La riflessione di Saverio Bettinelli sull’uomo di lettere (Le « Lettere inglesi » e « Dell’Entusiasmo delle belle arti »)
Lodovica BRAIDA
Universita di Milano
LE LETTERE INGLESI : UNO SGUARDO CRITICO SUGLI AUTORI ITALIANI, « VERI INSETTI DELLA LETTERATURA »
Celando i propri pareri dietro quelli di un colto viaggiatore inglese in visita in Italia, il gesuita mantovano Saverio Bettinelli, nelle Dodici lettere inglesi sopra varii argomenti, e sopra la letteratura italiana, uscite a Venezia nel 1766, esprimeva un giudizio piuttosto severo sulla produzione letteraria italiana. Per dare l’idea della frammentazione e del provincialismo di molta parte di quanto usciva dalle case editrici della Penisola faceva ricorso al confronto con la moda, con quella che Daniel Roche ha definito « la culture des apparences »1 :
V’è la stessa diversità nel vestire e nelle mode : benché tentino d’aver tutti le mode di Francia, non ci riescono, perché ogni provincia le accomoda a sé, le riceve più tardi, le varia, onde si vedono le cuffie e le parrucche di un secolo vicino a quelle d’un altro (...). Nel giro d’Italia d’un anno potreste fare la storia dei vestiti e delle mode d’una età intera col fatto alla mano. Giugne a Torino l’ultima stoffa di Persia e di Parigi, quando è in voga a Messina o a Trento qualche stoffa a gran fiori e argento delle prime fabbriche di Lione2.
Non era la prima volta che il gesuita mantovano prendeva una posizione critica sulla qualità della produzione letteraria degli autori italiani. Già nelle Dieci lettere di Publio Virgilio Marone, più note come Lettere virgiliane (nella stamperia di Modesto Fenzo, 1758 [ma 1757]), si era espresso con molta durezza tanto da causare la reazione indignata della comunità letteraria italiana che gli perdonò di aver osato pronunciarsi contro Dante3. Egli vedeva in buona parte della letteratura del suo tempo una sterile imitazione dei classici, frutto della mancanza di argomentazioni e di impegno. L’autore aveva iniziato la stesura delle Virgiliane a Parma, per poi continuarla nel 1757 durante un soggiorno a Parigi, dove si era recato per accompagnare, su richiesta dell’Infanta di Parma, uno dei principini di Hohenlohe. Fu un viaggio importante : nella capitale francese non solo tenne rapporti con i confratelli, ma conobbe Helvétius, e nel novembre 1758 fece visita a Voltaire a Les Délices, un incontro che ricostruì molti anni dopo nelle Lettere a Lesbia Cidonia, nelle quali – come ha notato Ettore Bonora – « pur difendendo la sua indipendenza in fatto di religione e di politica, non dissimula l’ammirazione per lui come scrittore »4.
Lo scalpore suscitato dal tono irriverente di Bettinelli – che tra l’altro non risparmiava critiche neppure al Canzoniere di Petrarca, considerato monotono per essere un corso di « metafisica amorosa » – fu, con tutta probabilità, all’origine del trasferimento, al ritorno da Parigi, da Parma ad Avesa, presso Verona, nel casino degli esercizi spirituali, dove fu confinato dai suoi superiori5. La sua opera era stata elogiata sulle pagine del « Caffè », in un articolo di Pietro Verri dal titolo Dell’onore che ottiensi da’ veri uomini di lettere :
Sin dal tempo del valoroso Tassoni, qualche cosa s’era osato dire in Italia sulla poesia petrarchesca ; ma alcune verità erano come bestemmie nella preoccupata mente dei letterati d’Italia. L’autore delle Lettere di Virgilio dà un giusto valore alle cose ed agli originali che ci eravamo proposti d’imitare eternamente sotto pena di risguardare come reo di lesa pedanteria chiunque osasse uscire dallo strettissimo giro stabilito6.
Fu probabilmente questo giudizio lusinghiero a convincere il Bettinelli a mettersi in contatto con il gruppo del « Caffè » e, in una lettera del 10 agosto 1765 a Cesare Beccaria – suo antico alievo al Collegio dei Nobili di Parma –, a offrire la propria collaborazione al periodico con qualche « coserella » del tenore delle Virgiliane : « Basta solo – scriveva – che il mio nome e il nostro commercio sia occulto, per non far danno con l’odiosa mia condizione, in sì tristi tempi, al loro valore »7. In effetti le Lettere inglesi, considerate dalla critica una continuazione delle tematiche delle Lettere virgiliane, sarebbero dovute apparire sul prestigioso periodico se esso fosse sopravvissuto, ma, come sappiamo, la sua pubblicazione cessò nel 17668. Così si spiega la sintonizzazione dell’autore sulle tematiche della rivista che « lo porta a identificare l’obiettivo di una riforma letteraria con quello di una riforma civile »9. I problemi individuati nelle Lettere inglesi vanno infatti ben al di là della pura polemica letteraria. Duri sono i giudizi del Bettinelli sui letterati definiti « plebe letteraria » (lettera IV), « inutili (...) e fastidiosi e importuni alla vita sociale » (lettera V), « veri insetti della letteratura », con toni che ricordano « la canaille écrivante » di voltairriana memoria10. Ma a motivare tanto disprezzo non sono né le condizioni di asservimento nei confronti dei mecenati, né una valutazione sulla loro provenienza sociale. Sono invece due elementi : uno relativo alla loro formazione culturale e l’altro di natura prettamente politica. L’abate sottolinea infatti che l’« educazione » dei letterati italiani è basata sul « troppo ostinato accecamento verso gli antichi » e vi riscontra : « un aristotelismo secreto, che tuttora domina e non si vede » (lettera VII).
Va detto che le accuse di provincialismo e di arretratezza e i duri attacchi contro i letterati danno più l’impressione di una continuazione della polemica che aveva animato le Lettere virgiliane che di una pacata riflessione culturale. Dunque ancora una difesa delle sue posizioni, anche se, come ha osservato Bonora, qui « la polemica si allarga, in quanto il problema della decadenza della cultura italiana è visto come l’aspetto di un più vasto problema : quello della decadenza politica »11. In effetti, Bettinelli individua un’ulteriore motivazione che sembra in qualche modo deresponsabilizzare i letterati : la mancanza di un centro politico e culturale, come Parigi o Londra. La frammentazione politica si traduce in Italia anche in una frammentazione culturale che rende difficile agli uomini di lettere di identificarsi in « un sistema riunito e raccolto di pensare », tanto che, con il gusto della provocazione, il gesuita mantovano si chiede se esista davvero una letteratura italiana, con caratteristiche che la rendano riconoscibile, nelle tematiche e nei generi, anche ad un letterato straniero12.
La mancanza di un centro rende difficile anche la formazione dei letterati, dal momento che non vi sono parametri a cui far riferimento :
In Francia la letteratura è frivola, ma diverte ; la varietà stessa di tante stampe, che nascono e muoiono il dì medesimo a Parigi, fa un divertimento ; e sopra tutto la critica v’ha un’aria di civiltà, o almeno di scherzo, che vi solleva da qualche noia. Quell’esservi un centro di tutto il regno, dove fan capo tutti i capricci e gl’ingegni della nazione, presenta un mercato universale, dove ognuno può scegliere, e forma un sistema riunito e raccolto di pensare, per cui sapete, presso a poco, il giudizio dei più e dei migliori ; ma in Italia ogni provincia ha un parnaso, uno stile, un gusto, e secondo il genio del clima un partito, una lega, un giudizio separato dall’altre. Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Bologna, Milano, Torino e Genova, son tante capitali di tante letterature. Un autore approvato in una è biasimato nell’altra ; e il più grand’uomo, l’oracolo, di questa provincia, appena si nomina in quella (...). Ciascuno di questi gusti è l’ottimo e l’unico e vero di quella città dove esso regna, la qual disprezza e deride la sua vicina e tutte le altre con tutti i lor gusti13.
Questo discorso non è privo di contraddizioni : il quadro della diversificazione della produzione letteraria restituisce infatti una grande ricchezza culturale, con un numero di « spontanei talenti » superiore alla Francia e all’Inghilterra. Tuttavia tale proliferazione di autori alimenta un giro vizioso : da un lato i letterati cercano facili guadagni, dall’altro trovano chi consente loro di vivere con produzioni di pessimo livello.
Di ciò nasce che i più piccoli pedantucci, i sonettisti, fanno figura e autorità nelle piccole loro letterarie combricole, onde è piena l’Italia di tai letterati plebei, di veri insetti della letteratura14.
