante l’ideologia cristiana; e, in mancanza di soluzione penitenziale come di mutatio spirituale, il desiderio di unirsi all’amata e, con esso, la stessa attrazione verso la trascendenza, finiscono per definirsi in termini puramente laici. Del resto, non si tratta di un caso isolato nella poesia di Garcilaso, dal momento che la terzina finale del nostro sonetto rimanda alla celebre e stupenda strofa con cui termina il canto di Nemoroso nella prima Egloga, dove i rapporti con i componimenti petrarcheschi si fanno ancora più fitti – se ciò fosse possibile – di quanto si è qui visto a proposito del sonetto di cui si è preteso offrire la lettura.22
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1 F. Rico, La tradizione e il poeta, in Id., Biblioteca spagnola. Dal Cantar del Cid al Beffatore di Siviglia, Torino, 1994, pp. 269-98, p. 284 (ed. orig. col titolo Breve biblioteca de autores españoles, Barcelona, 1990, pp. 269-300, p. 285).
2 Rico, La tradizione, cit., p. 285 (ed. orig., p. 286).
3 Per una considerazione generale della questione, anche in relazione al contesto culturale e poetico napoletano, nel quale Garcilaso operò nel corso degli ultimi quattro anni (1532-1536) della sua vita e della sua produzione, mi sia consentito rimandare il lettore a A. Gargano, Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio cancioneril ai modelli classici, in Id., Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII, Napoli, 2005, pp. 141-56; Id., «Garcilaso de la Vega e la poesia a Napoli nella prima metà del Cinquecento», in Rinascimento Meridionale 2 (2011), in corso di stampa.
4 Riproduco il testo edito in Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, edición de B. Morros, estudio preliminar de R. Lapesa, Barcelona, 1995, pp. 47-48, ad eccezione di v. 5: «los amores», il cui articolo Morros trasforma in possessivo, «mis amores», seguendo Herrera, la cui inutile correzione accentua la concordanza con l’espressione del verso seguente, «mis cosas»; e di v. 7 «tornados» della princeps che Morros corregge al femminile, «tornadas», accentando di nuovo l’emendamento di Herrera, per il quale il termine, in entrambe le forme, è giudicato «dicción antigua i que no tiene buen lugar en versos elegantes i suaves» (Fernando de Herrera, Anotaciones a la poesía de Garcilaso, edición de I. Pepe Sarno e J. M. Reyes, Madrid, 2001, p. 442). Unanime, invece, da parte degli editori moderni, è la correzione del v. 2, considerato ipèrmetro nella versione della princeps, «cómo sentí tus leyes tan rigurosas», come suggerisce Maria Rosso Gallo: «debemos seguir la enmienda de D [Anversa, 1556] (aceptada también por los editores sucesivos y en el ms. Mm [Biblioteca Nacional de Madrid, 6001], que corrige la hipermetría de la princeps, suprimiendo el adverbio tan, superfluo en el contexto sintáctico y semántico del cuarteto» (M. Rosso Gallo, La poesía de Garcilaso de la Vega. Análisis filológico y texto crítico, Madrid, 1990, p. 216). Una voce isolata nella difesa della lezione della princeps è costituita da F. J. Avila, per il quale «habría [...] serias bases para considerar garcilasiano el término tan en “tan rigorosa”, en la posición que ocupa en el verso» (El texto de Garcilaso: Contexto literario, métrica y poètica, Tesi di dottorato, City University of New York, 1992, vol. i, p. 340).
5 R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso (1948), in Id., Garcilaso: Estudios completos, Madrid, 1985, p. 146. Per la segnalazione di un sonetto di Luigi Tansillo, Come quercia talor alta ed annosa, si veda J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid, 1960, pp. 10-12 e, posteriormente, J. G. González Miguel, Presencia napolitana en el Siglo de Oro español. Luigi Tansillo (1510-1568), Salamanca, 1979, pp. 128-35, per il quale il sonetto dello spagnolo è precedente a quello dell’amico e poeta napoletano, ipotesi che dà luogo alla congettura «que Tansillo, que conocía bien la lírica de Garcilaso, tuviera como modelo este perfecto soneto de su amigo» (p. 134). Sul sonetto garcilasiano, oltre alle considerazioni di Lapesa, cfr. A. Lumsden, «New Interpretations of Spanish Poetry», in Bulletin of Spanish Studies, xxi (1944), pp. 114-16, e D. L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, Pennsylvania, 1994, pp. 190-95.
