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Epistole e prosimetri inediti del Feliciano. Fonti delle Porretane
La maggior parte dei contributi dedicati a Sabadino degli Arienti e più in particolare alla sua sfaccettata raccolta di novelle intitolata le Porretane, non dimentica di citare le novelle iii e xivche ritraggono in toni vivaci e sottilmente parodici l’eccentrica figura di Felice Feliciano, fornendone una delle immagini piùvive e gustose1. In genere la saggistica limita a questo i rapporti fra i due personaggi, ma forse, sfogliando le ricche carte che il Feliciano ci ha lasciato e che finora sono rimaste piuttosto in ombra, si può ipotizzare un legame più profondo e di ben altro valore. Del resto è proprio questa la strada che Giulia Gianella suggerì per prima in una nota del suo ricchissimo efecondo saggio su Felice Feliciano2, e che in tempi più recenti Leonardo Quaquarelli ha trattato tangenzialmente in uno dei suoi contributi3. Ma prima di riprendere questa ipotesi e approfondirla, occorre spendere qualche parola a favore delle Porretane, per comprenderne la ragione intrinseca e quella esteriore, che riconnette l’opera al suo contesto storico-letterario.
La trattazione più completa ed accurata al riguardo è senz’alcun dubbio quella firmata da Bruno Basile, che nell’introduzione alla sua edizione delle Porretane del 1981 per i tipi della Salerno editrice4, tratteggia con grande competenza le questioni nodali relative al testo. Come è ben noto, Sabadino degli Arienti compose la sua opera per i Bentivoglio, signori di Bologna. Questa corte, effettivamente, sollecitava con insistenza i letterati che ospitava affinché celebrassero con il loro ingegno ifasti attuali della famiglia. L’Arienti scrisse numerose opere celebrative (come Il torneo fatto a Bologna il IV Ottobre 1470, la Descrizione del giardino della Viola, l’Epitalamio nelle pompe nuziali di Annibale figlio del Principe Giovanni Bentivoglio, il De Hymenaeo o il Gynevera de le clare donne), ma le stesse Porretane possono essere lette come un encomio tessuto con i fili della prospera tradizione boccacciana. Si tratta, contrariamente al giudizio assolutamente negativo che ne dava il Di Francia5, di un opera complessa, lontana dall’esaurirsi nel fine elogiativo. In essa, infatti, alla seduzione del modello trecentesco si accosta la necessità di reperire nuove strutture narrative, capaci di contenere ed esaltare la coesistenza di ceti sociali molto distanti fra di loro che costituivano l’essenza ultima della corte bentivoliesca. Inoltre Sabadino si trovava di fronte alla necessità di racchiudere una serie di racconti piacevoli e grati ai protettori in una cornice di nobile affabulazione, ragion per cui decise di far interpretare agli stessi membri della famiglia Bentivoglio gli astratti novellatori della brigata boccaccesca. Si poneva infine il problema delle fonti, a cui l’autore doveva necessariamente attingere per dar vita al suo complessoorganismo. Dalle analisi di Bruno Basile6 emerge una limitatissima presenza dei classici, mentre ben più rappresentata è la cultura dei notai letterati bolognesi, vale a dire testi giuridici, e accanto a questi Cicerone, Petrarca, Guarino Veronese, Poggio Bracciolini, Boccaccio, Sacchetti, Luigi Pulci, ai quali Sabadino univa un’esperta conoscenza della tradizione orale delle cronache cittadine. La consistenza di questi debiti è riscontrabile all’interno della tessitura delle sessantuno novelle: in più luoghi si leggono riscritture da Boccaccio, da Poggio Bracciolini, dalle Facezie del Piovano Arlotto, dal Poliziano volgare. Questa mescidanza, oltre all’insistita celebrazione del lusso che si sposa con aspetti decisamente più umili della contemporaneità7, gli permise di ottenere quell’unione di sublime e quotidiano spicciolo che era propria dell’umanesimo bolognese del Quattrocento.
A questo punto occorre chiedersi quale sia il tasso di originalità delle Porretane. Leggendo il datato, ma sempre prezioso, volume del Di Francia, si scopre quanto sia alto il numero delle novelle derivate da fonti precedenti, più o meno celebri8. Da Boccaccio vengono desunte le novelle porretane xxxiv e xlv, che riprendono da vicino quelle decameroniane V 9e VII 4; dalla Facezia di Poggio Bracciolini sono tratte le novelle xxx e xxxiii;la lii deriva invece dalla xlix delle Cent nouvelles nouvelles di Antoine de la Sale e contemporaneamente dal Pecorone VII 1 di Giovanni Fiorentino; la xlvi dal Morgante XVI 42seg. del Pulci; la xxviiidal Sercambi V (De summa justitia) e da Masuccio Salernitano xlvii9. Costante all’interno dell’opera è poi il contatto con il Trecentonovelle del Sacchetti. Un caso a parte è quello relativo alla tradizione popolare orale, che si configura come un floridissimo deposito di spunti, come testimoniano in particolare le novelle II (che si richiama anche alla favola IX della Disciplina clericalis), xxxix, xix. Occorre poi aggiungere che nell'opera del Sacchetti si ritrovano molti dei temi trattati nelle novelle di Sabadino (la Porretana lv corrisponde, nelle linee generali e probabilmente per mezzo di un tramite orale, alla clxxvi del Sacchetti e alla XII di Masuccio, così come la Porretana xxxvii risulta connessa alle novelle xi e xii del Sercambi «e ambedue costoro stringe, d’ignorata parentela, col rimatore quattrocentesco de La Novella di due preti et uno cherico innamorati di una donna, coi tre autori francesi dei favolelli di Costant du Hamel, D’Estormi, Le Prestre teint, come pure con tanti altri più lontani confratelli, che obbligherebbero, chi volesse andarli a rintracciare, a un disagevole viaggio in Oriente»)10, anche se l’Arienti ne ignorava lesistenza. La somiglianza sarà dunque da ascrivere all’estesa diffusione orale che le vicende narrate dovevano aver raggiunto.
Mi sembrerebbe a questo punto inesatto sostenere la tesi dell’originalità dell’opera, che pure sussiste, ma non riguarda certamente la scelta dei temi,quanto piuttosto, come si è già detto, l’inserzione delle novelle all’interno dell’insolita cornice e del peculiare contesto bentivoliesco. L’affermazione apparirà tanto più fondata qualora si metta in parallelo il Ms C. II. 14. della Biblioteca Civica di Brescia con la raccolta delle Porretane. Il codice, non autografo e databile alla fine del XV secolo o all’inizio del XVI, è il frutto della trascrizione di un manoscritto appartenuto con ogni probabilità a Felice Feliciano, o meglio da lui compilato. La critica, sebbene nutra una profonda diffidenza nei confronti del testimone bresciano che, mancando della garanzia dell’autografia, potrebbe essere stato contaminato da inserzioni successive, è tuttavia concorde nel ritenerlo il quarto e più vario testimone epistolare del Veronese.
Ebbene, leggendo il manoscritto, non si può non notare che almeno in quattro luoghi l’Arienti accolse e rielaborò i testi contenuti nel ms. bresciano, che credo di poter ascrivere, indirettamente, alla penna del Feliciano. Ma prima di inoltrarci nell’analisi dei testi, occorrerà soffermarci sulla peculiare forma che ne accomuna la maggior parte. Infatti molte delle epistole contenute nel ms. bresciano si presentano sotto forma di prosimetri e più in particolare di un testo epistolare in prosa, più o meno lungo, seguito da un sonetto, spesso caudato, secondo le abitudini del Feliciano. La peculiarità di una tale forma all’interno di un simile contenitore (ossia un epistolario, sebbene carico di un alto tasso di letterarietà) risulterà evidente. La tradizione italiana, e prima ancora tardo-latina e romanza (con ovvio riferimento a Boezio, Marziano Capella, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla, alle vidas e razos) per non parlare delle origini del genere che alcuni fanno risalire alla satira menippea, conobbe numerose attestazioni della forma prosimetrica. Relativamente ai primi secoli della nostra letteratura possiamo citare alcuni esempi nelle Lettere di Guittone, la Vita Nova di Dante, il Convivio, il Novellino, il Reggimento e costume di donna di Francesco da Barberino, il Libro del Biadaiolo di Domenico Lenzi, l’Ameto e il Decameron di Boccaccio, il Novelliere del Sercambi, il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino e il Libro delle rime di Franco Sacchetti.11 Ma in nessuno di questi casi le rime seguono, per posizione e contenuto, un’epistola, come invece avviene negli epistolari del Feliciano.12 Occorre infatti precisare che non si tratta di una peculiarità del solo codice bresciano, che per la sua scarsa affidabilità potrebbe far pensare, seppure con qualche forzatura, ad una creazione successiva, a un’interpolazione consapevole e ben accordata, ma si tratta, invece, di una costante, che ritroviamo in tutti e quattro gli epistolari. L’apporto innovativo del codice bresciano, rispetto alle altre tre sillogi epistolari, è relativo alla trascrizione di missive scritte da altri personaggi, come ad esempio Jacopo Zaccaria o Francesco Porcari; ebbene, anche in queste epistole, di altra mano, troviamo la stessa forma prosimetrica. Questo ci porta a concludere che, sia chesi tratti di epistole scritte dal Feliciano per conto di altri (ipotesi per la quale propendo), sia che siano effettivamente opera d’altri, il connubio fra epistola e versi (sonetti, spesso caudati, si è detto, ma in qualche caso anche altri metri) doveva essere sentito come forma attuale e praticabile, condivisa dalla cerchia degli umanisti di metà Quattrocento raccolti attorno al patrizio romano Francesco Porcari.