A riprova della sintonia tra il Bettinelli e il gruppo del « Caffè », si può individuare, in questo suo quadro desolante, un’eco dell’articolo di Alessandro Verri sui « difetti della letteratura » e in modo particolare nel passo in cui descrive « il falso letterato » :
Un falso letterato non è che un piccolo animale, diceva taluno, se ha fatto un libro che nessuno ha letto, che ha fatto fallire lo stampatore. Qual folla di piccole e sempre inquiete passioni non gli agitano il cuore ! Egli sta sempre sulla vendetta del suo amor proprio offeso ; egli non ha avuti gli applausi del pubblico ; è inimico di chi gli ottenga15.
All’origine di pubblicazioni caratterizzate dall’« inutilità e bassezza dell’opere »16 Bettinelli individua il sistema che alimenta un certo tipo di produzione. Venezia, il più importante centro editoriale italiano, è presentato come una fucina da cui escono, con ritmi incessanti, operette d’occasione, raccolte di sonetti di scarso valore, stampate però in edizioni lussuose :
Che compassione insieme e che riso mi movea quest’usanza italiana, e solamente italiana ! Mi pareva la poesia, massimamente a Venezia, un curioso mestiere, una nuova manifattura, un lanifizio. Mi son trovato agli sposalizi più d’una volta, ne ho veduti i preparativi e le feste più solenni. I poeti vi lavoravano al pari de’ falegnami, de’ pittori, degli stuccatori, e de’ macchinisti, col solo divario che aveano paga più discreta di tutti gli altri17.
Lo stesso giudizio vale per altri generi letterari : romanzi (« dei quali i men rei erano noiosi e insipidi »), commedie, controversie e dispute letterarie (a cui del resto neppure Bettinelli si era sottratto), tutti generi che avrebbero potuto « dilettando esser utili »18 e che invece non hanno altro scopo che far ombra a quei grandi letterati, i quali, isolati, non hanno la forza di esprimersi come dovrebbero. Al contrario, a Parigi e a Londra essi costituiscono :
(...) un corpo difeso e unito, onde non temono fuorché i loro pari, e intanto la plebe de’ poetastri, de gazzettieri, de’ libercolanti va strisciando nel suo fango e non giunge a noiarli19.
Le Lettere inglesi uscirono a Venezia sul finire dell’estate del 1766 presso Pasquali, nello stesso volume in cui vennero riediti i Versi sciolti e le Virgiliane. Nei mesi successivi Bettinelli informava gli amici della sua nuova fatica, chiedendo però di mantenere segreto il nome dell’autore. Il 6 dicembre 1766 ne mandava una copia a Pietro Verri affinché la facesse avere a Cesare Beccaria. Le sue parole lasciano trasparire, come ha scritto Gianmarco Gaspari, « il sentimento d’angoscia con cui quell’impresa era stata portata a termine »20 :
Il libretto che mando al sig. M. Beccaria è un contrabbando nel domestico nostro commercio e legislazione gravissimo ; è un capriccio più pericoloso al di fuori che quel delle Lettere di Virgilio (...). Gli è dunque un segreto l’autore a Venezia, e vorrei che il fosse a Milano21.
L’edizione di Pasquali fu ampiamente recensita dallo stesso Pietro Verri sull’ « Estratto della letteratura europea », un periodico letterario pubblicato a Yverdon dall’editore Bartolomeo De Felice e, dal 1766, passato nelle mani del libraio-stampatore milanese Giuseppe Galeazzi, la cui produzione appare legata in gran parte « agli indirizzi riformatori del governo asburgico e alle correnti illuministiche emerse nella cultura milanese » degli anni sessanta22. Dopo la fine dell’esperienza del « Caffè », l’impegno giornalistico del Verri e di alcuni soci dell’Accademia dei Pugni era proseguito proprio nella redazione di questo foglio periodico, potendo contare sia sui buoni rapporti con il De Felice, con cui il conte milanese era in contatto epistolare, sia sulla collaborazione del Galeazzi23. La recensione di Pietro Verri fu pubblicata in tre puntate sull’ « Estratto della letteratura europea » : la prima, dedicata ai Versi sciolti di Frugoni, Algarotti e dello stesso Bettinelli, uscì nel secondo tomo del 1767 ; la seconda, sulle Virgiliane, nel terzo tomo del 1767, e l’ultima parte, sulle Lettere inglesi, nel primo tomo del 176824 (gennaio-marzo, ma distribuito nell’agosto del 1768).
Qualche anno dopo, nel 1769, Bettinelli tornava alla ribalta letteraria con la pubblicazione di un altro saggio critico : L’Entusiasmo delle belle arti. Il tono era ancora severo, ma l’oggetto di analisi non era la produzione italiana, ma più in generale una riflessione sui caratteri distintivi del vero poeta e della creatività letteraria, proponendo tematiche presenti nel dibattito filosofico contemporaneo, alcune delle quali avrebbero trovato successivamente un grande vigore nella mitologia romantica del poeta come genio-creatore.
DELL’ENTUSIASMO : LA STORIA DELL’EDIZIONE DEL 1769, LA MEDIAZIONE DI PIETRO VERRI E IL DIFFICILE RAPPORTO CON LO STAMPATORE
Dell’entusiasmo delle belle arti uscì nel 1769, presso la bottega dello stampatore Giuseppe Galeazzi, in un’elegante edizione in ottavo. Il dedicatario era un uomo ai vertici della gerarchia politica della Lombardia asburgica : il conte Carlo Giuseppe di Firmiam, ministro plenipotenziario. Benché le regole non scritte del rapporto tra autore e mecenate presupponessero la dichiarazione del nome dell’autore-dedicante, questo non figura né sul frontespizio né alla fine della breve lettera dedicatoria, semplicemente siglata « S. B. D. C. D. G. »25. Del resto fu proprio grazie al Firmian che il gesuita, nel 1768, dopo tutte le difficoltà frappostegli dai suoi superiori, ebbe una cattedra a Modena.
Prima di addentrarci nell’analisi dell’opera, è necessario fare alcune considerazioni sulle condizioni in cui venne edita. Per una circostanza fortunata disponiamo infatti di un carteggio che consente di conoscere quasi nel dettaglio le condizioni che portarono alla pubblicazione del testo, dalla scelta del dedicatario al rapporto con il tipografo.
Grazie ad alcune lettere di Pietro Verri al Bettinelli, sappiamo che il volume fu dato alle stampe per diretto interessamento dell’illuminista milanese. Era stato lo stesso Bettinelli, il 31 gennaio 1767, a rivolgersi al Verri chiedendogli un parere su un suo saggio « intorno all’entusiasmo delle arti » il cui manoscritto gli avrebbe mandato quanto prima26. Era convinto di trovare affinità tra le sue idee e quelle degli autori del « Caffè », che giudicava « teste filosofiche » e « cuori sensibili » come non si erano mai visti in Italia. Del resto non conosceva chi potesse aiutarlo a migliorare il suo scritto se non il gruppo milanese :
Le dico il vero che il pensar degli scrittori del ‘Caffè’, e il suo principalmente, è tutto al proposito del mio desiderio. In Italia non conosco chi possa contentarmi ; e in Francia i miei amici capaci non gustan la lingua nostra quant’io vorrei, oltre al difficil commercio ed altre ragioni. Una certa fiducia nell’aperto e franco giudicare, che fanno eglino nel ‘Caffè’, mi fa sicuro di non essere lusingato o malinteso27.
Qualche mese dopo, il gesuita mantovano scriveva al Verri per ringraziarlo delle recensioni uscite sull’ « Estratto della letteratura europea » dei Versi sciolti e delle Virgiliane nell’edizione del Pasquali del 176628, e lo informava che stava lavorando alla nuova opera : « M’occupa e mi distrae l’Entusiasmo, che ho ridotto a miglior ordine ragionato senza privarlo del suo calor naturale ». Aggiungeva inoltre di aver pensato di dedicare il suo scritto al Firmian, con il quale aveva avuto uno scambio epistolare nell’autunno e attendeva ora di sapere se il ministro accettasse « l’offerta modesta di fargli dedica dell’operetta »29.
Il 26 giugno 1768 annunciava al Verri la spedizione del suo manoscritto :
A lei confido e abbandono la mia fatica ; ella veggala, e giudichi sovranamente, sicché quanto non le paia indegna del Mecenate a lui sia presentata ed offerta ad esaminare, o a stampare, o almeno a gradirne la stampa sotto gli auspici suoi.
