Revue Italique

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Petrarchismo europeo. Leggere e scrivere Petrarca nel Rinascimento (Presentazione)

Stefano Jossa

Leggere Petrarca nel Cinquecento era un’esperienza di formazione poetica e intellettuale. Due parole, poetica e intellettuale, per dire una cosa sola, che a quel tempo, diversamente che per noi, era inscindibile: scrivere e conoscere, conoscere e scrivere, in ineludibile simbiosi. Ogni esperienza di lettura portava alla scrittura, così come ogni esperienza di scrittura era già, di per sé, una riscrittura: la conoscenza passava per la parola non solo, idealisticamente, in quanto deposito di idee e concetti, ma soprattutto, praticamente, in quanto attività materiale, prassi solerte, confronto sistematico con la scrittura propria e l’altrui. Ripetizione e differenza, come moto costante, di tipo epistemologico, della civiltà rinascimentale. Si leggeva Petrarca per capire le proprie origini e posizionare se stessi. Si riscriveva Petrarca per differenziarsi anziché imitare, fino a riconoscere la propria identità solo nella somiglianza, che non è mai uguaglianza: idem è lo stesso, ma dall’identico si stacca un’identità che è fatta di continuità e scarto anziché di pura e passiva mimesi. L’identità è la continuità del simile, da un lato, ma è anche, dall’altro lato, l’individualità dell’unico. Questo è il senso, straordinariamente moderno, del petrarchismo, in Italia e in Europa, per tutto il Rinascimento: un’esperienza, da un lato, di fondazione della comunità, politicamente; e, dall’altro lato, di scoperta del soggetto, epistemologicamente.

Perché Petrarca, allora, anziché Dante, o Boccaccio, o Omero, o Virgilio? Perché, prima di tutto, è Petrarca stesso a fondare questo percorso, a mettere in correlazione la comunità («voi ch’ascoltate», Rvf 1, 1) con il soggetto («io nudriva ’l core», Rvf 1, 2), nel segno di una comunanza di esperienza («ove sia chi per prova intenda amore», Rvf 1, 7) che si fonda su ciò che di più umano, e al tempo stesso più disumanante, esista, cioè l’amore, esperienza che tutti possono provare, ma non tutti vivono allo stesso modo: esperienza, quindi, che di per sé genera somiglianza, in quanto a tutti è, potenzialmente, comune, ma anche determina differenza, perché ciascuno la vive in un modo diverso dall’altro. Noi e io, sempre: raccontare storie d’amore attraverso la poesia sarà il modo di essere parte di un noi, fondato su un comune orizzonte di senso, l’amore come esperienza universale, e di rivendicare un io, determinato dalla vicenda biografica, l’amore come manifestazione individuale.

Petrarca è il poeta cui altri poeti affidano la lingua della comunità e della soggettività. Lingua facile, in quanto mediana, perché parla di ciò che a tutti è accessibile con un vocabolario da tutti apprendibile, ma anche lingua distintiva, perché la differenza non sarà data dall’uso di parole diverse, che imporrebbero l’originalità e l’incomunicabilità, ma da diverse combinazioni delle stesse parole, al fine di raccontare storie riportabili tutte, su un piano ideale, o paradigmatico, all’universale, ma anche rivendicate tutte, su un piano concreto, ovvero sintagmatico, come personali, particolari, soggettive, proprie. L’«instaurazione di un qualche colloquio, una partecipazione, una continuità attraverso tempi e paesi tra eroi ed “esseri comuni”, tra forme radioattive e loro necessarie scorie plumbee, in un tutto nel quale ognuno dà qualcosa, anche il meno dotato, in un tessuto che dunque è “civile”» è ciò che Andrea Zanzotto individuava nel petrarchismo, esperienza insieme inventiva e imitativa, fondata sulla dialettica tra «fuoco» e «artificio», forza travolgente dell’eros e lavoro certosino del verso (A. Zanzotto, Petrarca fra il palazzo e la cameretta, in F. Petrarca, Rime, Milano, Rizzoli, 1976; ora in A. Zanzotto, Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Milano, Mondadori, 1991, pp. 261-71, a p. 262).

