Revue Italique

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Premessa

Stefano Jossa

Questo quattordicesimo volume di Italique viene, con il seguente, dedicato a European Petrarchism, con sottotitolo Reading and Writing Petrarch in the Renaissance. Vi si raccolgono i contributi presentati in quattro panels dell’Annual meeting della Renaissance Society of America, Venezia, 8-10 aprile 2010. Tutti gli interventi sono stati ampiamente rivisti e sviluppati alla luce della nuova destinazione. Il più sincero ringraziamento degli autori e del curatore va al direttore della rivista, Prof. Jean Balsamo, per la disponibilità e l’accoglienza. Un ringraziamento speciale va al Prof. William J. Kennedy per il sostegno e il contributo dati all’iniziativa fin dal primo momento: di tale presenza è segno tangibile il suo articolo su Ronsard, che integra e completa il panorama dei contributi presentati alla RSA.

Questo numero è aperto da una lettura dei sonetti Dizei, Senhora, da Beleza ideia e Se as penas com que Amor tão mal me trata di Luís de Camões da parte di Roberto Gigliucci, che si configura come una vera e propria analisi, en poète, dei meccanismi con cui il petrarchismo s’impose come strumento di fondazione di una comunità letteraria al di là dei confini linguistici e territoriali: continuità di temi e motivi, interstestualità e interdiscorsività, imitazione e scarto. Su tutto, il confronto col modello, sempre: l’imitatio Petrarcae; ma anche, a un livello più sottile, il dialogo con gli altri petrarchisti, in modo da stabilire un continuum tanto nel tempo quanto nello spazio. Di qui la possi- bilità della differenza individuale, come nel caso di Camões, che riusa i materiali della tradizione e della mitologia per trasformare la donna- creatura-divina in donna-creatura-di-sé, fino a fare del platonismo uno strumento d’indagine della contraddizione umana e della violenza errena anziché di ascesi spirituale. Il moto verso il cielo è accennato, ma non si compie, rifrangendosi drammaticamente nella dimensione del qui ed ora: «in Dizei, Senhora, Dio non c’è proprio, la scena della creazione è una solitudine di auto-creazione, e in questa solitudine c’è il rischio del male e della sventura». Si comincia col Portogallo perché è il massimo della distanza geograca a consentire la verica della tenuta del modello e del codice: Hélio Alves, con la sua lettura di Nũ seco ramo, nu de fruyto e folha di Vasco Mouzinho, individua nel petrarchismo portoghese di ne Cinquecento il passaggio del simbolismo petrarchesco (qui, la tortora come specchio dell’autore) dall’espressione soggettiva dei sentimenti alla ricerca gurale di una voce: «the poem asks not what the feelings of the subject are and how they can be compared to a bird’s; it asks rather what means are available to speak about these things». Allo stesso modo, in contesti culturali diversi, ma in una contiguità che è prima di tutto letteraria, il sonetto Quand vous serez bien vielle, au soir à la chandelle di Pierre de Ronsard proposto da William J. Kennedy e The expense of spirit in a waste of shame di William Shakespeare proposto da Rosanna Camerlingo disegnano, attraverso il riuso della tradizione ovvero lo slittamento dei signicati, la denizione di una voce, quello speaker che prevale tanto sull’amante quanto sull’amata nel nome di una terzietà poetica che ne fa il vero giudice, morale o estetico, del testo e del suo contenuto: «in Sonnets pour Hélène, Ronsard deploys various Petrarchan styles and archetypes that he had already experimented with [...] and he sets them in dialogue with one another», col risultato di affermare «a literary competence and poetic know-how that proclaim the author’s professionalism at every turn»; mentre nel sonetto 144 di Shakespeare assistiamo a un processo di revisione dello stile petrarchesco, che non è antipetrarchesco, bensì capace di saggiare l’inestricabile ambiguità dell’essere umano, in cui l’unione dei contrari avviene senza sintesi - non «in an ideal Neo-platonic world, but in the speaker’s inwardness». Segue una vera e propria sezione spagnola con le letture di ¡Oh hado secutivo en mis dolores di Garcilaso de la Vega, Ya siento el dulce espíritu de l’aura di Fernando de Herrera e Descaminado, enfermo, peregrino di Luis de Góngora proposte da Antonio Gargano, Roland Béhar e José María Micò; ma anche qui l’obiettivo non è certo la rivendicazione di uno stranoto petrarchismo spagnolo, bensì l’individuazione, sintomatologica e paradigmatica, attraverso la lettura di un singolo componimento, delle modalità con cui il poeta, collocandosi esplicitamente nell’orbita del petrarchismo, mette in scena se stesso, il suo essere poeta, la propria differenza nella somiglianza: se Garcilaso sussume la tradizione per oltrepassarla, in «un processo di laicizzazione» che sposta la tensione spirituale verso una depurazione «da ogni elemento penitenziale implicante l’ideologia cristiana», Herrera, col passaggio dall’aura alla Luce, propone un passaggio non solo dall’«oggetto del desiderio passionale e poetico» al «soggetto spaventato di fronte alla gloria evidente della sua luce», ma anche da Petrarca a se stesso; mentre Góngora, nel momento in cui recupera e riscrive la tradizione, già sta puntando al «denitivo sorpasso del petrarchismo». Interiorizzazione e problematizzazione dell’elemento ideale, platonico o cristiano, ricerca della voce da parte del poeta e processo di differenziazione da Petrarca diventano, tutti insieme, strumenti fondativi di una comunità che si riconosce proprio nel nesso tra temi affrontati e forme scelte, indipendentemente dai contatti diretti, perché tutti condividono una grammatica comune, che genera poesia.