Non si faceva scrupolo di chiedere al suo illustre corrispondente qualunque cosa gli potesse attenuare le sue insicurezze : non solo consigli sullo stile della dedica, ma anche in merito alla redazione del testo, ad esempio se ripartire l’opera in paragrafi o in capitoli distinti, se lasciare tutte le note a pié di pagina o se ridurle, se indicarle con i numeri o le lettere dell’alfabeto30.
Il tono di deferenza attenuava appena un certo fare imperioso : il gesuita dava infatti per scontato che Verri, promuovendo l’edizione della sua opera, dovesse occuparsi sia degli aspetti istituzionali (tenere il rapporto con il Firmian) sia della revisione del testo. E ancora il 3 luglio 1768 tornava ossessivamene sull’argomento chiedendo al conte di parlare al Firmian, per conoscere le sue intenzioni, prima che ripartisse per Vienna : « cioè se voglia tuttavia gradir l’opera (...) o dedicata a lui col suo nome, o sotto il nome di Mecenate »31. E aggiungeva : « Il mio nome non ci dev’essere in alcun modo, né forma ». Incerto su ogni cosa e timoroso di muoversi in modo da compromettere il rapporto con il ministro, tornava continuamente sui suoi passi, con una domanda dietro l’altra. Ad esempio, chiedeva al Verri se non fosse il caso di parlare direttamente al Firmian della stampa per capire se potesse ricorrere ai « torchi di corte », o se dovesse rivolgersi ad una qualsiasi stamperia di Milano, ma in questo caso temeva che la scelta non fosse all’altezza di un dedicatario tanto illustre.
Dopo aver ricevuto il manoscritto, Verri assecondò le richieste del pretenzioso Bettinelli tenendo i rapporti con il dedicatario e con lo stampatore Giuseppe Galeazzi, come attesta una sua lettera del 13 luglio 176832. Nella stessa il conte informava l’autore di aver ottenuto una risposta positiva da parte del ministro, a patto però che lo stile fosse sobrio :
Il signor conte di Firmian dunque accetta con piacere la dedica a condizione però che non vuole essere lodato e che in una dedica breve e semplice si dica che, animato dalla amicizia che egli ha per lei, gli dedica il libro. Aspetto dunque che il mio stimatissimo padre Bettinelli mi trasmetta una dedicatoria corrispondente, e se lo giudica io la mostrerò al signor conte, acciocché siamo sicuri della di lui approvazione33.
La risposta non si fece attendere e il 17 luglio 1768 l’ansioso gesuita, in una dettagliatissima lettera, affrontava, una per una, tutte le tappe necessarie alla trasformazione del suo testo in libro : la stesura della dedica, il rapporto con il tipografo Giuseppe Galeazzi, il fatto che desiderasse mantenere l’anonimato e infine il formato di stampa. In merito alla dedica, diceva di essersi attenuto ai desideri del Firmian : « Delle sue lodi non ha altro che un cenno al secondo periodo e al terzo ; che se pur questo stesso sembrasse troppo, il terzo può trasmettersi [ma si legga : omettersi] interamente »34. Chiedeva pertanto al Verri stesso di far avere la dedica al ministro plenipotenziario, apportando le correzioni che considerava necessarie.
Quanto alle spese di pubblicazione, Bettinelli dichiarava la sua indisponibilità a versare del denaro :
So bene che i nostri stampatori non pagano gli autori come in Francia, ed io meno degli altri il pretenderei ; ma sì bramo non ingerirmi in alcun contratto, essendomi cosa ingratissima il pensare all’esito ed al traffico del mio libro, come gravissima cosa è per me il disborsare danajo35.
Tornava poi insistentemente a chiedere al Verri di rivedere il testo e di intervenire sulle parti che riteneva inadeguate. Del resto il gesuita ammetteva : « Il filosofare col gusto del secolo è difficile ad uomo educato bene come son io ». Ma c’era un altro desiderio che aveva già espresso e che ossessivamente ripeteva : che fosse mantenuto l’anonimato. Temeva i giudizi negativi dei suoi confratelli e il risultato di isolamento seguito alla pubblicazione delle Virgiliane. Riteneva le riflessioni espresse nel suo nuovo lavoro « un poco pericolose innanzi ai gran pensatori, e per questo non ci porrò il mio nome, né alcun cenno di quello per sicurezza ». Prima di congedarsi, tornava sull’argomento : « Mi raccomando frattanto pel segreto, volendo io quanto più posso tenermi occulto per cento ragioni in questo cimento e pericolo. »36
Nella stessa lettera si esprimeva anche sul formato che il libro avrebbe dovuto avere : « Quanto poi alla forma del libro, se a lei piace l’in 4°, si faccia, ma forse più comodo e men superbo è l’8o »37. Ma la sua necessità di controllare ogni particolare non finiva qui : il 13 agosto prendeva carta e penna e angustiava ancora il povero conte Verri sulla dedica :
Approva ella frattanto la dedica mia quale a lei scrissi poter farsi con quel legger cambiamento ? Oppur aspetta ella occasione opportuna per farla vedere a S. E. copiata a quel modo ch’io suggerii nella mia ?38.
Aggiungeva inoltre di aver « qualche piccola giunta di testi » da inserire nel manoscritto.
Il conte Verri lesse la dedica e giudicò che non era il caso di sottoporla al ministro, « non essendovi in essa cosa che possa mai essergli discara »39. Del resto Bettinelli si era attenuto allo stile scarno e lontano dalle adulazioni richiesto dall’illustre dedicatario. In questa stessa lettera del 1o ottobre 1768 l’illuminista milanese indicava dettagliatamente al suo corrispondente le condizioni dell’accordo con il Galeazzi :
Stampando l’Entusiasmo con buona carta e caratteri e stampandone cinquecento esemplari la spesa sarà di lire 1000, cioè lire 2 ciascun esemplare. Lo stampatore s’offre di fare una società per due quinti a carico nostro e per il restante a carico suo. Questo è il patto più comodo che si è potuto avere. Dunque bisogna dare allo stampatore lire 400 e riceverne esemplari 200. Io per mia parte avrò bisogno di 50 esemplari ; ho fatto parte di questo progetto al marchese Recalcati, il quale ne prenderà almeno altri 50 esemplari. Dunque non manca altro che trovare chi rilevi altri 100 esemplari.
Era lo stesso Verri ad ammettere che l’accordo, basato sull’acquisto di una parte della tiratura, non era certo un affare, ma del resto non vedeva altre strade, dati gli scarsi investimenti degli stampatori milanesi, timorosi di impegnarsi in edizioni che potevano essere immediatamente contraffatte a Venezia40. Suggeriva anche un’altra soluzione al gesuita che gli aveva scritto di non voler spendere soldi per la stampa : se avesse voluto un’edizione senza costo alcuno e addirittura con una trentina di esemplari in dono, avrebbe potuto rivolgersi alla stamperia del Coltellini, a Livorno, e aggiungeva :
E la stessa dell’Algarotti e dei Delitti e pene ; il direttore di essa è mio amico e potrei servirlo colà, ma non risponderei d’una esattissima correzione41.
La risposta del Bettinelli rivelava ancora una volta i tratti caratteriali già evidenziati : pur accogliendo la proposta del Verri di affidarsi al Galeazzi, si mostrava piuttosto spazientito per quella che gli sembrava l’indole preoccupante dell’editore milanese : la « lentezza nello stampare qual è quella nel deliberare », dal momento che aveva impiegato due mesi per mandare una proposta delle sue condizioni e ancora non si era deciso a spedirgli l’« Estratto della letteratura europea » con la recensione delle Lettere inglesi, benché il fascicolo fosse in distribuzione dal mese d’agosto. Tale inadempienza gli sembrava una prova della sua scarsa affidabilità : « Vegga ella lo stile del Galeazzi. Non ho avuto ancora il tomo del Giornale ». E con un tono insistente chiedeva : « Ma chi sono i corrispondenti, qual via tiene, per quai mani... ? ». E sulla proposta di Verri di rivolgersi, in seconda istanza, al livornese Coltellini, commentava : « Buon sarebbe il Coltellini foss’anco per la prestezza, ma è lontano, il manoscritto è unico, né può avventurarsi »42. Ma non escludeva, nel caso il libraio milanese avesse tardato troppo ad avviare la stampa, di prendere in considerazione l’ipotesi livornese.
