Revue Italique

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Le « gioconde favole » e il « numeroso concento ». Alessandro Piccolomini interprete e imitatore di orazio nei cento sonetti (1549)

Eugenio Refini

Questo lavoro si inserisce in una più ampia ricerca in corso su Alessandro Piccolomini; l’approfondimento sulla produzione lirica del senese prende le mosse da un soggiorno di studio presso l’Università di Ginevra e, soprattutto, dalla partecipazione al seminario di ricerca La lirica italiana del ’joo prima e dopo Bembo tenuto dal Prof. Massimo Danzi nell’a.a. 2005-06, che mi ha incoraggiato allo studio di Piccolomini poeta lirico. A lui devo un ringraziamento sincero per la disponibilità e cortesia con cui mi ha offerto numerosi suggerimenti e indicazioni preziose che segnalerò all’occorrenza. Ringrazio anche i Proff. Lina Bolzoni e Alberto Casadei che, una volta rientrato a Pisa, mi hanno seguito nella prosecuzione della ricerca; il Prof. Michel Jeanneret per la gentilezza con cui mi ha aperto le porte della Fondation Barbier-Mueller pour l’étude de la poésie italienne de la Renaissance.

I Cento sonetti del senese Alessandro Piccolomini (1508-1578) rientrano nel novero delle raccolte liriche cinquecentesche che, sostanzialmente neglette dalla critica, meritano — e necessitano — di essere riscoperte nell’ottica di una progressiva messa a fuoco del petrarchismo come fenomeno ben più variegato di quanto la vulgata tenda a raffigurarlo. Contributi recenti e numerose edizioni di canzonieri cinquecenteschi permettono oggi di riflettere criticamente sul fenomeno letterario più vistoso del Rinascimento neitermini di una ricca pluralità1 : l’indagine sulla raccolta piccolominiana dovrebbe offrire, a mio avviso, elementi importanti in tale direzione, evidenziando aspetti di un’ esperienza poetica caratterizzata da profonda consapevolezza teorica e dalla volontà di instaurare un rapporto con la tradizione che travalica i confini del rigorismo bembiano. Il petrarchismo codificato dalle Prose e dalla Rime di Bembo resta sì la matrice della lirica di Piccolomini, ma, come cercherò di mostrare, funzionale ad un’apertura verso altri modelli e, soprattutto, al recupero della tradizione classica.

Il canzoniere di Piccolomini, edito a Roma nel 1549, presenta numerosi aspetti d interesse, solo sporadicamente additati dalla critica2: scopo di questo lavoro è illustrare dapprima i caratteri fondamentali dei Cento sonetti (1), offrire poi una lettura dell’epistola prefatoria a Vittoria Colonna iuniore, nipote dell’ omonima poetessa, testo di grande importanza sul piano teorico e della codificazione del genere (2). Proporrò infine, dopo alcune considerazioni generali sulle ascendenze oraziane di Piccolomini (3), l’analisi di alcuni sonetti volta ad individuare il ruolo fondamentale che il modello di Orazio assume nel concreto dell’ esperienza lirica piccolominiana, con uno sguardo all’attività esegetica del letterato che può spesso illuminare aspetti della sua produzione poetica (3 e 5).

  

1. Occorre prima di tutto rilevare come la produzione lirica di Piccolomini non si esaurisca nella raccolta romana: mancando un’edizione moderna delle rime piccolominiane, siamo sprovvisti di un censimento completo della produzione lirica dell’umanista, ma i dati che ho potuto raccogliere fino ad ora permettono di individuare almeno una trentina di suoi componimenti stravaganti3. Basti, per il momento, ricordare la partecipazione di Piccolomini ad imprese editoriali di primaria importanza nel panorama cinquecentesco, come il Tempio alla divina signora Giovanna d’Aragona curato da Ruscelli (1554), e le successive Imagini del Tempio della signora Donna Giovanna Aragona del Betussi (1556).4 Se le raccolte che celebrano Giovanna d’Aragonasono posteriori ai Cento sonetti, è pur vero che la fama di Piccolomini poeta dovette diffondersi già prima della pubblicazione del suo canzoniere: vari suoi componimenti, non tutti confluiti nella raccolta maggiore, comparivano infatti già nelle antologie giolitine degli anni ’40.5La prima prova poetica di Piccolomini giunta fino a noi sembrerebbe però essere il madrigale O misero Stordito, o donne ingrate compreso nel Sacrificio, rappresentazione allegorica degli Accademici Intronati (dei quali Piccolominifaceva parte) messa in scena a Siena nell’Epifania del 15316. Accanto ad altre sporadiche apparizioni a stampa, ci sono poi i componimenti manoscritti7: aronte di vari testi sparsi in codici senesi e non solo, vale qui la pena di ricordare almeno la corrispondenza poetica tra Piccolomini e varie nobildonne senesi sul pellegrinaggio del poeta ad Arquà8. L’omaggio al sepolcro di Petrarca, coinvolge anche Benedetto Varchi, Emanuele Grimaldi e Leone Orsini, attestando una fitta rete di legami che Piccolomini intesse con gli esponenti della cultura di metà Cinquecento e che emerge in modo ancor più evidente proprio nei Cento sonetti: l’elenco dei destinatari delle liriche piccolominiane comprende Anni-bal Caro, Luigi Tansillo, Romulo Amaseo, Marcantonio Flaminio, Luca Gaurico, Jacopo Bonfadio, Hernando e Diego Hurtado de Mendoza, e su quest’aspetto sarebbe necessario tornare per un’indagine più approfondita degli ambienti culturali in cui Piccolomini si muove.

La varietà dei destinatari si sposa, nei Cento sonetti, con una straordinaria varietà di tematiche, aspetto fra ipiù significativi della raccolta e già esplicitato — come vedremo — nell’epistola prefatoria. Se si eccettuano i sonetti 1, 2, 51 e 100, che assumono un valore importante sul piano della struttura, la raccolta piccolominiana non persegue un filo unitario e, tantomeno, un intento narrativo. È tuttavia possibile individuare nuclei tematici intorno ai quali si addensano gruppi più o meno numerosi di sonetti. Puntualmente iscritti nei canoni del petrarchismo sono i testi che elogiano figure femminili: apre la serie il sonetto 3 a Vittoria Colonna che, in quanto dedicataria dell’intero volume, ha l’onore di essere il soggetto del primo componimento dopo il dittico liminare costituito dai sonetti 1 e 2; seguono i sonetti 7 (Portia Pecci), 9  (Honorata Tancredi), 17 (Giulia Gonzaga), 80 (Isifile Toscana). Di matrice chiaramente petrarchesca anche i componimenti alla «sua donna»: la serie si apre con il sonetto 19 (Nel giorno che prima vidde la sua Donna e ricevé favor d’una collanetta al braccio) per proseguire con i sonetti 43 (Quando l’Autore s’innamorò la seconda volta), 44, 46 (sull’immagine della donna scolpita nel cuore), 48 (De la perseveranza de l’Amor suo), 67 (In Bologna, in lontananza de la sua Donna), 77 (Nel ritorno suo di Roma a Siena, a la sua Donna), 78 (Nel ritorno de la sua Donna da la Villa), 91 (Sopra un sogno fatto da l’Autore essendo infermo nel mese d’agosto in Roma), 92 (In Padova, in lontananza de la sua Donna), 93 (sulla schiavitù d’amore cui il poeta è sottoposto da lungo tempo). Vari sono poi i sonetti amorosi che mettono in scena la situatone topica della donna ingrata che non corrisponde all’amore del poeta:10 (Ad una Donna nobile, la quale ad ogni hora si specchia), 30 (Ad una Donna inconstante, e pergiura e senza fede alcuna), 62 (Ad una Donna molto crudele), 66 (Sopra d’un favor fatto da una Donna stringendo la mano), 75 (Ad una gentildonna ingrata e superba). Di tema amoroso, ma iscritto in una traditone più propriamente spensierata e burlesca, il sonetto 23, in cui il poeta celebra le gioie degli amori facili e non troppo impegnativi.

Spiccatamente oraziani sono i sonetti rinconducibili all’archetipo del carpe diem (4, 15, 72, 84, 88) e quelli sull’elogio della vita in villa e dell’otium letterario (11, 14, 16, 22, 57, 98).9 Affini a questa tipologia, ma al tempo stesso ben individuabili come ‘serie’, i testi satirico-polemici: da quelli contro l’irrequietezza fine a se stessa (20, 68), a quelli contro l’avarila (26, 27, 55, 61, 70), la pigrizia (65) e l’ambizione (90, 99). L’indole satirico-polemica di Piccolomini emerge anche in testi che stigmatizzano piaghe della società coeva: vari sonetti chiamano in causa la crisi socio-politica della Repubblica di Siena e i suoi endemici conflitti interni (6, 21, 47, 94); la decadenza dei mores, soprattutto in ambito romano, è evocata invece nei sonetti 8 (De la corrotta vita de la nostra etade), 56 (Sopra l’ambition de la Corte di Roma), 74 (Sopra la malvagità e corrotti costumi del secol nostro)10.

Lo sguardo critico sulla Roma tridentina rivela un Piccolomini sensibile a quegli stessi problemi che occupavano uomini di chiesa e intellettuali vicini a istante riformate, e in tale prospettiva assumono un certo rilievo i sonetti ‘spirituali’ che si inseriscono a pieno sulla scia delle Rime spirituali di Vittoria Colonna (24, 25, 31, 71 - ma nella serie potrebbe rientrare anche il 33 AMesser Annibal Caro nel modo di lar priegni a Dio)11. La storia contemporanea, del resto, entra nei Cento sonetti tanto a scopo celebrativo (è il caso del sonetto 45, Per la vittoria contra Langravio l’Anno del xlvi nel qual tempo, morto il re di Francia, fu coronato il nuovo Re), quanto per mettere a fuoco momenti significativi di metà Cinquecento che ebbero un peso rilevante nell’assetto dato all’Europa nell’età di Carlo V (si vedano i sonetti 49, Sopra ’1 concilio e 64, L’anno del XLVIII ne i pericoli de la guerra in Italia ch’alhor pendevano).12

Accanto ad alcuni sonetti d’occasione (5, 13, 32, 37, 86, 89)13che, al di là di formule retoriche talvolta stereotipe, permettono di inquadrare i rapporti di Piccolomini con esponenti della società e della cultura italiane di metà secolo, si pongono testi che dibattono su temi all’ordine del giorno nel Cinquecento maturo come l’astrologia (12, 96) e lo studio delle «scientie» (40, 41).14Una loro specificità hanno poi i sonetti di corrispondenza poetica (29, 53, 79, 83),risposte a testi inviati a Piccolomini da altri poeti (Luigi Tansillo, Ferrante Carafa, Benedetto Varchi e Emanuele Grimaldi) e pubblicati in appendice alla raccolta. Legati agli interessi pedagogico-formativi di Piccolomini, anche autore di un trattato sulla formazione dell’Uomonobile nato in città libera (più tardi Institution morale), sono invece i sonetti 42, 73e 81che affrontano il tema dei valori familiari e del rapporto padri-figli. Veri e propri divertissements meta-letterari sono infine tre sonetti che, giocando sul cortocircuito tra la fictio letteraria e il suo effetto performativo, rievocano i fasti dei romanzi di cavalleria (38, 39, 97).15

I Cento sonetti comprendono dunque componimenti anche molto diversi tra loro, e la rassegna schematica che se ne è proposta mira esclusivamente a tracciarne le coordinate essenziali. Molti testi, infatti, potrebbero essere classificati come appartenenti a serie diverse, e solo un’attenta contestualizzazione all’interno dell’intera raccolta permetterebbe di metterne in luce le sfumature. Come si evince dai raggruppamenti tematici appena indicati, un’attenzione particolare meritano le serie indubitabilmente classificabili come tali e i dittici di sonetti: in molti casi, infatti, due sonetti consecutivi costituiscono una vera e propria sequenza, ed è anche la disposizione di tali dittici a facilitare l’individuazione dei nuclei tematici all’interno della raccolta.

  

2. Prima di valutare alcuni aspetti dei sonetti di Piccolomini, sarà utile soffermarsi sull’epistola prefatoria a Vittoria Colonna iuniore che, nel magro panorama della riflessione teorica cinquecentesca sul genere lirico, riveste un ruolo di grande rilievo16. L’epistola è infatti un ausilio importante per accedere alla raccolta e, al tempo stesso, un prezioso strumento di codificazione teorica del genere. Il testo, denso e lungo rispetto alla usuale misura delle prefazioni, ha un peso decisivo anche sul piano della veste tipografica: l’uso di un carattere corsivo di dimensioni ampie e una mise en page che frutta margini spaziosi rispetto alla tipologia ‘tascabile’ del volumetto, fanno sì che la prefatoria occupi ben venticinque pagine, imponendosi all’ attenzione del lettore anche da un punto di vista prettamente materiale17.

L’epistola risponde, almeno sul piano delle convenienze sociali, all’esigenza di giustificare la dedica dei Cento sonetti alla giovane Vittoria, figlia di Ascanio Colonna e della celebre Giovanna d’Aragona, ma l’esplicitazione di questo motivo pretestuale trova spazio soltanto alla fine della lettera. Piccolomini avvia una riflessione sulla poesia che, muovendo da considerazioni generali sull’utilità e sul diletto poetici, arriva a circoscrivere il campo d’indagine più particolare della poesia lirica. Dopo una breve, ma non superficiale considerazione di questioni metriche — anche in relazione al confronto con la metrica antica — l’autore propone un canone lirico indicativo della linea in cui vuole inserirsi. All’ evocazione dell’ occasione biografica che lo ha spinto aoffrire i Cento sonetti alla Colonna, segue, in chiusura, una descrizione sommaria della raccolta e un’indicazione di lettura che, risalendo ad Orazio, sembra offrirci una chiave di accesso preferenziale ai testi poetici piccolomi-niani.

Prima di affrontare i due nodi centrali della riflessione sulla poesia (l’utilità e il diletto), Piccolomini si premura di postulare la priorità della poesia tra le «scientie efacultà che intiero e schietto mostrar si sforzano il vero e ’l buono». La preoccupazione morale del Piccolomini uomo di chiesa, inevitabilmente influenzato dai dettami della cultura tridentina, emerge dunque da subito. Ciononostante, egli non ha nessuna difficoltà a definire il carattere universale della poesia che, non restringendosi ad un campo d’indagine specifico, supera —o meglio, implica e comprende — tutte le altre scienze. Il poeta, un po’ come l’oratore aristotelico, deve avere una competenza universale; deve, cioè, essere «Geometra, Aritmetico, Astrologo, Naturale, Teologo, Economico e Politico, e in ogni arte finalmente dotto». La poesia, dunque, non si definisce a partire dai contenuti che si propone di illustrare, e in quest’ottica è sintomatico che essa sia considerata come superiore anche alla teologia; ciò che definisce la poesia è infatti quel «tralucente velame e trasparente vetro di lucida imitazione e di onesta favola» con cui il poeta riesce a far «manifestamente vedere» il vero e il buono. La poesia, in sostanza, è per Piccolomini una sorta di scienza ‘formale’, un linguaggio che si eleva al di sopra delle singole scienze e dei loro rispettivi contenuti alfine di illustrarli e renderli meglio visibili.18 Il paradosso del «manifestamente vedere» attraverso un «velame» — definito come «tralucente» — si spiega infatti con la similitudine squisitamente controriformistica della reliquia, laddove la reliquia in sé corrisponde al «vero» e il reliquiarioche la conserva al «velame» dell imitazione poetica. 19

I due strumenti basilari del linguaggio poetico sono quindi la «lucida imitazione» e «l’onesta favola», ed è proprio intorno alla loro definizione che ruota la riflessione piccolominiana sulla poesia. Se la lucida imitazione sembra fare latamente riferimento al piano dell’elocutio, si è legittimati a ricondurre l’onesta favola a quello dell’inventio, ed è proprio l’argomentazione dell’autore ad avviare il lettore su questa strada. Dopo aver postulato l’utilità e il diletto della poesia, infatti, Piccolomini si sofferma in modo capillare sui due termini, connettendo in primo luogo l’utilità al piano dei contenuti che, abbracciando tutte le scienze, può dirsi davvero universale. Da «l’amore verso Dio grandissimo e la cognition di quello» a «la notizia de le cose de la natura», da «la prudenzia e virtuosa vita nelle republice e ne le case nostre» a «qual’altro giovamento che rechi al mondo la Filosofia», la poesia si muove a tutto tondo nei vari campi del sapere. La similitudine d’ascendenza lucreziana della medicina «ricoperta di qualche scorza dolce», più utile ad un corpo malato di «quell’altra che palesando l’amarezza sua, sarà recusata da ’l gustodi chi l’ha da torre», spiega bene in che senso vada intesa l’utilità poetica secondo Piccolomini e, soprattutto, quali siano i suoi mezzi concreti:

così parimente la medicina de l’intelletto, che non consiste in altro che ne la verità de le cose e ne la virtù de l’uomo, se sincera e schietta ci sarà presentata nel modo che i particulari Filosofi soglian fare, subito per il senso, che può troppo in noi, mostrarassi amara e difficile ad inghiottirsi. Dove che, se con qualche soave ricoperta, come di gioconde favole o di numeroso concento o d’altra così fatta cosa, ci sarà posta innanzi, secondo che il Poeta, che universal Filosofo si domanda, suol sempre fare, alora inghiottita quasi con utile inganno, non prima arà digerendosi dato principio di far palese la forza sua, che a gran corso sentirem divenir sana e felice la mente nostra.20