Gli umanisti rinascimentali leggevano Petrarca proprio per istituire questo movimento alla ricerca insieme dell’idea e della forma, cioè di ciò che è comune e di ciò che è singolare, di ciò che è dottrina e di ciò che è arte. In apertura della seconda delle sue lezioni petrarchesche, tenute all’Accademia fiorentina nel corso degli anni 40 del Cinquecento, Giovan Battista Gelli faceva appunto notare che la lettura del testo poetico era finalizzata a una migliore comprensione da un lato della poesia, cioè di un valore formale, ma anche, dall’altro lato, della vita, cioè di un’esperienza esistenziale paradigmatica e collettiva:

Scrive il lirico Orazio in quel libro ch’egli fa dell’arte poetica, magnifico Consolo, ingegnosissimi Accademici e voi altri uditori nobilissimi, che il poeta debbe nei suoi poemi o dilettare o giovare, o dire insieme cose piacevoli e cose utili alla vita umana. Dalle quali parole (secondo me) si deduce, che quegli i quali con i loro scritti porgono diletto agli orecchi degli uomini, o danno qualche utile agli animi, sono i buoni e veri poeti; e quegli che in un tempo medesimo, parimente e insieme, fanno l’uno e l’altro effetto, sono gli ottimi e verissimi. Il che tenendo per cosa certa, mi pare che infra questi ultimi e più supremi tenga, e abbia tenuto sempre, uno de’ primi luoghi il nostro non manco dotto che leggiadro M. F. Petrarca. Conciosiacosa che in tutte l’opere sue (io parlo per ora di quelle ch’egli compose nella nostra e sua propria bellissima lingua Fiorentina) sia non manco scienza e dottrina, che ornamento e bellezza; se bene essendo stati insino a qui molti, anzi infiniti, quegli che hanno lodato la sua bellezza, pochi, anzi rarissimi siano stati quegli che abbin mostro di aver conosciuta la sua dottrina. La qual cosa mi ha arrecato sempre non piccola maraviglia; e massimamente quando io sono ito considerando, quanto sia stato grande il numero di coloro che l’hanno commentato. Per il che desiderando io sommamente di dare occasione di farlo conoscere, a cagione che egli, come giustamente meritano le sue fatiche, per lo avvenire sia non manco lodato della dottrina, che per il passato della bellezza, ho pensato dichiararvi oggi un leggiadrissimo suo sonetto, non manco dotto certo, che bello, fatto da lui gran tempo dopo la morte della sua M. Laura. (Lezioni petrarchesche di Giovan Battista Gelli, raccolte per cura di Carlo Negroni, con una lettera di S. Carlo Borromeo e una di Giosuè Carducci, Bologna, Romagnoli, 1884, pp. 67-69)

Teoria generale della poesia, osservazione del dato formale e riflessione sulla vita si combinano nella prospettiva di una lettura che non metta in gioco solo il commento stilistico o quello filosofico, ma sappia individuare la funzione politica della lettura, che crea discussione, dibattito e comunità. Fondamentale, in quest’ottica, è il dialogo con i classici, il common background tanto di Petrarca quanto dei petrarchisti. Petrarca consente al volgare, infine, di oltrepassare il latino, di farsi moderno, di istituire la soggettività nella presa di coscienza della distanza dai classici: non più come loro, i classici, ma come lui, Petrarca, che si è detto diverso, gli umanisti di seconda generazione, venuti dopo la riscoperta dell’antico e l’istituzione del classicismo, vogliono rivendicare proprio il loro venire dopo, cronologicamente, ma anche stare sullo stesso piano, antropologicamente. Non più nani sulle spalle dei giganti, ma vis-à- vis, face-to-face, con i loro predecessori: Petrarca è l’umano con cui essere umani, anziché l’auctoritas da cui non si può prescindere. È l’archetipo, insomma, più che il modello: da imitare perché contiene già tutto ciò che è esperibile, linguisticamente e poeticamente, vera e propria fonte del dire e del vivere, ma mai da seguire acriticamente in quanto padrone della verità. È l’opposto di Aristotele e Tommaso, insomma, in questo davvero maestro e sintomo di modernità in antitesi alla tradizione scolastica medievale.