Non ricevendo alcuna risposta, il gesuita il 19 ottobre tornava all’attacco, sottolineando la sua « impazienza per procedere all’edizione dell’Entusiasmo » e la necessità di apportare « alcune giuntarelle, o brevi note al manoscritto ». La sua lettera era un crescendo di lamentele : a causa del ritardo dello stampatore il suo libro rischiava di perdere in novità e freschezza dal momento che il mercato editoriale sfornava saggi filosofici in continuazione :
Ma veramente mi sta fitto nell’animo che questa fatica vuol presto uscire alle critiche, o alla curiosità, essendo nuova cosa, e nuovo saggio di miglior e maggiore intrapresa. Oltreché il secolo assai piegando a questo genere di filosofare, ogni giorno va fuori uscendo alcun opera inglese, o francese, per cui sarò prevenuto alla fine in molte mie idee, che perdendo il pregio della novità e della proprietà, perdono tutto, ed io con loro.
E aggiungeva, rincarando la dose del suo pessimismo : « Il Mecenate medesimo gradirà poco un omaggio sì lungamente tardato »43.
La lettera successiva, del 26 ottobre, aveva un sapore meno amaro : Bettinelli aveva finalmente ricevuto l’« Estratto della letteratura italiana » con la lusinghiera recensione delle Lettere inglesi. Le parole di elogio del Verri suonavano per il gesuita come una sorta di riscatto che gli consentiva di risollevarsi dalle « censure altrui, e compensarne le afflizioni troppo ad un uom sensibile (...) cocenti e gravi ». Ma neppure ora perdeva l’occasione per esternare la sua preoccupazione per il suo manoscritto, nelle mani di uno stampatore tanto inetto. Proprio il giornale su cui leggeva la recensione, l’« Estratto della letteratura europea », uscito dalla stamperia del libraio milanese, ne era una prova :
M’ha spaventato non poco la scorrezione della stampa che credo di Galeazzi, pensando all’edizione dell’Entusiasmo per cotai mani (...). La prego sopra ciò tranquillarmi, e se non può sperarsi di meglio, neppur ufficiando, come farei, S. E. il conte di Firmian, pensiamo a Modena ov’è buona stampa, o a Lucca44.
Non avendo ricevuto risposta alle sue tre lettere di ottobre, il 14 dicembre il gesuita si rivolgeva al Verri con un tono più pacato chiedendogli un « qualche cenno intorno all’Entusiasmo », giacché lo stampatore non gli aveva ancora fatto sapere nulla45. Poco tempo dopo, probabilmente tra la fine di dicembre e l’inizio del 1769, dava sfogo ad una rabbia ormai incontenibile : dal Galeazzi aveva saputo che da più di un mese aveva tra le mani il manoscritto ma che nulla aveva ancora fatto. Per questo si era addirittura rivolto al Firmian affinché sollecitasse l’inetto editore a muoversi. Ma nulla era accaduto : « Or so che il libraio pensa pochissimo alla stampa, né un mese gli è bastato per mandarmene un frontispizio ». E avanzava l’ipotesi che tanta indolenza non fosse casuale : « Parmi temer lui qual sua ruina questa edizione, benché abbia sicurezza d’essere rimborsato di tanto numero di copie per gentilezza di lei, e d’altri Cavalieri ». In altri termini Galeazzi temeva di non riuscire a coprire le spese di stampa, nonostante l’accordo prevedesse l’acquisto di duecento copie da parte del Verri e di alcuni suoi amici.
Le parole del Bettinelli mostrano bene una situazione di grande imbarazzo per un autore : il fatto di dover dipendere dalla mediazione di un personaggio illustre, in questo caso Pietro Verri, dalle esigenze dello stampatore e dalla difficoltà di trovare finanziamenti46. La sua scrittura epistolare prendeva venature drammatiche che certamente dovettero preoccupare il conte : chiedeva infatti che gli fosse restituito il manoscritto. Ci avrebbe pensato da solo a trovarsi un più valido stampatore e per giunta avrebbe liberato il conte e gli altri generosi cavalieri dall’obbligo di acquistare tutte quelle copie. Era in gioco il suo prestigio d’autore :
Certamente io non vò ruinare il signor Galeazzi, che per le sue circostanze può trovar troppo grave l’impresa e la fatica, ma non vorrei neppur rovinare la mia riputazione, che da tanto tempo ha impegno preso in Italia e fuori con tante primarie persone di dar loro l’opera, e me ne richiedono, e fan rimprovero continuamente. Su ciò confesso esser sensibilissimo, e voler ricorrere a S. E. quando dentro Quaresima non sia sicuro della stampa47.
Evidentemente la minaccia di ritirare il manoscritto dovette avere l’effetto di sollecitare il Galeazzi, dal momento che ad aprile il libro risultava stampato. Ma i problemi non erano affatto finiti. Il 30 aprile 1769 Bettinelli scriveva al Verri di aver preparato un elenco dei principali errori di stampa e di averlo affidato al padre Tommaso Agostino Vairani affinché glielo portasse. Benché inorridito dalla scarsa cura del tipografo, questa volta il gesuita si limitava a fare considerazioni pratiche :
Il padre Vairani ha da me una lista de’ principali errori di stampa, che vanno a quaranta, e guastano il senso, gli altri che ponno conoscersi dal lettore ed emendarsi ho lasciati per non far troppo lunga opera48.
Cosa avrebbe dovuto fare il povero conte Verri con quell’elenco di errori ? Semplice : « far correggere a penna que’ principali », dal momento che lo stampatore, per salvare il suo onore, non aveva voluto fare una lista troppo lunga (in effetti nel libro l’errata corrige contiene solo 23 occorrenze). Come si è detto, Verri si era impegnato ad acquistarne 50 copie e dunque Bettinelli gli chiedeva di riportare le correzioni sui suoi esemplari, e così avrebbero dovuto fare gli altri cavalieri che avevano finanziato la stampa con l’acquisto copie :
Così le copie ch’ella distribuirà, sendo corrette, provvederanno al nostro onore un poco, e all’operetta ; lo stesso faranno il marchesino Recalcati, e il conte Marliani49.
Ma c’era ancora un altro problema da risolvere : la dedica. Essa appariva infatti senza il nome del dedicatario, semplicemente designato con il termine “Eccellenza”. Bettinelli proponeva di aggiungere, dopo il frontespizio e prima del testo della dedica, una carta con « il suo nome e i suoi titoli, s’ei lo gradisce ». Lo stesso giorno scriveva al Firmian per offrirgli una copia dell’opera, facendogli notare che avrebbe corretto a penna « di molti errori i principali ». Excusatio non petita, precisava di aver affidato l’incombenza della pubblicazione al Verri, quasi a scaricarsi delle sue responsabilità :
Abbandonai questa operetta interamente nelle mani del Sig. conte Pietro Verri, e lasciai a suo arbitrio anche la forma della dedica, ch’egli avrà creduta più dilicatamente offerta a Vostra Eccellenza col nome di “Mecenate delle belle arti”, che col suo proprio, e co’ suoi titoli eccelsi. Vero è che nessuno potrà dubitare a chi convenga il ritratto di tal Mecenate50.
Il 16 maggio il gesuita scriveva nuovamente al Verri : questa volta per scusarsi di averlo a lungo tediato con la questione dello stampatore51. Ma anche ora non perdeva l’occasione per lagnarsi ancora della scarsa professionalità del Galeazzi e per chiedere al conte di far aggiungere il nome del dedicatario sul frontespizio, oppure di inserire una carta prima della dedica con tutti i titoli del conte Carlo di Firmian. Verri optò per questa seconda soluzione, solenne ed elegante, accontentando il petulante gesuita.
Molti anni dopo, nel 1780, Bettinelli, pubblicando le sue opere presso lo stampatore veneziano Zatta, prese le distanze dalla prima edizione lasciando intendere che fosse stata pubblicata senza che potesse rivederla e dunque, di fatto, senza il suo pieno consenso : « Confidai a dotto amico il manoscritto perché il migliorasse : dopo un anno mi scrisse averlo dato a stampare pur senza toccarlo »52. E aggiungeva che riprendeva la sua opera « tanto più che fu messa in luce sol abbozzata, lungi da me, e senza che le potessi dare l’ultima mano »53. Tuttavia, come si è visto, nonostante i ritardi della pubblicazione, Verri non aveva fatto nulla all’insaputa del gesuita, anche se i suoi biografi, in particolare Francesco Galeani Napione, vollero credere alle accuse del Bettinelli del 1780 : da quel momento si pensò che l’Entusiasmo fosse finito nelle mani del Verri alla metà del 1767 (mentre dalle lettere sappiamo che il manoscritto fu inviato alla fine del giugno 1768) e che per due anni questi non avesse più dato informazioni all’autore che l’aveva visto stampato nel 1769 senza poterlo sottoporre ad una revisione54. In realtà, come ha osservato Ettore Bonora, dietro quella presa di distanza dalla prima edizione c’era « il bisogno di condannare quasi come un trascorso giovanile la sua solidarietà con i soci dell’Accademia dei Pugni »55.