Un’altra particolarità che occorre sottolineare è l’inserzione delle novelle prosimetriche all’interno di epistole. Il campo della epistolografia non gode al momento di particolare fortuna13, così che non è possibile avere uno sguardo d’insieme soddisfacente, tuttavia mi sembra di poter affermare che l’inserzione di novelle all’interno di lettere sia una pratica abbastanza isolata. Il precedente più noto è senza dubbio l’Historia de duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini, in seguito Pio II, tuttavia in questo caso il fine primario è l’enunciazione della novella, mentre la lettera che la racchiude, costruita secondo le norme dell’ epistolografia quattrocentesca e indirizzata a Mariano Sozzini, giurista senese di cui il Piccolomini era stato allievo, si configura come elegante pretesto o cornice dinamica. Nel caso del Feliciano, invece, le epistole-novelle non fuoriescono dalla misura e dallo scopo epistolare, piuttosto operano dall’interno, innestando sulla struttura e finalità globale dell’epistola i ritmi e le forme della novella.
Torniamo infine all’analisi dei testi, cominciando dalla xiv novellaporretana, dedicata ad una vicenda da barbiere, che vede — e in questo non sarà forse da scorgere una semplice coincidenza — come protagonista lo stesso Feliciano. Occorrerà innanzitutto notare che Sabadino operò una profonda rielaborazione dell’epistola-novella tràdita dal codice bresciano (testo 1), non solo parafrasandone con costanza il testo, ma alterando anche alcuni punti della vicenda, per lo più particolari descrittivi. Mi riferisco, innanzitutto, alla presentazione del protagonista che in Sabadino occupa uno spazio considerevole rispetto all’estensione complessiva del testo. Altre modifiche riguardano il luogo: nel testo del Feliciano l’episodio si svolge nelle campagne attorno a Roma, in quello di Sabadino fra le montagne di Modena. Inoltre mutano alcuni particolari, come la ragione del viaggio del protagonista, costituita dalla ricerca della pietra antimonia in Sabadino (in linea, quindi con la presentazione del Feliciano come appassionato alchimista), e invece da un’imprecisata gita nel Feliciano; cambia, infine, il periodo di trascuratezza vissuto dal protagonista, da venticinque a diciassette giorni. Altri particolari si ripetono assolutamente identici, così da deporre non già a favore di una generica ispirazione, ma di una precisa e costante riscrittura: l’abituale uso dell’aratro da parte dell’improvvisato barbiere, il coltellaccio poco affidabile utilizato al posto del rasoio, le tele aragne usate come lenitivo dei tagli, il discorso pronunciato dal figlio del tonsore e l’espediente fisiologico addotto per la fuga.
Leggendo in parallelo le due novelle, tuttavia, si noterà senza alcuna fatica come l’Arienti innalzi il tasso di letterarietà, trasformando la scarna vicenda felicianea in un gustoso quadretto comico, lavorando soprattutto su quegli spunti che il Feliciano aveva lasciato grezzi e che rivelavano una grande potenzialità narrativa, come la descrizione dell’aspetto irsuto del protagonista, i preparativi per la rasatura, la fuga o l’acquisto della coperta di bue. Dunque all’Arienti spetta il raffinamento di una vicenda che nasce però dell’inventiva del Feliciano.
Diverso è il caso della lix novellaporretana, che riprende un’altra epistola che nel codice bresciano è trascritta in due versioni pressochè identiche ma con diverso destinatario (testi 2e 2a). Se nel caso della novella precedente si assisteva ad una rielaborazione costante, ma poco vistosa, e alla ripresa della tematica ma non di interi passi, in questo caso invece si nota contemporaneamente una maggiore vicinanza e una maggiore distanza dal testo di partenza, che probabilmente andrà spiegata con il passaggio attraverso il filtro decame-roniano. Come nota Bruno Basile, la vicenda riprende quella narrata nella novella II 4 del Decameron, ma il contatto fra i due testi si limita all’avventuroso ambiente mercantesco, all’incerto peregrinare per mari e terre straniere fino ad arrivare nel mondo arabo, e alla successione di sventura e fortuna che connota il destino del protagonista. Nel confronto fra il testo del Feliciano e quello dell’Arienti andranno considerate le maggiori differenze e le somiglianze più significative. Innanzitutto l’Arienti introduce la novella attraverso il ritratto del personaggio principale (che tra l’altro ha mutato nome, passando da quello di Tarulpho, della versione felicianea, a quello di Eliseo Bolognini), descritto quale ricco mercante, condizione ben diversa da quella di camerero del testo felicianeo. E diverse sono le vicende che lo portano alle disgrazie: se Tarulfo è presentato sin dall’esordio della vicenda come un camerero alla corte siciliana, che è costretto a lasciare nel momento in cui questa cade sotto il dominio dei nemici, Eliseo assume tale carica solo dopo il naufragio che lo costringe ad abbandonare la sua attività di mercante, descritta con dovizia di particolari. Effettivamente questa sezione della novella, che tra l’altro c’informa dell’origine bolognese di Eliseo, delle sue fortune, dell’inizio del suo viaggio e del modo in cui si è salvato dal naufragio, sostituisce quella iniziale dell’epistola del Feliciano, che allude a vicende personali e riporta l’arguta facezia del ladro di frumento, dalle cui sentenze si origina e trova giustificazione la narrazione. Tuttavia al di là di questa profonda discrepanza iniziale, il testo viene seguito con una fedeltà notevole, fedeltà che non riguarda semplicemente lo svolgersi logico e cronologico dei fatti, ma l’adozione di intere frasi e, perfino, di alcuni nomi, e più precisamente, quello della città di Lariche e quello del mercante Telesio, entrambi di fantasia e quindi vistosa spia di imitazione diretta. Differenze degne di nota riguardano, oltre allo stiledella novella, che si rivela più curato, più raffinato, il discorso pronunciato da Tarulfo-Eliseo: in terza persona e decisamente più sintetico nel Feliciano, in prima persona, esteso e accurato nell’Arienti. Diverso inoltre il finale: mentre nel codice bresciano il protagonista ottiene come ricompensa del suo discorso la vita, nella Porretana invece ottiene anche l’elezione a principe e dunque un innalzamento sociale. La conclusione della novella, che ricollega il testo alla cornice, è una ripresa, con variazione, dell’incipit felicianeo. Anche l’Arienti allude a vicende prossime ai narratori e dunque alla sua cerchia, ma non menziona alcun fatto autobiografico, ricollegandosi invece alla querelle sulla predestinazione e sull’influenza degli astri, dibattito che risulta di interesse precipuo alla corte dei Bentivoglio e per riflesso anche all’interno di altre novelle Porretane.