Piccolomini riconosce — come più tardi farà Tasso — che la verità de le cose non risulta facilmente digeribile all’uomo se presentata sincera e schietta. Il senso, ovvero la dimensione più propriamente sensibile e materiale dell’uomo, oppone resistenza agli insegnamenti dei particulari Filosofi: la notazione piccolominiana, affrancata da ogni forma di idealismo, mostra l’uomo nella sua naturalità e invita a prendere atto del fatto ch’egli tende per natura ad essere schiavo dei propri appetiti. Solo questa consapevolezza permette di riconoscere nella poesia un ‘farmaco’ che, sotto forma di gioconde favole o di numeroso concento, rende la verità appetibile e, restando dentro lametafora, deglutibile.21

Piccolomini, introducendo il concetto di «favola» come frutto dell’ inventio poetica, si prepara a controbattere un’eventuale obiezione: parlare di inganno, seppur utile, può infatti essere rischioso, ed è necessario chiarire che la poesia non ha per oggetto il falso.22 Il ricorso a «favole e finzion» non implica che il fine della poesia sia «trattare il falso»; al contrario, «la dolcezza di quel che si finge» fa sì che «più trapassi e meglio si digerisca nel petto degli uomini (che per il più sono ignoranti) il vero e ’l buono che i Poeti principalmente intendan di persuadere». Una rapida ricognizione tra i vari àmbiti della poesia permette infatti a Piccolomini di mostrare che il linguaggio poetico inteso come utile inganno — altro non è che un involucro per rendere gli intelletti umani più permeabili al vero e al bene, oggetti primari della poesia. Al fine di rendere la propria argomentazione più convincente, l’umanista inizia col proporre l’esempio della poesia ‘teologica’, rappresentata emblematicamente da David, Mercurio Trismegisto e Museo «che han cantato teologicamente del grande Iddio»:

crederem noi che tanto avessero in quei primi tempi, che rozzi erano gli uomini e come nuovi al mondo, radicato ne le menti di quelli la pianta de la religione e la cognizion di Dio, se con parole ignude d’ogni ornamento e vòte di ogni dolcezza di Poesia l’ avesser fatto?23

Se la poesia è lo strumento con cui è possibile radicare nelle menti degli uomini la pianta de la religione e la cognizion di Dio, essa permette anche di svelare all’uomo la via delle «cose naturali» e, analogamente, della vita civile. La poesia, per Piccolomini, non è mera svelatrice di contenuti, ma soprattutto rivelatrice di strade da percorrere e l’esempio della poesia sulla natura sembra molto eloquente: Empedocle, Pitagora, Platone, Lucrezio, Arato, Manilio e — non ultimo — Pontano, non solo lasciarono «depinte le cose de la natura», ma «indussero gli uomini a ricercarle». Questo anelito allo studio della natura e alla ricerca delle sue «cagioni» è da imputarsi, in Piccolomini, al suo essere anche filosofo naturale e esperto conoscitore di questioni scientifiche, e l’ampio spazio ch’egli dà a tale àmbito poetico nella sua trattazione teorica non può essere casuale. L’interesse specifico per il settore della poesia che tratta le cose della natura — e, per estensione, quelle del cielo — approda infatti alla celebrazione di Giovanni Pontano, ultimo e più recente cantore latino di argomenti celesti.24

L’utilità poetica è, infine, tanto più evidente qualora si pensi alla funzione civilizzatrice della poesia stessa che ha permesso agli uomini primitivi, rozzi e ferini, di ridursi «sotto a giogo di leggi e dentro a cerchio di mura, a la conversazion civile e mansueta». Avviando l’uomo sulla strada delle «azioni civili e domestiche», poeti mitici come Anfione e Orfeo hanno infatti dato vita alle prime forme di civiltà. La questione della funzione civilizzatrice della poesia si pone, peraltro, almeno su due livelli, ed assume un peso decisivo nella riflessione di Piccolomini. Il riferimento ad Anfione ed Orfeo, derivato direttamente dall’Arspoetica di Orazio, che «col suono dei versi loro, quelli uomini rozzi alla civiltà reducendo, quasi fiere, sassi e arbori a sé tiravano» sfrutta infatti il topos della poesia come strumento di fascinazione che vince le resistenze del mondo ‘materiale’ e lo ordina.25 Ad uno stadio successivo, però, la poesia diventa utile anche sul piano dei precetti effettivi e degli insegnamenti che può offrire ai componenti di una società:

Util dunque si può concludere che la Poesia sopra tutte l’altre facultà stimar si debbi; col mezo de la quale, se a i tempi nostri le leggi e i precetti, che da prudenti Legislatori, così per accrescimento de la religione, come per sostentamento de le ben guidate case e ben corrette Republiche, fusser con misura di verso e sapore di Poesia mandate fuora, come avveniva in Grecia quando più fiorendo ella, fin dalle fascie ad apprenderla incomminciavano, molto più profundamente e universalmente ne le menti nostre si radicarebbero, che non veggiamo far’oggi; ché rarissimi son coloro che sappin la minima parte de i precetti che a le lor religioni appartengano e alla salute delle Città loro.26

Il confronto con la Grecia antica mostra che le leggi e i precetti stanno certamente alla base della società civile, ma sono la misura di verso e sapore di Poesia a far sì che essi possano effettivamente agire sugli uomini.I due livelli, quello retorico-formale e quello contenustico, concorrono dunque alla costruzione e, soprattutto, al mantenimento delle Città, e la sensibilità che Piccolomini mostra per la questione va probabilmente connessa alla problematica situazione socio-politica dell’Italia coeva e, più specificamente, della sua città natale.27

Una volta illustrato il senso dell’utilità della poesia, Piccolomini passa alla questione del diletto che, in una prospettiva squisitamente oraziana, deve sempre associarsi al giovamento.28 Il piacere che la poesia reca si basa, secondo Piccolomini, essenzialmente su due «nervi»: l’imitazione e la «misura proporzionata delle parole». Sviluppando un ragionamento molto sottile, il letterato mostra che l’imitazione, «ne la natura de le cose stesse consistendo, vien’ ad esser una stessa in tutte le lingue», mentre la seconda, «essendo radicata ne le parole medesime, vien per questo a variarsi secondo che le lingue si van cangiando». Detto in altri termini: l’imitazione penetra «come più naturale con la sentenzia de le parole fin nel centro de l’intelletto», mentre la «misura proporzionata de le parole» tocca «dolcemente il senso de l’odito nostro» grazie al «concento, che da ben misurato suono de le sillabe ne risulta». Se la prima, dirigendosi all’intelletto, si pone dunque al livello della sententia, la seconda — più propriamente legata al piano dell’ elocutio — riguarda direttamente la gestione delle parole e la loro ricezione ‘uditiva’; è tuttavia la complementarità d’entrambe, res e verba, a produrre il vero diletto poetico.

II diletto prodotto dall’imitazione può essere facilmente illustrato dagli esempi della pittura e del teatro. Ciò che, nella realtà della vita d’ogni giorno ci reca noia o, addirittura, dolore, attraverso l’imitazione si trasforma infatti, come già osservava Aristotele, in sommo piacere:

per essempio ne la pittura si può vedere, dove qual si sia più e orrendo e spaventoso animale, o qual più dispiacevol cadavero o più orribile e noioso mostro che trovar si possa, se dipinto ci si mostra innanzi, tanto più ci deletta-remo di contemplarlo, quanto più sarà somigliante a quella propria natural bruttezza che gli conviene. Medesimamente non si potrà trovare uomo, così per brutte e mostruose parti del corpo e per odiosi costumi e vili operazioni odiato e aborrito da ciascheduno, che, colui che facetamente, o in Commedia o in qual si voglia altro gioco, cercarà d’imitarlo, tanto più non piaccia a i riguardanti, quanto più a la vera imperfezione de l’ imitato si farà simile. 29

Individuando la dimensione peculiare del piacere prodotto dall’imitazione — che è comunque una finzione — Piccolomini sembra formulare l’idea di uno statuto particolare della poesia che sovverte ipiù usuali nessi di causa ed effetto attivi nel mondo reale. L’imitazione produce diletto in quanto tale, ed è proprio in questa consapevolezza che va cercato uno degli elementi più interessanti della riflessione di Piccolomini sulla poesia e che sarà ripreso e appro-fondito nelle più tarde Annotationi alla Poetica di Aristotele30.

Più ampia e minuziosa è la trattazione del diletto prodotto dal «concento» e dal «numero» che nascono «da la misura del tempo che ne la pronunzia de le sillabe si ritruova». Si tratta, in questo caso, di una vera e propria digressione sul sistema metrico delle lingue moderne, delle sue differenze tra lingua e lingua e, soprattutto, delle differenze che lo distinguono dal sistema antico. Al di là delle considerazioni su aspetti ‘tecnici’ della questione, che meriterebbero un’analisi più dettagliata di quella che se ne offre in questa sede, vale la pena sottolineare qui la chiarezza con cui Piccolomini colloca il «concento» allivello dell’elocutio, ammettendo che ciascuna lingua ha il proprio sistema e stroncando in partenza ogni possibilità di considerazione gerarchica dei vari sistemi metrici. L’unica regola che sta alla base della loro differenziazione è infatti quella della «consuetudine» ed è proprio la forza della consuetudine a sancire una sorta di ‘relativismo metrico’ che mira, in primo luogo, a salvaguardare la legittimità del sistema ‘italiano’:

E in questa cosa, la consuetudine con la proprietà d’una lingua ritien tal parte che dove che appresso di noi il verso ne la quarta, ne la sesta e ne la decima sillaba sostenendosi, e forza prendendo alquanto, viene a nascer di undici, di sette e di cinque sillabe, secondo che in italia per il più s’usa, come ognun vede. Altre nazioni poi, come per essempio appresso gli Spagnoli o Francesi, d’altra maniera ricercano il verso, acciò che non orrenda l’ orecchia loro.31

Un’attenzione particolare merita, in questa digressione, l’insistenza con cuiPiccolomini fa riferimento ad un identità linguistica ‘italiana’.32 L’ uso dell’ aggettivo «italiana» in riferimento ad un’ideale lingua comune parlata nella penisola non è scontato a quest’altezza cronologica, ed il suo impiego sembra proprio per questo tutt altro che neutro.33 La celebrazione dei «buon Poeti, non sol Greci e Latini, ma italiani», che segue poco dopo nel testo dell’epistola, sembra non lasciare dubbi. Quell’utilità e quel diletto che il letterato ha mostrato essere il fulcro della poesia sono infatti, a suo avviso, una delle prerogative dei poeti italiani e, in particolare, dei lirici, stimati come i «più vari, più liberi e a più varie sorti di materie accomodati». Il legame diretto con la lingua — ‘involucro’ poetico per eccellenza e prima causa di ogni diletto in poesia — è del resto esplicitato ed introduce, finalmente, un canone lirico emblematico:

Oltra che ne la Lingua nostra, minor copia di buoni scrittori in ogni altra sorte di Poesia abbiam tenuti che de Lirici non aviam fatto. Nel cui stilo, oltra il Petrarca che fu divino, molti altri sono stati ne i tempi nostri che Sonetti, Canzoni e Ballate han composto leggiadramente. Sì come sono il Bembo e la Escellentis-sima e santissima vostra Zia, la Signora D. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara, la quale ha fatto conoscere al Mondo che non è necessario, come stimavano alcuni, che a sola materia amorosa s’accomodino i Sonetti sempre, ma ad ogni altro honorato soggetto son atti ancora, per santo e grave ch’ egli sia.34

L’auctoritas petrarchesca, sottolineata dal riferimento esplicito al filtro bem-biano, sembra dichiarare apertamente l’adesione piccolominiana ad un modello linguistico che fugge dalle soluzioni orgogliosamente localistiche d’area fiorentina.35 Il respiro ‘italiano’ dell’impresa teorica e poetica di Piccolomini pare anche confermato dall’evocazione del magistero di Vittoria Colonna che, in un’epistola indirizzata alla nipote della celeberrima poetessa, potrebbe sembrare una mera captatio benevolentiae. Piccolomini mostra che non si tratta solo di un’accortezza retorica: il modello offerto dalle Rime spirituali è infatti il massimo esempio di una poesia lirica che rinuncia al monotematismo amoroso di marca petrarchesca. La poesia lirica si apre a temi e argomenti «honorati, santi e gravi» ed è proprio in questa linea, disposta anche da un punto di vista linguistico a suggestioni ‘sovra-regionali’, che Piccolomini cerca di inserirsi con la sua raccolta.

La dichiarazione della priorità della lirica tra i vari generi poetici frequentati dal Cinquecento italiano, oltre a basarsi su un trio di modelli d’eccezione — Petrarca, Bembo, Colonna — mira anche a definire un canone delle forme liriche. Parlando solo di «Sonetti, Canzoni e Ballate» il poeta circoscrive le forme consacrate da una tradizione essenzialmente ‘alta’ che lascia in disparte madrigali, frottole e altri tipi testuali riconducibili ad un ambito più prettamente popolare. La considerazione gerarchica della forme liriche implica, del resto, una presa di posizione importante anche sul piano dei contenuti. Se il modello di Vittoria Colonna fornisce lo spunto per una raccolta di sonetti che non siano solo d’argomento amoroso, Piccolomini, dopo aver esplicitato l’occasione biografica della dedica, e dopo essersi profuso in una raffinata declinazione del consueto topos modestiae, torna in modo preciso su questo punto:

Ho tolte adunque alcune de le mie rime, e quelle vi mando con questa mia, le quali non tutte i sospiri e le lagrime e l’istoria finalmente contengono de’ miei amori, com’han fatto de le rime loro fin qui la maggior parte di coloro che Sonetti o Canzoni sono stati soliti di comporre, in maniera che non è mancato chi abbia avuto ardire di affermare che le rime Liriche italiane non comportano altro che sospiri, e tormenti amorosi e nori, erbe e frondi.36

La scelta delle rime da dedicare alla giovane Vittoria Colonna non ritaglia dunque un percorso amoroso, ma mira a toccare temi e argomenti diversi, emancipando la lirica dal sospetto di monotematismo che troppo a lungo pare averla accompagnata. Piccolomini prende le distanze da quegli autori che hanno promosso l’equazione tra poesia lirica e soggetto amoroso e che, ai suoi critici occhi di teorico del genere che è anche autore, sembrano essere stati la maggior parte. Se l’uso dell’aggettivo «italiane» in carattere maiuscolo può rimandare al progetto ideale di una koinè linguistica e, di conseguenza, poetica sovra-regionale, non passa certo inosservata la frecciata polemica rivolta contro coloro che pretendono di vedere nella lirica coeva solo sospiri, e tormenti amorosi e fiori, erbe e frondi. Risulta evidente il carattere ironico e antifrastico dell’affermazione, dal momento che Piccolomini, oltre a farsi sostenitore di una lirica pluritematica, additando l’esempio della Colonna, ne mostra la concreta attuabilità. È dunque legittimo chiedersi se non si tratti, almeno in questo caso, di un riferimento polemico preciso, ed è ancora l’opposizione alla cultura fiorentina coeva a venirci incontro.