DELL’ENTUSIASMO : PER UN’ANTROPOLOGIA DELL’UOMO DI GENIO
Il libro è diviso in tre parti : la prima riguarda « i caratteri dell’entusiasmo » (pp. 13-162), la seconda « l’entusiasmo dei geni » (pp. 164-283), e la terza, indicata come appendice, « la storia dell’entusiasmo » (pp. 285-402). Il testo è preceduto dalla dedica sopracitata e da una breve introduzione ed è concluso da una sorta di sommario ragionato dal titolo Analisi del saggio sopra l’Entusiasmo (pp. 403-416), di grande interesse perché in esso il Bettinelli, che pensava probabilmente di farne un manuale da utilizzare nei collegi gesuitici, sintetizza i principali concetti nelle tre parti dell’opera. Nell’introduzione l’autore chiarisce che il suo intento è quello di « ravvivare lo studio delle bell’arti, e sostenerlo contro gli studi inimici della immaginazione ». Alla base del suo ragionamento c’è una questione irrisolta : dove possono portare « i progressi incessanti della ragionatrice, ed osservatrice Filosofia » ? Se lo spirito filosofico settecentesco « tanto giova al sapere » nello stesso tempo esso « nuoce all’immaginare ». Dunque nuoce alla poesia. Si nota sin dalle prime pagine dell’introduzione una sorta di antinomia tra filosofia-ragione / poesia-immaginazione. Per spiegare che cosa è l’immaginazione o i concetti ad essa correlati non bastano, secondo Bettinelli, « le scienze e le arti meccaniche » :
Nelle scienze e nelle arti meccaniche v’ha un oggetto fisso, e palpabile, che noi veggiam fuori di noi, che possiam maneggiar, e ravvisar d’ogni parte, e in ogni lume. Qui tutto è dentro di noi ; e come gli occhi veder non possono se stessi, così non è mai tanto il nostro ingegno impacciato, quanto allora ch’ei vuol seguire ed isvolgere il labirinto de’ moti suoi, delle sue proprie operazioni56.
In un secolo in cui anche « la conversazione divien filosofica », la poesia viene spesso indicata come una « dannosa occupazione »57, un ambito nel quale le virtù possono convivere con i vizi. Ai detrattori della poesia Bettinelli risponde che « il talento poetico per sua natura non determina l’uomo ad esser vizioso ; che la prosa non ha sopra i versi il vantaggio di poter emendare un’indole depravata, o raffrenare le smoderate passioni »58. Amplissima è la bibliografia di riferimento, sia di opere di classici latini e greci che di contemporanei, tra cui d’Alembert, Diderot, André, Batteux, Shaftesbury, Sulzer, Marmontel, Gérard, Rousseau, Condillac59. Tuttavia le citazioni dei titoli forse non corrispondono sempre ad una lettura completa delle opere ; non è da escludere che di alcuni libri citati Bettinelli conoscesse soltanto le recensioni o gli estratti dati dai principali giornali letterari60.
Al centro dell’opera c’è un’attenzione alla forza di espressione della poesia, la cui essenza è identificata nell’entusiasmo, così definito : « Una elevazione dell’anima a veder rapidamente cose inusitate e mirabili, passionandosi e trasfondendo in altrui la passione »61. Proprio nella definizione dell’entusiasmo, Bettinelli mostra i suoi riferimenti alla cultura dei Lumi : nelle note a piè di pagina cita un passo tratto dall’Origine des connaissances humaines di Condillac e la voce « enthousiasme » dell’Encyclopédie62. Il poeta, come l’oratore, non deve dimostrare una tesi, ma suscitare emozioni che passano nell’animo del lettore/ascoltatore attraverso un processo che Bettinelli definisce di « trasfusione ». Tale « fluidità » presuppone che il poeta sappia come arrivare ai sentimenti dei suoi lettori, che immagini cioè quello che Jauss ha definito « orizzonte di attesa », dal momento che senza « corrispondenza di corde » tra creatore e fruitore non c’è passaggio emozionale.
Alla base di queste osservazioni vi sono sia alcuni autori classici, tra cui Platone (il Fedro) e lo Pseudo Longino e il suo Trattato del Sublime, ma anche autori contemporanei, tra i quali Voltaire (Traité de metaphisique) e Tommaso Ceva (Memorie d’alcune virtù del Signor conte Francesco de Lemene). Va detto però che la componente razionale, presente negli illuministi francesi citati e nello stesso Ceva, è assente nella prospettiva del Bettinelli. Come è stato osservato, la fruizione estetica :
(...) viene ridotta a puro contatto di sensibilità : un contatto che non richiede alcun distacco critico, né alcuna mediazione razionale, né alcun impegno intellettuale63.
L’attenzione dell’autore è rivolta anche a coloro che sono lontani dalla sensibilità poetica : questi possono essere educati solo stando a contatto con la poesia : « leggere l’opere de’ gran maestri, ed imbeverne l’anima, e inebriarla del loro Entusiasmo, che sempre vive64. Sono parole che evocano un passo di Del Sublime :
Così, dai grandi del passato, come da sacre sorgive, emana alle anime di coloro che li imitano un certo flusso, respirando il quale anche coloro che di solito non si entusiasmano facilmente, si esaltano della grandezza altrui65.
Il processo attraverso cui il poeta comunica le passioni nel lettore/ascoltatore è paragonato all’azione di una calamita, metafora che Bettinelli attinge dallo Ione di Platone66. Da questa lettura fisica dell’esperienza estetica è esclusa qualsiasi attività da parte del fruitore, il quale è soltanto coinvolto in una sorta di relazione meccanica : l’entusiasmo si trasmette infatti per contagio, attraverso una sorta di « catena » (p. 155) ed è tanto più forte quanto più numerose sono le persone raccolte ad ascoltare. Può avvenire in teatro, in tribunale, in chiesa :
Tal comunicazione si riconosce nelle udienze di prediche, di tragedie, le quali più numerose che siano, più facilmente s’infiammano. E perché ? Perché sono moltiplicate le vicendevoli forze, ed i colpi nell’anime riverberandosi, e raddoppiandosi quelle fiamme, e quei raggi all’infinito ; ed al contrario è freddo il parlare, freddo l’udire, ed assistere alle sceniche azioni, ed alle forensi con uno scarso uditorio67.
Tale forza comunicativa si può riscontrare anche nelle città :
La stessa comunicazione si trova in chi vive nelle metropoli, che sono un centro delle arti, e dei talenti più illustri, i quali vivendo insieme, o dandosi più frequenti occasioni di risentirsi più facilmente si attraggono, e accendonsi, e vanno più prontamente al valore, ed all’eccellenza68.
Si può capire che il trattato di Bettinelli del 1769 destasse l’attenzione di Pietro Verri : in esso c’era l’eco di un dibattito europeo che aveva interessato alcuni illuministi francesi. Come ha notato Claude Abastado, nel corso del Settecento il termine « génie » è genericamente associato all’inclinazione naturale di un individuo, di una collettività o di un’istituzione nell’esercizio di un’attività o di un’arte : tra le esemplificazioni troviamo infatti « le génie de la guerre », « le génie politique », « le génie du négoce », « le génie des peuples », « de la langue », « des lois ». Accanto a queste accezioni, nel corso del secolo, il concetto di « génie » assume un valore difficile da definire : « il vehicule un non-dit, l’idée d’une efficacité mystérieuse, causa sui, qui se retrouvera dans le mythe du Poète »69. Sull’ambiguità del termine « genio » Bettinelli scrive :
Si dice ‘aver genio’, ‘un uomo di genio’, ‘un’opera piena di genio’ ; poi si è detto ‘genio’ ad esprimere questo pregio in una parola. L’uno include l’altro.
Ma come andrebbero meglio definiti i geni ? :
Noi li chiamiamo anime grandi, indoli generose, spiriti rari, uomini d’estro, e di felice natura, né ch’io sappia la nostra lingua ha ancor fissato un termine proprio di loro70.