La novella xxix delle Porretane ci svela un percorso leggermente diverso. Infatti il tema delle brache del prete è frutto di un’antica sedimentazione letteraria. Il soggetto, presente tangenzialmente in Apuleio, e in maniera più puntuale in alcuni antichi favolelli francesi (come il Dit de la nonnete, il Les braies le priestre o il Des braies au cordelier), viene ripreso in area italiana e in epoca precedente a quella de Le Porretane da Boccaccio (Decameron, IX 2), Sacchetti (Trecentonovelle, ccvii), Bracciolini (Facezia ccxxxii) e Masuccio Salernitano (Novellino, iii).14Tuttavia, come nota Bruno Basile, l’Arienti introduce delle innovazioni, alcune, come la scusa della rogna lenita dalla lingua del bue, di indubbia originalità, mentre altre, come l’intervento dell’amica che la aiuta a giustificare le brache o la presenza dei denari, si ritrovano in una delle epistole-novelle del Feliciano (testo 3), e dunque sembrano deporre a favore di un calco. Più precisamente la novella porretana appare come l’insieme arguto e ben congegnato di una pluralità di aspetti che hanno come centro propulsore l’antica facezia delle brache del prete. Anche in questo caso però, pur in assenza di richiami espliciti e riprese letterali, si nota l’influenza del Feliciano, che dunque deve essere stata una fonte rilevante nella costruzione del testo. Lo stesso Feliciano si pose sulla scia del testo di antica memoria, ma lo rivitalizzò grazie all’abituale fantasia comica. Ancora una volta l’Arienti utilizzò la vena creativa del Feliciano come una miniera dalla quale attingere temi e spunti che la sua abilità narrativa affinava con garbo.
Discorso simile andrà fatto anche per la vii novella porretana, dedicata all’abate di San Cataldo, che trova puntuali riscontri con un’altra vicenda narrata nel codice bresciano (testo 4). Anche in questo caso non si tratta di una ripresa pedissequa, ma di una discreta e attenta inserzione. Da attribuire all’ingegno dell’Arienti sono in primis la presentazione della vicenda come discorso riferito, poi gli ampi excursus biografici e geografici che aprono la novella e la concludono nell’epilogo. Altri elementi invece denunciano chiaramente la sua provenienza dallo scrittoio del Feliciano. Mi riferisco alla meta romana del viaggio, alla compagnia di due famigli, al vagare nella selva, al catalogo dei beni posseduti dal prete e poi rubati, allo spunto del discorso del prete, che come d’abitudine, viene esteso e raffinato dall’Arienti, mentre nel Feliciano si riduce ad uno scarno ma efficace scambio di battute che ricorda da vicino lo stile epigrafico delle Facetiae del Bracciolini. La risposta dei ladroni è in entrambi casi breve e lapidaria. Interessante è anche l’uso di espressioni analoghe, una per tutte in zupone (zipone nell’Arienti). Ancora da segnalare è l’omissione nella Porretana del particolare scabroso del fanciullo, chierico e amante dell’abate e membro della piccola comitiva, o la scelta del mantello come preda iniziale dei ladroni, mentre nel Feliciano si tratta di cavalli. Infine diverso è lo spazio dedicato alla vicenda nei due autori: nel Feliciano, infatti, questa occupa poco meno di un quarto del testo in cui è inserita, nei confronti del quale svolge la funzione di riassunto faceto o chiusa riepilogativa di insistita comicità, allo stesso modo della vicenda del ladro condotto alle forche nella novella di Tarulfo, di cui sopra s’è discusso. Nell’Arienti, invece è proprio questa vicenda a sostenere la narrazione, mentre il contesto nel quale è inserita risulta poco più che un riempitivo. In questo modo si ribaltano i rapporti di forza, facendo di una sintetica chiusa comica lo spunto di un’intera novella. Da questa sommaria analisi non sarà difficile cogliere l’entità del debito dell’Arienti, o più in generale, dal momento che pur non disponendo di notizie dirette al riguardo, sospetto una più ampia diffusione del tema, confermare la sua attitudine al prestito con rielaborazione.
Anche a voler benevolmente espungere da questa rosa di rielaborazioni le novelle vii e xxxix, come frutto di una circolazione ampia e famosa, restano comunque la xiv e soprattutto la lix che depongono a favore di una strettissima interdipendenza che, se le congetture relative alla datazione, di cui si discuterà poco più avanti, non sono il frutto di una svista o di una partigianeria, si tradurrebbe in un’imitazione stretta del Feliciano da parte di Sabadino.
Come ho accennato più volte, l’Arienti elegge a protagonista di due sue novelle (iii e xiv) Felice Feliciano, descrivendolo come «uomo egregio, de claro ed erudito ingegno, literato e de virtù laudevole pieno e de graziosa e lepida conversazione tutto ornato, cognominato Antiquario per aver lui quasi consumato gli anni suoi in cercare le generose antiquità de Roma, de Ravenna e de tutta l’Italia, [...] posto ogni suo studio e ingegno in cercare e investigare l’arte magiore, cioè la quinta essenzia»,15 e in un altra novella come «provido uomo [...] del quale credo più faceto uomo non trovasse né maneggiasse mai, [...] in continuo pensiero, sollecitudine ed exercizio de trovare elvero effecto de l’archimia (ne la quale oltra el patrimonio suo, che fu assai buono e amplo haconsumato ogni suo guadagno, impignato li amici e quasi la vita propria; e come ciascuno de vui può vedere, ancora che sia de vertù predito e fecundo, mendico quasi se trova, non mancando però tuttavia del pristino suo lavoro dal quale dice non voler cessare per niente fino a la morte, parendoli uno dolce impoverire el fundere nelli grusuoli16 quello poco de argento ch a le volte a le mano lipervene, e non poco onore essere veduto per le piazze gir tinto del volto e de la mano non altrimenti che sefosse uno aurifice o magnano)».17 Si tratta, come si può chiaramente osservare, di una descrizione sufficientemente particolareggiata che, a causa del contesto comico e della specifica situazione narrativa, pone l’accento sulle caratteristiche più vistose del personaggio, su quelle più grottesche o rappresentative. Come che sia, il ritratto dimostra una conoscenza abbastanza precisa, che suppongo possa essere avvenuta a Bologna, «matre e alimento de ogni vertù», come la definiva il Feliciano,18 fra il 1471 anno in cui l’Arienti divenne segretario di Andrea Bentivoglio mentre il Feliciano entrava a far parte della corte dei Bentivoglio (dopo la scomparsa del Marcanova che era stato suo ospite durante il primo soggiorno bolognese), e la fine del 1473 anno in cui il Veronese lasciava Bologna per recarsi, come sembra probabile, a Perugia al seguito di Filasio Roverella. Mi sembrerebbe difficile che il Feliciano e l’Arienti, pur accomunati dall’appartenenza alla corte bentivoliesca, non avessero mai approfondito la loro conoscenza, tanto più che anche Felice nutriva qualche ambizione prosastica e che l’Arienti nel suo successivo carteggio con Isabella d’Este dimostrava interessi antiquari,19 ma soprattutto dal momento che entrambi i personaggi erano alla continua ricerca di un mecenate potente e affidabile che permettesse loro di vivere con maggior agiatezza e in costante serenità. A questo si aggiunge che Filippo Vitali, la voce narrante della XIV novella porretana che descrive il Feliciano alle prese con un agreste barbiere, figura come destinatario di alcune epistole del Veronese, confermando così la fitta rete di rapporti che connettevano gli appartenenti alla corte dei Bentivoglio.