Stimolante sembra infatti una suggestione di Zaja che, a proposito del passo piccolominiano, ipotizza un riferimento diretto alle parole di Anton Francesco Grazzini nella sua prefazione al Primo libro dell’opere burlesche (Firenze, 1548).37 Le «petrarcherie, le squisitezze et le bemberie» hanno, secondo Lasca, «mezzo ristucco, e ’nfastidito il mondo, percioché ogni cosa è quasi ripiena di Fior frond’erb’ombre, antri, ond’aure soavi».38 Se le aure soavi rievocano senza dubbio i modi del lessico petrarchesco, l’intento polemico di Lasca emerge chiaramente nel monstrum, già esperito da Petrarca, «Fior frond’erb’ombre» che vorrebbe evidentemente sintetizzare i contenuti della scuola petrarchista, faziosamente percepita come puro ricettacolo di squisitezze e bemberie. Quest’ultimo termine, che identifica volutamente Bembo come responsabile della tendenza biasimata dal Lasca, non può che situarsi, in primo luogo, sul piano della lingua. L’italiano propugnato nelle Prose — e, di riflesso, nelle Rime — dal futuro cardinale è infatti un fiorentino’ di marca trecentesca che, costruito sui modelli classici (Petrarca e Boccaccio), mira a uscire dai più limitati confini della lingua ‘viva’, propugnata dagli autori fiorentini del Cinquecento. In tale contrapposizione, Piccolomini sta chiaramente dalla parte di Bembo, ponendosi costantemente il doppio problema della lingua e dei contenuti nella poesia lirica di marca petrarchista. In un autore come il senese, formatosi in un ambiente fisiologicamente in competizione con la cultura fiorentina, trapiantato a Roma dopo un soggiorno padovano che, anche sul piano della questione linguistica, ha lasciato su di lui segni indelebili, sembra davvero lecito individuare una presa di posizione consapevole nel dibattito sulla definizione di un codice linguistico ‘italiano’.

A prescindere, tuttavia, da una precisa intenzione polemica nei confronti della coeva prefazione ‘burlesca’, Piccolomini fa chiarezza sulla questione dei temi lirici e, riferendosi alla propria esperienza di poeta, si lascia andare ad una dichiarazione che, come vedremo a breve, si rivela assolutamente decisiva per il suo percorso intellettuale e, più specificamente, poetico. «Buona parte de mieiSonetti», afferma il letterato, «vedretefondata in diverse materie morali e piene di gravità, ad imitazion d’Orazio, il quale ammiro grandemente e tengo in pregio». Non soltanto Piccolomini anticipa sinteticamente un programma pluri-tematico e, se vogliamo, ‘impegnato’, ma si pone sotto l’egida di Orazio, auctoritas non trascurabile né neutra che agisce tanto sul piano poetico, quanto su quello ideologico-filosofico.

Una lettura attenta dell’epistola prefatoria ai Cento sonetti mostra dunque che ci troviamo di fronte ad un testo dallo spessore teorico rilevante, tappa trascurata ma imprescindibile per la codificazione del genere lirico nel pieno Cinquecento. Con la proposta di un preciso canone di autori (Petrarca, Bembo, Colonna) e di forme (sonetto, canzone, ballata), unitamente alla definizione di una pluralità di temi, Piccolomini offre un contributo non indifferente alla teoria del genere, e in tale prospettiva, la consapevolezza di aver scritto un «discorso» più che un «proemio» sembra assolutamente eloquente.39

  

3. Sebbene il riferimento a ‘maestri’ quali Petrarca, Bembo e Vittoria Colonna permetta ad Alessandro Piccolomini di inserirsi, come autore e come teorico del genere, in una linea poetica ben precisa, tanto sul piano dei contenuti, quanto su quello della forma, il senese non è certo il solo ad affidarsi a tali modelli, autorevoli e sostanzialmente indiscussi. Meno ovvio, e ben più ricco d’implicazioni è invece il riferimento all’auctoritas oraziana, ed è proprio sul rapporto che lega il letterato al poeta latino che vale la pena soffermarsi dopo la lettura dell’epistola.

L’autore, come si è visto, dichiara quasi alla fine dell’epistola di aver scritto i suoi componimenti su «diverse materie morali e piene di gravità, ad imitazion d’Orazio», poeta da lui fortemente ammirato e tenuto in pregio. L’affermazione, per quanto lapidaria e priva di sviluppi, si concretizza dapprima nei riferimenti all’Arspoetica che abbiamo visto disseminati nel testo dell’epistola, ma stimola il lettore a cercare qualche traccia oraziana anche nella raccolta: considerando l’importante ruolo giocato dall’epistola nell’economia del volumetto, si è infatti legittimati a sfruttare anche il riferimento oraziano come chiave di lettura della raccolta.

Il peso oraziano nella lirica cinquecentesca ha iniziato ad essere studiato analiticamente solo di recente: i contributi di Gorni e Albonico sulla presenza di Orazio in Bembo e in altri poeti lirici come Ludovico Domenichi e Girolamo Muzio, hanno mostrato che l’opera oraziana può influenzare in vario modo la lirica del ’500.40 Lo stesso Bembo, negli ultimi anni, sembra infatti emanciparsi da un petrarchismo rigorosamente ‘petrarcheggiante’ per guardare ai modelli classici, la frequentazione dei quali emergeva peraltro già chiaramente nella celebre O superba e crudele, o di bellezza, imitazionepuntuale dell ode oraziana a Ligurino41. Ma l’influsso oraziano non si limita alla ripresa e imitazione di singoli testi: spostandosi infatti sul piano macrotestuale, sembra emergere una tendenza all’imitazione della struttura del corpus oraziano che si manifesta soprattutto nell’assetto ‘numerico’ dei testi all’interno dei canzonieri cinquecenteschi.

È stato più volte osservato che i petrarchisti, pur facendo del canzoniere di Petrarca un modello imprescindibile, hanno difficoltà a percepirne — e quindi imitarne — il disegno profondamente unitario.42 La ‘numerologia’ oraziana sembra, in qualche modo, sopperire a questa difficoltà: Albonico ha individuato un’importante cesura nelle ultime Rime di Bembo dopo il componimento 103, e non sarà un caso che proprio 103 sia il numero dei Carmina oraziani. Se 103 sono anche i testi che compongono il primo libro delle Rime di Ludovico Domenichi, ancora più interessanti sembrano i numeri delle Rime muziane: isolando le prime tre sezioni fra le quattro in cui Girolamo Muzio suddivide i suoi testi — la quarta costituisce di fatto un corpus a sé stante, — il numero dei componimenti in esse compresi ammonta ancora una volta a 103. La somma totale dei testi delle Rime è poi 160 che, non casualmente, corrisponde alla somma di tutte le opere di Orazio.43 Da Bembo a Tasso, la tendenza a costituire raccolte poetiche che, almeno sul piano della macro-struttura, si rifacciano alla numerologia oraziana, troverebbe ulteriori conferme. Basti pensare al caso delle poesie di Minturno, pubblicate a cura di Ruscelli nel 1559, per le quali un ordinamento di marca oraziana sembra incontrovertibile.44

Con l’edizione ruscelliana di Minturno ci si allontana però un po’ troppo dal nostro punto di partenza: per i sonetti di Piccolomini, pubblicati infatti dieci anni prima, gli unici casi di raccolte poetiche precedenti strutturate secondo il numero 100 sono l’Argo di Giovan Francesco Caracciolo (Napoli, 1506) e la Centuria di Luca Valenzano (Venezia, 1532), ma la scelta di realizzare una silloge di cento componimenti sarà destinata ad avere una certa fortuna tra Cinque e Seicento.45 Riflettendo però sulla fede oraziana apertamente dichiarata dall’autore nell’epistola prefatoria e confermata, come vedremo, nei testi poetici, è forse lecito ipotizzare che il numero 100, oltre a suggerire un’idea di completezza e chiusura già sfruttata dalla tradizione letteraria (i 100 canti della Commedia e le 100 novelle del Decameron sono solo i casi più eclatanti) possa intendersi come un facile e piacevole arrotondamento del 103 oraziano.46 Se a questo si aggiunge il atto che Piccolomini, un po’ come l’ultimo Bembo, si allontana dall’idea di un canzoniere esclusivamente amoroso per proporre una serie variegata di testi che non imitano solo l’Orazio lirico, ma anche quello satirico e quello più irruento degli epodi, sembra delinearsi un quadro che marca una svolta decisiva negli orientamenti del petrarchismo di metà Cinquecento, ben presto confermata dalla produzione di autori come il già citato Minturno.47

Attenendosi a dati sicuri, il percorso intellettuale di Piccolomini ci fornisce ulteriori elementi che ne fanno uno degli autori più rigorosamente oraziani del secolo. Prima di vedere, infatti, l’imitazione d’Orazio in atto all’interno della raccolta, è il caso di sottolineare che il ruolo giocato dalla citazione del poeta latino nell’epistolaprefatoria è destinato ad avere un’eco importante anche sul piano teorico. Dopo una giovinezza in cui la produzione letteraria occupa per Piccolomini il primo posto, gli anni della maturità lo vedono infatti impegnato sul fronte della teoria ed è in questo àmbito che l’interesse per Orazio giungerà al coronamento. È noto che negli ultimi anni di vita il letterato pubblicò la Retorica e la Poetica di Aristotele tradotte dal greco in volgare e ampiamente commentate, ma meno risaputo è il fatto che egli si fosse dedicato anche ad un commento per ‘annotazioni’ a tutta l’opera di Orazio, rimasto inedito e conservato tutt’oggi manoscritto. Per quanto riguarda i commenti aristotelici, che restano tra i contributi più interessanti nel dibattito rinascimentale su Aristotele, è lecito ipotizzare che, pur vedendo effettivamente la luce pochi anni prima della morte di Piccolomini, siano il frutto di una riflessione critica epuntuale iniziata almeno un trentennio prima, durante il soggiorno pado-vano.48

Le Annotationes quaedam in Horatium, frutto di una lettura capillaredell’opera oraziana alla luce della grande stagione del dibattito aristotelico,sembrano anch’esse appartenere agli ultimi anni ed il fatto che non siano statepubblicate parrebbe conermare questa datazione.49 Anche in questo caso, però, più che di un improvviso ‘ritorno’ a Orazio, si dovrà pensare al concretizzarsi di una riflessione iniziata probabilmente negli anni della giovanile formazione classicista nello Studio senese e nell’Accademia degli Intronati. Il commento oraziano sembra dunque coronare un percorso intellettuale che ha avuto nel poeta latino un punto di riferimento poetico e teorico decisivo. Il fatto che importanti elementi oraziani emergano anche dalla raccolta dei Cento sonetti conferma quest’impressione e, pur demandando ad altra sede una trattazione specifica sulle Annotationes, sarà il caso di farvi riferimento laddove esse possano aiutarci a rivelare lo stretto e proficuo legame che si instaura in Piccolomini lirico tra la conoscenza critica del modello latino e il suo riutilizzo al momento dell’elaborazione poetica.

  

4. Non potendo qui passare in rassegna l’intera raccolta piccolominiana, è mia intenzione fornire un saggio della presenza del modello oraziano nella lirica di Piccolomini attraverso una scelta di testi che possa essere rappresentativa di almeno alcuni fra i modi del comporre del poeta senese. Se l’influsso di Orazio è ben percepibile nella più parte dei componimenti, a partire dal sonetto proemiale, i rischi di una scelta arbitraria di testi emblematici sono forse scongiurati da alcune tracce di una lettura coeva che emergono da uno dei rari esemplari del canzoniere piccolominiano oggi conosciuti e che non sono state finora segnalate. I Cento sonetti posseduti dalla Fondation Barbier-Mueller pour l’Étude de la poésie italienne de la Renaissance di Ginevra presentano infatti, in margine ad alcuni dei componimenti, brevi note manoscritte di rimando esplicito a testi oraziani. Una medesima mano cinquecentesca, purtroppo anonima, ha infatti identificato alcuni ipotesti oraziani, modelli inconfutabili per le liriche di Piccolomini, attestando una rice-zione evidentemente consapevole del petrarchismo ‘classicista’ dell’autore.50

Prima di venire ai cinque sonetti in questione, sarà tuttavia opportuno individuare la presenza di Orazio nel canzoniere di Piccolomini anche su altri due piani, quelli della struttura e delle dichiarazioni esplicite. Pur non ‘narrando’ una storia, il poeta tenta, con la sua raccolta, di offrire un’immagine di sé e della sua vita alle soglie della maturità, e in quest’ottica è possibile individuare alcuni elementi portanti che sorreggono l’intera raccolta garantendone una certa unità. Il sonetto d’apertura (L’intenzione de l’autore nei suoi sonetti), per esempio, dichiara l’impostazione generale della raccolta e ne costituisce il programma poetico. Il componimento proemiale — soglia testuale per eccellenza — lascia ben trasparire anche i modelli stilistico-formali cui Piccolomini attinge:

Altra Tromba sarà, ch’alto risuoni
I trionfi di Carlo, e mille attorno
Varie d’abito e lingua aspre Nazioni,

Che vinte van, con gran lor biasmo e scorno. Altri dotti diran, l’alte cagioni
Di tante cose, onde sta ’l mondo adorno:
Come ’l sol luce, o ’l ciel lampeggi o tuoni;
Com’or vien breve, or si fa lungo il giorno.

Me la Tosca mia Musa, ad altro stile
Richiam’ogni or; né lascia tormi impresa,
Che non convenga a la sua Lira umile.

Dunque dirò, come mi tratti Amore
Di tempo in tempo; e sol per mia difesa,
D’alcun fors’ardirò punger l’errore.

Il modello primario su cui Piccolomini costruisce il sonetto proemiale, in cui sconfessa la possibilità di dedicarsi a una poesia ‘alta’, circoscrivendo il suo campo poetico alla Lira umile, può essere Orazio, Odi, I, 7: se è vero che del testo oraziano il sonetto sembra riecheggiare l’incipitario «Laudabunt alii» ai vv. 1 e 5 Altra Tromba sarà e Altri dotti diran, l’impressione che il primo referente sia proprio l’ode a Munazio Planco trova riscontro nella vasta fortuna che tale testo ebbe nel ’500 come modello di recusatio poetica, sfruttato soprattutto nei componimenti liminari.51 Guardando però più da presso il sonetto piccolominiano, è possibile individuare vari fili che si intrecciano e che concorrono a creare una tarsia pluri-dialogica che guarda in direzioni diverse. Nella prima quartina è la contrapposizione tra lirica ed epica ad emergere con forza, laddove il poeta afferma di non sentirsi in grado di cantare i trionfi di Carlo, soggetto epico demandato ad un’altra Tromba. Il riferimento alle vittorie di Carlo V, con l’implicita celebrazione dell’imperatore, sembra alludere ad esperimenti poetici avviati già durante gli anni Venti e Trenta da un poeta come Minturno che con il suo De adventu Caroli in Italiam, poema esametrico in tre canti, aveva segnato l’avvio di un filone epico neo-latino che Piccolomini non si sente di trasferire in àmbito volgare. Se la Tromba può, del resto, ben simboleggiare la poesia epica, è tuttavia opportuno osservare che alla «tromba» piccolominiana fa riferimento anche il sonetto di Luigi Tansillo, Chi generò tra gli alti e bei desiri, posto in appendice ai Cento sonetti: «Fate voi risonar per ogni lido / La vostr’altiera tromba, onde ne goda / Il Tebro, il Mincio, il Re de’ Fiumi e l’Arno» (vv. p-n). L’invito del Tansillo è rovesciato nel sonetto di risposta (29) in cui Piccolomini attribuisce all’amico la «tromba», riservando a sé la «sampogna».52

Il sonetto proemiale si lega dunque, almeno in parte, a questo dittico, ma l’altra Tromba non esaurisce qui le sue suggestioni: tale formula compariva infatti nel sonetto d’apertura delle Rime di Vittoria Colonna. Nonostante che i contesti siano diversi, il dubbio che il poeta volesse sfruttare anche una reminiscenza colonnese all’ inizio del suo percorso lirico pare più che ragionevole.53

Alla recusatio epica segue, nella seconda quartina, una recusatio ‘didascalica’, che trova precisi riscontri nell’epistola prefatoria: l’evocazione della poesia che ha per oggetto l’alte cagioni del mondo, con il riferimento esplicito a tematiche scientifico-astronomiche sembra infatti collegarsi a quanto Piccolomini diceva in sede teorica sulla ‘poesia della natura’. Ancora una volta il pensiero va a Pontano e a tutta la ricca tradizione della poesia didascalica celebrata dall’autore nella prefazione. Di fronte alle strade impegnative dell’epica e della poesia a soggetto scientifico, la Tosca ... musa lo richiama ad un altro stile che sia confacente alla sua Lira umile: il topos modes-tiae riporta dunque il poeta sulla via della poesia d’Amore, ma la consapevolezza che ci sono anche altre strade poetiche da percorrere non verrà meno. Se, in generale, il contenuto della raccolta sembra risolversi, almeno in fase proemiale, al Dunque dirò, come mi tratti Amore / Di tempo in tempo, è pur vero che le frecce di una satira di gusto oraziano hanno l’ultima parola: e sol per mia difesa, / D alcun fors ardirò punger l’errore.54 Un aspetto, infine, su cui non è possibile sorvolare, è la forte coloritura petrarchesca di molte soluzioni piccolominiane che marcano chiaramente il primo sonetto: la rima amore: errore — nonostante che in Piccolomini l’errore sia altrui — ricalca con evidenza il sistema rimico del proemiale Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono (Rvf 241, vv. 3 e 7), ma anche impresa: difesa trova un riscontro puntuale nel sonetto L’alto signor dinanzi a cui non vale (Rvf 241, vv. 2 e 6). Pur ammettendo che tali reminiscenze petrarchesche possano peccare di una certa banalità, il peso che il Canzoniere assume nella codificazione dello stile lirico piccolominiano emerge anche nella scelta di clausole metriche che attivano la memoria di interi versi petrarcheschi: è il caso del mondo adorno del v. 6 che porta con sé, di fatto, un intero verso di Rvf 70 (la celebre canzone Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi): «Tutte le cose di che ’l mondo è adorno» è infatti chiaramente ricalcato nel verso di Piccolomini Di tante cose, onde sta ’l mondo adorno.55

Il sonetto proemiale dei Cento sonetti, in definitiva, ci apre le porte di una raccolta variegata, in cui — come si è accennato — non si parla solo di amore: la varietà dei temi, che spaziano dall’amoroso allo spirituale, dalla riflessione sui mores al vagheggiammento di loci amoeni in cui trascorrere una vita di sereno ozio letterario, dalla satira sui vizi del mondo coevo agli impietosi squarci sulla Roma farnesiana, sembra ricondurci, infine, ad un’impostazione sostanzialmente oraziana (ma, come si è visto, non è solo Orazio a offrire spunti alla versificazione piccolominiana).56Interessante esempio di ciò è anche il sonetto 51, un altro componimento ‘portante’ sul piano della struttura. Nel giorno del Natale de l’Autore, l’anno del xlviii, aprescindere da minime incongruenze cronologiche, è ilcentro dei Centosonetti, ed è anche, simbolicamente, il centro della vita dell autore giunto al suo trentaseiesimo anno d’età:57

Almo Sol già, de la gran ruota al punto
Donde pria mi dè vita, il raggio santo
Del tuo splendor, trentasei volte a punto
Tornar t’ho visto a i due Gemegli a canto.