« Génie » diventa gradualmente un termine che caratterizza non solo le inclinazioni culturali che caratterizzano popoli diversi, ma anche la creatività dei singoli individui, e in particolare nella produzione letteraria e artistica. Da questo punto di vista, Helvétius, che intitola « Du génie » uno dei capitoli di De l’Esprit, precisa che il genio ha una predisposizione all’invenzione, ma che questa non si esprime soltanto nell’ambito scientifico, ma anche in quello letterario, nell’esercizio della scrittura :
Au reste, par génie, je n’entends pas simplement le génie des découvertes dans les sciences, ou de l’invention dans le fond et le plan d’un ouvrage ; il est encore un génie de l’expression. Les principes de l’art d’écrire sont encore si obscurs et si imparfaits ; il est en ce genre si peu de données, qu’on n’obtient point le titre de grand écrivain, sans être réellement inventeur en ce genre71.
Il trattato di Bettinelli non prende in analisi tutti gli ambiti in cui si esprime la genialità, ma solo quello relativo alla creatività artistico-letteraria. È significativa la lunga citazione tratta dal Dictionnaire de musique di Rousseau in cui si designa « il genio della musica » come la capacità di far parlare le emozioni, le immagini e persino il silenzio.
Secondo il gesuita, non si possono usare senza distinzione i termini « genio » e « ingegno » : differenze profonde di temperamento separano infatti l’uomo di genio e l’uomo di ingegno, come si può osservare nel mondo sociale, della conversazione e del lavoro, ma soprattutto nella scrittura, terreno rivelatore di un habitus mentale, ma soprattutto psicologico :
L’uom d’ingegno scrive con nitidezza, con ordine, con eleganza, e proprietà, le sue idee ben esprimendo colla semplicità, che talora può avere grandezza, e con termini giusti, ed acconci, che spesso hanno evidenza, né manca il suo stile di quel buon gusto, che sta nella purezza, e sceltezza delle parole, nella forza, e precision delle frasi, nella luce, e nudità della ragione, del giudizio, e del discorso. Ma per ordinario sembra il suo scrivere freddo, non che quieto, quale un disegno a lapis di secchi delineamenti, o contorni inanimati. Descrive, narra, argomenta, e convince, ma senza moto, senza azione, senza vita.
Il suo rivale [cioè l’uomo di genio] scrive con qualche disordine talvolta, ed annebbiamento, gli è vero, ma più fortemente, e più luminosamente poi anche, vestendo le idee di metafore, e di figure con termini coloriti, con fantastiche immagini, e soprattutto spargendovi dell’affetto, e del calore, che tutto anima, e fa sentire. E quindi non sol presenta all’esame, ed alla meditazione di chi lo legge i suoi pensieri, ma li dipinge colle lor tinte, gli avviva del chiaroscuro, gli scolpisce infin dentro all’anima, e li tramanda al cuore col loro fuoco. Ha un’eleganza sua propria, una sua propria lingua non dai dizionari, o dalle grammatiche appresa, ma da buone letture principalmente, e dall’intimo suo sentimento72.
Alla fine, i geni, nonostante il loro carattere spesso aspro e difficile, riescono a comunicare con grande forza il loro entusiasmo ai fruitori della loro arte. Al di là della riflessione filosofica, quello che più colpisce in questo saggio è l’attenzione alle reazioni dei lettori. Centrale è la riflessione sull’ascolto, a partire da un verso di Lucrezio (« humanum genus est avidum auricularum ») che Bettinelli così interpreta :
Spiega assai quel verso di Lucrezio esprimente, che siam tutt’orecchi per innata curiosità di sentir cose nuove, siam portati al mirabile, e sorprendente.
Cosa c’è all’origine del piacere della lettura o dell’ascolto ? Bettinelli, citando Bacone, risponde che « i piaceri nascono dalle scosse che danno all’anima, traendola dal letargo e dall’ozio noioso »73. Per questo le storie avventurose, i romanzi cavallereschi, le tragedie attraggono quanto più sono piene « d’incanti, di spiriti, di spettri, di maghi, e di duelli », o ancora « di guerre, di rivoluzioni, e d’accidenti straordinari ». Da queste considerazioni affiora un monito per chi scrive :
Dunque un autore si studi dare di queste scosse, se vuole piacere ; esamini bene il gusto de’ suoi lettori, e mettasi in luogo loro74.
Come è stato osservato, numerose sono le contraddizioni del discorso di Bettinelli : se da un lato celebra la forza creatrice del genio e la difficoltà a contenerlo entro margini certi, dall’altra però non esce da quella cultura letteraria italiana in cui l’esperienza dell’Arcadia era ancora viva e dunque forte era ancora la sua lezione di equilibrio tra sensibilità e ingegno75. Nella definizione non sempre lineare dell’abate mantovano, l’uomo di genio si lascia guidare dall’irrazionalità nel contemplare la bellezza, ma, nell’avvicinarsi al sublime, non perde l’attitudine a educare gli uomini a riconoscere il bello. Dunque non perde il suo ruolo pedagogico. Nonostante le sue aperture al dibattito illuministico europeo, i punti di riferimento del Bettinelli erano fortemente ancorati a quel contesto che aveva prodotto la riflessione sulla poesia del Gravina e del Muratori. Nelle sue considerazioni uno spazio rilevante avevano i classici latini e greci, da Platone allo Pseudo Longino, ma anche Ovidio, Orazio, Cicerone e Quintiliano : una prova che la polemica antiprecettistica e contro l’imitazione era però accompagnata dal desiderio di conciliare il passato con il presente, alla ricerca di un classicismo moderno. La forza degli antichi è tale che « i passi più belli de’ Greci, e de’ Latini (...) vivran sempre, anzi sempre faranno vivere quelle loro opere »76.
Come si è detto, il trattato ebbe una seconda edizione del 1780, all’interno della prestigiosa edizione in otto volumi presso lo stampatore Zatta di Venezia. Per quanto la struttura dell’opera fosse nel complesso la stessa della princeps, numerose erano le integrazioni nell’introduzione su opere e autori che nel frattempo avevano scritto su quelle tematiche. Inoltre l’edizione del 1780 era preceduta da una lettera dedicatoria indirizzata « all’italiana gioventù ». Si trattava di un discorso in cui l’autore sembrava difendersi implicitamente dagli attacchi che, in passato, la sua battaglia contro l’imitazione pedissequa dei grandi scrittori italiani aveva comportato. È curioso che per spiegare l’intento che lo aveva animato citasse un articolo di Alessandro Verri pubblicato sul « Caffè », di cui Bettinelli coglieva questo messaggio :
Per condur gli uomini alla verità bisogna per lo più non sol toglierli dalla nuda ignoranza, ma dall’errore, onde sono due operazioni da farsi : distruggere, ed edificare77.
La variante più significativa dell’edizione del 1780 è costituita da un apparato di note molto ampio, posto alla fine del volume (pp. 279-380), un vero e proprio trattato nel trattato in cui l’abate mantovano riporta citazioni di opere di autori settecenteschi, offre nuove argomentazioni, alcune volte riproponendo le note che nella prima edizione erano a pié di pagina, altre volte aggiungendone di nuove. In alcune di queste non rinuncia, come aveva fatto nelle Lettere virgiliane e inglesi, a dare una sferzata agli autori italiani. Lo fa ancora una volta all’interno di un discorso più ampio e comparativo : il confronto con la Francia. Riprende qui il tema, già affrontato nelle Lettere inglesi, della mancanza in Italia di una capitale e dunque della difficoltà di avere un luogo dove si concentra, come a Parigi, l’entusiasmo per l’arte :
Un libro, un editto, un processo, non che le battaglie, anzi una moda, una manifattura, un epigramma, non che le tragedie, e le comedie, un predicatore, un avvocato, una bella, e brava attrice bastano a far parlar di loro tutto Parigi, a cui tosto fann’eco le provincie (...). Felice colui che produr sappia una gradita novità ; già tutti la voglion gustare, e parlarne ; egli fa la fortuna de’ librai, de’ mercanti, de’ sensali, dell’arti, e de’ mestieri che la stampano, la dipingono, l’incidono, la trasformano in vezzi e capricci di moda (...). La Merope di Voltaire ebbe una sorte eguale, le critiche e le difese partiti caldissimi ; accademici, cortigiani, letterati, poeti, attori, ognun prese fuoco, che si diffuse in tutta la Francia78.
Al contrario, negli stati italiani tutto assume un tono provinciale. Anche i giornali letterari, che Bettinelli giudica positivamente, danno molto spazio ai libri stranieri, « come se non ne fosser de’ nostri ». Del resto – si chiede – « qual è l’opera, che si conosca per tutto, e svegli un grido universale tra noi, come fan tante in Inghilterra e in Francia ? »79.