Molto complessa è infine la questione della datazione che si basa su di una limitatissima e intricata tradizione manoscritta e a stampa, che solo di recente Bruno Basile è riuscito a ricomporre in un quadro razionale.20 La tradizione del testo si articola in un codice autografo (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cod. Palatino 503), una editio princeps quattrocentesca (di cui ci resta un solo testimone integro) e cinque stampe di area veneta comprese fra il 1504 e il 1540, queste ultime dipendenti dalla princeps bolognese e dunque di scarso rilievo filologico. Apparentemente la questione sembrerebbe di ovvia risoluzione dal momento che l’autografo è datato in una trascrizione della guardia, di probabile mano cinquecentesca («compilate e scritte / da me sabadino degli arienti / bolognese. / nelli anni del Signore Mcccclxiii»), al 1463 e la stampa al 1483. Sembrerebbe, come dicevo, una questionebanale: dapprima la stesura dell’autografo e dopo alcuni anni, con la definitiva stabilizzazione (e successo) in terra di Italia degli stampatori tedeschi (in questo caso, Enrico da Colonia), l’edizione a stampa. Ma i problemi sono molti, dunque cerchiamo di analizzarli singolarmente tenendo come punto di riferimento l’autografo e la princeps. A prima vista sembrerebbe che l’edizione a stampa, seguita dallo stesso autore, sia da considerarsi come definitiva voluntas, tuttavia, ad un’analisi serrata delle correzioni che invece presenta l’autografo, ci si accorgerà che si tratta di ritocchi apportati alla lezione affidata alla stampa, dunque successivi a quest’ultima che perde così lo statuto di lezione definitiva. Il cod. Palatino 503 sarà allora da considerarsi come lussuoso esemplare di dedica, condotto su una copia dell’edizione a stampa o di una sua affine. Dunque l’autografo, anche se contiene una data più alta (giudicata errata dal Gentile e dal Basile e da loro precisata, in base alla datazione di alcune novelle, a post 1475) andrà considerato come l’ultima versione del testo, direttamente controllata dall’autore. Questo però porta ad una conclusione allarmante: la data riportata nel colophon è errata. A questa conclusione si arriva anche seguendo alcuni indizi interni. Infatti, come ha dimostrato Pasquale Stoppelli, nella novella xlix vi è un riferimento alla morte di Ulisse Bentivoglio, avvenuta nel 1489; allo stesso modo nella novella lv Bartolomeo Saliceto viene presentato come «secretario del reverendissimo cardinale ungaro», con riferimento ad Ascanio Sforza che resse il vescovato ungherese di Agria solo a partire dal 1492. A questi dati Bruno Basile ha aggiunto un’ulteriore precisazione che si ricava dalla cronologia delle opere di Battista Spagnoli, detto il Mantovano, enumerate nella lxi novella: sia la menzione del De suorum temporum calamitatibus, sia quella dei compiuti quarant’anni dell’autore (nato nel 1448) rimandano al biennio 1488-1489. Questa serie di informazioni spingono decisamente oltre la data dichiarata della stampa (1483), che andrà considerata come una retrodatazione, pratica alla quale lo stampatore Enrico da Colonia era avezzo. La datazione effettiva della princeps sarà da collocare, allora, al 1492 circa, mentre quella dell’autografo di dedica (che abbiamo detto essere ricavato dalla stampa stessa ed essere latore dell’ultima e definitiva versione del testo) al 1498. Le Porretane vanno così considerate un work in progress, distese su un arco temporale che va dal 1470 al 1492. Non oltre, visto l’accenno che si fa nella lix novella al Regno di Granata che a partire dal 2 gennaio 1492 era passato nelle cattoliche mani di Isabella e Ferdinando di Castiglia. Appurata la falsità delle datazioni riportate dai due testimoni e ristabilita una cronologia coerente, restano da spiegare le motivazioni della falsificazione. Per far questo è necessario ricollegarsi al particolare clima politico e sociale che si era venuto a creare a Bologna dopo la morte di Andrea Bentivoglio (1491), protettore dell’Arienti, e la presa del potere da parte di Giovanni II Bentivoglio, alla cui cortel’Arienti, come molti altri, ricoprì l’ingrato ruolo di dipendente non stipendiato. Evidentemente questa posizione non doveva risultare congeniale allo scrittore che decise così di ricercare la protezione degli Estensi, con i quali aveva sempre mantenuto contatti, ai quali decise infine di dedicare le Porretane, come risulta dalla Dedicatoria e dalla Conclusione. Questa finale translatio spiegherebbe anche l’origine delle accurate decorazioni che ornano il manoscritto (copia autografa di dedica, come si è detto), che sembrano essere avvicinabili alla scuola ferrarese ruotante attorno a Francesco del Cossa. Le Porretane però, alla data del 1491 circa, erano già completate e accordate sulle tonalità dell’elogio dei Bentivoglio, né vi era alcun motivo valido per inimicarsi questa potente famiglia. È così che la raccolta di novelle mantenne questa sorta di doppio registro: da una parte l’elogio dei signori di Bologna, dall’altro l’esplicita dedica a quelli di Ferrara, nella persona di Ercole d’Este. Ma vi era un’altra difficoltà. Con Giovanni II il clima bolognese era profondamente mutato, lasciando spazio all’insoddisfazione, come la congiura dei Malvezzi, sanguinosamente repressa, dimostra. Nella cornice dell’opera, ambientata nel 1475 (momento di massima gloria per i Bentivoglio), vi era una imbarazzante vicinanza fra i membri della famiglia bolognese e alcuni dei partecipanti a questa congiura. È per questo che Sabadino degli Arienti decise di retrodatare la sua opera al 1463, facendo così salva l’opera e la duplice intenzione celebrativa. L’armonia sociale, intellettuale e politica che quelle pagine descrivevano era definitivamente infranta e le Porretane a questo punto non potevano che divenire un monumento alla passata felicità, e anche per gli Estensi un omaggio a quel tempo andato, di cui la famiglia ferrarese era stata parte integrante. Dunque la ragione della retrodatazione è da considerarsi prettamente politico-diplomatica.
Al di là di questa complessa vicenda, quello che più importa è constatare che la stesura avvenne solo dopo il 1470 e per un arco di tempo molto esteso, e questo potrebbe spiegare i contatti con la produzione epistolare-novellistica del Feliciano. Forse la corte bentivoliesca, alla quale appartennero entrambi i letterati, fu un luogo propizio agli scambi e ai confronti. Si può ragionevolmente ipotizzare che i due abbiano discusso dell’opera che l’Arienti andava stendendo e che il Feliciano l’abbia messo al corrente delle sue operette prosastiche. L’Arienti potrebbe aver raccolto nelle Porretane suggestioni anche da queste ultime, al pari di quanto avvenne per molte altre novelle di autori come Masuccio Salernitano, Giovanni Fiorentino o Domenico Sercambi, visto che gli agganci sono notevoli e insistiti. Riguardo al Feliciano e alla datazione dei suoi testi, il termine più certo ante quem è il 1479-80 quando il Veronese morì nei boschi de La Storta. L’antigrafo del codice bresciano, che come abbiamo visto è una copia, dovrà essere stato realizzato precedentemente, all’arrivo del Feliciano a Roma (1478) o anche prima, come dimostra lamassiccia presenza del Porcari, mecenate romano, all’interno dell’epistolario, e completato in un secondo momento. Ma nel 1478 l’opera dell’Arienti era ancora fluida e dunque mi chiedo perchè non parlare di un debito dell’Arienti nei confronti dell’Antiquario, anche perché non si tratterebbe di un episodio isolato.
Riporto qui di seguito le epistole-novelle dal codice bresciano (Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14), con la breve rubrica e il sonetto che le accompagna. A causa della natura problematica del testo la trascrizione è fortemente conservativa.
Testo 1, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 8or-8ov:
Feliciano Antiquario al nobel iovene Ludovico tonsore essendo in villa manda salute.
Ludovico, io mi partì da Roma cum la barba longa e volsi venirti a trovare, ma non hebi tempo. Pensai atrovar in villa tonsore che mi radesse, e fomene posto uno ale mane il qual tutto il giorno cum l’aratro fende la terra, e guardandoli ale mane le vite carge di groppi e di calli, e pegio che radeva cum uno onto coltelazo da cuzina, e tanto fui bestiale che mi lassai la barba bagnare e insaponare. E lui, andato arotar il coltelazo, venne uno suo figliolo cum uno tagliero cargo di tele di ragno e dimandai che volesse far di quelle tele di ragno. Lui rispose: «Quando mio padre radendo intacha ad altrui le maselle o il mento, pone di sopra queste tele di ragno e in termine de XV giorni guarisse». Io, che non voleva sopra dil grugno quelle tachature, finsi de andar a orinare e lavorai de gambe come bocalare [sic],21 tanto che, come a Dio piace, li sum ussito dale mane. E penso domane a Roma tornare e venirti a trovare, aciò che di vechio tu mi faci garzone, e che mi lavi el capo che sono XXII giorni che non mi lavai, e pare che li crini d’un porco selvatico. Vivi sano, se puoi, e questo mio soneto darai a Pietro tuo compagno.
Veduto ho chadun esser in assetto
a far tuto quel mal che far si possa,
ma è da saper se alchun di pasta grossa
tien altro stilo che que’che habiam preditto.
D’ogni mester se intende ciò ch’è detto,
unde la question n’è quasi mossa,
tutti ne vanno insieme nella fossa,
quel che s’è incerti ne riman soletto;
salvo che qui ci resta el bon barbero
che ti rade e polisse come uno spechio,
et lava la fronte nel bacino,
et usa cum gran prudentia el suo mestiero
e ti fa bel garzon quando sei vechio,
polito e vago come un armelino.
Dico per tal destino
che l’arte dil barbier me par un gioco
che ti fa bello e netto e spendi pocho.