Fin’or l’incarco a le mie spalle aggiunto,
Non sentia de miei giorni; or grave è tanto,
Ch’io inclino, a pena a mezza strada giunto:
Deh ritien Febo i tuoi cavalli alquanto.

Anzi spronagli (oimé) che in tanta guerra,
Voi lumi in Ciel, mia vita ordiste insieme,
Che io bramo ’l fin de i miei dí tristi, e rei.

Anzi ritiengli pur, che due qui in terra,
Luci di voi miglior, gli affanni miei,
Fan dolci sì, ch’ho in odio l’ore estreme.

L’incipit del sonetto ricalca un celebre sonetto di Petrarca (Rvf 244 Almo Sol, quella fronda ch’io sola amo), ma si distacca subito dal presunto epiù immediato modello per rifarsi ancora una volta ad Orazio. Il Carmen saeculare offre a Piccolomini un tono aulico su cui innestare una riflessione amara sulla vita che rielabora alcune soluzioni del dettato oraziano in un contesto diverso da quello originale. È questo un esempio del procedimento con cui Piccolomini attinge ai testi di Orazio che, spesso molto più lunghi della misura di un sonetto, tendono ad essere condensati. L’invocazione al sole, che nel Carmen apre il v. 9 («Alme Sol»), è sfruttata da Piccolomini come incipit; il passare degli anni come succedersi di cicli astronomici nella prima quartina, definizione cronologica di marca dantesca, rielabora invece la ciclicità evocata da Orazio ai vv. 21-24 («certus undenis deciensper annos / orbis ut cantus referatque ludos / ter die claro totiensque grata / noctefrequentis»). Alla richiesta rivolta dal poeta a Febo/Sole di trattenere i suoi cavalli per rallentare il corso della vita (v. 8), sottende poi l’immagine del carro solare nel Carmen (vv. 9-12), ma soprattutto l’affermazione oraziana che il dio può allungare la vita umana risanando i corpi stanchi (vv. 60-68: «Augur et fulgente decorus arcu / Phoebus acceptusque novem Camenis, / qui salutari levat arte fessos / corporis artus, /... / alterum in lustrum meliusque semper / prorogat aevum»). E proprio sull’immagine del corpo che invecchia Piccolomini costruisce la seconda quartina.

Paradossale e tutto piccolominiano è poi il doppio rovesciamento della richiesta: nella prima terzina il poeta invoca una fine rapida della guerra in cui è costretto a vivere dai lumi in Ciel, cioè dalle stelle (ovvero dagli Dei: al v. 2 del Carmen Febo e Diana erano definiti «lucidum caeli decus»). La seconda terzina, infine, vede entrare in gioco le Luci di voi miglior, gli occhi della donna che, contrapposti ai lumi in Ciel, spingono il poeta a ritrattare, nella speranza di veder prolungato ilsuo soggiorno sulla terra: la messa in atto della dialettica donna/sole permette dunque a Piccolomini di rielaborarel’ipotesto oraziano in modo coerente ai canoni del petrarchismo cinquecentesco.58 L’evoluzione amorosa del testo non deve, tuttavia,   ar dimenticarel’occasione che lo ha prodotto, e che lo rende ancor più particolare. Il riferimento esplicito al compleanno del poeta è infatti raro in àmbito lirico, perché il codice poetico non permette di parlare di sé, se non nella misura in cui la propria vicenda — come nel caso di Petrarca — può essere esemplare. Tra le eccezioni vale la pena ricordare almeno Renato Trivulzio, autore di due libri di odi volgari contraddistinte da una lezione oraziana molto forte e traduttore delle odi del poeta latino. Si tratta, di fatto, di un autore la cui produzione poteva senz’altro interessare un ‘oraziano’ come Piccolomini (sarebbe utile indagare eventuali legami tra l’esperienza poetica piccolominiana e l’ambiente poetico oraziano del milanese Trivulzio che potrebbe contribuire ad una più chiara mappatura dell’influenza di Orazio sulla lirica italiana di primo Cinquecento).59

Quanto alla struttura dei Cento sonetti, un ultimo e non meno importante elemento è dato dal congedo. Piccolomini chiude la sua raccolta con un sonetto amaro e disilluso che contrappone alla vita romana l’auspicio di un prossimo ritiro tra’ dotti libri, al mormorio / De i bei ruscei. Il sonetto 100 si inserisce in una serie di testi polemici nei confronti della Roma tridentina in cui Piccolomini è costretto a vivere, ma lo sdegno pare qui sciogliersi in una più pacata presa di coscienza che trova il suo fondamento proprio nelle Satire di Orazio:

Ecco che in Roma sono, ecco che fuore
D’ogni mia libertà, caro Belanto,
Sotto ’l favor di quest’e quel signore,
Traggio la vita, e ’l pel fo bianco intanto.

L’ambition importuna, a tutte l’hore
Punger mi cerca sì dietro, e daccanto,
Che bench’a fren’io tenga sempre il core,
Tal hor mi muove, a mal mio grado al quanto.

Così, lasso, ognihor più perder veggio io
La vita indarno. O cara villa, o quando
Faran lieto i tuoi colli il mio desio?

Quando tra dotti libri, al mormorio
De i bei ruscei, le gravi cure in bando
Poste, berò di quelle un dolce oblio?

Lasciando per il momento da parte un’analisi puntuale delle due quartine del sonetto che richiederebbe una lettura parallela degli altri sonetti specificamente ‘romani’, ci si limita a rilevare che i vv. 10-14 ricalcano puntualmente Sat. II 6 vv. 60-62, la celebre apostrofe oraziana alla vita in villa: «o rus, quando ego te adspiciam quandoque licebit / nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis / lucere sollicitae iucunda oblivia vitae?». Come si vedrà, si tratta di un motivo caro a Piccolomini, una delle marche più evidenti della sua ascendenza oraziana: proprio Sat. II 6 costituisce il modello per uno dei sonetti sull’elogio della vita in villa, e non è senz’altro un caso che il poeta affidi alla medesima reminiscenza oraziana la chiusa della sua raccolta.

La predilezione accordata dal poeta ad Orazio emerge poi in due dichiarazioni esplicite che fanno eco a quella con cui Piccolomini suggellava l’epistola prefatoria. Nel sonetto 11 Piccolomini propone un paradigma esistenziale basato su un otium letterario di marca schiettamente oraziana: «Io tra chiari ruscei di poggio in piano, / ogni grave pensier posto in oblio, / lieto men vo, non senz’Orazio in mano, / che insegna altrui, che cos’è ’l buono e ’l rio». Orazio è assunto, in primis, come maestro di filosofia morale, che insegna a distinguere tra il bene e il male, ed è ancora in questa veste che viene evocato nel sonetto 28 indirizzato al ‘Deserto’, al secolo Antonio Barozzi, letterato senese e accademico intronato, compagno e amico di Piccolomini. Vagheggiando un momento di svago intellettuale con i suoi amici, il ‘Deserto’ e il ‘Cieco’ (Antonio Cinuzzi, un altro accademico intronato, e lui pure destinatario di uno dei sonetti), Piccolomini definisce l’oggetto dei «nostri sermon», dove già l’uso del termine ‘sermone’ non può che rimandare al sermo oraziano: «qual ben sia sommo e pieno, / De l’uomo, e come poi s’acquisti o speri», con l’eloquentissima chiosa «Né in tanto Orazio mai cade di mano». La poesia oraziana fornisce dunque una precettistica ‘morale’ che può diventare modello di vita, oltre che modello poetico, ed è proprio un confronto, o meglio un dialogo quotidiano con l antico poeta latino a costituire la base di entrambi.60

5. L’esemplare Barbier-Mueller dei Cento sonetti, come si è detto, testimonia una chiara ricezione della matrice oraziana di Piccolomini da parte di un lettore cinquecentesco che individua alcune delle riprese oraziane della raccolta, fornendo una traccia utile all’avvio della nostra indagine. La lettura dei sonetti 1, 50 e 100 ha mostrato che la memoria poetica di Piccolomini non si esaurisce con Orazio; dovendo tuttavia accerchiare qui l’analisi, intendo offrire alcuni esempi della priorità, nei Cento sonetti, del modello oraziano, con la consapevolezza che l’intertestualità attivata da Piccolomini è molto più ricca eche soltanto un’attenta analisi dell’intero corpus lirico potrebbe darneragione.61

È prima di tutto notevole che l’anonimo glossatore Barbier-Mueller individuicome oraziani proprio due sonetti sull’elogio della vita in villa. Il sonetto 14 D’una villa acquistata nuovamente ci mostra un Piccolomini soddisfattodell’acquisto, grato a Dio e partigiano del ‘giusto mezzo’ contro le derivedell’ambizion e della negligenzia:

Questo era Mario ’l fin del mio desio,
Una villa ben posta, un colle ameno
Che soccorriss’a punto (et anco meno
Che Natura non chiede) al viver mio.

Questo m’ha dato, e più, l’immenso iddio:
Tal che non sol la Copia il corno ha pieno
Per l’uso mio, ma colm’ha ’l grembio e ’l seno;
Altro paese ormai non chieggio a dio.

Questa parte prend’io, di quant’intorno
Gira la Terra; a questa ’l suo favore
Mostri più sempre il Ciel di giorno in giorno.

Questa m’acqueta a pieno, e mai non fia
Per avara ambizion punto maggiore,
Né minor mai per negligenzia mia.

Il sonetto ricalca l’incipit oraziano di Sat. II 6, da dove Piccolomini estrapola alcune soluzioni amplificandole fino a coprire lo spazio canonico dei 14 versi del sonetto.62 La prima quartina prende spunto dai vv. 1-3 «Hoc erat in votis: modo agri non ita magnus, / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons / et paulum silvae super his foret», concentrandosi sulla villa ben posta che appaga i desideri del poeta e stemperando il severo «Hoc erat in votis» oraziano in una familiare allocuzione all’amico. Nella seconda quartina si assiste invece ad un calco più puntuale che non si limita tuttavia a Sat. II 6: il v. 5 Questo m’ha dato, e più, l’immenso iddio, che riprende i vv. 3-4 del testo oraziano («Auctius atque / di melius fecere»), e il v. 8 Altro paese ormai non chieggio a dio, che ne amplia il «Nil amplius oro», incorniciano infatti un altro prestito oraziano che deriva, in questo caso, dalle Odi. L’immagine della cornucopia, con l’espediente del gioco di parola che separa il ‘corno’ dalla ‘copia’ risale infatti a Odi I 17 vv. 14-16 «Hic tibi copia / manabit ad plenum benigno / ruris honorum opulenta cornu», dove il riferimento alle ricchezze dei campi risulta pienamente coerente anche col contesto piccolominiano.63 Il calco di Sat. II 6 riprende poi nella seconda terzina del sonetto che, scongiurando i pericoli dell’ambizione e della negligenza, traduce quasi alla lettera i vv. 6-7 di Orazio «Si neque maiorem feci ratione mala rem / nec sum facturus vitio culpave minorem».

L’invito implicito ad accontentarsi di ciò che di buono la sorte ha in serbo per noi, comandamento oraziano per eccellenza, è dunque declinato attraverso un calco preciso della Satira II 6, a dimostrazione del fatto che i sonetti di Piccolomini non si ispirano solo all’Orazio lirico. Nell’ottica di una poesia pluritematica e volta a confrontarsi con i vari aspetti della realtà, la lirica propriamente detta si apre ad istanze diverse, ed il secondo sonetto della nostra serie conferma la tendenza di Piccolomini a spaziare tra i vari momenti della poesia oraziana. La nota manoscritta che correda il sonetto 16 In lode de la vita in villa rileva l’imitazione di un testo talmente noto che le basta citarlo attraverso il suo primo verso: «Beatus ille quiprocul negotiis». Il sonetto è infatti una sorta di vera e propria traduzione condensata del celebre Epodo II, del quale Piccolomini ricalca i vv. 1-10, ij-20, 39-40 e 43-44:

Beato quel, che da città lontano
Liber vivendo e d’ogni lite fuora,
Nei proprii campi suoi suda e lavora,
Sciolto d’usure, e d’ogni inganno umano.

Di trombe ’l suon non sente orrendo e strano,
Ch’a l’armi ’l chiami e svegli ad ora ad ora;
Né fa mestier che per le sale ogniora
De superbi signori, ondeggi invano.

Or deriva un ruscello & or marita
Le viti a gli olmi, or dolci frutti innesta,
Fin che insieme col dì, l’opra ha finita.

La sera al fuoco suo fa poi ritorno,
Cena con voglia, e gli dan riso e festa
La casta moglie e i cari figli attorno.

Beatus ille qui procul negotiis,
ur prisca gens mortalium

paterna rura bobus exercet suis,
solutus omni fenore,

neque excitatur classico miles truci
neque horret iratum mare,

forumque vitat et superba civium
potentiorum limina.

Ergo aut adulta vitium propagine
altas maritat populos,

Quodsi pudica mulier in partem iuvet
domum atque dulcis liberos,

sacrum vetustis exstruat lignis focum
lassi sub adventum viri

Le due quartine riprendono nell’ordine esatto i primi 8 versi dell’epodo, limitandosi a lasciare da parte alcuni frammenti di verso; più articolata la gestione delle terzine che prendono le mosse dall’immagine delle viti e dei pioppi (olmi in Piccolomini) e, con un passaggio dall’esterno all’interno che è al tempo stesso cronologico e spaiale, ricalca il quadretto familiare dei vv. 39-44.64Il rientro dell’uomo al focolare domestico, accolto dalla moglie e dai figli, chiude il sonetto che, lasciando da parte la rivelazione finale dell’epodo oraziano (che si scopre essere pronunciato dal «faenerator Alfius / iam iam futurus rusticus»), si mantiene sincero e genuino.