Ma più di ogni altro genere letterario era la poesia al centro della sua attenzione. Gli sembrava infatti che i poeti italiani, a parte rare eccezioni, non avessero prodotto nulla di innovativo :
Or noi da cinquant’anni che abbiam di nuovo in poesia principalmente ? Chi può dire di aver aperta una strada ? Qual è l’Accademia, ove non domini la mediocrità, ove non si traduca e copi d’altrui ? Forse lo stile delle Notti d’Young, di Gesner, e d’altri stranieri venuto alla moda arricchì l’Italiano Parnaso ?80
Tuttavia anche qui non mancano le contraddizioni : dopo aver elogiato molti autori francesi (tra cui Batteux, Voltaire, Condillac), l’abate rivela anche le sue riserve. Quel cambiamento di gusto che aveva ispirato molte opere contemporanee aveva finito per attribuire un primato alla filosofia, tanto da condizionare anche le opere poetiche che ormai erano diventate filosofeggianti :
Tutte omai le finzioni poetiche, tutti gl’idoli, tutti gl’incanti, perderan poco a poco di lor possanza sul cuor umano a fronte della filosofia dominatrice. L’Europa omai ne mostra esempi evidenti di ciò, né noi non vorremmo esser soli ignoranti e fedeli all’antichità. L’Enriade [Henriade] val per molti. Il maraviglioso di quel poema è sì temperato con la filosofia, le finzioni vi son sì vicine alla verità e le coprono con un velo sì trasparente, la morale, la storia, la politica tanto escludon le favole, e la mitologia, che chiaramente apparisce la decadenza del gusto antico. Ma che abbiam noi guadagnato, dimanda alcuno, per questo gusto più raffinato ?81
Associava quella razionalità che aveva portato a considerare superstiziose le immagini delle favole antiche alla lotta dei Calvinisti contro l’immaginazione,
annientata senza pompe, spettacoli, cerimonie, imagini, e in chiese ignude, gotiche, non frequentate, come sono le loro storie senza visioni, miracoli, né alcun commercio col cielo o con l’inferno82.
A suo avviso, la Riforma protestante aveva spento le arti « per cambiarle colla controversia, e con le dispute furibonde di penna e di spada » 83. Nelle note, in uno spazio marginale del trattato, Bettinelli rifletteva sulle conseguenze della frattura della res publica Christiana. Non faceva alcun cenno sul fatto che le favole antiche fossero state censurate anche nel mondo cattolico, con conseguenze drammatiche. Così scriveva :
Era ben meglio, diceva io loro [ai Calvinisti], che soffriste qualche credulità, e aveste de’ poeti inermi e pacifici, e lo stesso direi a’ Puritani dell’odierna filosofia84.
Era convinto che nessun culto avrebbe potuto convincere gli uomini a rinunciare al « mirabile » :
Sempre avrem bisogno di una dolce illusione di fantastiche scene di ignoti mondi, e personaggi, di falsi terrori e compassioni, e se non altro i malinconici (...) proteggeranno il maraviglioso poetico85 .
Per quanto l’abate Bettinelli distinguesse il dominio dell’immaginazione da quello dell’intelletto, difendendo la poesia dall’« invadenza dello spirito geometrico », la sua riflessione rimaneva pur sempre « all’interno dell’oscillazione settecentesca tra concezione razionalistica dell’arte e nuova sottolineatura degli elementi sentimentali e fantastici »86.
____________
1 D. Roche, La Culture des apparences : une histoire de vêtement (XVIIe-XVIIIe siècle), Paris, Fayard, 1989.
2 Le Dodici lettere inglesi sopra varii argomenti, e sopra la letteratura italiana furono pubblicate anonime nella seconda edizione dei Versi sciolti dell’abate Carlo Innocenzo Frugoni, del conte Francesco Algherotti [sic] e del padre Xaverio Bettinelli, con le Lettere di Virgilio dagli Elisii (Venezia, Pasquali, 1766). Tutte le citazioni delle Lettere inglesi sono tratte da Illuministi italiani. Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, cura di E. Bonora, in Milano, Napoli, Ricciardi, 1969, t. II, pp. 693-789 ; citazione p. 699 (lettera II).
3 Le Lettere virgiliane erano uscite all’interno di un volume, curato dallo stesso Bettinelli, dal titolo Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori con alcune lettere non più stampate, Venezia, Modesto Fenzo, 1758. Tale volume conteneva, oltre a quest’opera in prosa, componimenti poetici di Frugoni, Algarotti e dello stesso Bettinelli. Sulle critiche che le Virgiliane suscitarono cfr. A. Di Ricco, Introduzione a Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori con alcune lettere non più stampate (ristampa anastatica dell’edizione Venezia, Modesto Fenzo, 1758), Trento, Università degli Studi, 1997, pp. VII-XL.
4 E. Bonora, Nota introduttiva, in Illuministi italiani. Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, cit., t. II, p. 598. Sul rapporto con Voltaire e sul carteggio Voltaire-Bettinelli cfr. F. Arato, Tra erudizione e filosofia : il giudizio sull’età medievale nel Risorgimento d’Italia, in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, a cura di I. Crotti, R. Ricorda, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 111-124.
5 Alcune lettere del Generale dell’Ordine dei Gesuiti testimonierebbero la scontentezza dei superiori nei confronti delle posizioni assunte da Bettinelli, cfr. B. Genero, Ricerche bettinelliane, in Giornale storico della letteratura italiana, LXXVIII, fasc. 3, 1961, p. 393.
6 P. Verri, Dell’onore che ottiensi dai veri uomini di lettere, in « Il Caffè » 1764-1766, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati-Boringhieri, vol. I, p. 287. Su Pietro Verri cfr. C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002. Anche Alessandro Verri, in un articolo dal titolo Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni, esprimeva un giudizio positivo. Associava la riflessione del Bettinelli al Parallelo degli antichi co’ moderni di Perrault, giudicando le due opere « veramente pregievolissime (. . .) e scritte con una illuminata libertà » (ibid. vol. II, p. 542).
7 Cfr. E. Bonora, Pietro Verri e l’« Entusiasmo » del Bettinelli (con lettere inedite di Pietro Verri), in « Giornale storico della letteratura italiana », LXX, 1953, fasc. II, pp. 204-225, in particolare p. 205, n. 2.
8 G. Francioni, Storia editoriale del « Caffè », in « Il Caffè » 1764-1766, cit., pp. LXXXI-CXLVI. Sappiamo di questa volontà del Bettinelli circa le Lettere inglesi da una lettera successiva scritta a Pietro Verri (Verona, 6 dicembre 1766 ; si veda più avanti) in cui diceva di averle « promesse » a Beccaria « per il Caffè ».
9 E. Guagnini, Sul Bettinelli « inglese », in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, cit., pp. 149-164, p. 158.
10 Sull’uomo di lettere nel Settecento cfr. D. Roche, Les Républicains des Lettres, gens de culture et Lumières au XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1988 ; R. Chartier, L’uomo di lettere, in L’Uomo dell’Illuminismo, a cura di M. Vovelle, Roma, Bari, Laterza, 1992, pp. 143-198.
11 E. Bonora, Introduzione, in S. Bettinelli, Lettere inglesi, in Illuministi italiani. Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, cit., t. II, p. 685.
12 Ed è proprio lo sforzo di andare contro corrente a motivare l’apprezzamento di Pietro Verri delle Lettere inglesi, come già delle Lettere. In una lettera al fratello Alessandro del 3 dicembre 1766 scrive : « V’è della prolissità assai e del disordine, ma pure è un libro che spira libertà, che farà fremere i Pedanti, ed è una canna in più all’organo che fa romore in favore del buon senso da introdursi nelle nostre contrade. Conviene però celarne il nome dell’autore [l’opera di Bettinelli era uscita anonima], che resterebbe martire degl’imbecilli se si sapesse, stante il vestito che ha indosso », Viaggio a Parigi e a Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano, Adelphi, 1980, p. 112.
13 S. Bettinelli, Lettere inglesi, cit., p. 697.
14 Ibid., p. 698.
15 A. Verri, Dei difetti della letteratura, cit., p. 547.
16 S. Bettinelli, Lettere inglesi, p. 721.
17 Ibid., p. 700.
18 Ibid., p. 721.
19 Ibid., p. 698.
20 P. Verri, Del fulmine e delle leggi. Scritti giornalistici 1766-1768, a cura di G. Gaspari, Milano, Scheiwiller, 1994, p. 122.