Testo 2, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 85v- 87r:
Feliciano Antiquario raconta una adversa fortuna al magnanimo homo romano Francisco Porcario, quale fu historia e non fabula. Comune proverbio è che le cosse adverse che sono destinate dal cielo, el più dele volte per lo meglio intervengano a noi mortali, benché sono molti che il contrario dicono. Come quel ladro, il quale nel suo tempo, di nocte e più volte havia furato de molto formento e conduto ale forche per questo delicto, a quelli che lo confortavano dandoli a credere che questo li fusse per lo meglio advenuto, e lui sempre negava, che non gli era questa fortuna advenuta per lo meglio, ma per lo frumento furato, e non per lo melio22 come essi dicevano. Sì che in costui alisse il proverbio. Unde, verace homo, essendomi in questi giorni incontrata alchuna adversità, che nel entrar de Bologna mi foron tolte alcune taze d’arzento de valuta de più de cento fiorini, dicendo che non havia la contralittera dela gabella. E foron molti di mei amici, quando mi videron suspirar e forse lachrimar, dixeron che io supportasse questa fortuna cum patienta, perchè l’era per lo meglio che io l’havesse perdute a Bologna, che dovendi portar al Signor di quelle fino a Roma, era in dubio per la strata esser per quelle robato e morto, le qual taze mi bisognarà cum tempo pagarle. Un altra volta, da poi, venendo da Fuligno a Roma mi fu levato il cavalo, che non era mio, per lo insulto de alchuni barri23 e ladri di strata. E disseme gli amici mei, ch’io volesse pigliar questa fortuna per lo meglio, assignandomi che forse per disaventura saria cascato in uno fosso il cavalo, e chi sa, forse in un fiume, e mi seria negato e submerso. Di che sono ambiguo a creder che questo mi possi esser advenuto per lo meglio, vedendo me ogni giorno pegio seguire. Ma per fortificar la opinione di coloro che dicono questo essermi per lo meglio advenuto, dico che legendo nelle historie dil re Lanzilago, quando la Sicilia esso havea, uno suo camerero assai sfortunato e molto patiente ali insulti dela fortuna il quale se chiamava Tarulpho. Unde, una matina cavalcando per lo reame presso de Nola sopra de un ponte, temendo il cavalo d’una rota che voltava un molino, per la qual prese tanto spavento, che rotto per forza le cinge, redine e pectorali, gitò Tarulpho nel fiume, il quale non fue prima fora dila sella, che percosse sopra d’un palo fitto nell’aqua cum una gamba, el quale si ruppe, e tracto ala ripa fue medicato da uno ignorante, in modo che sempre si dolse e per tuta la sua vita, andò zoppo e nelle sue adversitate diceva esserli questo per lo meglio advenuto. Né dopuoi doi anni passaron, che essendo in una silva ala caza d’un silvatico porco, si mosse una fronde acuta e trasseli del capo l’ochio sinistro e anche questo per lo meglio esserli advenuto affirmava. Et dil mese di setembre, ritrovandosi in una vigna, ove cum uno suo sparaviero transtulava ale quaglie, agitandolo ad una quaglia e non potendola havere, preso il suo uccello sopra d’un arbore e ali rami di quello incapistrato24, rimase suspeso. Tarulpho, essendo senza famiglio, molto sopra del arbore e essendo nel colmo, puose il pede sopra d’un siecho troncho, e rompendose insieme cum quello ne venne a terra, e percotendo sopra d’un saxo si rupe una spalla e male amedicato sempre gobbo, zoppo, guerzo rimase. Et questa ultima volta, più che mai, essergli per lo meglio avenuto dicea. Morto re Lancilago, li fue forza abandonar quelle contrade, essendo il regno in man de suoi nemici venuto. E volto quel camino in Manfredo-nia, fue da pirati preso e in uno belinzero25 conduto, cargo di preda. E dato le vele al vento gionsero in Cypri ove fu venduto ad uno moro che se chiamava Thalasio, e tenelo in suo paese guardiano de suoi camelli circa cinque anni, et questa fortuna anche per lo meglio diceva che gli era advenuta. Et cognosciuta da alcun moro la virtù de Tharulpho, furtivamente il condusse in una citade chiamata Labrich, ove uno potente signore dimorava, il quale Tharulpho, havendo in quello idioma la sua lingua domestica, li fue assai facil cossa venir in gratia di quel signore, e per le sue virtute ogni giorno nella dilectione dil re accreseva, in tanto che tuto il populo lo riputava secundo signore. Costume antiquo era in quelle contrate, quando per morte mancava il signore, quella medesima hora decapitare el più dilecto servitore che il signore havuto havesse, aciò nel altro seculo il morto re havesse compagno che’l ministrasse. Unde tocata a Tarulpho la sorte, montò Tarulpho sopra un bancho in arengo, e cum la sua eloquentia disse che lui era promptissimo per morte seguir el signore per ogni regione ove andasse, ma che dovesseno saviamente considerare il fine di questo, perchè essendo nel altro seculo molti potenti signori e baroni e parenti dil morto signore e degli altri assai che lo conosceno, extimate che li saria grandissima vergogna haver per compagno uno che sia guerzo, gobo e zopo come lui era, e tanto bene depinse il suo sermone, che fu rivocata la prima sententia, e servato Tarulpho fue dato questo honore e guadagno ad uno altro di suoi servitori chiamato Zabocho. E in questo modo Tarulpho scampò la mala ventura per esser guerzo, zopo e gobo. Nui adon-que diremo, nobile zovene, che l’esserme tolte le taze a Bologna, e per la via de Fuligno il cavalo, sia per lo meglio, come in ogni sua adversità Tarulpho dicea.
Ardendo i cieli e gli elementi insieme,
sentino il gran furor de Iove irato,
regnano Marte e Orione armato
de ira e desdegno, el nostro clima oppreme.
Non è chi spieri, ma chi langue e geme
di tale iniquo et infelice stato,
e questo advien che ’l publico privato
deventa, e di virtù si perde il seme.
Caro Veronese mio, morendo io spero
a’ tempi nostri anchor veder Phetunte
fulminato cader nel fiume Hespero,
Ilcharo harai le tue pene disgonte
e sarai per volar più ch’altri altiero
in mar non pur ma merso in Acheronte.
Testo 2a, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 91r-92v:
Feliciano Antiquario al nobel giovene Dominico Morosino.