Anche in questo caso un testo ben più lungo della misura di un sonetto (l’Epodo II consta di 70 versi) viene adattato ad essa, ma con modalità diverse da quelle viste nel sonetto 14. Piccolomini legge l’epodo, ne ricava un nucleo valido di per sé e comunque coerente con l’impostazione generale dell’ideologia oraziana, ne seleziona un discreto numero di passaggi e li traduce fedelmente. Il trasferimento del materiale poetico latino nei 14 versi del sonetto implica tuttavia una rielaborazione personale che travalica la mera riscrittura, e che si inscrive in una riflessione più ampia condotta dal poeta sul tema della vita in villa. 65Isonetti 14 e 16 costituiscono una sorta di dittico, ma lo stesso tema torna, come si è detto, in altri testi della raccolta, configurandosi come uno degli elementi portanti dei Cento sonetti: a questo propositooccorre osservare che se il modello oraziano gioca qui un ruolo centrale, Piccolomini sembra anche appoggiarsi su una tradizione tipicamente toscana che, seppur cresciuta su Orazio, aveva assunto tra Quattro e Cinquecento una configurazione ormai stabile. L’elogio della vita in villa aveva trovato un’importante codificazione nel III libro dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti, che allo stesso tema aveva dedicato l’opuscolo volgare Villa, ma tracce di un interesse specifico per tali tematiche si trovano anche nell àmbito senese in cui Piccoomini consegue la sua prima formazione.66

Il modello oraziano emerge chiaramente anche laddove Piccolomini, lasciando da parte i sogni dell’otium letterario, si confronta con la realtà che lo circonda e ne ‘punge’ gli errori. La vena satirico-polemica, mai spinta ai livelli bassi della tradizione comico-burlesca, prende ispirazione dai testi di Orazio; tuttavia, come si è accennato, pare attingere copiosamente anche alla tradizione epigrammatica non solo greco-latina, ma anche neo-greca e neo-latina. L’impressione che la forma ‘sonetto’ possa ereditare talvolta i caratteri dell’epigramma, pare dunque confermata dalla raccolta di Piccolomini che spesso ama chiudere i suoi componimenti con massime e affermazioni di sapore gnomico. Tra i molti sonetti che pungono vizi umani come l’avarizia, l’ambizione e l’inquietudine cronica, tutti riconducibili alle dichiarazioni programmatiche del sonetto iiPer iscusa del reprendere con Sonetti i vizij de i calunniatori, l’anonimo annotatore Barbier-Mueller riconosce come oraziano il 26 A uno Avaro, sotto ’l nome di Mideo dove l’apostrofe a Mideo, senhal eloquente, rivela facilmente il vizio del personaggio chiamato in causa:

Splendor non ha, Mideo, l’oro e l’argento,
Ch’ognior sotterra, avar, ascondi e premi,
E sei per questo, a i tuoi bisogni estremi,
Nel sostentar te proprio, e duro e lento.

Sempr’accresci ’l tesoro, e sempre intento
Sei ch’una dramma non ne manchi, o scemi:
Quivi dì e notte col cor vegli e tremi;
E volan gli anni in tanto più che vento.

Non vedi tu gli eredi avidi appresso
Con le man pronte a gittar via in un’ora,
Quant’hai crudel fin’or tolto a te stesso?

La tua giornata già tra sesta, e nona
Sen va inchinando: or quel che resta ancora,
Usa la vita, e lieto spende e dona.

La nota manoscritta individua con precisione l’ipotesto oraziano su cui è ricalcato l’incipit della prima quartina, vale a dire Ode II 2 vv. 1-4:67«Nullus argento color est avaris / abdito terris, inimice lamnae / Crispe Sallusti, nisi temperato / splendeat usu». Risulta tuttavia evidente che Piccolomini rielabora la strofa oraziana aggiungendo elementi ad essa estranei, ma comunque riconducibili ad Orazio: l’immagine dell’avaro che nasconde sotto terra le sue ricchezze rimanda a Cremete, il vecchio avaro dell’Aulularia di Plauto che, oltre a costituire l’archetipo per tutti gli avari del teatro moderno, era stato chiamato in causa come simbolo d’avarizia proprio da Orazio in Epod. I vv. 31-34 che pare offrire a Piccolomini anche lo spunto per la dittologia ascondi e premi: «Satis superque me benignitas tua / ditavit: hautparavero / quod aut avarus ut Chremes terra premam, / discinctus aut perdam nepos». Il calco dall’Ode II 2 trova inoltre un riscontro esegetico interessante nelle Annotationes quaedam in Horatium, il commento piccolominiano ad Orazio, dove l’autore, commentando l’ode, chiosa la parola «color» e illustra il senso della prima strofa:

v. 1 Color: cum lux sit necessaria colori, ut sit color actu visibilis (ut aiunt Physici) si argentum terris abdatur, poterit pene existimari colore privatum. Allegorice autem pro colore, decus, fruitio, usus intelligendus est.68

L’interpretazione che il poeta dà dell’ode oraziana, con un’esegesi che si appoggia sull’auctoritas dei Physici, ovvero dei filosofi naturali, spiega che «color» deve essere inteso allegoricamente nel senso di decus, fruitio, usus: l’oro e l’argento, in sostanza, hanno valore solo in funzione dell’uso, e la lettura piccolominiana dell’ode, coerente con il sonetto, ci permette di comprendere meglio il senso di quest’ultimo.

Oraziane sono poi anche le considerazioni sul tempo che passa ai vv. 8 e 12-14, ma riscontri più precisi con altri testi del poeta latino emergono soprattutto dall’analisi della prima terzina. L’immagine degli eredi che, avidi, aspettano solo di sperperare le ricchezze accumulate dal vecchio avaro riecheggia gli amari quadri tratteggiati da Orazio ancora nell’Ode II 2 al v. 20 «divitiis potietur heres», ma anche nell’Ode III 24 vv. 61-64 «indignoquepecuniam / heredi properet. Scilicet improbae / crescunt divitiae; tamen / curtae nescio quid semper abest rei». La chiusa del sonetto, infine, di gusto epigrammatico e giocata sul forte anacoluto or quel che resta ancora, / usa la vita, e lieto spende e dona, sembra arieggiare l’invito a godere ciò che si mette da parte senza preoccuparsi di lasciarlo alle mani avide dell’erede nell’Ode IV 7 vv. 19-20 «Cuncta manus avidasfugient heredis, amico / quae dederis animo». 69Gli ultimi due calchi oraziani della serie individuata sulla scorta dell’ anonimo annotatore dell’ esemplare ginevrino ci portano nel più tradizionale àmbito della lirica d’amore, ed è interessante osservare, ancora una volta, come il modello latino si mescoli alla tradizione volgare. Il sonetto 30 Ad una Donna inconstante e pergiura e senza fede alcuna si presenta come una rielaborazione dell’Epodo XV, del quale vengono imitati i vv. 1-6 nellaprima quartina e la conclusione (più precisamente i vv. 17-18 e 23-24) nella seconda terzina:70

Coi raggi suoi la luna alta e lucente
Splendea da ’l ciel (pur a pensarlo aggiaccio)
Quando piangendo, con le luci intente
Nel volto mio, postomi al collo il braccio,

Giurasti, aimé, che per me pria che spente
Fosser tue fiamme, arso sarebbe il ghiaccio;
Né son poi stato a pena un mese assente,
Che rott’hai di tua fe', perfida, il laccio.

Chi fia non so, che me scacciato ha fuora
Del rio tuo petto, e a tue parole infide
Cred’or altiero, e non n’ha fatto’saggio.

Ma sia chi vuole, o bello, o dotto, o saggio:
Se ben tec’or del mal mio canta e ride,
Piangerà tosto; e io rideronne alora.

Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
inter minora sidera,

cum tu, magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea,

artius atque hedera procera adstringitur ilex
lentis adhaerens bracchiis,

Et tu, quicumque es felicior atque meo nunc
superbus incedis malo,

sis pecore et multa dives tellure licebit
tibique Pactolus fluat

nec te Pythagorae fallant arcana renati
formaque vincas Nirea,

heu heu, translatos alio maerebis amores:
ast ego vicissim risero.

Nel sonetto 30 Piccolomini si ispira dunque per intero all’Epodo XV di Orazio, già imitato da Lorenzo de’ Medici nell’incipit del Corinto, mantenendone in qualche modo l’unità e la compiutezza:71 riprendendo i primi versi e la chiusa del componimento latino, collocati nelle zone corrispondenti del sonetto, il poeta mostra di volerne salvaguardare l’identità di ipotesto unitario. Molto interessante, a livello sintattico, la ripresa del cum inversum, costruzione tipicamente narrativa: quando ... giurasti ricalca infatti puntualmente il «cum tu ... in verba iurabas mea», e la sintassi oraziana è rispettata anchenella ripresa dell’ablativo assoluto «lentis adhaerens bracchiis» che diventaimpostomi al collo il braccio.72

Il procedimento di ‘condensazione’ del materiale oraziano messo in atto da Piccolomini emerge con chiarezza nella chiusa del sonetto, dove gli ultimi 8 versi dell’epodo vengono ripresi e sintetizzati: i vv. 17-18 confluiscono nei vv. 12-13 del sonetto, dove l’inciso o bello, o dotto, o saggio riassume il contenuto dei vv. 19-22 del testo latino (bello recupera «forma ... Nirea» di v. 22, mentre dotto e saggio condensano i «Phytagorae ... arcana» di v. 21). Gli ultimi due versi, infine, vengono ridotti a emistichi e accorpati nel v. 14 del sonetto («translatos alio maerebis amores» diventa Piangerà tosto, mentre «ast ego vicissim risero» diventa e io rideronne alora).

La forte ascendenza oraziana del sonetto 30 non inficia tuttavia la possibilità di rintracciarvi moduli poetici di diversa derivazione. L’adynaton della seconda quartina giocato sull’ossimoro arso ... ghiaccio, sembra essere una soluzione tipicamente manierista, sfruttata per esempio da Galeazzo di Tar-sia73, ma è soprattutto l’eco petrarchesco della rima ghiaccio: laccio a costituire una traccia certa delle risorse poetiche piccolominiane: interessante l’occorrenza nel celebre sonetto 134 di Petrarca Pace non trovo, et non ò da far guerra, dove oltre alla ricorrenza delle rime «ghiaccio: abbraccio: laccio: impaccio» ai vv. 2, 4, 6, 8 (da confrontare con la serie rimica piccolomi-niana aggiaccio: braccio: ghiaccio: laccio anch’essa ai versi pari), troviamo l’ossimoro «et ardo, et son un ghiaccio» al v. 2, analogo a quello diPiccolomini.74

Le dinamiche della variegata memoria letteraria di Alessandro Piccolomini emergono in misura ancora maggiore nel sonetto 62 Ad una Donna molto crudele, individuato dall’anonimo lettore dell’esemplare Barbier-Mueller come calco della famosa Ode III 10:75

Se gli Avi e maggior tuoi, Tigri e serpenti
Là ’n mezzo a l’Affricane aspre contrade,
Fosser (Donna crudel), qualche pietade
Pur fors’ arien de i lunghi miei tormenti.

Le notti intiere (oimé), come consenti
Mentr’ il fredd’ Aquilon la terra rade,
E da ’l Ciel folta nieve e pioggia cade,
Sentirmi fuor tremar battendo i denti?

Noi contratiamo, e intanto i giorni, e l’ore,
Tua gran beltade, e ’l mio natio vigore,
Poco oltre anderem, ch’avran destrutto e spento.

Non arà sempre mai lonor usato
Tua porta; né ’l mio destro e manco lato
Fien sempre atti a soffrir la piogia e ’l vento.

Extremum Tanaim si biberes, Lyce,
saevo nupta viro, me tamen asperas
porrectum ante foris obicere incolis
plorares Aquilonibus.

Audi quo strepito ianua, quo nemus
inter pulchra satum tecta remugiat
ventis, et positas ut glaciet nives
puro mimine Iuppiter?

non hoc semper erit liminis aut aquae
caelestis patiens latus.

Analogamente a quanto visto per il sonetto precedente, Piccolomini imita qui un intero componimento oraziano riprendendone l’inizio e la fine, in modo da salvaguardarne la compiutezza. In questo caso è la seconda quartina a ricalcare da vicino i versi oraziani: l’Aquilone, la pioggia, i venti e la sosta di fronte alla porta dell’amata — già topos elegiaco — vengono ripresi dal poeta con un surplus di realismo che pare allontanarsi per un momento dai canoni del petrarchismo. La dimensione metereologica e la dovizia di particolari con cui Piccolomini descrive gli agenti atmosferici trova riscontro — come è evidente dal confronto che si è proposto — con l’ode oraziana, ma è forse opportuno accennare ad una tradizione poetica non propriamente petrarchista (Folengo, Valenziano, Trivulzio, Bandello) che lascia ampio spazio a caratterizzazioni metereologiche analoghe a quella del sonetto del poeta senese. Riscontri precisi, nella medesima prospettiva, si trovano poi nella tradizione cavalleresca: la folta nieve, per esempio, insieme alla pioggia che cade in clausola d’ende-casillabo è soluzione boiardesca e, per la verità, non solo cavalleresca.76 Allo stesso àmbito pare risalire anche una notazione di realismo quasi degradantecome il «battendo i denti» di v. 877. Nonostante che il sonetto si apra a dati di realismo che smorzano l’aulicità del dettato petrarchesco, Piccolomini mantiene un tono sostanzialmente elevato grazie ad una gestione della sintassi che si appoggia, come si è già avuto modo di mostrare, sui modelli latini. La prima terzina, per esempio, mostra una struttura difficile, ma dovrebbe essere accolta senza intervenire sul testo78. Di marca più spiccatamente petrarchesca pare invece la clausola manco lato al v. 13, dove però Piccolomini riprende da vicino il testo di Orazio.79

Anche in questo caso, come si è visto per il sonetto 26, la riflessione del poeta sul modello latino trova riscontri interessanti nelle tarde Annotationes quaedam in Horatium: la lettura che Piccolomini fa dell’ode oraziana in sede di commento può infatti aiutare a leggere il sonetto che da quell’ode prende spunto. Già la glossa al «saevo viro» di v. 2, che non aveva seguito diretto nel sonetto, oltre a spiegare la dinamica del procedimento imitativo, offre una notazione culturale che rivela lo spirito ‘cinquecentesco’ con cui illetterato legge Orazio:

v. 2 Saevo viro: videtur argumentum inefficax; quanto saevior erit cuiusvis foeminae maritus, tanto illa placabilior solet amantibus evadere. Solve, quoniam per “saevum” intelligit hoc in loco “barbarum”, ita quod regionis naturam, non hominis mores ponderat; et sic per viri saevitiam, nationis barbariem innuit, ac si diceret “si tu barbara esses circa Tanaim nata ac nupta” .80

Più crudele è il marito, più facilmente la donna avrà degli amanti: l’osservazione misogina ci mostra un Piccolomini lontano dai tempi della Raffaella, e nella stessa direzione sembra andare la spiegazione dell’aggettivo «saevum». Non è l’uomo ad avere costumi barbari, ma è la donna che li acquisisce, proprio come se fosse nata in quelle aspre contrade cui il poeta faceva riferimento anche nel sonetto. Il discredito nei confronti delle donne emerge del resto chiaramente nella glossa al v. 13 dell’ode, «O quamvis neque te munera nec preces», dove, alludendo evidentemente ai «munera» e alle «preces», lo scaltrito commentatore afferma: «nota causas quae movere solent foeminas ad adulteria \patranda\ ac committenda». Ancora più utili, ai fini dell’interpretazione del sonetto, le osservazioni che Piccolomini sviluppa nella glossa al «non hoc semper erit liminis» di v. 19che, con il successivo e ultimo verso, veniva imitato quasi letteralmente nell’ultima terzina del sonetto stesso:

v. 19 Non hoc semper erit liminis: exponunt omnes unanimes quod Poetae latus non semper erit patiens illius liminis, ubi totas noctes cubans morari solebat prius: sicut etiam non erit patiens semper aquae coelestis, pluviarum scilicet. Sed forte ne idem bis dicatur, ac ut argutior sit sensus, potest sic exponi, ut dicatur non semper futurum esse id liminis, hoc est non semper erit illud limen adeo frequen-tatum, ac desyderatum, ut nunc est; quasi dicat illa senescente negligendum id limen et parvifaciendum fore. Duo itaque dicit ac minatur poeta videlicet Lyces domum non semper ita fore frequentem ac cultam ut nunc est, et sui ipsius latus non semper patiens fore ventorum et imbrium: nam utrumque tempus ipsum immutabit.81

L’interpretazione del verso legge tra le righe un doppio senso, o meglio, come afferma il commentatore, un senso più «arguto»: la porta della donna, davanti alla quale il poeta innamorato ha trascorso tante notti in balìa di pioggia, neve e venti, non sarà sempre così «frequentata» e «desiderata» dagli spasimanti, e il fianco del poeta, che a lungo si è appoggiato ad essa, non sarà ancora a lungo capace di sostenere le intemperie. Il tempo, infatti, non risparmierà nessuno dei due, non la bellezza della donna, né la forza del poeta. L’annotazione si mostra dunque coerente con la lettura/riscrittura dell’ode che Piccolomini aveva realizzato nel sonetto 62, e permette di inscrivere in una riflessione attenta sui testi oraziani le integrazioni e innovazioni del poeta rispetto al modello latino.