6 Jacopo Sannazaro, Arcadia / L’Arcadie, édition critique par F. Erspamer, introduction, traduction, notes et tables par G. Marino, avec une préface de Y. Bonnefoy, Paris, 2004, p. 233 (prosa xii 7).
7 Le due diverse interpretazioni si leggono, rispettivamente, in Jacopo Sannazaro, Arcadia, a cura di M. Scherillo, Torino, 1888, pp. lxxxiii-lxxxiv, e Jacopo Sannazaro, Arcadia, a cura di E. Carrara, Torino, 1952, le note alle pp. 194, 196, 201 e 217. Di tutto ciò dà conto, con utili e pertinenti correzioni e precisazioni, F. Erspamer nella sua edizione dell’Arcadia, Milano, 1990, p. 213 n. 7, nonché nell’Introduzione all’edizione, p. 16, dove in nota aggiunge che «a proposito dell’“arangio”, recentemente è stato dimostrato che la pianta (e il frutto) era, nella cultura umanistica e rinascimentale, un riconoscibile emblema dell’amore». A proposito delle «tradizionali alternative critiche» sull’Arcadia, non potendo in questa sede neppure alludere al discorso assai complicato che la questione meriterebbe, mi limito a citare la sapiente ed equilibrata posizione espressa recentemente da Enrico Fenzi: «credo si possa sostenere che la linea di sviluppo dell’ Arcadia comporti due movimenti tendenzialmente contrari: il primo [...] colloca le punte recriminatorie e l’immediata vis polemica del travestimento bucolico in un contesto di forte liricizzazione; il secondo approfondisce e generalizza il senso ultimo di quelle accuse e mentre ne allontana il contenuto più episodico e personale le carica per contro di una assai più dolorosa valenza» (L’impossibile Arcadia di Jacopo Sannazaro, in Jacopo Sannazaro. La cultura napoletana nell’Europa del Rinasci- mento, a cura di P. Sabbatino, Firenze, 2009. pp. 71-95, p. 75).
8 Caudius Claudianus, Oeuvres, t. i, Le rapt de Proserpine, texte établi et traduit par J. L. Charlet, Paris, 1991, p. 62.
9 Erspamer, Introduzione a Sannazaro, Arcadia, cit., p. 17.
10 G. Martellotti, Introduzione a Francesco Petrarca, Laurea occidens. Bucolicum Carmen X, testo traduzione e commento a cura di G. M., Roma, 1968, p. 8.
11 Erspamer, Introduzione a Sannazaro, Arcadia, cit., p. 17.
12 G. Velli, Sannazzaro e le «Parteniae Myricae»: forma e significato dell’«Arcadia», in Id., Tra lettura e creazione. Sannazaro, Alfieri, Foscolo, Padova, 1983, pp. 1-56, p. 2 n. 3.
13 Le citazioni del testo petrarchesco e delle relative traduzioni sono tratte dalla citata edizione di Laurea occidens, a cura di G. Martellotti. Sull’egloga, si veda almeno M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di Studi nel VI centenario (1370-1374), a cura di G. Billanovich e G. Frasso, Padova, 1975, pp. 117-48.
14 Del tutto fuori luogo, pertanto, appare il suggerimento del commentatore Tomás Vargas, per il quale si tratterebbe di un’allusione a un antico costume degli antichi, i quali «ponían en los sepulcros de los que amaban redomillas de lágrimas» (Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, a cura di A. Gallego Morell, Madrid, 1972, p. 605, T-29); suggerimento che, inopinatamente, raccolgono anche i migliori commentatori moderni (Rivers, Morros).