Comun proverbio è che le cose adverse che sono destinate dal celo, el più dele volte per lo melio intervengano a noi mortali, benché sono molti che il contrario dicono. Come quel ladro el quale, nel suo tempo, di notte havea furato formento e conduto ale forche era confortato che se disponesse a patientia, dicendoli che forse questo per salute del’ anima sua per lo melio gli era advenuto. A cui il ladro rispose che non era il vero, ma che era per formento furato, e non per lo melio, come essi dicevano. Sì che in costui falisse il proverbio. Unde, generoso Dominico, essendomi in questi giorni incontrata una adversità, dicono molti che questo è per lo melio. Questo februaro preterito, intrando in Bologna mi foron tolte alcune taze d’arzento, dicendo che io non havea contralittera dala gabella e erano di valuta più de XL.ta fiorini d’oro. E foron molti di mei amici, vedendomi suspirare e lachrimare, diseron che io supportasse questa fortuna cum patientia, che Idio havea lassata correr questa per il melio, che non mi essendo tolte queste taze, mi era necessario portarle al signor di quelle fin a Roma, e saria stato a pericolo nela strata esser per quelle robato e morto, le qual taze mi bisognarà cum tempo pagarle. Un’altra volta da poi, venendo da Fuligno a Roma mi fu levato el cavalo, che non era mio, per lo insulto de alcuni barri e ladri de strata. E dissemi li amici mei, ch’io volesse piliar questa fortuna per il melio, assignandomi che forsi, per disaventura, saria cascato in uno fosso il cavalo, e chi sa, forsi in un fiume, e mi saria negato e submerso. Di che sono ambiguo a creder che questo mi possa esser advenuto per lo melio. Ma per fortificar la opinione de coloro che dicono questo esserme per lo melio advenuto, dico che legendo nele historie del re Lanzilago, quando lassò la Sicilia, esso havea uno suo camerero assai sfortunato e molto patiente ali insulti dela fortuna, il quale se chiamava Tharulpho. Unde, una matina cavalcando per lo reame presso de Nola sopra un ponte, temendo il cavalo d’una rota che voltava un molino, per la qual prese tanto spavento, che rotto per forza le cinge, redine e pectorali, zitò Tarulpho nel fiume, il quale non fu prima fuora di sella, che percosse sopra d’un palo fitto nel’aqua cum una gamba, el quale si rupe, e tratto ala ripa fu medicato da uno ignorante chyrurgico, in modo che sempre se dolse, e per tuta la sua vita andò zopo e nele sue adversitate diceva esserli questo per lo melio advenuto. Né dopuoi doi anni passaron, che essendo in una silva ala caza d’un salvatico porco, si mosse una fronde acuta e trasseli dal capo l’ochio sinistro, et anche questo per lo melio esserli advenuto affirmava. Et dil mese di setembre, ritrovandose in una vigna, ove cum uno suo sparaviero transtulava ale qualie, e gitandolo ad una qualia e non potendola havere, prese il suo volo sopra d’un arbore, et ali rami di quello incapestrato rimase suspeso. Tarulpho, essendo senza familio, montò sopra l’ arbore e essendo nel culmo, pose il piede sopra de un sicco tronco, e rompendosi insieme cum quello revenne a terra e percotendo sopra d’un saxo si rupe una spalla, e male amedicato sempre gobo, zoppo e guerzo rimase. Et questa ultima volta più che mai esserli per lo melio advenuto diceva. Morto re Lancilago li fu forza abandonar quelle contrade, essendo il regno in man de suoi inimici venuto. E volto quel camino in Manphredonia, fue da pyrati preso et in uno belinzero condutto, cargo di preda. E date le vele al vento, gionsero in Cypri ove fu venduto ad uno moro che se chiamava Thalasio, e tenelo in suo paese guardiano de suoi camelli circa cinque anni, et questa fortuna anche per lo melio diceva che gli era advenuta. Et cognossuta da alchun moro la virtù de Tarulpho, furtivamente il condusse in una citade chiamata Labriche, ove uno potente signore demorava, il quale Tarulpho, havendo in quello idioma la sua lingua domestica, li fu assai facil cosa venir in gratia de quel signore, e per le sue virtute ogni giorno nela dilectione dil re accresceva, in tanto che tutto il populo lo reputava secundo signore. Costume antiquo era in quelle contrate, quando per morte mancava il signore, quella medesima hora de decapitare il più dilecto servitore che ’l signore havuto havesse, aciò che nel altro seculo il morto re havesse compagno che ’l ministrasse. Unde tocata a Tarulfo la sorte, montò Tarulpho sopra de un bancho in arengo cum la sua eloquentia disse che lui era promptissimo per morte seguir el signore per ogni regione ove ne andasse, ma che dovesseno saviamente considerare il fine de questo, perchè essendo nel altro seculo, molti potenti signori e baroni e parenti del morto signore e deli altri assai che lo conosceno, extima che li saria grandissima vergogna haver per compagno uno che sia guerzo, gobo e zopo como lui era, e tanto bene depinse il suo sermone, che fu revocata la prima sententia, e servato Tharulfo e fo dato quello honore e guadagno ad uno altro di suoi servitori chiamato Zabocho. Et in questo modo Tarulpho scampò la mala ventura per esser guerzo, zopo, gobo. Noi adon-que diremo, nobile zovene, che l’essermi tolte le taze a Bologna, e per la via de Fuligno el cavalo, sia sta[to] per lo melio, come in ogni sua adversità Tarulpho diceva.
Ardendo i cieli e gli elementi insieme,
senteno el gran furore de Iove irato,
regnano Marte e Orione armato
de ira e disdegno, il nostro clima opprime.
Non è che spieri, ma chi langue e geme
di tale iniquo e infelice stato,
e questo advien che ’l publico privato
deventa, e di virtù si perde il seme.
Caro Veroneso mio, morendo io spero
a’ tempi nostri anchor veder Phetonte
fulminato cader nel fiume Hespero,
Ilcaro harai le tue penne disgonte,
e sarai per volar più ch’altri altero
in mar non pur ma merso in Acheronte.
Testo 3, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 70v-71v:
Humanitatis exemplo domino Reinaldo Bregoncio equiti claris-simo et compatri optimo.
A questi dì, in villa ritrovandomi per veder alchuni polledri quali erano ale campagne, mi convene adaptare alcuna pace tra il prete di quella villa et mio cavalaro, al quale ho lassata la custodia del mio iumento, et perchè la cossa è molto ridicula non posso rimanermi de scriverla a voi. Doveti sapere che don Andreuzo dela Puglia fue posto a Monte Morello a governar l’anime di quelli contadini già sono quatro anni passati, et per sua bona ventura se inamorò dela Philippa, moliere de Fracalosso mio cavalaro, e si prosuma che pur l’habia cinto el basto.26 Hora, advene che Fraca-losso havendo fatta una soma de pomi per portar al mercato al castello de Sancto Firmano, fece moto ala Philippa volerse partire nella hora de mezanotte, la quale li aparechiò uno carneruzo cum uno fazoleto e doi pani, cum uno pezo di caso e dietelo a Fracalosso, il quale il posse, non sapendo la Philippa, sotto il capizale dil matarazo. Et andando per adventura la Philippa ala fonte per aqua, ritrovò il prete che mundava nell’aqua la salatuza, e salutatosi insieme adimandò il prete che fusse di Fracalosso, a cui la Philippa disse esserni bene, et come nella mezanotte se partiva cum l’asino cum una soma de pomi per andar a Sancto Firmano al mercato. Et il prete l’hebbe a pregare che la fusse contenta che lui andasse, partito el marito, a lei e che lo haviva tanto cargo el balestro che stava a pericolo de romper la noce.27 Ale qual parole un pocho ne rise la Philippa e disse: «Se Fracolosso se parte, noi lo scargaremo e lo cargaremo più volte». Di che il prete, tirandosi del fondo dil petto un grande suspiro, disse: «Laudato ne sia Dio e la vostra gratia». E prima che dala fonte se partisero, si bassarono più volte, non senza caldo sudore del’uno e del’altro. Venuto la notte, Fracalosso si coricha cum la sua Philippa, la quale disse che il capo gli dolea per negar al marito il solito piacere, e per servar quelle fatiche al prete, il quale, a non mentire, gli dava più fermi colpi ala taglia.28 E gionta l’ora dela mezanotte, Fracalosso carga il suo asino e, senza ricordarsi dil carneruzo, prese una sua maza in collo, se ne parte. Il prete, che quella notte non volsi dormire per veder la partita de Fracalosso, subito intra per l’usso dov’è l’orto col forno, e pian piano facendosi lume cum le mane, andosene ala Filippa che lo aspetava a culo scoperto per meglio potere scaricare la balestra. E subito tratose le brache, ale quale haveva un picolo borsello cum cinque fiorini d’oro atacato, le pose sotto el preditto capizale, e parendoli cento anni de coricarsi presso la Philippa, si pose in letto nudo e pigliatola a mezo la cropa la strinse forte, basandola dolcemente e cum molti gemiti e suspiri per una volta scaricono el balestro, et poi rimase cossì insieme ligati, parlavano del suo amore. Et non essendo Fracalosso anchor dela villa lun-tano d’un miglio, se aricordò haver lassato el carnerolo al capizale del letto, il quale subito voltato l’asino tornossene indreto, et intrato in casa posse la mano al capizale del letto e tolse le brache dil prete [lacuna] el carnuzo dicendo: «Cossì incontra a chi non ha memoria!». La Philippa ricoprendo il prete, levossi nel letto a sedere e disse: «Vo’ tu che te accendi el lume?» El qual disse non voler altro, e partisse de subito. In quel ponto se strinse cossì forte el serame dil prete che dubito in quello anno non poterlo aprire, et disse: «Crede’ tu, Philippa, che più l’habi a ritornare costui?» Lei rispose che non tornaria per fino ala cena, e riserata la porta cum la stanga ritornossene a lecto. Il prete, presi la mane al capizale per ritrovar le brache e non le trova, accendossi el lume e rivoltano tuto il letto et comprese che Fracalosso l’havesse tolte insieme col carnerolo, a cui il prete rimase molto dolente, attento che gli fosse el borsello cum cinque fiorini. Anche molto li dolea del pericolo dela Philippa, la quale, cum subito consiglio, ritrovò una sua fide-lissima comare, cum la quale havia sempre fatto de simel brigate inseme, e detili uno cisto di pomi, e poseli al culo uno paro de brache cum alchuni pochi dinari e dixe: «Andate, comadre, cum questi pomi, e ponetivi a sedere apresso di Fracalosso vendendo li pomi, e li dinari che ritrareti poniteli in questo bursello che sta atacato ale brache, et fate che Fracalosso ogni volta vi veda, et nel partire veniti cum lui, e qualche volta poneti mano al borsello e pagatili el vino. Son certo che lui prenderà admiratione che voi portate le brache. E voi direti: «Cossì se chostuma in tutte le femine, agiongendo como anche mi le porto, anci, direti sapere come io ho tachato ale mie brache cinque fiorini d’oro, ancora non sono dieci giorni che io scosso d’alcune femine dela villa, per fare alcuna opera devotissima in laude de Dio». E come la Filippa disse cossì fece, et venduti li pomi se ritornarono a casa cum Fracal-losso, il quale per le parolle dela donna fue tracto di gran suspecto, et vixeno molto contento per questo modo. Magnifico Compatre, se inganeno li homini, li quali hano le sue mogliere malvase. Et havedomi il prete scoperto lo ingano e adimandato per mercede, perchè il male più oltra non vadi, li feci restituire li dinari salvo che cinque lire, li quali fece spendere in uno asino galiardo e giovene, et fecelo poi dare como roba dil prete in custodia a Fracalosso, che li facesse le spese e lo affaticasse, sapendo io che ’l suo era per molta fatica roto e dilumbato. Et per questo modo il prete hebbe dapuoi iusta casone di andare spesso a vedere il suo asino. Poteti vedere che io non ho in tutto, standomi in villa, el tempo mal speso, havendo questa pietosa opera conducta a bon fine.