Gli esempi analizzati permettono di individuare alcuni aspetti del rapporto di Piccolomini con Orazio che, collocandosi tra imitazione, esegesi e autonoma riflessione teorica, costituisce un punto fermo nel percorso intellettuale dell’umanista. Sebbene una valutazione più ampia dei Cento sonetti necessiti di ulteriori indagini sull’intera raccolta, l’esemplificazione proposta sembra già mettere in evidenza un dato rilevante: l’imitazione piccolominiana di Orazio opera delle selezioni sul testo latino che tradiscono una ricezione del modello volta a ‘individualizzare’ l’esperienza poetica. La ripresa del Carmen saeculare, che offre lo spunto per un sonetto interamente concentrato sul soggetto poetico, unitamente alla scelta – negli altri casi presi in esame – di quegli elementi dei testi oraziani che più si prestano all’elaborazione di un paradigma ‘personale’, confermano la tendenza del poeta a concentrare, in sede lirica, l’attenzione sulla propria esperienza personale.

Per quanto riguarda gli eventuali nessi che possano legare la produzione lirica di Piccolomini e la sua riflessione teorica sulla poesia, elementi di grande interesse emergono, come si è visto, dall’epistola prefatoria, inaspettato ‘tratta-tello’ sul genere lirico. L’auctoritas di Orazio si affianca a quelle di Petrarca, Bembo e Colonna, ed il peso accordatole pare tanto più interessante qualora lo si metta in relazione ad una delle ultime fatiche erudite dell’umanista senese, le Annotationes quaedam in Horatium. La possibilità di muoversi tra le considerazioni teoriche dell’epistola, l’imitazione di Orazio nei Cento sonetti e il più tardo commento si rivela dunque stimolante e foriera di elementi nuovi.

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1 cento / sonetti. / di. m. alisandro / piccolomini. // in roma /Appresso Vincentio Valgrisi, m.d.xlvilli. La bibliografia sui Cento sonetti di Piccolomini è poverissima e ormai datata.Essa si riduce ai contributi di V. G B. Pellizzaro, I sonetti di Alessandro Piccolomini, in «Rassegna Critica della Letteratura Italiana», Vili (1903), pp. 77-111; M. Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini, in «Bullettino Senese di Storia Patria», XVII (1910) fase. Ili e XVIII (1911) fase. I; E Cerreta, Alessandro Piccolomini letterato e filosofo senese del Cinquecento, Firenze, Olschki, i960, pp. 61-66. Si segnala un più recente contributo che, pur non affrontando un’analisi della raccolta nel suo insieme, mette in luce il peso della riflessione politica nella lirica di Piccolomini: K. Ley, Alessandro Piccolominis Cento sonetti zwischen Zensur und Selbst-zensur. Zur Aktualität von Petrarcas “poesia civile” in der Krise der Renaissance, in «Italienisch», XXVI (2004), pp. 2-18.

2 Prendo in prestito tale formula da un recente contributo di R. Gigliucci (Appunti sul petrarchismo plurale, in «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp. 71-75) che propone un’articolata classificazione del fenomeno petrarchista mostrandone il carattere fondamentalmente eterogeneo. Limitando, per il resto, i riferimenti bibliografici all’essenziale, preme ricordare almeno la ricchezza di spunti che emergono dall’antologia Poeti del Cinquecento. Tomo I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi, S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, non solo per l’attenzione con cui i curatori propongono i testi antologizzati, ma anche per i cappelli introduttivi ai singoli autori che forniscono un quadro generale del petrarchismo nelle sue varie declinazioni.

3 L’indagine su raccolte collettive cinquecentesche e su manoscritti è attualmente in corso, e rimando ad altra sede i risultati dello spoglio che sto effettuando.

4 Del tempio alla diuina signora donna Giouanna dAragona, fabricato da tutti ipiu gentili spiriti et in tutte le lingue principali del mondo. Prima parte, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554 (due sonetti: Donna scesa dal Cielo a far onore, p. 55 ; Nei gran Tempi sublimi illustri e chiari, p. 374; un madrigale: Ben è ragion, che ’n ogni piaggia e riva, p. 56). Le imagini del tempio della signora Donna Giouanna Aragona, dialogo di M. Giuseppe Betussi. Alla illustriss. s. Donna Vittoria Colonna di Tolledo, Firenze, M. Lorenzo Torrentino, 1556 (un sonetto: Non ebbe più di voi leggiadro viso, p. 81).

5 Rime diuerse di molti eccellentiss. auttori. Libro primo, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 15 46 (tre sonetti: Donna, che con eterno, alto lavoro, p. 247; Giunto Alessandro alla famosa tomba, p. 247; La vergin, cui servì la prima gente, p. 248; gli ultimi due corrispondono, seppur con varianti, ai sonetti 86 e 91 del canzoniere). Rime di diuersi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana. Libro secondo, Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1547 (un madrigale e un sonetto verisimilmente legati: Flori, deh, Flori mia, deh, bella Flori, e. 141V; Già ride il ciel, Zefir già di ampi onori, e. 142r).

6 Accademici Intronati, Il Sacrificio, Siena, 1537, e. 5r. Per indicazioni più precise sul Sacrificio, che meriterebbe oggi un’edizione e uno studio specifico anche in relazione alla commedia degli Ingannati di cui costituisce il preambolo, cfr. N. Newbigin, «Il Sacrificio» e «Gli Ingannati» nel Carnevale senese del 1532, in Accademici Intronati, Gl’Ingannati con il Sacrificioe la canzone nella morte di una civetta, rist. anast. dell’esemplare della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, Bologna, Forni, 1984, pp. v-xix.

7 Tra le altre stampe che comprendono liriche di Piccolomini si vedano: Rime di diuersi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Libro quinto, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari et fratelli, 1552, pp. 400-401 (il sonetto Bonfadio mio; che con stil chiaro et pieno corrisponde, nonostante le varianti, al 50 dei Cento sonetti); Sonetti di diuersi accademici sanesi, Siena, Salvestro Marchetti, 1608, pp. 1-3 (cinque sonetti altrimenti sconosciuti); Alessandro Piccolomini, De le stelle fisse, Venezia, al segno del Pozzo, 15 52, c. 3v (sonetto alla destinataria del trattato, Laudomia Forteguerri: Gli alti trofei de iprimi illustri heroi).

8 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Cod. Pal. 288, cc. 65v-6t)r (cinque sonetti di nobildonne senesi e relative risposte di Piccolomini; la corrispondenza prende avvio dal sonetto Giunto Alessandro a lafamosa tomba, già edito nelle Rime diverse cit., del 1546, e poi di nuovo nei Cento sonetti).

9 Si tratta di sonetti per lo più indirizzati ad amici e compagni di studio che celebrano i valori dell’amicizia con toni familiari e a tratti malinconici.

10 I sonetti ‘romani’, cui si unisce il sonetto 100 (che chiude emblematicamente la raccolta unendo le insidie tese al poeta dall’ambizione durante il suo soggiorno romano ad una malinconica apostrofe alla «cara villa»), costituiscono una delle serie più interessanti della raccolta. La decadenza dell’Urbs è d’altronde un tema diffuso nella letteratura cinquecentesca anche al di fuori d’Italia: tra i molti casi vale la pena ricordare quello di Joachim Du Bellay che fa di Roma l’oggetto delle sue Antiquités de Rome, del Songe e di alcuni tra i Regrets. Bellay, lucido e amareggiato spettatore della «Babilonia» romana, fu a Roma dal 1553 al 1557 e sembrerebbe aver conosciuto i Cento sonetti di Alessandro Piccolomini, dai quali avrebbe anche ripreso alcune soluzioni metriche (cfr. F. Cerreta, Alessandro Piccolomini cit., pp. 61-66; J. Vianey, La part de l’imitation dans les Regrets, in «Bulletin Italien», IV, 1904, pp. 30-48). L’indagine sull’influenza dei Cento sonetti sull’opera di Bellay necessiterebbe tuttavia di essere ripresa e approfondita.

11 Se già la predilezione per Vittoria Colonna, apertamente dichiarata nell’epistola prefatoria, dice molto sull’apertura di Piccolomini a istanze religiose più o meno apertamente eterodosse, la provenienza senese (l’Accademia degli Intronati fu un nucleo importante di diffusione delle idee riformate), la frequentazione di figure-chiave della Riforma in Italia come i fratelli Socini, e la conoscenza di Marcantonio Flaminio, Jacopo Bonfadio e altri intellettuali sensibili alle influenze riformate, fanno pensare che un’indagine volta a chiarire questo aspetto della cultura piccolominiana potrebbe dare risultati interessanti.

12 La celebrazione di Carlo V è evidente già nel sonetto i laddove il poeta si dice inadatto a cantare i «Trionfi di Carlo».

13 Fra i sonetti d’occasione meritano una particolare attenzione il sonetto 37 Sopra il ritratto dell’Illustrissimo Signor Don Diego de Mendozza, che fece Tiziano, e il sonetto 86 Fatto inArquà sopra ilsepolchro di Messer Francesco Petrarca. Nel primo caso Piccolomini celebra il ritratto di Diego Hurtado de Mendoza fatto da Tiziano, già cantato in un sonetto di Pietro Aretino: il Mendoza era stato ambasciatore imperiale a Venezia dal 1539 al 1547, e non è escluso che Piccolomini l’abbia conosciuto durante il soggiorno di studi a Padova (1538-42). Lo spagnolo fu poi ambasciatore a Roma, ebbe un ruolo decisivo nello ristabilimento dell’ordine a Siena già nel 1548 e proprio per questo Piccolomini gli indirizzò il sonetto 47 A l’Illustrissimo Signor Don Diego de Mendozza, quando con l’aiuto della sua prudentia fu data miglior forma a la Republica di Siena l’anno del XLVIII. Il legame di Piccolomini con i Mendoza è del resto confermato dalla frequentazione di Hernando de Mendoza, già citato nell’epistola prefato-ria e destinatario dei sonetti 4, 17, 38, 58. Quanto al sonetto sul sepolcro di Petrarca, oltre a riprendere l’ incipit di Rvf 187 Giunto Alexandro a la famosa tomba, esso offrì lo spunto per la già citata corrispondenza poetica sul pellegrinaggio ad Arquà.

14 Chiaro esempio di dittico sono i sonetti 40 Contra gli Studij de le Scientie e 41 In defensione de gli Studij de le Scientie giocati sull’affermazione di due tesi opposte.

15 Anche in questo caso i sonetti 38 Nel pianger che fa una bellissima donna leggendo l’historie de gli amanti antichi e 39 A Madonna Portia Pecci, la quale, leggendo Amadis de Gaula, giudicava che segno di poco amore mostrasse in viver tanto lontano da Oriana come faceva costituiscono una sorta di dittico. La letteratura offre poi la possibilità di filtrare vicende amorose contemporanee nel sonetto 97 Ad un amico, sotto ’l nome di Ruggiero; il quale ama una donna iniqua, peggior d’Alcina.

16 A lavoro avviato mi sono reso conto che l’epistola prefatoria è stata pubblicata da D. Chiodo in «Lo Stracciafoglio», II 4 (2001), pp. 5-14: lo studioso propone una breve introduzione al testo che non entra però nel dettaglio. Più puntuali i riferimenti all’epistola piccolominiana in P. Zaja, Intorno alle antologie. Testi e paratesti in alcune raccolte di lirica cinquecentesche, in “Ipiù vaghi e i più soavi fiori”. Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco e E. Strada, Torino, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 113-45 (su Piccolomini le pp. 124-26).

17 La ‘preziosità’ tipografica del volumetto piccolominiano è confermata anche dal fatto che ogni sonetto occupa un’intera pagina.

18 Un commento più approfondito all’epistola non potrà peraltro sorvolare sulle analogie che affermazioni di questo genere presentano con la riflessione poetica delle epistole petrarchesche: cfr., a solo titolo d’esempio, Francesco Petrarca, Fam. X 4, 1-2: «theologie quidem minime adversa poetica est. Miraris? parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo: Cristum modo leonem modo agnum modo vermen dici, quid nisi poeticum est? [...] apud Aristotilem primos theologizantes poetas legimus», con il riferimento d’obbligo ad Aristotele, Met. 983b 28-3 2. Un altro raffronto necessario sarebbe con il XIV e il XV libro delle Genealogie boccacciane. Mi limito qui, per l’immagine del «velame», ad un’unica ma significativa citazione da Giovanni Boccaccio, Genealogie deorum gentilium, XIV vii, 1: «ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu, vela-mento fabuloso atque decenti veritatem contegere».

19 Alessandro Piccolomini, A la eccellentissima e virtuosissima signora, la S. Donna Vittoria Colonna, figlia degli eccellentissimi, il S. Ascanio Colonna, e la S. D. Giovanna Aragonia (d’ora in avanti Epistola), c. *iiijv: «sì come nel maneggiare e mostrar’altrui qualche santa reliquia, colui sarà di più lode meritevole e di più fede, il quale per reverentia e rispetto, col mezzo d’alcun sottil velo o transparente cristallo la trattarà, e altrui mostrarà secondo che si conviene; che quell’altro non farà poi che, fuori d’ogni venerazione e riguardo, con le mani stesse non ben purgate, maneggiaralla a guisa di cosa vile».

20 Piccolomini, Epistola, cc. *vv-*vir. Sull topos lucreziano della poesia-medicina nel Rinascimento, cfr. V. Prosperi, Di soavi licorgli orli del vaso : la fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino, Aragno, 2004.

21 Interessanti le analogie con quanto Piccolomini afferma nel trattato De la institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile e in città libera (1542) a proposito De le favole che a ifanciulli narrar si debbano (Inst, II, 5): «e finalmente s<i>en cotai Novelle, insiememente di un certo che di dolcezza che di diletto ripiene, e d’uno invitamento a ben fare, adornate. Acciò che i fanciulli per il diletto di quella dolcezza, con grande attention di mente, si bevin cose, che col tempo gli habbin da essere di virtuose operationi essempio saldissimo» (cito dall’ediz. Venezia, Scoto, 1545, c. 34v). Ma si vedano anche le affermazioni sulla Poetica in Inst, III, 2: «[Poetica] la quale per il mezzo del diletto nato da l’imitatione (la quale imitatione è fondamento de la poesia. E per molte ragioni, naturalmente dilettevolissima agli uomini), e fatto maggiore, la dolcezza de i rhitmi e misure, aggiontovi ancora la piacevolezza de le Favole, come coperta di quel che utilissimo dentro a quelle s’asconde: habbia a far bere al volgo, quelle medicine de l’animo, che per essere in superficie amare, senza tal coperta di questo mele, difficil sarebbe, che si bevessero» (ivi, c. 50r).

22 Per il tema del ‘falso’ poetico, un riferimento imprescindibile è Giovanni Boccaccio, Genealogie, XIV 13 Poetas non esse mendaces.

23 Piccolomini, Epistola, c. *viv . Anche in questo caso, e soprattutto per il riferimento a David, non peregrino mi pare il confronto con Francesco Petrarca, Fam. X 4, 6 e XXII 10, 10-11; Bucolicum carmen, X 160-61. Ma si pensi anche al peso che il modello davidico ha nell’elaborazione petrarchesca degli Psalmipenitentiales. Come auctoritas classica, non si può tuttavia dimenticare Gerolamo (cfr. almeno Epist. LIII, 8 e Comm. in Abac. II, 1).

24 Il riferimento all’umanista napoletano conferma l’interesse specifico di Piccolomini per la poesia didascalica d’argomento scientifico. È tuttavia il caso di sottolineare che proprio all’inizio del Cinquecento i rapporti culturali tra Siena e Napoli andavano intensificandosi (ed è in quest’ottica, come si vedrà, che devono essere esaminati i rapporti del poeta con Luigi Tansillo). La celebrazione di Pontano può dunque essere vista anche in tale prospettiva, e diventa ancora più interessante se si pensa al silenzio di Piccolomini su Sannazaro che, come si vedrà a breve, non è ricordato nel canone poetico offerto dall’autore.

25 Per il riferimento ai due poeti mitici Anfione e Orfeo, cfr. Orazio, Ars poetica 391-401.

26 Piccolomini, Epistola, cc. *viiv-*viiir.

27 Il progressivo passaggio della Repubblica di Siena nell’orbita mediceo-imperiale, e la perdita della sua indipendenza, erano infatti, agli occhi di Piccolomini, l’inevitabile frutto di insanabili e meschine lotte interne, e il fatto che egli sia tornato più volte a riflettere su questo tema spinoso legittima l’idea che anche l’epistola prefatoria dei Cento sonetti possa farvi riferimento. Oltre a ricordare i vari impegni politico-diplomatici assunti dal letterato nella difficile fase del passaggio di Siena sotto Firenze, non si può non pensare al peso che assume all’interno della sua produzione un trattato come la già citata Institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile e in città libera.