15 Petrarca, Laurea occidens, cit., p. 84 n. 409. È significativo che, nell’interpretazione dell’ultima terzina del sonetto spagnolo, ci sia stata una divergenza tra H. Keniston, per il quale i versi finali «seem to imply a belief in a Christian immortality» (Garcilaso de la Vega, Works, edited by H. Keniston, New York, 1925, p. 279), e R. Lapesa che, più credibilmente, vi ha visto «un alborear de esperanzas que se orientan [...] hacia la visión perdurable de la belleza femenil glorificada» (La trayectoria poética, cit., p. 122).
16 Non è escluso che Garcilaso abbia attinto all’esametro virgiliano «in aeternam clauduntur lumina noctem» (Eneide, x 746), come suggerì il menzionato Tamayo de Vargas (Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, cit., p. 605, T-29).
17 Alcuni componimenti del Canzoniere petrarchesco furono segnalati dagli antichi commentatori: il sonetto 296 I’ mi soglio accusare, et or mi scuso, da Herrera (Anotaciones, cit., p. 441); il sonetto 326 Or ài fatto l’extremo di tua possa, da Tamayo de Vargas (Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, cit., p. 605, T-29); la canzone 331 Solea da la fontana di mia vita, dallo stesso Herrera (ibid., p. 442); componimenti ai quali Eugenio Mele ha aggiunto il sonetto 292 Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente e il 318 Al cader d’una pianta che si svelse («In margine alle poesie di Garcilaso» in Bulletin Hispanique, 32, 1930, pp. 218-45, p. 242).
18 Per i loci paralleli, interni al Canzoniere, si rimanda alle note di commento di Marco Santagata, in FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, a cura di M. S., Milano, 2004, p. 1294 n. 47, e di Rosanna Bettarini, in FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere. Rerum vulgarium Fragmenta, a cura di R. B., Torino, 2005, vol. II, p. 1461 n. 47.
19 Cfr. il commento introduttivo di Rossanna Bettarini al sonetto 318 Al cader d’una pianta che si svelse in Petrarca, Canzoniere, ed. cit., p. 1386. Val la pena di segnalare che, a proposito dei vv. 7-8 del sonetto di Garcilaso, Herrera menzionò un distico di Tibullo: «illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo / et mea cum muto fata querar ciner» (i, vi, 33-34; Herrera, Anotaciones, cit., p. 442), anche se la menzione risulta giustificata dall’allusione «a la antigua costumbre i rito de quemar los muertos».
20 Desdeñosa, nell’accezione dantesca di «donna disdegnosa», «a cui non cale / de l’amorosa mente» (Dante Alighieri, Io sento si d’Amor la gran possanza, vv. 68-69), in Garcilaso si ritrova riferito ad Anassarete, che rifiuta l’amore di Ifi: «que de ser desdeñosa / se arrepintió muy tarde» (Ode ad florem Cnidi, vv. 68-69), e alla pastora Galatea, sdegnosa nei confronti dell’innamorato Albanio: «y sin mirarme, desdeñosa y fiera» (Égloga ii, v. 482), con clausola aggettivale, presente in Dante, Cino e, naturalmente, Petrarca.
21 Petrarca, Canzoniere. Rerum Vulgarium Fragmenta, cit., vol. ii, p. 1397 n. 14.
22 Per una lettura dell’ultima strofa del lamento di Nemoroso, nell’Égloga I di Garcilaso, mi sia consentito rimandare a A. Gargano, «Questo nostro caduco et fragil bene». Forme e significati del «locus amoenus» nell’Egloga I di Garcilaso; in Signoria di parole. Studi offerti a Mario Di Pinto, a cura di G. Calabrò, Napoli, 1998, pp. 283-98, dove leggevo la strofa penultima dell’egloga all’interno di un microsistema di quattro strofe, nelle quali il topos del locus amoenus risultava scandagliato nella doppia prospettiva temporale del passato e del futuro, a partire dalla dolorosa condizione presente, anch’essa duplice, di chi ha perso l’oggetto d’amore per il disdegno o per la morte di esso, e a Id., Il lugar di Garcilaso, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, a cura di L. Chines, Roma, 2006, pp. 495-510, dove la medesima strofa veniva letta e interpretata nei nessi che essa intrattiene con la tradizione, in particolare con quella petrarchesca.