Testo 4, Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14 cc. 88v-89r:
Feliciano Antiquario raconta al sp[ectabile] homo Francisco Porcario una ventura che gli è incontrata novamente.
Non è meglio al homo che cade nell’aqua, se lui pò ussire non aspetar barcha né ponte, perchè ogni dimora alcuna volta è nociva. Cavalcando il mese passato, solo, per una silva per andar a Fuligno, e smontato in uno picolo chapanello ove si vendeva vino, atrovai in quel locho tre compagni che erano vestiti in habito longo di color negro e mi disseron: «Gentil homo, diceti se voi haveresti ritrovato per via un frate de S. Francisco a piedi cum una sacheta in collo». Ali quali respose non haverlo trovato, e questi me disseron che ’l frate era fugito del ordine, e portavasi via furtivamente una corona d’oro cum quatro balassi, la qual costò ala confraternita de Fuligno fiorini 150 e haveane fatto per voto ala figura dela Verzine Maria nela chiesia Mazore, perchè fosse mediatrice a pregar il Suo Figliolo Clementissimo, ché liberasse quella cità da peste, et al presente son anni cinque che cum la gratia de Dio e di Essa, Beatissima Madre, non ci è di quel male perita persona. E po’ che hebe beuto, disse uno di valenti homini, il quale doppo intese se chiamava Carnesicca, se io li voleria vendere il mio ron-cino, ché me lo pagaria, e aperse la mano e monstromi circa fiorini XXX et disseme: «Piliati quelli che voi volete». Al quale rispose: «Missere, io vi ringratio dela vostra larga proferta, el cavalo non è mio, ché me l’ha prestato Monsignor da Sermona, il quale, venendo da Marema de Siena, firmandosi sopra dil lago de Montebarato, [lacuna] ditto roncino cum uno suo mulo cum l’hoste de Bolsena, e bisognami in termine de nove giorni darli il cavalo». Dissemi poi il valente homo: «Qual via fareti voi per giongere al fiume?» Io dissi: «Quella da man manca, per evitar le aque che era sparte dal fiume». Lui me pregò, se io vedesse il frate, che io intrasse cum qualche parola in sermone cum lui, e che io dicessi haver veduta frustar una femina ala piaza de Fuligno, e se ’l dimanda per qual casone, direti perchè lei ha dato il modo ad uno frate a fuzer di presone, il quale se dice habia furato una corona d’oro dela chiesa Mazore — e se io29 li dicesse simel parole non era dubio ch’el frate tornaria ocultamente a Foligno per parlare a questa femina e condurla seco, essendone il frate di costei grandemente occupato — et se ’l se maraveliasse dela andata vostra, che par esser verso Fuligno, direti havervi domenticato due lettere che importavano molto. Questo è quanto per cortesia da voi voliamo». Al quale rispose di farlo di bona volia, e tolta licentia mi partete da loro, tropo ben conoscendo che li erano inganatori e maistri da truffe, e dove da mano manca li promisi andare, andai dala dritta verso di San Gemignano. Havendo prima cavalcato dua milia prima che al fiume giongesse, ritrovai il frate sotto de un sovero che piangea et dimandandome elemosina, di che oltra passai senza far moto. Il giorno sequente gionsi a Fulegno, ove ritrovai messer Iacobo Valeriano commissario dil Papa, il quale è gran tempo che io li son domestico, e fornito il mio bisogno, ritornai a Roma, piliando la strata del monte verso di Narni, per voler evitar la campagna ove li tre mercadanti trovai. Et dilongato da Foligno milia XXX, il giorno sequente attrovai quatro compagni cum uno ragazo, posti sopra una colina de un monte, che ad una sella un stalll rotto aconzavano et uno al suo cavalo teneva. Et fra costoro non vidi alcuno di primi compagni dela campagna, e gionti sopra di loro li salutai. Et uno se firmò nel mezo dela strata, et dissemi: «Amico, siate el benvenuto! Idio vi ha mandato qui, voletimi voi portar a Roma questa mia lettera al Prothonotario De Mirabali». Al quale rispose che volenteri, e costui mi prese dela brilia el cavalo e guardoli le gambe e l’ochio e disse: «Al corpo mio se voi venisti da Bolsena, diria che questo cavalo fosse mio, ché già sono più mesi che lo lassai al hoste dela stella [sic] in pegno per doi fiorini! Et donde venite voi?» Et io dissi nel mio animo: «Aiuteme Dio!» e poi respose: «Io vengo da Fuligno, et sum mandato dal conte Hieronymo per fatti del Papa. El cavalo non è vostro, voi seti in errore». E fece venire coloro che aptavano el stallle, e disse: «Non vi pare questo il mio cavalo, che lassai a Bolsena?» sì bene che gli è desso risposeno insieme, et io guardando d’intorno mai vidi persona che venisse, e fecime smontar a mal mio grado. E volemo d acordo andar ala rasone,30 dicendo loro che me provariano che ’l cavalo era il suo, et io li voleva provar il contrario. E caminando verso un picol castello, mi adomandono securtade de XV fiorini a provar la mia rasone, e che me lassariano el cavalo. E non essendo conossuto in quello loco, fu commissa la causa ad uno prete. E passata poca hora veneron li tre mercadanti del capanello e disseron: «Que fate voi qua, homo da bene? Voleti voi vendere il vostro cavalo?» Rispondendo colui: «Non dite il suo cavalo, che ’l è il mio e farne la prova, come il lassai a Bolsena in mane de un hoste». Rispose Carnesicha: «Cossì mi disse il bon homo nela silva Tignola.» E quivi, referite al prete tute le mie parole che za dissi a coloro, per la qual cosa iudicò el prete che ’l cavallo remanesse a costui, né mi valse il pregar il prete, ché in depositione tenesse el cavalo fino che da Roma tornasse. Et a far poche parole per non aver pregio, tolse le mie bolzie31 in spalla e tornami a Roma a piedi, havendomi costoro prima più volte ditto ribaldo e ladro. Et perchè a proposito mio fassi la novella dil’abbate di Monte Morello, parsemi per milior partito lassarli solo il cavalo, che insieme con quello el mantello, el vestuto, le bolzie e stivali. L’abbate di Monte Morello, perchè la storia intendi, cavalcando cum quatro cavali verso Viterbo, ritrovò nela silva de Bacano più ladri, li quali spoliavano ogni persona. E prese le brilie di cavali de misser lo abbate e lo miseno a piedi cum doi preti et uno suo zago32 de anni XV, orse colui che riscaldava l’ abbate nel letto, al tempo del verno. E dopo molte iniuriose minaze haute de ladri, disse lo abbate: «Io mi appello a Dio di questo torto che tu me fai et prego la sua iusticia che te ne pagi». Al quale i ladri resposeno: «Idio al presente ha altro che fare!» Disse lo abbate: «S’el ha altro che fare, non fugirai tu che nela valle de Iosaphat, quando se renderà rason de ogni iniusticia, tu non pag[h]i questo e ogni altro tuoi debiti». E ritornando indredo li ladri alcuni passi, disseron: «Poichè voi mi fate cossì longo termine al pagare, io volio che tu mi dia in credenza li toi vestimenti, bolzie e valise, cum quelli di toi compagni e puoi ad uno tempo pagaremo ogni cosa!» Et toltoli de molte fiorini et ogni vestuto, rimase al vento et ala pioza l’abbate e i doi monaci e lo suo zago in zupone. Concludendo dico adonca, generoso Francisco, che melio mi fu a lassar ali boni mercadanti el cavalo perso cum rasone per la prova del Carnesicca, che azonzere al male il pegio e fossi rimaso come fece l’ abbate in zupone.33
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1 Cfr. Giovanni Sabadino degli Arienti, Due episodi della vita di Felice Feliciano: ovvero, la terza e decimaquarta novella da Le porretane di Sabadino degli Arienti: saggio di un nuovo carattere detto Griffo, Verona, Officina Bodoni, 1939.