28 La commistione di docere e delectare è sancita in modo esplicito da Piccolomini: «manifestissima cosa è che de la Poesia è proprio offizio, non sol demonstrando e commovendo (come l’altre scienzie fanno), ma dilettando ancora, cercar di far conoscere il vero e ’l buono», Piccolomini, Epistola, c. *viiiv. Evidente il riferimento al canonico precetto oraziano di Ars poetica 343-44: «Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, / lectorem delec-tando pariterque monendo». La ripresa di moduli oraziani prosegue subito dopo, laddove il poeta sottolinea l’impossibilità, per la poesia, di essere mediocre (cfr. Ars poetica 372-73).

29 Piccolomini, Epistola, c. Ajv. Cfr. Aristotele, Poetica, 1448b 10-15: «Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri. La causa, anche di ciò, è che imparare è un grandissimo piacere» (si cita da Aristotele., Poetica, traduz. di G Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998).

30 Cfr. Alessandro Piccolomini, Annotationi nel libro della Poetica di Aristotele, Venezia, Guarisco, 1575, particella XIX, pp. 67-71.

31 Piccolomini, Epistola, c. Aiiij r.

32 Sulle implicazioni ‘linguistiche’ della cultura piccolominiana — per le quali sarebbe necessario rifarsi con precisione anche al suo soggiorno padovano e al programma dei ‘Volgarizzamenti’ — cfr. R. Belladonna, Some Linguistic Theories of the Accademia Senese and of the Accademia degli Intronati di Siena, in «Rinascimento», XVIII (1978), pp. 229-48, e Two Unpublished Letters about the Use of the volgare sent to Alessandro Piccolomini, in «Quaderni d’Italianistica», VIII (1987), pp. 53-74. Si vedano anche i più recenti atti del convegno Lingua e letteratura a Siena dal ’500 al ’700, a cura di L. Giannelli et alii, Siena, Università degli Studi, 1994. Comunque rilevante lo scarto tra il respiro ‘italiano’ della prefatoria ai Cento sonetti e la celebrazione del toscano neWInstitutione (cfr. Inst. II 9, De la lingua toscana).

33 Le prime attestazioni d’uso dell’aggettivo in relazione ad un’identità linguistica sovraregionale sembrano essere in Leonardo e Machiavelli. La più cospicua concentrazione di occorrenze nei testi di Bembo, Trissino e Muzio esplicitamente dedicati alla questione della lingua, e più cronologicamente affini all’epistola di Piccolomini, farebbe pensare, in effetti, ad un uso consapevole dell’aggettivo da parte del poeta.

34 Piccolomini, Epistola, ce. Aiiijv-Avr.

35 Il sonetto 18 A Giovanni Antonio Seroni, ne la morte del Bembo, coerentemente a tale impostazione, celebra il poeta come «illustre d’italia alto splendore» (18, v. 10).

36 Piccolomini, Epistola, e. Aviir.

37 Il primo libro dell’opere burlesche. Di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, ricorretto, et con diligenza ristampato, Firenze, Bernardo Giunta, 1548.

38 Si cita da Zaja, Intorno alle antologie cit., p. 119.

39 Dopo essersi profuso in un’ulteriore declinazione del topos modestiae, Piccolomini conclude la lunga epistola con una frase che sembra effettivamente tradire una certa consapevolezza teorica: «E con questo fo fine a questa mia, la quale, più in luogo di un tal discorso, che di proemio, ho io scritta così lungamente» (Piccolomini, Epistola, e. Aviiir). L’impiego del termine ‘discorso’, in un contesto di questo tipo, non può essere casuale. Nel linguaggio tecnico della critica e della teoria letterarie del Cinquecento, il genere del ‘discorso’ ha uno statuto ben preciso, e sta normalmente ad indicare un testo teorico in cui, spesso, si affrontano questioni connesse alla codificazione dei generi letterari.

40 G. Gorni, «Né cal di ciò chi m’arde». Riscritture da Orazio e Virgilio nell’ultimo Bembo, in «Italique», I (1998), pp. 25-34; S. Albonico, Come leggere le «Rime» di Pietro Bembo, in «Filologia italiana», I (2004), pp. 161-82. Perii caso della raccolta poetica di Domenichi, pubblicata da Giolito a Venezia nel 1544, cfr. anche Ludovico Domenichi, Rime, a cura di R. Gigliucci, Torino, Res, 2004. Un vecchio studio cui occorre far riferimento, nonostante la difficile reperibilità, è E. Stempliger, Das Fortleben der Horazischen Lyrik seit der Renaissance, Leipzig, 1906; sulla ricezione di Orazio nella poesia rinascimentale si vedano anche le indicazioni di G Curcio, Quinto Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al XVIII, Catania, Battiato, 1913 (soprattutto i capitoli 7-9).

41 Pietro Bembo, Rime 1530, 87; Orazio, Odi IV, 10. Che questo aspetto fosse già percepito dai lettori contemporanei è evidente qualora si pensi alle numerose auctoritates latine rilevate nelle Rime di Bembo da Sertorio Quattromani. Su questo cfr. G Gorni, Un commento inedito alle Rime del Bembo da attribuire a Sertorio Quattromani, in Il commento al testo lirico, a cura di B. Bentivogli e G Gorni, Ferrara, Istituto di Studi Rinascimentali, «Schifanoia», XV-XVI, 1995, pp. 121-32.

42 Per alcune fondamentali indicazioni sulla ricezione del modello ‘canzoniere’ da parte dei lirici cinquecenteschi, cfr. almeno G. Gorni, Il canzoniere, in Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 113-34.

43 Cfr. Albonico, Come leggere cit., p. 173. Lo studioso ricorda che «in poesia 103 non è un numero qualsiasi: è infatti quello complessivo delle odi oraziane, i cui quattro libri hanno, rispettivamente, 38, 20, 30 e 15 testi». Che l’imitazione dei ‘numeri’ oraziani sia un motivo sempre più importante nel corso del XVI secolo, sembra essere confermato dal ben più tardo esempio tassiano. Prima di soffermarsi infatti sui casi ‘probanti’ di Muzio e Domeni-chi, Albonico osserva che anche «in Tasso attorno alla stessa cifra si crea un confine (la fine delle ‘rime per Lucrezia’), più profondo di quello bembiano».

44 Antonio Minturno, Rime et prose, Venezia, Rampazzetto, 1559.

45 Hanno portato l’attenzione sull’imporsi del numero 100 nella struttura dei canzonieri del ’500, Gorni, Metrica e analisi letteraria cit., p. 129; M. Danzi, Nota introduttiva a Luca Valenzano, in Poeti del Cinquecento cit., pp. 439-40; S. Carrai, Una nuova antologia di poeti del Cinquecento, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», IV (2001), pp. 478-79. Il caso cronologicamente più prossimo a quello di Piccolomini, e col quale sarebbe interessante istituire un primo confronto, sono senz’altro i Cento sonetti di Anton Francesco Raineri (Milano, Borgo, 1553; si può oggi fare riferimento a Anton Francesco Raineri, Cento sonetti, altre rime e pompe, a cura di R. Sodano, Torino, Res, 2004). Restando a metà secolo, ma cambiando di genere, si può ricordare il caso di V Brusantino, Cento novelle in ottava rima, Venezia, 1554. Tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, occorre ricordare alcune altre raccolte di sonetti organizzate secondo il numero 100: Giovanni Paolo Castaldini, Cento sonetti spirituali e morali, Bologna, Benacci, 1585; Muzio Manfredi, Cento sonetti, Ravenna, Heredi Giovanelli, 1602; Giovan Francesco Maia Materdona, Cento sonetti amorosi, Bologna, Mascheroni, 1628. Sempre strutturato secondo il numero 100, ma parzialmente diverso quanto al genere, il libro-gioco di Giulio Cesare Croce, Notte solazzeuole di cento enigmi da indouinare, aggiontoui altri sette sonetti nel medesimo genere..., Verona, Dalle Donne & Vargnano, 1599. Sullo stesso numero si costruiscono anche raccolte di madrigali: M. Manfredi, Cento madrigali, Mantova, 1587, e A. Valerini, Cento madrigali, Venezia, 1592.

46 L’effetto ‘performativo’ prodotto dai numeri di Boccaccio è lampante nella princeps del Novellino che, curata da Carlo Gualteruzzi, uscì a Bologna nel 1525 con il titolo di Le cento novelle antike. Quanto agli autori classici, se 100 si avvicina all’oraziano 103, è però vero che un altro modello potrebbe essere costituito dagli Epigrammi di Marziale: il poeta latino suggerisce il numero 100, con valore puramente indicativo, se non propriamente iperbolico, nell’ultimo epigramma del I libro (I 118, vv. 1-2: «Cui legisse satis non est epigrammata centum, / Nil illi est, Caedicine, mali») e nel primo del II libro (II 1, w. 1-2: «Ter centena quidem poteras epigrammata ferre, / Sed quis te ferret perlegeretque, liber?»). Marziale, tuttavia, raccoglie 100 epigrammi solo nel III libro, pur ruotando sempre intorno al 100 negli altri libri (I: 118; II: 93; IV: 89; V: 84; VI: 94; VII: 99; Vili: 82; IX: 103; X: 104; XI: 108; XII: 98). Il peso della tradizione epigrammatica sembra non essere irrilevante per le raccolte di sonetti cinquecentesche, e non si può quindi escludere un’influenza dei ‘numeri’ epigrammatici sui canzonieri lirici del XVI secolo.

47 Un confronto tra Piccolomini e Minturno è acutamente suggerito da Zaja che, pur senza approfondire la questione, rileva l’affermarsi di una linea più ‘classicista’ che propriamente petrarchista: «Andrà rilevato piuttosto come in un autore di solida formazione classica qual è il Minturno la ricerca di una diversa declinazione del modello petrarchesco si attui attraverso un più diretto confronto con i lirici antichi, secondo una prospettiva in parte comune anche ad altri autori, come dimostrano le dichiarazioni del Piccolomini» (Zaja, Intorno alle antologie cit., p. 125).

48 La Parafrase della Retorica aristotelica uscì in tre volumi a Venezia tra 1565 e 1572; le Annotationi nel libro de la Poetica d’Aristotele, ancora a Venezia nel 1575 (entrambi i commenti con varie ristampe successive). La militanza attiva nell’Accademia degli Infiammati e il confronto con esponenti della scuola pomponazziana come Sperone Speroni, unitamente ai dati certi che attestano una discussione dei trattati aristotelici in seno all’accademia padovana, permettono infatti di rilevare nell’intero percorso di Piccolomini una disposizione notevole alla riflessione sui generi letterari e sulla loro evoluzione.

49 Le Annotationes quaedam in Horatium sono conservate dal Ms H.VII.25 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, autografo di Piccolomini, ma non datato. Rimandando ad altra sede una descrizione puntuale del codice, ci si limita a indicarne sinteticamente il contenuto: cc. 4r-62v [commento alle Odi]; cc. 63r-70r [commento agli Epodi]; cc. 72r-115r [commento alle Satire]; cc. 116r-151r [commento alle Epistole]; c. 152r-v [commento al Carmen Saeculare]; cc. 155r-167r [commento all’Ars poetica].

50 Per la delicata questione dei volumi ‘postillati’, mi rifaccio alle linee metodologiche tracciate in G. Frasso, Libri a stampa postillati Riflessioni suggerite da un catalogo, in «Aevum», LXIX (1995), pp. 617-40.

51 La fortuna dell’ode I 7 di Orazio è provata, per esempio, dall’ancor più preciso calco che ne fa Minturno nel sonetto proemiale delle sue Rime del 1559: il «laudabunt alii» oraziano è posposto in Minturno al v. 3 («dican gli altri»), mentre l’approdo contrastivo alla scelta del poeta apre, come già in Piccolomini, la prima terzina («Io canto la divina, alma Beltate»). Il medesimo componimento di Orazio fungerà anche da ipotesto per il sonetto proemiale delle Rime amorose di Gian Battista Marino (1602) che doveva evidentemente conoscere anche il testo di Minturno. Nel testo di Marino, l’opposizione tra la materia rifiutata e la materia accolta si gioca nelle due quartine (si vedano almeno il v. 1, «Altri canti di Marte e di sua schiera», e Y incipit del. v. 5, «I’ canto, Amor ... »). Sul riuso dell’ode I, 7 nei due sonetti di Minturno e Marino, cfr. S. Carrai, Classicismo latino e volgare nelle rime del Minturno, e In esordio del canzoniere: Minturno, Marino e un modulo oraziano, in Iprecetti di Parnaso: metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 167-92, 193-200.

52 Piccolomini, Cento sonetti, 29 vv. 9-14: «Prima io diceva, o che nel Tosco lido / S’oda almen mia sampogna, onde ne goda, / Tra l’gran Tebro e la Magra, Ombrone e Arno. / Muta rest’or, che troppo passa il Sarno / Di vostra tromba ’1 suon, né fia che m’oda / la nostr’Arbia minor del vostro Aufido». Tansillo figura dunque tra i corrispondenti poetici di Piccolomini ed il legame tra i due poeti meriterebbe di essere ulteriormente approfondito: ci restano almeno cinque sonetti di Tansillo indirizzati a Piccolomini, trai quali uno in cui se ne celebra proprio l’ascendenza poetica oraziana. La Voce’ poetica del senese è infatti definita da Tansillo come «la più sonora lira e la più dotta,/ che mai sonasse successor d’Orazio» (Luigi Tansillo, Canzoniere, sonetto 300, w. 13-14; si cita dall’ediz. Pèrcopo, rist. a cura diT R. Toscano, Napoli, Liguori, 1996, voi. II, p. 16 2; gli altri sonetti a Piccolomini sono inn. 296-99 alle pp. 158-61). Un rapporto abbastanza stretto trai due è testimoniato anche dagli intermezzi che Tansillo compose per una recita napoletana della commedia di Piccolomini L’ Alessandro nel 1558, allestita per quella stessa Vittoria Colonna iuniore, sposa di Don Garzia di Toledo, figlio del vicerè spagnolo Don Pedro, cui il poeta aveva dedicato i Cento sonetti (cfr voi. I, p. xxiv, e i testi degli intermezzi alle pp. 251-64). Tali rapporti si dipanano lungo l’asse Siena-Napoli che era andato consolidandosi tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, e che, nel caso di Piccolomini, si avvale anche del tramite offerto dal periodo romano.

53 Vittoria Colonna, Rime, I, vv. 7-8: «per altra tromba e più sagge parole / convien ch’a morte il gran nome si toglia» (si cita dall’ediz. Bullock, Bari, Laterza, 1982).

54 Lo stesso tema torna, con intento giustificatorio, nel sonetto 2 Periscusa del reprendere con Sonetti, i vitij de i calunniatori, che costituisce a tutti gli effetti una sorta di chiosa al sonetto proemiale.

55 Il verso «Tutte le cose di che ’l mondo è adorno» apre l’ultima stanza della canzone petrarchesca e il rilievo della sua posizione può agevolmente giustificarne la memorabilità. La clausola «mondo adorno» torna anche in Rvf. 119 v. 82. Ci si limita inoltre ad ipotizzare la presenza di altre tessere poetiche che esulano dal repertorio petrarchesco, ma che possono mostrare la ricchezza e varietà della memoria poetica di Piccolomini. Se la dittologia «biasmo e scorno» che chiude il v 4 pare riecheggiare una clausola ariostesca (Orlando Furioso, VIII, lxxxviii, 4 e XXXVIII, lxxii, i), laddove, peraltro, la sola clausola «scorno» è comunque attestata nel Canzoniere tre volte (Rvf. 105 v . 2; Rvf. 119 v . 78; Rvf. 201 v . 8), più curioso sembra il ricorso alla formula «altro stile»: si tratta, di per sé, di una formula facile, ma vale forse la pena registrarne l’occorrenza in due casi che si avvicinano al testo di Piccolomini anche per il contesto. Pulci, alla fine del suo poema, propone un’ironica dichiarazione di modestia che, dopo la rievocazione dell’episodio di Marsia, approda ad una recusatio analoga, se non nel tono almeno nel suo avvio, a quella di Piccolomini: «Altri verrà con altro stile e canto, / con miglior cetra, e più sovrano artista; / io mi starò tra faggi e tra bifulci / che non disprezzin le muse de’ Pulci» (Luigi Pulci, Morgante, XXVIII cxxxix, 5-8). L’altro caso, più propriamente ‘lirico’, è Antonio Tebaldeo, Rime, 58, 3, dove «altro stile» cade in clausola di verso: «e dico: “Stolto, hormai prendi altro stile”». Il poeta si rivolge a se stesso spronandosi ad abbondanare il «folle errore e puerile» (v. 2) che è, evidentemente, l’amore. Sebbene si tratti di moduli ricorrenti nella poesia Quattro-Cinquecentesca, il sonetto tebaldeano sembra interessante in rapporto a quello di Piccolomini perché oltre all’«errore», vi compare pure l’«impresa» (v. 7) e, sopratutto le terzine sembrano arieggiare tematiche oraziane che saranno tipiche di molte rime piccolominiane. Si vedano, in particolare i vv. 12-14: «Mentre ch’io parlo e cum meco contendo, / il tempo passa, come un ombra e un sogno: / e moro, e posso aitarme, e non me aiuto».