Eppure «classicismo» resta la parola fondamentale per spiegare questa esperienza oltre i classici, ma con un suo nuovo classico, il Canzoniere (cioè i Rerum vulgarium fragmenta, ovvero Le cose volgari, visto che il titolo Canzoniere compare per la prima volta solo nell’edizione giuntina del 1516 e venne usato solo altre due volte nel corso del Cinquecento): classicismo in quanto definizione del perimetro comune, appartenenza a una flotta, classis, che diventa gruppo, classe. La classe è stile, distinzione, élite; ma è anche comunità, identità, aristocrazia. Non si dà superiorità senza comunione: l’originalità individuale e assoluta, che separa anziché differenziare, che esalta in antagonismo anziché in agonismo, non appartiene all’orizzonte del petrarchismo. Fenomeno espansivo, perciò, che punta ad estendersi anziché a chiudersi, allargando non le maglie, che sono ferree, normative, ma il recinto, che è aperto, formativo: chiunque riesca a entrarvi vi ha cittadinanza. Alla condizione di non trasgredire la norma, che è un’etica condivisa prima ancora che una poetica di gruppo: è l’etica del confronto, della consapevolezza che solo attraverso il tu l’io prende consistenza, della convinzione che negli altri vedo me meglio che allo specchio. Petrarchismo vorrà dire restituire cor po alle persone, alle loro vite, alle loro biografie sistemate in poesia, perché la parola, il gesto e l’atto di scrivere, sono carne, immissione feroce e crudele sulla pagina del proprio sentire, che viene dato in pasto agli altri per dire sé e ascoltare la differenza, scambiarsi esperienze, confrontarsi e definirsi, come tutto e come uni. L’utopia di essere insieme se stessi e tutti gli altri è ciò che il Rinascimento chiede a Petrarca, congiunzione di universale e particolare.

Su queste premesse la comunità non poteva che allargarsi: allargarsi nel cor po sociale, che prevede l’espansione dell’aristocrazia del sentire e del sapere, e allargarsi nel cor po geografico, che prevede la mutuazione del modello aristocratico di terra in terra, e di lingua in lingua. Il progressivo percorso di espansione del petrarchismo dall’Italia all’Europa è proprio un movimento dell’aristocrazia classicista, però moderna, perciò petrarchista, verso l’inclusione anziché la separatezza: essere se stessi, ma al tempo stesso come gli altri, nel gioco della differenza che nasce dalla somiglianza, è la ricerca, esistenziale come poetica, quindi anche etica e politica, dei petrarchisti europei. Farsi scrittura per farsi cor po, immettere il proprio cor po nella propria scrittura, affidare al modello lo specchio del sé e riconoscere nel modello quello che il sé ha in comune con gli altri: la scrittura della composizione, della combinazione, della sintassi diventa un gioco sociale di rimandi interni, di simboli nascosti, di richiami allusi o impliciti, di modo che identità del soggetto e comunità degli amici vadano di pari passo. Petrarchismo europeo come amicizia degli individui e dei soggetti, in cui l’appartenenza, diversamente da quello che avveniva con il classicismo umanistico, non dipende, verticalmente, dall’autorità, ma si confronta, orizzontalmente, con l’alterità: il modello è lì, già dato, una volta per sempre, a includere e circoscrivere, ma mai a dettare i comportamenti. È la forma dentro cui nascono altre forme, singolari e collettive, mai la norma che impone e irregimenta.

Leggere un componimento dei petrarchisti rinascimentali (preferibilmente un sonetto per ragioni pratiche di tempo e spazio, ma anche madrigali o canzoni) è stato il metodo con cui sono stati organizzati e condotti quattro panels dedicati a European Petrarchism al convegno annuale della Renaissance Society of America del 2010. Leggere i petrarchisti oggi come i petrarchisti leggevano Petrarca allora: il metodo della lettura accademica, con commento e discussione, inaugurato dagli accademici cinquecenteschi e proseguito dai moderni professori universitari, che oggi potrebbe sembrare un vuoto esercizio di stile, ma che era in realtà un metodo di formazione poetica e politica, esistenziale e professionale, ci era sembrato un buon modo per rilanciare la discussione sul petrarchismo al di là degli specialismi eruditi, in una prospettiva sincretica e corale di tipo poetico, politico e antropologico. Leggere non solo testi italiani, perciò, ma anche portoghesi, spagnoli, francesi e inglesi, per entrare nel laboratorio collettivo di un’esperienza, il petrarchismo europeo, che non può essere letta e capita se non allargando lo sguardo, nella sua dimensione di socialità e condivisione, di confronto e differenziazione, di allargamento e spostamento di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti. Solo così, in un orizzonte europeo, leggere i petrarchisti poteva diventare un leggere il petrarchismo, leggere l’ieri un leggere l’oggi: per riconoscere delle storie comuni che la polemica romantica contro la cultura formalistica e arretrata dell’Antico Regime ci ha fatto perdere per troppo tempo. Che di qui si possa ripartire per un ritorno alla prassi della scrittura, al continuo passaggio dal leggere allo scrivere, dal capire al comunicare, dall’essere-sé a un essere-con, è auspicio che affidiamo ai lettori.