21 La lettera di Bettinelli a P. Verri (Verona, 6 dicembre 1766) è pubblicata in Lettere inedite d’illustri italiani che fiorirono dal principio del secolo XVIII fino ai nostri tempi, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1835, pp. 33-34.
22 C. Capra, Il tipografo degli Illuministi lombardi : Giuseppe Galeazzi, in Materiali della Società italiana di studi sul secolo XVIII. Libro, editoria, cultura nel Settecento italiano, a cura di A. Postigliola, Roma, Società italiana di studi sul secolo XVIII, 1988, pp. 49-53.
23 Sull’impegno di Pietro Verri in questa rivista e sul suo rapporto con De Felice si vedano le dense pagine di Gaspari, in P. Verri, Del fulmine e delle leggi, cit., pp. 11-33 ; cfr. inoltre E. Bonora, Una parentesi giornalistica di Pietro Verri dopo « Il Caffè », in id., Parini e altro Settecento. Fra Classicismo e Illuminismo, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 195-206.
24 L’ampia recensione è pubblicata in P. Verri, Del fulmine e delle leggi, cit., pp. 130-164.
25 Sul complesso rapporto tra autori e mecenati attraverso l’analisi delle lettere dedicatorie cfr. M. Paoli, L’Appannato specchio. L’autore e l’editoria italiana nel Settecento, Lucca, Pacini Fazzi, 2004.
26 Archivio Verri, Corrispondenza di Pietro, cartella 268, fasc. 15, Bettinelli a P. Verri, 31 gennaio 1767, cc. 8-9. Ringrazio Carlo Capra per avermi segnalato questo manipolo di 24 lettere di Bettinelli a Pietro (e 2 al Firmian), scritte tra il 1767 e il 1769, in gran parte inedite (solo quattro di esse sono pubblicate in Lettere inedite d’illustri italiani che fiorirono dal principio del secolo XVIII fino ai nostri tempi, cit.)
27 Ibid.
28 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Mantova, 3 aprile 1768, cc. 18-19 : « La sua penna dà colpi sì forti e luminosi d’idee profonde e filosofiche e penetranti, che per poco si riconoscerà la superficialità delle Lettere ».
29 Ibid.
30 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 26 giugno 1768, c. 20.
31 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 3 luglio 1768, cc. 21-22.
32 La lettera di P. Verri del 13 luglio del 1768, insieme ad altre quattro missive dello stesso anno, sono pubblicate da E. Bonora, Pietro Verri e l’« Entusiasmo » del Bettinelli, cit., pp. 210-215.
33 Ibid., P. Verri al Bettinelli, Milano, 13 luglio 1768, p. 213.
34 Archivio Verri, Corrispondenza di Pietro, cartella 268, fasc. 15, Bettinelli a P. Verri, Modena, 17 luglio 1768, cc. 24-25.
35 Ibid.
36 Ibid.
37 Ibid.
38 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena 13 agosto 1768, c. 26.
39 P. Verri al Bettinelli, Milano, 1 ottobre 1768, in E. Bonora, Pietro Verri e l’« Entusiasmo » del Bettinelli, cit., pp. 214-215.
40 Ibid., p. 215 : « Nella nostra città questa manifattura è stata sin ora vessata a segno che nessun grosso capitalista la esercita, pochissima corrispondenza si ha colle piazze forestiere ; conseguentemente malgrado l’eccellenza dell’opera sono timidi perché temono una sollecita ristampa in Venezia prima di avere spacciata l’edizione. »
41 Ibid.
42 Archivio Verri, Corrispondenza di Pietro, cartella 268, fasc. 15, Bettinelli a P. Verri, 8 ottobre 1768, c. 28.
43 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 19 ottobre 1768, cc. 29.
44 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 26 ottobre 1768, c. 30.
45 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 14 dicembre 1768, c. 31.
46 Molti autori, non riuscendo a trovare finanziamenti, pagavano a proprie spese le loro pubblicazioni, diventando editori di se stessi. E il caso di Scipione Maffei che per la sua Scienza cavalleresca sborsò « 100 e tante doppie », F. Waquet, I Letterati-editori : produzione, finanziamento e commercio del libro erudito in Italia e in Europa (XVII-XVIII secolo), in Quaderni storici, n. s., 72 (I mestieri del libro), 1989, pp. 821-838 (citazione p. 827).
47 Archivio Verri, corrispondenza di Pietro, cartella 268, fasc. 15, Bettinelli a P. Verri, s. l. s. d., c. 33.
48 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena, 30 aprile 1769, c. 35,
49 Ibid.
50 Ibid., Bettinelli al Firmian, Modena, 30 aprile 1769, c. 36. Tornava sullo stesso argomento in una lettera allo stesso Firmian del 16 maggio 1769 (ibid., cc. 38-39).
51 Ibid., Bettinelli a P. Verri, Modena 16 maggio 1769, cc. 40-41
52 Opere dell’abate Saverio Bettineli. Tomo secondo che contiene L’Entusiasmo, Venezia, Zatta, 1780, II, p. 2.
53 Ibid.
54 F. Galeani Napione, Vite ed elogi d’illustri italiani, Pisa, Capurro, 1818, III, p. 195.
55 E. Bonora, Pietro Verri e l’« Entusiasmo » del Bettinelli, cit., p. 207.
56 Dell’entusiasmo delle belle arti, in Milano, appresso Giuseppe Galeazzi Regio Stampatore, 1769, p. 19.
57 Ibid., p. 2.
58 Ibid.
59 Per un’analisi filosofica delle fonti di Bettinelli cfr. M. T. Marcialis, Saverio Bettinelli. Un contributo all’estetica dell’esperienza, in « Aestetica Preprint », 20, giugno 1988 (il saggio occupa tutto il numero).
60 A. Serra, Introduzione, in S. Bettinelli, Dei Geni (Dell’Entusiasmo delle Belle Arti, II), a cura di A. Serra, Modena, Mucchi, 1986, pp. 7-22, citazione p. 13.
61 Dell’entusiasmo delle belle arti, cit., p. 41.
62 Ibid. , pp. 42-43.
63 M. T. Marcialis, Comunicazione ed espressione in Saverio Bettinelli, in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, cit., pp. 49-66, in particolare p. 58.
64 Dell’entusiasmo delle belle arti, p. 264.
65 Pseudo-Longino, Il Sublime, Palermo, Aesthetica, 1987, p. 42.
66 Per quanto riguarda l’analisi delle tematiche filosofiche e i prestiti dalle opere classiche di Dell’entusiasmo cfr. M. T. Marcialis, Comunicazione ed espressione in Saverio Bettinelli, cit.
67 Dell’entusiasmo delle belle arti, p. 146.
68 Ibid., p. 147.
69 C. Abastado, Mythes et rituels de l’écriture, Bruxelles, Éditions Complexe, 1979, p. 31. Per una riflessione sul concetto di genio nel Settecento cfr. Gianpiero Moretti, Il genio, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 44-101.
70 Dell’entusiasmo delle belle arti, p. 165.
71 Helvétius, De l’Esprit, Verviers, Éditions Gérard, 1973, p. 380.
72 Dell’entusiasmo delle belle arti, pp. 181-182.
73 Ibid., p. 101.
74 Ibid.
75 A. Serra, Introduzione, in S. Bettinelli, Dei Geni, cit.
76 Ibid. p. 197.
77 Opere dell’abate Saverio Bettinelli. Tomo secondo che contiene L’Entusiasmo, cit., p. V. La citazione si riferiva ad un articolo dal titolo Due pensieri dello stesso A. Verri, ma Bettinelli citava erroneamente il titolo Prova del cuore, cfr. « Il Caffè » 1764-1766, cit, vol. I, p. 664.
78 Opere dell’abate Saverio Bettinelli. Tomo secondo che contiene L’Entusiasmo, cit., n. XXIX, pp. 362-363.
79 Ibid., p. 367.
80 Ibid., (n. XXII, p. 327-8).
81 Ibid., n. X, p. 301.
82 Ibid., n. X, p. 302.
83 Ibid.
84 Ibid.
85 Ibid.
86 G. Santato, Introduzione, in Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e romanticismo, a cura di G. Santato, Genève, Droz, 2003, pp. 9-29, citazione p. 18. È interessante notare chenello stesso anno in cui Bettinelli dava alle stampe il suo trattato, un altro autore italiano, il conte Agostino Paradisi, pubblicava sull’« Estratto della letteratura europea » il Saggio metafisico sopra l’entusiasmo nelle belle arti : Ammetteva di conoscere il contributo dell’abate mantovano, che gli sembrava utile ma debole dal punto di vista filosofico.