Non sarà sfuggito al lettore attento, forse pure maliziosamente attento, che i testi di queste letture, come si diceva, sono solo sonetti (ma ci sarà un’eccezione nel prossimo numero): la forma più semplice e breve, quindi almeno apparentemente la più facile da commentare, secondo quella logica economica e veloce della fruizione che sembra presiedere alle dinamiche culturali del nostro tempo. Eppure è il sonetto, per il suo carattere di frammentarietà e immediatezza, e la sua lunga durata nella tradizione europea, da Jacopo da Lentini fino a Rainer Maria Rilke e Seamus Heaney, a darci la misura di quel nesso tra forma e ideologia che è caratteristica precipua del petrarchismo europeo, se è vero che Foscolo, nel candidarsi come punto d’arrivo di un’intera tradizione, ripercorreva i Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al MDCCC, scritti in Inghilterra e pubblicati a Zurigo nel 1816, mentre, a Foscolo riallacciandosi, Giovanni Getto e Edoardo Sanguineti, nella loro antologia Il sonetto. Cinquecento sonetti dal Duecento al Novecento (1957), andavano alla ricerca di un’ipotesi estetica che mettesse in gioco, in simbiosi, tradizione e riscrittura, forma e vita, griglia letteraria e soggettività poetica. È di recentissima pubblicazione del resto, a cura di A.D. Cousins and Peter Howarth, The Cambridge Companion to the Sonnet (Cambridge: Cambridge University Press, 2011), che ricostruisce le trasformazioni, stilistiche e ideologiche, della forma poetica che più di tutte, per la sua lunga durata storica e facile adattabilità linguistica, può essere considerata europea. Proprio il già menzionato Sanguineti, con una delle sue ultime riflessioni, dedicata a «una teoria della citazione», ora raccolta in Cultura e realtà (a cura di Erminio Risso, Milano,Feltrinelli, 2010, pp. 335-47), proponeva una teoria della citazione come forma di stile che diventa forma di vita: di cosa, se non del “saper fare un sonetto”, cioè “citare una forma”, il petrarchista fa un elemento di classe, che vuol dire sia distinzione sia appartenenza? È quest’orizzonte, fatto di partecipazione e individualità, omologazione e differenziazione, che i contributi qui raccolti si propongono di esplorare.