56 La rinuncia all’esclusività della tematica amorosa non è caratteristica del solo Piccolomini. Si potrebbero infatti, a tale proposito, estendere al senese alcune osservazioni sui Cento sonetti di Antonfrancesco Rainerio (1553) proposte da A. Casu, Romana difficultas. I “Cento sonetti” e la tradizione epigrammatica, in La lirica del Cinquecento. Seminario di studi in memoria di Cesare Bozzetti, a cura di R. Cremante, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 123-54: «In palese contrasto con l’ortodossia bembiana, il genere amoroso è qui solo una delle possibili fonti dell’invenzione lirica, che trae anzi il suo pregio proprio dalla pluralità dei modelli e delle occasioni» (p. 145).

57 Secondo il sonetto, Piccolomini avrebbe 36 anni nel 1548, ma ciò discorda con la sua data di nascita, certamente collocabile nel 1508.

58 Nonostante l’impostazione del sonetto sia chiaramente oraziana, all’incipit pluri-evocativo che rimanda anche a Petrarca, corrispondono echi petrarcheschi anche nel resto del sonetto. La rima «guerra»: «terra», infatti, pur non essendo particolarmente difficile e univocamente riconducibile al Canzoniere, vi compare tre volte (Rvf. 26, vv. 1 e 8; Rvf. 36, vv. 3 e 6; Rvf. 302, vv. 2 e 7), ed almeno il sonetto 36 mostra altre affinità col testo di Piccolomini. Si vedano i vv. 1-4, dove l’«incarco» — ovvero il peso dell’amore — si associa ad un senso digravitas che tornerà nel sonetto del senese: «S’io credesse per morte esser scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco»; per «incarco», lemma petrarchesco sempre legato al travaglio amoroso, cfr. Rvf. 32, v. 7; Rvf. 144, v. 6; Rvf 228, v. 13; Rvf 252, v. 3: fra di essi spicca il sonetto Rvf 252, In dubbio di mio stato, or piango or canto, perché propone ai vv. 5-8 un’elaborata declinazione di quella dialettica donna/sole che costituisce il nucleo del componimento piccolominiano e che già molti poeti avevano appreso a sfruttare prima del senese. Fra i molti casi che si potrebbero citare, ci si limita a ricordare quello macroscopico del canzoniere di Girolamo Britonio, La gelosia del sole, (Napoli, Mair, 1519 e poi Venezia, Sessa, 1531) in cui tale dialettica deborda dai testi poetici per coinvolgere il titolo della raccolta.

59 Devo l’indicazione dell’inedito Renato Trivulzio a Massimo Danzi. Sul poeta e sull’ambiente milanese si rimanda all’importante saggio di S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990. Oltre a riscoprire la figura poetica del Trivulzio, individuandone il fortissimo legame con l’opera oraziana, lo studioso ricostruisce in dettaglio l’ambiente culturale milanese di primo Cinquecento, e fornisce anche dati che dovrebbero costituire l’avvio di una ricerca sugli eventuali rapporti di Piccolomini con tale ambiente: sappiamo infatti che nel dicembre 1548, in occasione della visita del principe Filippo, figlio di Carlo V, a Genova e Milano, fu messa in scena anche la commedia piccolominiana L’Alessandro, un manoscritto della quale, molto probabilmente legato a quest’occasione, è oggi conservato a Madrid (Biblioteca dell’Escurial, Ms b.IV.12); Albonico ricorda anche che l’epistola prefatoria dei Cento sonetti è datata proprio da Genova nel dicembre 1548 (pp. 220-21). Se si aggiunge il fatto che un sonetto di Piccolomini compare nella più tarda e già citata raccolta Le imagini del tempio della signora Donna Giouanna Aragona del Betussi (15 56), unitamente alla certezza di rapporti tra Piccolomini e il poeta senese Luca Contile, ‘collega’ del Betussi a Savona e per lungo tempo attivo in area lombarda (p. 260), il sospetto che le tendenze oraziane della lirica piccolominiana possa in qualche modo collegarsi agli esperimenti poetici lombardi, assume una certa ragionevolezza. Quanto al Contile, oltre a ricordare che compare tra i corrispondenti poetici di Piccolomini (sonetto 87), sarà il caso di osservare che la loro prossimità anagrafica e geografica giustificherebbe una ricognizione volta ad individuare più precisi rapporti sul piano letterario.

60 Orazio è, metonimicamente, il ‘libro’ che ne contiene le opere, e in questa veste può stare nelle mani del poeta: si noti, a questo proposito, la declinazione del topos del dialogo con gli autori aggiornata secondo i canoni dell’età della stampa. L’Orazio ‘tascabile’ che accompagna Piccolomini, perfettamente in linea con il formato imposto dalle edizioni aldine, è complemento indispensabile per l’intellettuale, e gli permette di ambientare il dialogo con i classici, che in Machiavelli avveniva ancora all’interno dello studio, in un contesto diverso e riposante come quello della villa. Sul tema del dialogo con gli autori, cfr., anche per i numerosi rimandi bibliografici a contributi precedenti, il recente L. Bolzoni, Lettura come dialogo con gli autori: un mito letterario fra Petrarca, Erasmo e Tasso, in «Rivista di letterature moderne e comparate», LVII (2004), pp. 287-301.

61 È evidente che i modelli classici di Piccolomini non si esauriscono con Orazio, e sarebbe opportuno valutare la presenza di altri lirici latini nelle poesie del senese. Oltre a Catullo, gli epigrammisti e gli elegiaci dovevano costituire infatti un punto di riferimento imprescindibile per un autore così fortemente classicista. Un capitolo a parte sarebbe poi quello dell’influenza virgiliana: Piccolomini aveva partecipato ad un volgarizzamento collettivo dei primi sei libri dell’Eneide (I sei primi libri de l’Eneide di Virgilio, Venezia, Zoppino, 1540) traducendo il VI, e la frequentazione di Virgilio potrebbe aver lasciato qualche traccia nell’opera volgare del senese. Una puntuale valutazione delle fonti piccolominiane non potrà poi prescindere dalla miniera di spunti e situazioni offerti dall’Antologia Palatina e dalla Planudea, come emerge dal recente contributo di Casu, Romana dijicultas cit.: nell’ambito di un’analisi dei Cento sonetti di Antonfrancesco Rainerio, lo studioso rileva anche nella raccolta di Piccolomini tracce delle antologie greche: il sonetto 5 2, per esempio, oltre a ricalcare Orazio, Sat. I 4, vv. 6-13, sembra prendere spunto da un epigramma di Polliano, mentre il sonetto 20 unirebbe ad elementi oraziani (cfr. Odi III 1, v. 40) la memoria di un epigramma di Ammiano. Tali testi, reperibili nell’edizione di Johannes Soter (Epigrammata Graeca veterum elegantissima, eademque Latina ab utriusque linguae viris doctissimis versa, atque in rem studiosorum e diversis autoribus per Ioannem Soterem collecta, Coloniae, 1525 — ma Casu utilizza la ristampa di Friburgo, Stephan Melechus, 1544) rappresentano dunque una tradizione diversa da quella oraziana che sarà necessario tenere in considerazione per ogni indagine ulteriore sui sonetti piccolominiani. Una conferma dell’utilizzo degli Epigrammata Graeca da parte di Piccolomini viene inoltre dal sonetto 65, imitazione di un epigramma «in pigrum ac somnolentum» dello stesso Soter, incluso nella sua edizione. L’indagine sugli ‘autori’ di Piccolomini non dovrebbe poi lasciare da parte Lucrezio che, elogiato apertamente nell’epistola prefatoria, è ricalcato almeno nel sonetto 88 (cfr. Lucrezio, De rerum natura, III 93 2-39); per indicazioni più precise su tali casi, cfr. Casu, Romana diffcultas cit., pp. 146-50.

62 Nota manoscritta a piè di pagina dell’esemplare Barbier-Mueller: «Vid. Horat. Lib. II Satyra VI. Hoc erat in votis».

63 Cfr. anche Carmen saeculare, vv. 59-60: «apparetque beata pleno / Copia cornu». È tuttavia il caso di osservare che il modulo oraziano della cornucopia aveva già trovato applicazioni analoghe a quella di Piccolomini in Ariosto, Orlando Furioso VI, lxxiii, 7-8: «non entra quivi disagio né inopia, / ma vi sta ognor col corno pien la Copia»; e Orlando Furioso XXV, lxxx, 1-2: «Et alla mensa, ove la Copia fuse / il corno, l’onorò come suo donno».

64 Per l’immagine delle viti ‘maritate’ agli olmi, cfr. anche Pietro Bembo, Stanze, XL 7-8.

65 Il ritiro a vita privata nella villa è uno dei topoi della cultura rinascimentale che trova, evidentemente, le sue origini nel mondo classico. Per molti intellettuali, spesso uomini di chiesa, la villa costituisce una sorta di luogo d’evasione in cui affrancarsi dalla lacerazioni della società coeva. Indicazioni preziose su questo tema si trovano in G. Fragnito, In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988. Attraverso il caso di Ludovico Beccadelli, la studiosa affronta una tendenza diffusa e mette a fuoco problemi che toccano da vicino molti letterati agli inizi dell’età della Controriforma.

66 Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, i960,I, pp. 198-202; per l’opuscolo Villa pp. 359-363. I testi ‘agronomici’ di Alberti segnano una tappa importante nella ripresa della tradizione dei ‘rei rusticae scriptores’: a tale proposito Grayson rilevava che la vera novità in Alberti sembra essere la presenza de Le opere e igiorni di Esiodo, testo poco conosciuto fino a Quattrocento avanzato, e che avrebbe sollecitato anche l’attenzione di Poliziano nella sua prolusione Rusticus del 1483. Sull’importanza della linea ‘agronomica’ che passa attraverso le opere di Alberti, cfr. M. Danzi, «In bene e utile della famiglia»: appunti sulla precettistica albertiana del governo domestico e la sua tradizione, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento: studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, Firenze, Olschki, 2001, pp. 107-40. Quanto alla diffusione dei testi didattici che hanno per oggetto la vita in villa, si vedano almeno le due precoci stampe di Hesiodi Opera et Dies, Nic. de Valle e Greco Conversio, Roma, 1471, e dei Rei rusticae scriptores, Venezia, Nic. Jensen, 1472 (la miscellanea veneziana comprendeva testi fondamentali della tradizione agronomica antica come Catone, Varrone, Columella e Palladio). Sull’interesse degli umanisti quattrocenteschi per la tradizione rustico-bucolica, cfr. V Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano, Bologna, 1921, I, pp. 231-51. La diffusione dell’interesse rustico in àmbito senese è ben testimoniata dal trattato in dieci libri De la divina villa di Corniolo della Cornia da Perugia, conservato manoscritto nella Biblioteca degli Intronati di Siena (Ms L.VII.15), e oggi reperibile in L. Bonelli Conenna, La divina villa di Corniolo della Cornia. Lezioni di agricoltura tra XVI e XV secolo, Siena, Accademia dei Fisiocritici, 1982. Per la specificità ‘senese’ del tema della vita in villa, cfr. Vita in villa nel Senese. Dimore, giardini e fattorie, Siena, Banca Monte dei Paschi, 2000 (comprende una ricca bibliografia alle pp. 560-67).

67 Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Nullus argento color est etc. Lib. II. Od. II».

68 Alessandro Piccolomini, Annotationes quaedam in Horatium, Siena, Biblioteca degli Intronati, Ms H.VII.25, c. 25v.

69 Il riferimento a Odi IV, 7, la celebre ode a Torquato, sembra legittimato anche dal fatto che si tratta di una delle odi oraziane che più esplicitamente affrontano il tema del tempo e della morte, con il conseguente invito a godere della vita, elementi presenti, come si è detto, anche nel sonetto pie colominiano.

70 Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Vid. Hor. Epod. Od. XV Nox erat, in coelo fulgebat sereno».

71 Cfr. Lorenzo deMedici, Innamoramento di Lorenzo de’ Medici (Corinto), vv. 1-2: «La luna in mezzo alle minori stelle / chiara fulgea nel ciel quieto e sereno» (si cita da Lorenzo deMedici, Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino, Utet, 195 5), dove l’imitazione dell’Epodo XV, vv. 1-2, più fedele di quella piccolominiana, non sembra aver lasciato traccia nel sonetto del poeta senese.

72 Ha portato alla mia attenzione l’imitazione laurenziana di Orazio ed il costrutto del cum inversum Massimo Danzi. Per l’immagine delle braccia dell’amata al collo del poeta cfr. anche Odi III 9, 1-4: «Donec gratus eram tibi / nec quisquam potior brachia candidae / cervici iuvenis dabat, Persarum vigui rege beatior».

73 Galeazzo Di Tarsia, liv (extrav.), v. 182: «o travagliato amante arso dal ghiaccio» (per Galeazzo si fa riferimento all’edizione critica delle Rime di C. Bozzetti, Milano, Mondadori, 1980). Sui legami di Galeazzo con l’ambiente senese, si rinvia a M. Danzi, Storia e fortuna senesi di un sonetto di Galeazzo di Tarsia, in «Italique», I (1998), pp. 61-78.

74 La rima «laccio»: «ghiaccio» torna anche nel sonetto L’aura celeste che ’n quel verde lauro (Rvf. 197) ai vv. 9 e 12, ma l’occorrenza sembra meno significativa rispetto a quella di Rvf. 134.

75 Nota manoscritta dell’esemplare Barbier-Mueller: «Extremum Tanain si biberes etc. Od. X. Lib. III».

76 Matteo Maria Boiardo, Orlando Innamorato I, XI, xi, 1-2 («Né sì spesso la pioggia, o la tempesta, / Né la neve sì folta da il cel cade»), e Orlando Innamorato II, XVII, xlvii, 6-7 con la variante «spessa» per «folta», ma dove compare pure il vento («Né abatte il vento sì spesso le fronde, / Né si spessa la neve o pioggia cade»). Sul fronte più propriamente lirico si veda anche il Boiardo di Amorum libri tres, I, xlvii, v. 13, ma l’intero sonetto boiardesco ruota attorno ad una definizione metereologica che implica pioggia, vento, neve e, come anche in Piccolomini, l’ossimoro tra il gelo esterno e l’ardore amoroso che brucia il poeta; cfr. i vv. 1: «Con qual piogia noiosa e con qual vento»; 3: «Gelata neve intorno me tempesta»; 7-8: «et ho dentro dal cor fiama sì desta / che del guazoso fredo nulla sento»; e infine 12-14: «Or mi par bianca rosa e bianco fiore / la folta neve che dal ciel riversa, / pensando al vivo Sol che io me avicino» (si cita da Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres, a cura di A. Zanato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. 86-87).

77 Boiardo, Orlando Innamorato I, III, 11, 8; I, XXVI, vii, 7; II, XXIV, xxrv, 4; II, XXX, xi, 6; II, 30, xii, 1; III, Vili, xxvi, 2. Ma cfr. anche Ariosto, Orlando Furioso XXXIII, 67, 3. In tutti i casi, però, la formula ricorre all’inizio del verso.

78 Accettando il testo, occorrerebbe pensare ad una disposizione franta degli elementi del periodo che risponde più ai canoni della libertà sintattica latina che alle regole dell’italiano. Senza pronunciarsi per il momento più precisamente sulla questione, vale tuttavia la pena osservare che il senso della terzina pare salvo: passiamo il tempo a ‘contrastare’ — afferma il poeta rivolgendosi alla donna (dove l’uso assoluto del verbo rimanda, da un lato all’uso latino, dall’altro alla tradizione dei ‘contrasti d’amore’), — ma nel giro di poco tempo «i giorni e l’ore», ovvero il tempo stesso che fugge, avranno annientato la tua bellezza e la mia forza.

79 Petrarca preferisce, come clausola di verso, «lato manco» (cfr. Rvf. 209, 12; Rvf. 228, 1).In un caso, poi, la formula si trova a cavallo di due versi (Rpf. 29, 30-31). Interessante l’occorrenza in Luigi Tansillo, Canzoniere, sonetto cccxx, vv. 3-4, dove, proprio come in Piccolomini, il «manco lato» è associato al «destro».

80 Piccolomini, Annotationes, e. 37v.

81 Piccolomini, Annotationes, e. 38r.