2 Giovanni Pozzi e Giulia Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano, in «Storia della cultura veneta», dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, vol. 3, tomo I, a cura di Girolamo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 459-77. La nota a cui mi riferisco è la ventottesima, p. 465. Né questa è la prima volta che una scarna annotazione della studiosa si rivela una fonte preziosa per successivi approfondimenti, come nel caso di Jacopo Zaccaria e del “suo” Inscriptionum Libellus. Al riguardo si veda Alessandra Mulas, L’Inscriptionum Libellus di Jacopo Zaccaria e l’umanesimo romano, in «Albertiana» VIII, 2006, in corso di stampa.
3 Leonardo Quaquarelli, Felice Feliciano nel suo epistolario, in L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese: Tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, Atti del Convegno di Studi, Verona, 3-4 giugno 1993, a cura di Agostino Contò e Leonardo Quaquarelli, Padova, Antenore, 1995.
4 Sabadino degli Arienti, Le Porretane, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno editrice, 1981.
5 Cfr. Letterio Di Francia, Novellistica (Storia dei Generi Letterari Italiani), vol. I, Milano, Vallardi, 1924, pp. 488-93.
6 Basile, Introduzione, in degli Arienti, Le Porretane, pp. IX-LII.
7 Questa compresenza di registri, intendo quello aulico, raffinato, “classicista” e quello sensuale, goliardico, carnascialesco, mi sembra essere una delle costanti del XV secolo. Tuttavia molte delle sintesi e degli studi relativi a questo complesso secolo (penso soprattutto al lavoro di Contini) sembrano apporre un veto, se non una censura, a questa dualità, solo apparentemente ossimorica; mi sembra, insomma, che ci sia una sorta di imbarazzo nel trattare i temi di più esplicita sensualità, che porta, in molti casi, a escludere dagli studi opere rappresentative di questo sentire.
8 Cfr. Di Francia, Novellistica cit., pp. 488-93, 458, 455.
9 Cfr. Di Francia, Novellistica cit., p. 458.
10 Cfr. Di Francia, Novellistica cit., p. 491.
11 Cfr. Il prosimetro nella letteratura italiana, a cura di Andrea Comboni e Alessandra Di Ricco, Dipartimento di Scienze filologiche e storiche dell’Università di Trento, Trento, 2000 e in particolar modo Lucia Battaglia Ricci, Tendenze prosimetriche nella letteratura del Trecento, pp. 57-96.
12 Gli epistolari del Feliciano sono quattro, di cui i primi tre autografi: Verona, Biblioteca Civica, Ms 3039, Londra, British Library, Harley 5271, Oxford, Bodleian Library, Canoniciano italiano 15, Brescia, Biblioteca Querinina, C. II. 14.
13 Le «Carte messaggere»: Retorica e modelli di comunicazione epsitolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni editore 1981; Metodologia ecdotica dei carteggi, Atti del Covegno Internazionale di Studi, Roma, 23, 24, 25 ottobre 1980, a cura di Elio d’Auria, Firenze Le Monnier, 1989; Alla lettera: Teorie e pratiche epistolari dai greci al Novecento, a cura di Adriana Chemello, Milano, Guerini Studio, 1998; Maria Luisa Doglio, L’arte delle lettere: Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000.
14 degli Arienti, Le Porretane, p. 334 e Di Francia, Novellistica cit., pp. 455 e 490.
15 degli Arienti, Le Porretane, iii. La quinta essenza è la parte più pura delle sostanze, ottenuta attraverso cinque distillazioni, cfr. degli Arienti, Le Porretane, p. 28.
16 Crogioli: strumenti tipici delle pratiche alchemiche. Cfr. degli Arienti, Le Porretane, p. 112.
17 degli Arienti, Le Porretane, xiv.
18 Brescia, Biblioteca Civica, Ms C. II. 14, c. 7r.
19 Mi riferisco, prescindendo dalle notazioni sparse, alle lettere del 31 gennaio 1506 e del 24 febbraio 1508 in Carolyn James, The letters of Giovanni Sabadino degli Arienti (1481-1501), Leo S. Olschki editore, The University of Western Australia, Firenze-Perth, 2002, pp. 236-37 e 255-56.
20 Ricavo la complessa analisi da Basile, Nota al testo, in degli Arienti, Le Porretane, pp. 591-626. La nota contiene la descrizione dell’autografo e della princeps delle Porretane.
21 Forse connesso a baccalare: stalliere, grazone del vetturino (abituato a lavorare in movimento e forse di corsa) e anche mensola sporgente dallo scafo delle galere, la cui estremità reggeva due travi sui quali erano disposti gli scalmi per i remi (in questo caso si evocherebbe l’immagine della velocità connessa alla navigazione. Il termine, d’ambito navale e marinaresco richiamerebbe il belinzero, di cui alla nota 5, testimoniando una certa conoscenza dei termini marinareschi che il soggiorno veneziano del Feliciano potrebbe agevolmente giustificare.) Il termine, nella forma baccalarazzo, è attestato anche nell’Arienti. Cfr. Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, vol. I e Max Pfister, LEI (Lessico Etimologico Italiano), Reichert Verlag, Wiesbaden, vol. IV, col. 125-126. Desidero ringraziare il prof. Matteo Motolese per i preziosi suggerimenti con cui ha indirizzato queste brevi ricerche linguistiche.
22 Meglio-miglio-melio: l’oscillazione fra forme concorrenti è uno dei tratti salienti dell’epistolario, che, per altro, risulta poco curato sul piano formale e su quello grafico. Dall’analisi testuale si deduce che l’anonimo copista, dotato di una modesta cultura, apparteneva all’area settentrionale, non ulteriormente circoscrivibile.
23 Barro (Baro): nel senso di truffatore, imbroglione. La forma ipercorretta o dialettale barro risulta attestata anche in Arienti, cfr. Pfister, LEI cit., vol. IV, col. 1402 e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. VII.
24 Incapistrato (Incapestrato): legato col capestro, tenuto al laccio. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol.VII.
25 Belinzero (Belingiére): (attestato nel XV sec. in area veneziana) nave veliera attrezzata per catturare balene, ma anche imbarcazione a remi lunga e sottile, impiegata dalle baleniere a vela per la cattura e l’inseguimento dei cetacaei. Cfr. Dizionario d marina medievale e moderno, Reale Accademia d’Italia, Roma, 1937. Consultando il LEI cit., vol. IV col. 789 e 791, si ottiene un utilizzo del termine ancora più aderente «navire rapide, à l’usage des corsaires et souvent employé comme bâtiment léger dans les flottes du 13eau 16e siècles».
26 Cinto el basto (Porre il basto): sellare il cavallo, e, per estensione, domarlo, in questo caso nel senso di possedere sessualmente. Cfr. Valter Boggione, Giovanni Casalegno, Dizionario Letterario Amoroso: Metafore, eufemismi, trivialismi, Torino, Utet, 2000.
27 Noce (Noce): con riferimento tanto all’organo sessuale maschile nel suo insieme, quanto ai soli testicoli, soluzione che in questo caso mi sembra da preferire. Cfr. Dizionario Letterario Amoroso cit.
28 Taglia (Taglio): organo sessuale femminile, cfr. Dizionario Letterario Amoroso cit.
29 Improvviso passaggio alla prima persona singolare, in contrasto con il discorso diretto svolto sin qui in terza persona singolare.
30 Andar ala rasone (Andare alla ragione): rivolegersi o presentarsi all’autorità giudiziaria per denunciare un reato o per discolparsi. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XV.
31 Bolzie (Bolgia): borsa, bisaccia, tasca di stoffa o di cuoio, valigia. Cfr. Pfister, LEI cit., vol. VIII col. 266 e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. II.
32 Zago (Zago): diacono, chierico. Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XXI.
33 Zupone (Zupone-Cipone): giubbone, tradizionale sopravveste maschile quattrocentesca. Cfr. degli Arienti, Le Porretane, p. 39e Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana cit., vol. XXI.